La distinzione di Weber tra storia e sociologia n...presentazione di ciò che è conosciuto, scelta...

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1 La distinzione di Weber tra storia e sociologia: «La sociologia elabora ─ e ciò è stato più volte assunto come evidente ─ concetti di tipi e cerca regole generali del divenire, in antitesi alla storia, la quale mira all’analisi causale di azioni, di formazioni, di personalità individuali che rivestono un’importanza individuale. L’elaborazione concettuale della sociologia trae il suo materiale in forma di modelli ─ essenzialmente, anche se non esclusivamente, dalle realtà dell’agire che sono rilevanti anche dal punto di vista della ricerca storica. Essa forma infatti i suoi concetti e indaga in cerca di regole soprattutto anche in base alla prospettiva dell’utilità che essi possono, per tale motivo, rivelare in vista dell’amputazione storico- causale dei fenomeni di importanza culturale».

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La distinzione di Weber tra storia e sociologia:

«La sociologia elabora ─ e ciò è stato più volte

assunto come evidente ─ concetti di tipi e cerca

regole generali del divenire, in antitesi alla storia,

la quale mira all’analisi causale di azioni, di

formazioni, di personalità individuali che rivestono

un’importanza individuale. L’elaborazione

concettuale della sociologia trae il suo materiale ─

in forma di modelli ─ essenzialmente, anche se non

esclusivamente, dalle realtà dell’agire che sono

rilevanti anche dal punto di vista della ricerca

storica. Essa forma infatti i suoi concetti e indaga in

cerca di regole soprattutto anche in base alla

prospettiva dell’utilità che essi possono, per tale

motivo, rivelare in vista dell’amputazione storico-

causale dei fenomeni di importanza culturale».

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I rapporti tra sociologia e storia: (1) di reciproco,

indispensabile sostegno; (2) di antecedenza sul

piano logico.

«La sociologia (nel senso qui inteso di questo

termine, impiegato in maniera così equivoca) deve

designare una scienza la quale si propone di

intendere in virtù di un procedimento interpretativo

l’agire sociale, e quindi di spiegarlo causalmente

nel suo corso e nei suoi effetti».

Le due questioni implicite in questa definizione:

(1) Che rapporto esiste tra il comprendere

interpretativo e lo spiegare causalmente? Quale

valore è assegnabile all’avverbio “quindi”, che

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assolve una funzione connettiva tra questi due

processi?

(2) Che rapporto esiste tra questi due

procedimenti, da un lato, e (a) la

formulazione di concetti di tipi e (b) la ricerca

di regole generali del divenire, dall’altro?

La prima questione: comprendere interpretando

e spiegare casualmente

Da un punto di vista metodologico, l’interesse

suscitato dalla definizione di sociologia proposta da

Weber consiste nell’accostamento di due modalità

conoscitive (la comprensione e la spiegazione) che

nella tradizione di pensiero storicista ─ rinvenibile,

ad esempio, in autori come Dilthey ─ venivano

presentate come distinte e alternative, appartenenti

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rispettivamente ai due emisferi del Globus

intellectualis: le Scienze cosiddette dello Spirito (la

comprensione) e le Scienze della Natura (la

spiegazione).

L’anomalia, se di anomalia si può parlare, potrebbe

risolversi considerando che Weber distingue due

forme distinte di “intendere”: l’intendere attuale e

l’intendere esplicativo (o motivazionale).

L’intendere attuale (Aktuelles Verstehen) si

riferisce ai contenuti (al che cosa) di un’azione, di

un atteggiamento o di una affermazione,

diversamente dall’intendere esplicativo

(Erklärendes Verstehen) che si riferisce invece alle

motivazioni che risiedono alla base (al perché) di

quell’azione, atteggiamento o affermazione.

La spiegazione causale, pertanto, potrebbe

coincidere con l’intendere esplicativo. Ma questa

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interpretazione non corrisponde al pensiero di

Weber.

Una corretta analisi del punto di vista di Weber in

merito può essere svolta a partire dalla seconda

parte del saggio del 1906 Studi critici intorno alla

logica delle scienze della cultura, dedicata al tema

della Possibilità oggettiva e causazione adeguata

nella considerazione della storia.

«Il più semplice giudizio sopra il “significato

storico” di un “fatto concreto”, ben lontano

dall’essere una mera registrazione di qualcosa che

si sia “trovato innanzi”, rappresenta piuttosto un

quadro concettuale formato categorialmente, e di

fatto [tale giudizio] acquista validità solo in quanto

aggiungiamo alla realtà “data” l’intero tesoro del

nostro sapere di esperienza a carattere

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nomologico» (da Possibilità oggettiva e causazione

adeguata nella considerazione causale della storia,

tr. it. p. 218).

Dal brano appena riportato emergono due istanze

precise:

(1) Insufficienza dei processi interpretativi a

provvedere di validità i giudizi di fatto;

(2) Necessità del sostegno di conoscere (a) basate

sull’esperienza; (b) espresse in forma

nomologica; (c) collegate ad un quadro

concettuale a monte.

Lo stesso Weber non manca di dar conto di una

posizione alternativa, da lui stesso non condivisa, a

quella appena riportata:

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«Lo storico farà valere, di fronte a ciò che si è ora

detto, che il procedere effettivo del lavoro

storiografico … è differente. Il “fiuto” oppure

l’“intuizione” dello storico, non le generalizzazioni

e la riflessione sulle regole, sarebbero la via per

scoprire le connessioni causali. La differenza nei

confronti del lavoro della scienza naturale

consisterebbe appunto in questo fatto, che lo storico

ha da fare con la spiegazione dei processi … i quali

sarebbero “interpretati” e “intesi” in analogia con il

nostro proprio essere spirituale; e l’esposizione

dello storico richiederebbe di nuovo il suo “fiuto”,

l’intuitività suggestiva del racconto che consente al

lettore di “rivivere” ciò che è rappresentato, così

come l’intuizione dello storico l’ha vissuto e visto,

non però scoperto con il ragionamento» (ibid., pp.

218-9; corsivo aggiunto).

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Weber contesta questa interpretazione

squisitamente storicistica:

«In siffatte argomentazioni vengono però

scambiate anzitutto cose differenti, cioè da una

parte il procedimento psicologico dell’origine di

una conoscenza scientifica e la forma “artistica” di

presentazione di ciò che è conosciuto, scelta allo

scopo di influenzare “psicologicamente” il lettore e

dall’altra la struttura logica della conoscenza»

(ibid., p. 219; corsivo nel testo).

Qui emerge chiaramente la necessità, posta da

Weber, di distinguere un contesto della scoperta da

un contesto della giustificazione.

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In una nota del testo appena citato, Weber rimanda

ad un altro suo scritto (Roscher e Knies e i

problemi logici della scuola storica dell’economia,

pubblicato ne Il metodo delle scienze storico-

sociali), in cui viene ripreso il tema della

distinzione. Weber, nel passo che segue, da un lato,

sottolinea l’insufficienza dell’Erlebnis, della

soggettiva comprensione empatica dell’agire

sociale, dall’altro, evidenzia la necessità di analisi

più attendibili i cui risultati possano acquisire una

valenza oggettiva o intersoggettiva che dir si

voglia:

«Bisogna infrangere l’opaca uniformità

dell’“Erleben” … Quando si dice che quella

“esperienza vissuta” [Erlebnis] è perfettamente

certa, è ovvio che si intende dire che noi abbiamo

fatto un’esperienza. Ma di che cosa realmente

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abbiamo fatto esperienza, ciò può divenire

accessibile all’“interpretazione” solo se si

abbandona lo stadio dell’“Erlebnis” stessa e si fa

del vissuto l’“oggetto” di un giudizio, il cui

contenuto, a sua volta, non può essere

“esperimentato” [vissuto a livello interiore] nella

sua uniforme opacità, ma va riconosciuto come

“valido” » (da Roscher e Knies e i problemi logici

della scuola storica dell’economia, tr. it., p. 99).

Una posizione analoga si ritrova in Economia e

società: «Ogni interpretazione tende a conseguire

l’evidenza. Ma un’interpretazione fornita di senso,

per quanto evidente, non può come tale e in virtù di

questo carattere di evidenza, aspirare ad essere

anche l’interpretazione casualmente valida. Essa

rimane di per sé soltanto un’ipotesi causale

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particolarmente evidente» (da Economia e società,

I vol., tr. it., p. 9).

La seconda questione: la relazione sussistente

tra la spiegazione causale e i due scopi

fondamentali della sociologia: (1) formare

concetti di tipi e (2) cercare regole del divenire.

«La spiegazione causale designa pertanto la

constatazione che a un dato processo (interno o

esterno) osservabile fa seguito un altro processo

(oppure si presenta insieme con esso), secondo una

regola di probabilità in qualche modo

determinabile, e nel caso ideale ─ che si verifica

raramente ─ formulabile in termini quantitativi»

(da Economia e società, I vol., tr. it., p. 11).

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“Tizio ha compiuto l’azione Y perché spinto dal

motivo X” costituisce pertanto «un’asserzione

causale corretta soltanto nella misura in cui viene

dimostrata la sussistenza di una possibilità (in

qualsiasi modo determinabile) [una legge

probabilistica a prescrivere] che l’agire assuma di

solito, con una data frequenza o approssimazione

(in media o nel “caso puro”) un corso effettivo

identico a quello che appare adeguato in base al

senso» (ibid.).

La connessione di senso dell’agire sociale deve

essere innanzitutto “interpretata”, individuando il

possibile motivo che sta alla base dello stesso agire.

L’“interpretazione”, tuttavia, rappresenta solo una

condizione necessaria, ma non sufficiente, di un

corretto procedimento conoscitivo.

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«La nostra questione specifica è però di stabilire

mediante quali operazioni logiche cogliamo, e

possiamo giustificare dimostrativamente, che

sussiste una siffatta relazione causale tra quegli

elementi “essenziali” dell’effetto e determinati

elementi entro l’infinità dei momenti

determinanti». Ovviamente non mediante la

semplice “osservazione” del processo ─ in ogni

caso non in tale modo, se per “osservazione” si

intende una “fotografia spirituale”, “priva di

presupposti”, di tutti i processi fisici e psichici che

cadono nella sezione di spazio e di tempo in esame,

supposto che ciò sia possibile. Ma l’imputazione

causale si compie nella forma di un processo

concettuale che implica una serie di astrazioni» (da

Possibilità oggettiva e causazione adeguata nella

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considerazione causale della storia, tr. it., pp. 213-

4. corsivo aggiunto).

Giudizi di possibilità e ragionamento controfattuale

«Ciò [la formulazione di un corretto giudizio di

possibilità] significa anzitutto, in ogni caso, la

creazione ─ diciamolo pure tranquillamente ─ di

quadri fantastici, formati prescindendo da uno o da

vari elementi della “realtà” esistenti di fatto, e

mediante la costruzione concettuale di un processo

mutato in rapporto ad una o ad alcune “condizioni”.

Già questo primo passo trasforma pertanto la

“realtà” data, allo scopo di farne un “fatto” storico

[il giudizio di possibilità], in un quadro concettuale:

nel “fatto” è appunto implicita per dirla con

Goethe, la “teoria”» (ibid., pp. 216-7).

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«Se si considerano però in maniera ancora più

precisa questi “giudizi di possibilità” ─ cioè le

asserzioni su ciò che “sarebbe” avvenuto nel caso

di un’esclusione o di un mutamento di certe

condizioni ─ e se ci si chiede in primo luogo come

noi perveniamo ad essi, non può sussistere alcun

dubbio che si tratti senza eccezioni di procedimenti

di isolamento e generalizzazione; ciò vuol dire che

noi scomponiamo il “dato” in “elementi”, finché

ognuno di questi può venir inserito in una “regola

dell’esperienza” e si può quindi stabilire quale

effetto vi “sarebbe” stato da “aspettare” da parte di

ognuno di essi, sussistendo gli altri come

“condizioni”, secondo una regola dell’esperienza»

(ibid.)La formulazione di un giudizio di possibilità

che abbia il carattere della validità è

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necessariamente legata a regole generali

dell’esperienza:

«Un “giudizio di possibilità” … implica di

continuo il riferimento a regole dell’esperienza. La

categoria della “possibilità” non viene qui

impiegata nella sua forma negativa, cioè nel senso

in cui essa è un’espressione della nostra ignoranza,

o dell’incompiutezza del nostro sapere; al

contrario, essa qui significa riferimento ad un

sapere positivo concernente “regole del divenire”,

cioè al nostro sapere “nomologico” , come si suole

dire».

Nozioni di (a) fattore causalmente rilevante e di (b)

fattore causalmente irrilevante.

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(a) Fattore che, escluso «dal complesso dei fattori

determinanti, oppure mutato in un determinato

senso», avrebbe potuto determinare «in base a

regole generali dell’esperienza», un corso degli

eventi diversamente configurato rispetto a quello

atteso;

(b) Fattore che, escluso o mutato, non potrebbe

determinare alcuna variazione nel corso degli

eventi attesi.

Il grado di determinatezza del giudizio di

possibilità viene massimizzato mediante:

1. Analisi delle condizioni la cui presenza incide

positivamente, facendo aumentare il «grado di

favoreggiamento» (il grado di probabilità) che si

verifichi proprio quella «conseguenza»;

ovviamente, nell’ambito delle scienze sociali tale

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probabilità è solo stimabile in termini di maggiore

o minore ma non calcolabile con precisione;

2. Analisi delle condizioni neutrali o irrilevanti, la

cui presenza non altera in alcun modo quel livello

di probabilità;

3. Analisi delle condizioni la cui presenza incide

negativamente, facendo diminuire la probabilità

che si verifichi proprio quella «conseguenza».

La causazione accidentale:

«Parliamo di causazione “accidentale” laddove

sugli elementi dell’effetto… hanno agito fatti i

quali hanno prodotto una conseguenza che non

era… “adeguata” ad un complesso di condizioni

connesse concettualmente in unità».

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La formulazione di concetti di tipi

Come si è avuto modo di vedere nei punti

precedenti, Weber assegna un carattere di

indispensabilità all’elaborazione teorica nella

costruzione di resoconti esplicative dei fenomeni

storico-sociali («Per comprendere le connessioni

causali reali, noi procediamo a una costruzione

irreale»).

«La sociologia si distacca dalla realtà. Affinché

[questi concetti] possano designare qualcosa di

univoco, la sociologia deve formulare tipi puri

(cioè tipi ideali)… [i quali] mostrano in sé l’unità

conseguente della più completa adeguazione di

senso, ma appunto perciò non si presentano, in

questa forma assolutamente e idealmente pura,

forse più di quanto nella realtà si presenti una

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reazione fisica calcolata in base al presupposto di

uno spazio assolutamente vuoto».

Perché la sociologia deve fare ricorso alla

formulazione di tipi ideali?

(a) Per l’alto grado di articolazione dell’oggetto di

studio (il numero totale di elementi che

intervengono ed interagiscono a costituire

segmenti di realtà dotati di senso);

(b) Per l’alto dinamismo che contraddistingue i

processi attraverso i quali una determinata realtà

sociale viene a costituirsi per poi modificarsi

sotto l’effetto di quegli stessi processi.

«Allorché cerchiamo di riflettere sul modo in cui

essa [la realtà sociale] si presenta immediatamente

a noi, la vita ci offre una molteplicità, senz’altro

infinita, di processi che sorgono e scompaiono in

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un rapporto reciproco di successione e

contemporaneità, “in” noi e “al di fuori” di noi. E

l’assoluta infinità di questa vita molteplice non

diminuisce anche quando noi prendiamo in

considerazione un singolo “oggetto” isolatamente

– ad esempio un concreto atto di scambio – e

intendiamo studiarlo con serietà allo scopo di

descrivere questo “oggetto” singolo in maniera

esaustiva, in tutti i suoi elementi individuali, per

non dire poi nel penetrarlo nel suo

condizionamento causale».

La mera classificazione è ritenuta impraticabile.

Analogamente, è impraticabile l’operazione

consistente nell’individuazione degli illimitati nessi

che collegano, sincronicamente e diacronicamente,

tutti i possibili aspetti del fenomeno o dei fenomeni

che si intendono studiare.

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La nozione di tipo ideale

Che cosa non è un tipo ideale:

(1) Non è un concetto osservativo;

(2) Non è un concetto emanatistico (di essenza);

(3) Non è un concetto normativo.

(2) La polemica con Roscher

(3) La polemica con i socialisti della cattedra

Che cosa è un tipo ideale:

«Esso è ottenuto mediante l’accentuazione

unilaterale di uno o alcuni punti di vista, e mediante

la connessione di una quantità di fenomeni

particolare diffusi e discreti, esistenti qui in

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maggiore e là in minore misura, e talvolta anche

assenti,corrispondenti a quei punti di vista

unilateralmente posti in luce, in un quadro

concettuale in sé unitario. Nella sua purezza

concettuale questo quadro non può mai essere

rintracciato empiricamente nella realtà; esso è

un’utopia».

La duplice funzione del tipo ideale:

(1) euristica

(2) espositiva

Quando il “tipo ideale” esaurisce le sue

funzioni?

Quando le «le connessioni che appaiono motivate

in maniera plausibile alla nostra fantasia» non

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risultino anche «”oggettivamente possibili, cioè

adeguate nei confronti del nostro sapere

nomologico».

La realtà sociale, per sua natura, appare

difficilmente imbrigliabile in uno schema astratto;

il numero e la qualità delle discrepanze tra quanto

stabilito in una dimensione tipico-ideale e quanto

invece accade nella realtà, costituiscono un criterio

di valutazione della funzionalità dello strumento

concettuale “tipico-ideale”.

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La questione dei valori in Weber

1. No al giudizio di valore e alla «profezia

professorale»;

2. Si alle «idee di valore» (non ammissibilità, ma

inevitabilità);

3. No all’attribuzione «oggettiva», impersonale, di

rilevanza ai fenomeni culturali;

4. No al primato della «materia» sulle «idee di

valore» (impossibilità di una validazione empirica

delle «idee di valore»;

5. No all’oggettività delle premesse conoscitive,

ma si all’oggettività delle conclusioni.

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Il significato della nozione di «avalutatività»

«Di tutti i tipi di profezia la profezia professorale…

è la sola realmente insopportabile. È una situazione

senza confronto quella di numerosi profeti

accreditati dallo Stato, i quali non predicano per le

strade o nelle chiese…, oppure, privatamente, in

conventicole personalmente scelte che si dichiarano

tali, ma si permettono invece di esprimere “in nome

della scienza”, nella quiete che si suppone

oggettiva, ma che è poi incontrollabile, priva di

discussione, e soprattutto protetta da ogni

contraddittorio, di un’aula accademica privilegiata

dallo Stato, delle decisioni direttive su questioni di

intuizioni del mondo».

La profezia professorale «non può abusare della

situazione di costrizione esistente per lo studente

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[lo stato di subalternità]… per istillargli insieme a

ciò di cui egli [lo studente] ha bisogno… anche, in

forma protetta da ogni contraddizione, la propria

cosiddetta intuizione del mondo, per quanto

interessante essa possa talvolta risultare (mentre

sovente è a buon diritto indifferente)…

Il professore non deve avanzare la pretesa di recare

nel suo zaino, in quanto professore, il bastone di

maresciallo dell’uomo di Stato…, come egli fa

quando utilizza la protezione della cattedra per

esprimere il suo sentimento di uomo di Stato».

La connessione di tutti gli individui storici con

«idee di valore»

«Noi siamo esseri culturali, dotati della capacità e

volontà di assumere… posizione nei confronti del

mondo… . Ciò ci condurrà a valutare nella vita

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determinati fenomeni della coesistenza umana… e

ad assumere nei loro confronti una posizione

(positiva o negativa) … . Quale che sia il contenuto

di tale presa di posizione, questi fenomeni hanno

per noi un significato culturale, e su questo

significato soltanto poggia il loro interesse

scientifico. Allorché si è qui parlato… del

condizionamento della conoscenza della cultura da

parte di idee di valore, non si è però voluto aprire il

cammino a fraintendimenti… come quello

rappresentato dall’opinione che debba essere

attribuito significato culturale soltanto ai fenomeni

forniti di valore. La prostituzione è un fenomeno

culturale al pari della religione o del denaro; e tutti

e tre lo sono in quanto e solamente in quanto, e

nella misura in cui, la loro esistenza e la forma che

storicamente assumono tocchino, direttamente o

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indirettamente, i nostri interessi culturali, ed in

quanto essi suscitino il nostro impulso conoscitivo

sotto punti di vista orientati in base a idee di valore,

le quali rendono per noi significativo il settore di

realtà pensato in quei concetti».

«Sebbene sempre ricorra l’opinione che sia

possibile “assumere dalla materia stessa” quei punti

di vista, ciò deriva dall’illusione ingenua dello

specialista, il quale non riflette che egli ha

dapprima isolato, in virtù delle idee di valore con

cui si è inconsapevolmente accostato alla materia

un ristretto elemento di una assoluta infinità come

quello che solo lo riguarda per la sua trattazione».

«Egli [lo studioso] deve imparare a riflettere i

processi della realtà – consapevolmente o

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inconsapevolmente – a “valori culturali” …, e

quindi a porre in luce le connessioni che sono per

noi significative».

«Questa scelta di singole parti… ha luogo sempre e

ovunque, in forma sia consapevole sia

inconsapevole…».

«Quelle idee di valore sono, fuori da ogni

questione, “soggettive”. …Da ciò non discende

ovviamente che la ricerca delle scienze della

cultura possa dar luogo soltanto a prodotti i quali

siano “soggettivi” nel senso che valgono per l’uno

e non per l’altro. Ciò che cambia è piuttosto il

grado in cui interessano l’uno e non l’altro. In altri

termini, ciò che diventa oggetto dell’indagine, ed in

quale misura questa si estenda nell’infinità delle

connessioni causali, è determinato soltanto dalle

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idee di valore che dirigono il ricercatore e la sua

epoca; nel “come?” vale a dire nel metodo della

ricerca,… il punto di vista a cui si ispira è

determinante per l’elaborazione degli strumenti

concettuali che egli impiega – mentre nel modo

della loro applicazione il ricercatore è di certo

vincolato, qui come ovunque, alle norme del nostro

pensiero. Poiché verità scientifica è soltanto ciò che

esige di valere per tutti coloro che vogliono la

verità».

«Nel campo delle scienze sociali…, la possibilità di

una conoscenza fornita di senso… appare vincolata

al costante impiego di punti di vista di carattere

specifico, i quali da parte loro possono essere

empiricamente constatati e vissuti …, ma non già

fondati validamente in base al materiale empirico.

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L’”oggettività” della conoscenza sociale dipende

piuttosto da questo, che il dato empirico è

continuamente indirizzato in vista di quelle idee di

valore che sole gli forniscono un valore conoscitivo

…, ma tuttavia non diventa mai piedistallo per la

prova, empiricamente impossibile, della loro

validità. E la fede, che sempre è in qualche forma

presente in noi, nella validità sovraempirica delle

ultime e supreme idee di valore, non esclude ma

reca in sé l’incessante mutabilità dei punti di vista

concreti da cui la realtà empirica deriva un

significato».