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La didattica del diritto civile a cura di Salvatore Mazzamuto e Enrico Moscati Strumenti – 16

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La didattica del diritto civilea cura di Salvatore Mazzamuto e Enrico Moscati

Strumenti – 16

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La tutela giurisdizionale dei dirittiProlegomeni

Luca Nivarra

G. Giappichelli Editore – Torino

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http://www.giappichelli.it

ISBN/EAN 978-88-921-1638-2

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Indice V

«Il diritto astratto è un diritto di violenza, poiché il torto contro il medesimo è una violenza contro l’esistenza della mia libertà,

in una cosa esteriore; la conservazione di quest’esistenza, di fronte alla violenza, è, per ciò stesso, come un’azione esterna

e come una violenza che annulla quella prima»

G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 94

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Indice VII

INDICE pag.

Premessa XI

CAPITOLO PRIMO

INTRODUZIONE

1. L’apparente polisemia di “tutela” 1 2. “Validità” e “tutela giurisdizionale dei diritti” 7 3. Casi di giurisdizione introflessa 11 4. Riepilogo 15

CAPITOLO SECONDO

COSA SIGNIFICA “ATTUARE UN DIRITTO”?

1. L’“attuazione del diritto” e il processo 17 2. Diritti e diritto (soggettivo) 24 3. Illeciti minori 27 4. Conclusioni 30

CAPITOLO TERZO

INTERMEZZO SUL DIRITTO SOGGETTIVO

1. Astrazioni buone e astrazioni cattive 33 2. Cenni: al diritto romano arcaico 35 3. … e al diritto romano classico 36 4. L’Editto e noi 37

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni VIII

pag.

5. Noi e l’Editto 39 6. Conclusioni 42

CAPITOLO QUARTO

COSA SIGNIFICA “RISARCIRE UN DANNO”?

1. Danno e risarcimento 45 2. Tutela reale e tutela risarcitoria 48 3. Segue 51 4. L’ingiustizia del danno 55 5. Dagli “interessi giuridicamente protetti” agli “interessi giuridi-

camente rilevanti”: breve storia della responsabilità civile 62 6. Il risarcimento del danno in forma specifica 66 7. Il risarcimento del danno non patrimoniale 69 8. Punire senza sorvegliare: la responsabilità civile “afflittiva” 74 9. Conclusioni 78

CAPITOLO QUINTO

PROPRIETÀ E CREDITO: ANALOGIE (GRANDI) E DIFFERENZE (PICCOLE)

1. Breve riepilogo 81 2. Fantasie suprematiste 82 3. L’art. 1218 e l’art. 1453 85 4. Violenza occulta (“validità”) e violenza manifesta, anche se ri-

tualizzata (“tutela”) 87 5. “Togliere” e “non dare” 89 6. Esecuzione in forma specifica ed esecuzione per espropriazione 90 7. L’art. 1218 e l’impossibilità imputabile: una prestazione per

equivalente sotto le mentite spoglie di un risarcimento del danno 94 8. Segue: l’inadempimento definitivo 99 9. La risoluzione 101 10. Gli obblighi di protezione 103 11. Il diritto di proprietà tra imprescrittibilità, usucapione 110 12. … e probatio diabolica 112

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Indice IX

pag.

CAPITOLO SESTO

DISCIPLINA DEL CONTRATTO E TUTELA DELLA CONCORRENZA:

LA STAGIONE DEI “RIMEDI”

1. Legge, autonomia privata e le trasformazioni del capitalismo 117 2. Il contratto tra validità ed efficienza 119 3. Un caso di conservazione del rapporto: la garanzia nella vendita

dei beni di consumo 122 4. Dalla nullità-rifiuto alla nullità (performativa) di protezione 126 5. Gli obblighi di informazione 129 6. Conclusioni 130

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni X

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Premessa XI

PREMESSA Impostazione e finalità di questo libro sono rivelate dalla seconda par-

te del titolo, mentre l’indicazione dell’oggetto è affidata alla prima parte. “Prolegomeni”, come si sa, è una parola di origine greca che può essere tradotta “ciò che deve essere detto prima”. La maggior parte dei diziona-ri italiani offre di “prolegomeni” una doppia definizione: una corrispon-dente alla presentazione del contenuto di un testo (quindi, in sostanza, l’omologo di una introduzione); l’altra corrispondente all’idea di una de-scrizione sintetica dei principi che governano una data materia.

È in questo secondo significato – fortunatissimo nella letteratura col-ta, specie di lingua tedesca, tra il XVIII e il XIX secolo (basti pensare ai famosi Prolegomena scritti da Kant per rendere più accessibile la Critica della ragion pura) – che ho ritenuto di servirmi, per il titolo, di una pa-rola dalle ascendenze tanto illustri quanto, al giorno d’oggi, desueta. Il libro, infatti, ha origine dalle difficoltà incontrate a lezione quando, agli studenti del corso di “Diritto civile 2” (un insegnamento che a Palermo viene impartito al V anno), mi sono trovato a parlare di “restituzione”, “reintegrazione”, “risarcimento”. Difficoltà che avevano a che fare non tanto con una comprensione immediata di questi termini, sebbene, piuttosto, con la indisponibilità di un quadro di riferimento più genera-le che consentisse, da un lato, di “vedere” come negli ordinamenti giu-ridici moderni il piano della tutela giurisdizionale dei diritti sia parte in-tegrante del progetto di cattura e regolazione statuali dell’autonomia privata; e, dall’altro, di afferrare la specificità intrasistemica della tutela medesima attraverso una chiara definizione dei modi di operare, e dei correlativi ambiti di competenza, di ciascun singolo rimedio (quindi, un punto di vista che, al contempo, fosse proiettato verso la totalità e ripie-gato su sé stesso).

Ne è venuto fuori un lavoro in cui la cornice è molto più importante

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni XII

dei dettagli. “Prolegomeni”, quindi, va inteso in senso letterale, come, appunto, le cose che vanno sapute prima di intraprendere un percorso di sviluppo, di approfondimento e, se del caso, di smontaggio e rimon-taggio delle questioni che compongono un campo teorico. I precedenti che la nostra letteratura offre al riguardo – in primis il pionieristico li-bro di Adolfo di Majo 1 – sono più ricchi e articolati; tuttavia, almeno ai miei occhi essi appaiono pensati piuttosto in funzione del dibattito scientifico che non di una buona (si spera) propedeutica rivolta agli studenti di giurisprudenza. Si potrebbe obiettare che, trattandosi di un corso dell’ultimo anno, questi “Prolegomeni” arrivino un po’in ritardo: in realtà, a differenza che in passato, la laurea non è più il punto termi-nale della formazione scolastica del giurista ma soltanto una tappa in-termedia cui fanno seguito scuole specialistiche, dottorati, master, cicli di accesso ai vari concorsi pubblici, sicché, in un ambiente soggiogato dall’incubo della formazione permanente prêt à porter, sono varie le oc-casioni nelle quali è possibile, anzi opportuno, proporre una rilettura ab imo di materie di spiccata impronta istituzionale.

Le soluzioni accolte non presentano tratti di particolare originalità, prendendo posto dentro un itinerario culturale dominato da alcune co-stanti declinate, credo, non supinamente. In primo luogo Renato Sco-gnamiglio, per il chiarimento pressoché definitivo in ordine alla distin-zione tra reintegra (di un diritto) e risarcimento (di un danno); poi Mi-chele Giorgianni e Salvatore Mazzamuto, per la piena equiparazione, in punto di tutela reale, del diritto di credito e del diritto di proprietà; an-cora, Luigi Mengoni e Carlo Castronovo, per gli obblighi di protezione e la conseguente messa a punto di una più ariosa idea di obbligazione; infine, di nuovo Castronovo e, più sotterraneo, Pietro Trimarchi, per struttura e funzione della responsabilità civile. Naturalmente, le in-fluenze, le suggestioni, se non proprio i debiti, sono più numerosi (a cominciare da Di Majo, di cui ho già richiamato l’importante libro su “La tutela civile dei diritti”): ma, insomma, quelli menzionati prima so-no per me gli “auttori” dell’Autobiografia vichiana.

In linea con l’ispirazione generale e le finalità dell’opera, l’apparato di note e i riferimenti di dottrina e giurisprudenza sono ridotti all’essen-ziale. Tuttavia questi ultimi rappresentano una piattaforma più che suf-ficiente per chi voglia ulteriormente approfondire il tema.

1 A. Di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003 (ma la I edizione risale al 1987).

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Premessa XIII

Venendo al modo in cui la cornice è stata congegnata, mi limito ad osservare che mentre i prime cinque capitoli sono dedicati al “mondo di ieri” (il diritto statuale) il quale, non sappiamo se inerzialmente o stru-mentalmente, conserva un ruolo ancora non piccolo nel “mondo di og-gi”, l’ultima parte è dedicata a quella sezione del mondo di oggi che, per come intende il rapporto tra legge ed autonomia privata, sembra slanciata verso il “mondo di domani”.

***

Scrivendo, ho compiuto alcune circoscritte incursioni nel diritto ro-mano. Questo mi ha offerto l’opportunità di ritrovare un mio Professo-re degli anni di Università, un vero Maestro, come avremmo detto una volta, Raimondo Santoro; e di parlare meno occasionalmente con un collega, ormai riconosciuto, Giuseppe Falcone: entrambi mi hanno ascoltato e obiettato, da una sapienza lontana, di cui mi sono fatto cari-co, per quanto possibile. A loro, come ad alcuni degli studiosi più gio-vani di una scuola di grande rango, un ringraziamento affettuoso.

***

Il libro esce in concomitanza con il bicentenario della nascita di Karl Marx e con il cinquantenario del ’68. Viviamo in una fase storica segna-ta dall’egemonia, su scala planetaria, di un ordine che, se per un verso sembra confermare le idee dell’uno, per altro verso appare lontanissimo dalle speranze espresse e suscitate dall’altro: e il diritto oggi, perfino più che in passato (almeno un passato relativamente recente) si presenta come strumento privilegiato di conservazione e promozione di quell’or-dine. Proprio per questo la conoscenza dei suoi elementari meccanismi di funzionamento può rappresentare, nella storia di ciascuno di noi, la paradossale via d’accesso ad un percorso di liberazione, individuale e collettiva 2.

Palermo, 5 maggio 2018

2 Gli articoli di legge non seguiti dall’indicazione della fonte, appartengono al codice civile vigente. La giurisprudenza di cui non sia indicato il luogo di pubblicazione è repe-ribile in www.dirittocivilecontemporaneo.it.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni XIV

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Capitolo Primo – Introduzione 1

CAPITOLO PRIMO

INTRODUZIONE

SOMMARIO

1. L’apparente polisemia di “tutela”. – 2. “Validità” e “tutela giurisdizionale dei dirit-ti”. – 3. Casi di giurisdizione introflessa. – 4. Riepilogo.

1. L’apparente polisemia di “tutela”

Nel codice civile, come in numerose altre leggi, la parola “tutela” ri-corre assai frequentemente, con una pluralità di significati. Prendiamo due casi, a loro modo emblematici per le ragioni che vedremo subito. Il primo caso è quello dell’art. 1322 intitolato «Autonomia contrattuale», dove, al co. 2 si legge che «le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché sia-no diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico». Il secondo caso è quello dell’art. 2907, co. 1 intitolato «Atti-vità giurisdizionale» a mente del quale «alla tutela giurisdizionale dei di-ritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo disponga, su istanza del pubblico ministero» 1. Si può aggiungere che lo stesso art. 2907 apre il Titolo IV («Della tutela giurisdizionale dei di-ritti») del Libro VI del codice civile il quale, a sua volta, è consacrato alla «Tutela dei diritti».

In nessuno dei casi ora menzionati, almeno apparentemente, la paro-

1 Contenuto sostanzialmente identico a quello dell’art. 2907, co. 1 presenta l’art. 24, co. 1, Cost. secondo il quale «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri dirit-ti ed interessi legittimi».

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 2

la “tutela” ricorre con il medesimo significato. Intanto, nel caso dell’art. 1322, co. 2 “tutela” è riferita ad “interessi”, mentre nel caso dell’art. 2907, co. 1 essa è riferita ai “diritti”: circostanza, questa, che sembre-rebbe creare un ponte con l’intitolazione del Libro VI, se non fosse per l’aggettivo “giurisdizionale”, estraneo a quest’ultima. Nelle tre occor-renze prese in esame, dunque, “tutela”, una prima volta, è accoppiata ad “interessi”, mentre nelle due volte successive essa è abbinata a “dirit-ti”, con o senza la specificazione “giurisdizionale”. V’è di più. In questi tre contesti, il significato di “tutela” è influenzato dal suo riferimento (“interessi”, “diritti”) in una misura molto più grande di quanto po-trebbe immaginarsi d’acchito. Infatti, nella prospettiva dell’art. 1322, co. 2 la “tutela” è un posterius, mentre negli altri due casi la “tutela” è un prius. Lo stesso concetto può rendersi osservando che la “tutela” di cui all’art. 1322, co. 2 è un traguardo non ancora raggiunto dagli “inte-ressi”, i quali tale traguardo raggiungeranno solo là dove risultino in possesso del requisito della “meritevolezza” (qualsiasi sia il senso in cui la si voglia intendere), mentre la “tutela” di cui all’art. 2907, co. 1 (e an-che quella del nomen del Libro VI) è un risultato che i “diritti” hanno già conseguito 2.

La “tutela” promessa (agli “interessi”) e la “tutela” accordata (ai “di-ritti”) individuano le due funzioni fondamentali (ovvero, i due momenti dell’unica funzione fondamentale: sul punto tornerò da qui a breve) che l’ordinamento giuridico (locuzione attraverso la quale i giuristi alludono in modo un po’criptico all’insieme delle disposizioni di diritto scritto che, proprio in quanto dotate di un’efficacia specificamente giuridica, possono trattare le convenzioni private come fatti oggetto di una rego-lazione autoritativa) 3 svolge allorché la sua attenzione si indirizzi verso

2 In un ordine di idee non dissimile F. Mazzarella, Sei lezioni sul processo (Padova 2000), 15.

3 Quella accennata nel testo è una definizione dell’ordinamento giuridico che si atta-glia alla parte di quest’ultimo che, usualmente, viene indicata attraverso la locuzione “diritto privato”. Si tratta di una definizione non molto diversa, nella sostanza, da quella proposta da Max Weber, alla stregua della quale «il diritto privato può essere considerato … come il complesso delle norme riguardanti non già l’agire riferito … all’istituzione dello stato, bensì soltanto l’agire regolato mediante norme dell’istituzione statale» [M. Weber, Economia e società. III. Sociologia del diritto (Milano 1980), 1]. Sul modo promiscuo in cui viene usata la locuzione “ordinamento giuridico” v. già le osservazioni di R. Oresta-no, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica (Torino 1967), 15.

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Capitolo Primo – Introduzione 3

l’autonomia contrattuale. La prima funzione (o il primo momento del-l’unica funzione) consiste nella “giuridicizzazione” degli “interessi” dei privati, ovvero nella possibilità accordata alle parti di stipulare un con-tratto “valido” attraverso il quale realizzare gli scopi pratici che esse hanno di mira. La “validità” di un contratto è sempre nelle mani del-l’ordinamento giuridico, come dimostra, a tacer d’altro, l’elencazione dell’art. 1325: solo che, nel caso dell’art. 1322, co. 2 trattandosi di «con-tratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare», è necessario che la transazione superi il test della “meritevolezza” il quale, là dove, viceversa, si verta in materia di contratti aventi una disciplina particolare, il legislatore mostra di considerare assorbito dall’esplicita previsione del requisito della “causa” 4. La seconda funzione (o il se-condo momento dell’unica funzione) consiste nell’allestimento di alcuni dispositivi pubblici, ovvero regolati e controllati dalla medesima forza dispensatrice della “validità” dei contratti, il cui compito è quello di ri-solvere i conflitti che dovessero insorgere tra le parti nella fase successi-va alla conclusione del loro accordo. Tali dispositivi pubblici sono la giurisdizione e la pubblicità immobiliare (di essi si occupa, fondamen-talmente, il Libro VI del codice civile, e ciò spiega la intitolazione a questo assegnata dal legislatore del 1942) 5, a ciascuno dei quali corri-sponde una particolare tipologia di conflitto 6.

4 Personalmente, sarei incline a ritenere il dettato dell’art. 1322, co. 2 abbastanza ri-dondante proprio alla luce della esplicita previsione del requisito della causa e del cor-relativo disposto dell’art. 1343. L’unico modo di assicurare alla “meritevolezza” uno spazio di senso autonomo, sarebbe quello di considerarla un criterio di ricevibilità del-l’atto negoziale diverso e, verosimilmente, più esigente, della liceità. Posizione già so-stenuta nella nostra dottrina (e, non a caso, dall’ideatore della formula della causa co-me “funzione economico-sociale” [E. Betti, Teoria del negozio giuridico, Tratt. dir. civ., diretto da F. Vassalli (Torino 1950), 189 s., spec. 197]) che oggi, in un’epoca integral-mente market-oriented, risulta del tutto improponibile. Alla fine, tutto sembrerebbe ri-solversi in un aggravio dell’onere investigativo del giudice il quale, trovandosi di fronte ad un contratto “atipico” dovrà ripetere l’operazione compiuta in via preliminare dal legislatore per i contratti tipici, utilizzando, beninteso, i medesimi canoni di valutazione.

5 La giurisdizione, come è noto, è anche oggetto di una minuziosa disciplina da par-te di un apposito testo legislativo, il codice di procedura civile, detto codice di rito.

6 Della pubblicità immobiliare non ci occuperemo in questo libro. Qui basterà os-servare che il tipo di conflitto alla soluzione del quale è preordinata la trascrizione (art. 2643 ss.) verte ancora sull’assegnazione del diritto e non sulla sua attuazione, come nel caso della giurisdizione.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 4

Una questione sulla quale può essere interessante soffermarsi è la se-guente. Posto che il somministratore della “validità” e il somministrato-re della “tutela” si identificano nella persona (ficta) dell’ordinamento giuridico, si tratta di stabilire se questi due beni (la “validità” e la “tute-la”, appunto) si identificano a loro volta (due momenti della medesima funzione), oppure individuano due distinte modalità di regolazione del-l’autonomia privata. Per rispondere a questa domanda, è necessario chiedersi, intanto, che cosa esattamente intendiamo quando parliamo di “validità” di un contratto. Ora, in un primo senso, un contratto potrà dirsi valido quando esso soddisfi tutte le condizioni richieste dalla legge affinché una transazione privata attui gli interessi delle parti. Anzi, a vo-ler essere precisi, in questa accezione, “validità” sta ad indicare l’insie-me delle condizioni richieste dalla legge affinché una transazione priva-ta possa essere considerata un contratto 7. Questo uso di “validità”, pe-rò, non è molto interessante, esaurendosi in una semplice formula rias-suntiva dei requisiti di “validità” di un fatto sociale. In altri termini, dire che un contratto è valido equivale a dire che un certo fatto sociale è un contratto: “validità”, qui, istruisce in ordine al corretto impiego di rego-le che, in questo caso, ancora prima che prescrittive, sono performative nel senso chiarito in modo definitivo da Searle 8.

Resta impregiudicata, tuttavia, la questione di che cosa sia la “validi-tà” (questione evidentemente diversa da quella relativa alle condizioni d’uso del termine) perché, a ben vedere, la sua semantica non è esaurita dalle regole che la governano. Per comprendere che cosa sia la “validi-tà”, è necessario uscire dai ristretti confini del gioco linguistico e vedere in essa una proprietà del fatto sociale cui viene somministrata, una pro-prietà che può essere apprezzata su una scala, per così dire, istituziona-

7 In un sistema sociale in cui il diritto non soltanto copre una specifica modalità di regolazione dei rapporti interindividuali, ma si avvale di enunciati dotati di una forza parimenti specifica (l’efficacia giuridica), la circostanza che certi fatti (ad es., gli accor-di tra privati) entrino nell’orbita del detentore esclusivo di questa forza, e siano da que-st’ultimo corredati di una nomenclatura loro propria, esclude in via definitiva che si possa parlare di contratti se non nel senso in cui ne parla la legge. Tutti gli altri usi so-no figurati, abusivi, ideologicamente suggestivi: in una parola, impropri.

8 Si tratta di regole di un gioco linguistico attraverso le quali il diritto ordina una pratica sociale di cui viene riconosciuta la speciale rilevanza. Il riferimento è alla fon-damentale opera di J.R. Searle, La costruzione della realtà sociale (Milano 1996) (l’edi-zione originale è dell’anno precedente).

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Capitolo Primo – Introduzione 5

le. Tale proprietà consiste, sicuramente, nel rendere coercibili (ossia, at-tuabili, in ultima analisi, attraverso il ricorso alla violenza) le aspettative che ciascuna delle parti ripone in ordine alla circostanza che l’altra farà ciò che ha promesso di fare. Da questo punto di vista la “validità” rap-presenta il viatico per la tutela dei diritti di cui parla l’art. 2907, nel sen-so che l’esercizio della giurisdizione potrà essere sollecitato alla sola condizione che l’attore deduca in giudizio un fatto (un accordo) munito del crisma della “validità”. Una conferma del nesso che lega “validità” e “tutela giurisdizionale dei diritti” la si ricava dall’art. 1372, secondo il quale «il contratto ha forza di legge tra le parti»: quest’ultima disposizio-ne, pertanto, può essere considerata l’anello di congiunzione tra gli artt. 1322, co. 2, e 1325, da un lato, e l’art. 2907, dall’altro.

La “validità”, dunque, è funzione della “tutela giurisdizionale dei di-ritti” 9: resta da chiedersi se per essa residui uno spazio autonomo che permetta di apprezzarne la rilevanza indipendentemente dal nesso con l’art. 2907. Al riguardo è opportuno ricordare che le prestazioni (ovve-ro, gli spostamenti di ricchezza) eseguite sulla base di un contratto vali-do sono irretrattabili, sicché chi le ha eseguite non può esigerne la resti-tuzione (a differenza di quanto accade allorché la prestazione sia inde-bita: art. 2033 ss.). La irretrattabilità della prestazione eseguita, pertan-to, potrebbe essere considerata una manifestazione della forza di legge del contratto al pari della sua giustiziabilità. Per quanto promettente,

9 Questa affermazione può apparire troppo perentoria: e, nondimeno, essa risulta, a mio avviso, indiscutibile. Non significa, però, che le regole sulla validità siano solo una via d’accesso alla giurisdizione. Esse, ad es., orientano l’esercizio dell’autonomia priva-ta, nel presupposto che le parti preferiscano concludere contratti validi (formula tauto-logica, come si è visto, ma di uso corrente), piuttosto che contratti invalidi. Così, la nul-lità della clausola vessatoria nei termini descritti dall’art. 36 cod. cons. dovrebbe rap-presentare un incentivo per il professionista a non approfittare del consumatore (gli esempi si potrebbero moltiplicare). Resta il fatto che anche l’effetto incentivante della regola di autonomia privata può essere adeguatamente apprezzato solo attraverso la specola del nesso che, indissolubilmente, lega “validità” e “tutela giurisdizionale”. Su un piano diverso si disloca, poi, il contenuto delle regole di validità il quale varia a se-conda della temperie storico-politica: ma, indipendentemente dalla circostanza che l’errore ostativo sia causa di nullità o causa di annullabilità, o che la clausola unilate-ralmente predisposta sia efficace se conosciuta o conoscibile dall’aderente, o nulla se vessatoria (tutte cose, beninteso, importantissime per comprendere l’orientamento po-litico di un sistema giuridico), la funzione ultima di queste regole storicamente can-gianti è di rendere possibile, se non osservate, il ricorso alla giurisdizione.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 6

questa ipotesi, tuttavia, si rivela, per le ragioni che vedremo subito, mol-to debole.

Una notevole importanza riveste, ai fini del nostro discorso, l’art. 2034, il quale così recita: «non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace. I doveri indicati dal comma precedente, e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato, non pro-ducono altri effetti». Questa disposizione contiene due regole, l’una col-legata all’altra. La prima prevede che la prestazione eseguita sulla base di doveri morali e sociali non possa essere ripetuta; la seconda, che quella stessa prestazione non sia esigibile in giudizio. La soluti retentio e la denegatio actionis – così le due regole vengono ancora oggi indicate con locuzioni trasmesse dal diritto romano – contraddistinguono un an-tico e venerabile istituto, l’obbligazione naturale (naturalis obligatio), a lungo oggetto di grande attenzione da parte della dottrina giuridica (specie tedesca) impegnata nella costruzione di una moderna teoria del-l’obbligazione, ma da qualche decennio a questa parte ormai relegato ai margini del sistema. Il caso che ci propone l’art. 2034 è interessante per due ragioni. La prima è che, come si è visto, l’irretrattabilità della pre-stazione (la soluti retentio) si presenta, per così dire, allo stato puro, scissa, cioè, dalla azionabilità della correlativa pretesa che, in quanto semplicemente “naturale”, non può autorizzare il ricorso alla giurisdi-zione (denegatio actionis). La seconda ragione è che i doveri morali o sociali, i quali fungono da causa dell’attribuzione patrimoniale attuata per il tramite della prestazione giuridicamente non dovuta 10 (ma non indebita), appartengono al medesimo ordine di fenomeni di cui parla l’art. 1322, co. 1.

Ciò significa che le parti, volendo, potrebbero porre quei doveri mo-

10 Meglio sarebbe dire solo “non dovuta”, ma anche in questo caso mi adeguo ad un uso linguistico tanto consolidato quanto ambiguo che sembra alludere ad una dovero-sità non giuridica, là dove, nella prospettiva dell’art. 2034, i doveri morali e sociali sono fatti incapaci di fondare l’esercizio dell’azione, anche se ritenuti dalla legge idonei a rendere irripetibile la solutio. Sul punto v. L. Nivarra, Obbligazione naturale, Digesto, IV ed., vol. XII, Sez. Civile (Torino 1995), 11 s. dell’estratto. Si può anche immaginare che l’atto mediante il quale l’attribuzione patrimoniale si perfeziona, abbia un carattere bilaterale: in ogni caso, saremo in presenza di una bilateralità debole, funzionale alla sola esigenza di tutelare l’autonomia dell’accipiens.

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Capitolo Primo – Introduzione 7

rali e sociali a fondamento di un accordo che, se conforme alle previsio-ni di legge in punto di “validità”, diverrebbe un contratto a tutti gli ef-fetti (ad es., figurando tra i doveri morali la riconoscenza, o la gratitudi-ne, è fuor di dubbio che il beneficiario delle cure ricevute potrebbe, in alternativa alla solutio irripetibile, proporre al suo benefattore la stipula di una donazione remuneratoria ex art. 770). Ora, l’ingresso sulla scena della “validità” ha come effetto immediato quello di destituire di senso la autonoma rilevanza della irretrattabilità della prestazione la quale torna ad essere il mero riflesso della vincolatività per le parti degli im-pegni assunti, di cui la “validità” medesima è il vettore, e la “tutela giu-risdizionale” la sanzione. In altri termini, nel caso delle obbligazioni na-turali, la soluti retentio si può presentare come un fenomeno a sé stante, immediatamente visibile all’occhio dell’interprete, solo perché collegata ad un fatto in relazione al quale la legge si limita a stabilire semplici condizioni di efficacia (la sussistenza dei doveri morali e sociali, la capa-cità del solvens, la spontaneità dell’attribuzione) che, però, nulla hanno a che vedere con i requisiti di validità di un contratto. Ricorrendo quest’ultimo, la prestazione, anche quando non sia mediata dalla nascita di un rapporto obbligatorio, ha un carattere attuativo del pactum, cui l’ordinamento riconosce dignità di titolo per l’istaurazione di una lite, programmaticamente negata, come si è visto, ai doveri morali e sociali dell’art. 2034 11.

2. “Validità” e “tutela giurisdizionale dei diritti”

Il ragionamento svolto nel § precedente si può riassumere così. La “tutela” di cui parla l’art. 1322, co. 2 e quella di cui parla l’art. 2907, co. 1 rivestono due significati diversi. La prima, infatti, è funzione della “validità”, la seconda dell’attuazione forzosa dei diritti. La “validità” è la tecnica della quale l’ordinamento si serve, attraverso la previsione di

11 Del resto, basta chiedersi che effetto sortirebbe riportare alla solutio una formula impegnativa come quella già ricordata dell’art. 1372 (“il contratto ha forza di legge tra le parti”), per rendersi conto della radicale irriducibilità dei due fenomeni. Anche la ter-minologia che tradizionalmente scandisce il discorso sull’obbligazione naturale (soluti retentio, denegatio actionis) è ingannevole trattandosi del lascito di una concezione or-mai superata per la quale essa era una semplice variante dell’obbligazione civile.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 8

una serie di requisiti (ivi inclusa la “meritevolezza” degli interessi perse-guiti dalle parti) per trasformare un fatto sociale (un accordo tra sogget-ti privati), di per sé privo di rilevanza giuridica, in un contratto. L’attua-zione forzosa dei diritti è il monopolio della violenza messo al servizio dell’autonomia privata. Tuttavia, per quanto distinte sul piano fenome-nologico e, direi, anche cronologico, “validità” e “tutela giurisdizionale” sono collegate l’una all’altra. Il punto di congiunzione è rappresentato da quella che abbiamo chiamato “rilevanza giuridica” (la sua traduzione normativa è presente nell’art. 1372, già citato: «il contratto ha forza di legge tra le parti»), la cui epifania ultima si rinviene proprio nella circo-stanza che l’esercizio della giurisdizione possa essere sollecitato con successo 12 soltanto deducendo in giudizio un contratto valido.

Possiamo ora dare una risposta alla domanda che avevamo sollevato in precedenza quanto al fatto che “validità” e “tutela giurisdizionale” individuassero due autonome funzioni ordinamentali o due momenti, autonomi ma coordinati, della medesima funzione, in senso favorevole alla seconda delle due alternative prospettate. Naturalmente, sarebbe davvero molto ingenuo ricavare da questo il corollario di una presunta superiorità del processo (e del correlativo ordinamento) sul diritto so-stanziale, ossia sull’insieme delle regole che fissano le condizioni di “va-lidità” degli atti di autonomia privata. Posizioni di questo genere, oggi del tutto desuete, risalgono ad una fase storica (fine ’800, primi decenni del ’900) nella quale istanze di emancipazione disciplinare si intreccia-vano, in misura variabile a seconda delle coordinate geopolitiche, con pulsioni di tipo statalista, particolarmente marcate nei paesi, come l’Ita-lia e la Germania, pervenuti solo da poco all’unità nazionale, per le qua-li la rivendicazione dell’autonomia e, finanche, della prevalenza del di-ritto processuale civile, faceva tutt’uno con l’affermazione e il consoli-damento della sovranità dello Stato 13.

Il cordone ombelicale che lega “validità” e “tutela giurisdizionale dei

12 Più avanti (Cap. II e Cap. IV) chiariremo in che modo debba intendersi “con successo”.

13 E non può certamente essere un caso che l’opera di Giuseppe Chiovenda, l’arte-fice della trasformazione della “procedura civile” nel diritto processuale civile, sia coe-va a quella di Vittorio Emanuele Orlando, il fondatore della moderna teoria del diritto amministrativo. Sempre consigliabile la lettura di G. Tarello, Dottrine del processo civi-le. Studi storici sulla formazione del diritto processuale civile (Bologna 1989).

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Capitolo Primo – Introduzione 9

diritti” può essere spiegato solo attraverso la predisposizione di un mo-dello più sofisticato di quello che fa perno sull’idea, abbastanza elemen-tare, in definitiva, del primato della norma processuale su quella sostan-ziale 14: un modello che recuperi il ruolo che le ideologie suprematiste del processo civile assegnavano allo Stato, ma in una chiave del tutto di-versa. In questa prospettiva, il punto sul quale è opportuno richiamare l’attenzione non è tanto quello, appunto, della non meglio precisata (e tutta ideologica) superiorità del diritto pubblico (sotto la specie del dirit-to processuale civile) sul diritto privato, sebbene quello della integrale appropriazione di quest’ultimo da parte dello Stato. Infatti, una delle ca-ratteristiche salienti dello Stato moderno si rinviene nella integrale avo-cazione in capo a quest’ultimo e ai suoi organi – variamente identificati in rapporto alla forma che esso ha assunto nel corso degli ultimi due se-coli e mezzo 15 – delle competenze relative alla produzione delle norme giuridiche, ovvero di norme obbligatorie per quanti siano soggetti alla sua sovranità. Il passaggio (del sistema delle fonti del diritto) da un asset-to di tipo pluralista (proprio degli ordinamenti medievali) ad un assetto di tipo monista (proprio degli ordinamenti moderni), potrebbe essere interpretato nel senso dell’affermazione di un modello autoritario di po-tere: in realtà, il fenomeno di cui stiamo parlando si colloca nel quadro di un processo di razionalizzazione della forma giuridica funzionale alle esigenze di una ormai evoluta economia capitalistica. Ciò che a prima vista si presenta nei panni del Leviatano è, a ben vedere, un efficacissimo e potentissimo dispositivo al servizio del mercato il quale, nella sua fase protoliberale, reclama regole certe, eguali per tutte e rispettose dell’auto-nomia dei privati (ossia dei capitalisti) e delle loro transazioni 16.

14 Un’idea non solo elementare ma di cui è perfino difficile intendere il senso al di là della sconcertante banalità per cui, attesa l’elevata probabilità statistica che le parti non rispettino gli impegni assunti, è necessario, per la pensabilità stessa di un insieme di regole “giuridiche”, che vi sia un’istanza dotata del potere di dirimere le susseguenti, inevitabili controversie e di dare attuazione alle sue decisioni. Insomma, dalla giustizia di cadì ai giudici come corpo di funzionari statali, uno schema in grado di ricompren-dere tutto e, dunque, del tutto inutile anche sotto il profilo semplicemente euristico.

15 Solo per dare un riferimento di massima: a partire dalla Rivoluzione francese. 16 La codificazione civile rimane l’insuperato esito di quel disegno razionalizzatore.

La storia, tuttavia, è già stata raccontata troppe volte: sarà sufficiente rinviare a G. Ta-rello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto (Bo-logna 2001), 33 s.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 10

Orbene, la integrale statalizzazione del diritto privato – di cui il mo-nopolio sulla “validità” e le sue regole è l’espressione più chiara – si sal-da al monopolio della violenza (anch’esso acquisito all’esito di un per-corso storico lungo e tormentato) – con la conseguenza che il nesso tra “validità” e “tutela giurisdizionale dei diritti” diviene costitutivo della fisionomia dei moderni ordinamenti giuridici. In altri termini, la pro-grammatica concentrazione del governo della “validità” in capo al so-vrano ha come effetto di formalizzare e rendere visibile quel nesso: di-scende da ciò che “validità” e “tutela giurisdizionale dei diritti”, con buona pace di ogni residua velleità panprocessualistica, finiscono per disporsi, in posizione assolutamente paritaria 17, alle estremità di un’uni-ca retta, il cui svolgimento corrisponde all’ideale ciclo di vita dell’intero sottosistema del diritto privato. Da questo punto di vista, l’inscindibilità del binomio “validità” – “tutela” offre una prospettiva privilegiata a partire dalla quale è agevole cogliere il carattere intimamente unitario e strutturalmente monista degli ordinamenti giuridici moderni, così resti-tuendo, in una formula sincopata, l’immagine di una vicenda storica plurisecolare 18.

17 Se proprio si volesse continuare a prestar fede all’idea, a mio avviso alquanto bal-zana, che accredita il processo di un qualche primato, bisognerebbe tenere conto della circostanza che se è vero che il senso ultimo della “validità” è l’accesso alla giurisdizio-ne, è anche vero che l’accesso “utile” alla giurisdizione può avvenire solo se alla base di esso venga posto un contratto “valido”: una circostanza, questa, che, semmai, sta a te-stimoniare della strumentalità del processo rispetto all’autonomia privata. In realtà, entrambe le prospettive suprematiste sono erronee per le ragioni indicate nel testo.

18 Come si è già detto, i giuristi (compreso chi scrive) impiegano con larghezza la lo-cuzione “ordinamento giuridico” (Rechtsordnung in tedesco, ordre juridique in france-se, legal order in inglese) per alludere ai fenomeni di somministrazione della “validità” e della “tutela giurisdizionale dei diritti”: se si preferisce, si può anche dire che il giuri-sta moderno, tributario dello schema positivista, sa (o, comunque, intuisce) che “validi-tà” e “tutela” non sono dispositivi autoconsistenti, ma necessitano di una forza esterna che li imponga. E, in effetti, un ordinamento giuridico lo si ritrova sempre, da Ham-murabi all’UE. Variano, però, le modalità di strutturazione di quei due dispositivi che individuano costanti indeclinabili di ogni ordinamento giuridico chiamato a regolare società nelle quali la sfera privata abbia attinto un minimo di consistenza. Si prenda, ad es., un precedente illustre come quello offerto dal diritto romano (specie arcaico e re-pubblicano) in cui la certificazione della giuridicità di una pratica sociale era la risul-tante di percorsi molto complessi, che investivano plurimi ambiti di senso (sacrale, po-litico, economico) e una pluralità di soggetti (pretori, giuristi, assemblee popolari, sena-to) in nessuno dei quali – è questo il punto fondamentale – era possibile ravvisare il

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Capitolo Primo – Introduzione 11

3. Casi di giurisdizione introflessa

Un caso interessante da esaminare, seguendo la linea di ragionamen-to proposta nei §§ precedenti, è quello nel quale il ricorso alla giurisdi-zione avviene non per fare valere le pretese nascenti da un contratto va-lido, ma per la ragione esattamente opposta, ovvero per contestare la validità di un contratto. Le forme nelle quali questa evenienza si può dare sono almeno due, stando alla tassonomia civilistica tradizionale: la nullità e la annullabilità. Le due figure presentano, in effetti, numerose analogie: tuttavia, per i motivi che emergeranno dal prosieguo del di-scorso, è preferibile concentrarsi sulla nullità.

“Nullo” è il nome che diamo ad un fatto sociale (ad es., un accordo privato) in possesso di alcuni, ma non di tutti, i requisiti, richiesti dalla legge affinché quel fatto si trasformi in un contratto. In realtà, nell’uso corrente, anche ufficiale, “nullo” è un predicato del contratto (si veda, ad es., l’art. 1418): d’acchito, ciò potrebbe apparire contraddittorio, mentre, a ben vedere, questa terminologia è indicativa della circostanza che, anche in un’ottica, per così dire, negativa, il nesso “validità” – “tu-tela giurisdizionale” domina l’intero orizzonte di senso dell’ordinamen-to. La “nullità”, infatti, è una qualificazione schiettamente normativa nella quale prende forma la rilevanza giuridica della difformità del fatto concreto dallo schema legale. In altri termini, già il solo tentativo delle parti di proiettare il loro accordo verso i modelli apprestati dal diritto ne implica la cattura ad opera di quest’ultimo: una cattura che si con-suma, appunto, per il tramite della “nullità”, la quale, però, al pari della “validità”, si rende visibile attraverso il riconoscimento alle parti del po-tere di ricorrere alla giurisdizione per ottenere una declaratoria di inef-fettualità dell’accordo viziato.

Insomma, si può anche dire che la “rilevanza giuridica” di un fatto sociale, a prescindere dal modo in cui essa si manifesta, (“validità”,

detentore esclusivo della giuridicità. In un contesto del genere, il nesso tra “validità” e “tutela giurisdizionale dei diritti” – sempre indefettibile, come già detto – si presenta sotto il segno della reciproca autonomia delle due sfere (donde l’idea del processo co-me custode di ultima istanza della effettività del sistema e deposito di una sorta di giu-ridicità rafforzata) (v. Cap. III). Viceversa, a seguito della centralizzazione e della bru-tale semplificazione dei processi di produzione del diritto, i sistemi giuridici si lasciano interpretare, ormai senza residui, nei termini di un continuum tra “validità” e “tutela giurisdizionale” e l’effettività ne diviene la cifra dominante.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 12

“nullità” ma se ne possono dare anche altri), finisce sempre per risultare più agevolmente percepibile dalla prospettiva della “tutela giurisdizio-nale”: e il caso in esame ne offre una conferma. Però, è opportuno ag-giungere che a causa della sua radicale e inemendabile imperfezione, il contratto nullo sprigiona una rilevanza giuridica di portata assai più modesta di quella abbinata al contratto valido, risolvendosi essa, in so-stanza, nel riconoscimento alle parti del potere di agire in giudizio 19. In altre parole, mentre il primo vive anche al di fuori del processo (anzi, in linea di massima, il suo ciclo vitale si dispiega lontano dalla giurisdizio-ne), il secondo è integralmente assorbito dalla dimensione della tutela poiché, dal punto di vista dell’ordinamento giuridico, l’unica ragion d’essere della “nullità” risiede nella necessità di sopprimere l’apparenza istaurata dal negozio malriuscito.

Beninteso, l’interesse che spinge le parti ad incardinare un giudizio di nullità (l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.) non è un interesse pu-ramente processuale 20, ma è anche vero che esso può essere soddisfatto solo per il tramite di una sentenza che accerti la nullità del contratto. In genere, però, non è così: ad es., l’interesse del creditore a ricevere la prestazione, può essere attuato dall’adempimento spontaneo del debi-tore; l’interesse del proprietario a recuperare il possesso della cosa sot-trattagli si realizza anche attraverso la restituzione del bene da parte del-l’autore dello spoglio; l’interesse dell’autore alla eliminazione delle co-pie contraffatte può essere soddisfatto dallo stesso contraffattore. In tutti questi casi, la condanna del convenuto (all’esecuzione della presta-zione, alla restituzione della res, alla distruzione del materiale illecito) è solo un’eventualità (a conferma della strumentalità della tutela giurisdi-

19 La conversione di cui parla l’art. 1424 presuppone che il contratto nullo possieda i requisiti di forma e di sostanza di un diverso contratto di cui le parti, se avessero co-nosciuto la causa di invalidità, avrebbero voluto gli effetti. A ben vedere, si tratta di una ben strana nullità perché, in realtà, il medesimo fatto è oggetto di una duplice qua-lificazione normativa, una delle quali perfettamente conforme allo schema legale. In altre parole, è vero che il contratto nullo produce effetti esogiudiziali (ovvero, ha una rilevanza giuridica apprezzabile sul terreno del diritto sostanziale) ma alla sola condi-zione che sia … un contratto valido (sia pure diverso) e, in quanto tale, voluto dalle parti.

20 Si intende per “interesse puramente processuale” un interesse che vive solo all’in-terno del giudizio (ad es., l’interesse di una o dell’altra parte all’ammissione di un mez-zo istruttorio).

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Capitolo Primo – Introduzione 13

zionale rispetto alle deliberazioni assunte dai privati); viceversa, trattan-dosi di un contratto nullo, l’interesse individuale (alla soppressione di un simulacro di accordo) non conosce modalità di compimento diverso dalla sentenza.

Questo accade per una ragione ben precisa. L’imperfezione dell’ac-cordo ne interrompe il ciclo di sviluppo ad uno stadio – quello della nullità – al quale, per definizione, non può seguire una fase attuativa dell’accordo medesimo. Di regola, ovvero quando l’accordo sia piena-mente conforme allo schema legale, esso, accompagnato dal crisma del-la validità, viene restituito, sotto forma di contratto, alla dimensione del fatto, sia pure di un fatto ormai oggetto di una qualificazione normativa, alla luce della quale sarà possibile accertare se i comportamenti in con-creto adottati dalle parti siano, o meno, in linea con gli impegni dalle medesime assunti. In altri termini, il normale funzionamento di questo dispositivo si lascia descrivere secondo un modello triadico – fatto – qualificazione del fatto – fatto qualificato (il contratto) – dove l’ultimo segmento, dispiegandosi nel segno di una ritrovata fattualità, è governa-to dall’arbitrio delle parti che possono, come non possono, eseguire il contratto: da qui, appunto, il carattere meramente eventuale del ricorso alla giurisdizione, potendosi bene dare il caso che il debitore adempia l’obbligazione, lo spogliante restituisca il bene ecc. Viceversa, allorché il contratto sia difforme, quel modello perde un pezzo – l’ultimo – sicché la vicenda si conclude con l’accertamento giudiziale del vizio, ovvero con la concretizzazione ad opera del processo della nullità, dalla legge somministrata, sino a quel momento, solo in via generale e astratta 21.

21 In un certo senso si potrebbe dire che la condanna all’adempimento sta alla “va-lidità”, come l’accertamento giudiziale del vizio sta alla “nullità” (del resto, l’una e l’al-tra hanno la medesima scaturigine nel monopolio statale del diritto): tuttavia, mentre la prima incarna una mera eventualità, il secondo, invece, rappresenta l’unico esito possi-bile di una qualificazione del fatto in termini di nullità. Questo assunto non è smentito, per la ragione indicata alla nt. 19, né nel caso della conversione, ma neppure nelle ipo-tesi (eccezionali) di recupero, totale o parziale, del negozio nullo (artt. 590, 799, 2126) nelle quali, infatti, la neutralizzazione della regola sulla ripetibilità dell’indebito di-scende da un aliquid novi (dichiarativo o attuativo) che immuta lo stato di cose giuridi-co arrestatosi allo stadio della nullità. In altre parole, l’atto nullo ha come solo destino quello di essere dichiarato nullo, a meno che, date alcuni specialissime condizioni, la norma non lo lasci sopravvivere, in pari tempo declassandolo a presupposto fattuale di un effetto mediato da un distinto ordine di fenomeni.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 14

Questa introflessione della tutela si presenta, nel caso della nullità, con tratti di speciale esasperazione. Tuttavia, sempre le imperfezioni del contratto, anche quando, come nel caso della annullabilità o della re-scissione, il trattamento ad esse riservato sia meno severo 22, spingono il processo nel senso di sua una radicale autosufficienza, là dove, come meglio vedremo in seguito, quando il ricorso alla giurisdizione si fondi su un contratto valido, alla sentenza di condanna seguirà l’attuazione, forzosa o stimolata 23, del diritto che, almeno sotto il profilo funzionale, si pone in continuità con l’esecuzione del vincolo negoziale, tempora-neamente compromessa dall’illecito del debitore.

È opportuno precisare, però, che non sempre l’autosufficienza del giudizio ai fini dell’attuazione dell’interesse all’origine del processo rin-via ad un fallimento della “validità”. Basti pensare alla c.d. “tutela costi-tutiva” (art. 2908, a mente del quale «nei casi previsti dalla legge, l’auto-rità giudiziaria può costituire, modificare, estinguere rapporti giuridici, con effetti tra le parti, i loro eredi o aventi causa») la quale contempla ipotesi dove la pronunzia del giudice è strumento di attuazione imme-diata del diritto dedotto dalla parte. Esemplare, al riguardo, è il caso di cui dell’art. 2932 dove è previsto che, quando il promittente non adem-pia l’obbligazione, assunta in base ad un contratto preliminare, di con-cludere il contratto definitivo, il giudice emani una sentenza «che produ-ca gli effetti del contratto non concluso». Qui, diversamente da quanto accade allorché il processo si concluda con una sentenza di condanna, la pronuncia del giudice è, di per sé, satisfattiva dell’interesse dell’at-tore: e questo si spiega sulla base di un duplice ordine di ragioni, anche se forse, in realtà, si tratta di un’unica ragione inquadrata da due distin-te prospettive. Per un verso, infatti, la prestazione dovuta dal debitore

22 Ad es., il contratto annullabile è convalidabile e la convalida può consistere anche nella esecuzione del contratto medesimo ad opera della parte legittimata ad agire in giudizio, purché essa fosse a conoscenza del vizio (art. 1444, co. 2); la rescissione può essere scongiurata attraverso la riduzione ad equità delle condizioni negoziali (art. 1450). Tuttavia, il contratto convalidato, così come il contratto ridotto ad aequitatem, al pari del contratto convertito, sono, puramente e semplicemente, contratti validi: in altri termini, tertium non datur.

23 Quello posto in essere dal debitore dopo la notifica del precetto non può essere considerato un adempimento spontaneo come quello del debitore che abbia puntual-mente onorato gli impegni assunti, ma non può neppure essere assimilato alla surroga in executivis.

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Capitolo Primo – Introduzione 15

non è surrogabile, consistendo essa in una dichiarazione di volontà; per altro verso, tuttavia, l’utilità assicurata da quella prestazione, essendo iscritta entro l’ordine puramente ideale degli effetti giuridici (quelli che scaturirebbero dal contratto definitivo, se concluso), può essere acquisi-ta per il tramite di un diverso atto giuridico (la sentenza). Insomma, ab-binandosi il massimo della infungibilità (la condotta dovuta dal debito-re) con il massimo della fungibilità (l’effetto giuridico somministrato dal contratto definitivo), la soluzione escogitata dal legislatore è, appunto, quella di una produzione giudiziale dell’effetto che aggira la non coer-cibilità della prestazione 24.

4. Riepilogo

Questo primo capitolo è stato dedicato al tentativo di predisporre le coordinate fondamentali di un discorso sulla tutela giurisdizionale dei diritti, destinato, poi, a svilupparsi nelle pagine successive. La sottoli-neatura del nesso “validità” – “tutela” – che ha rappresentato il filo conduttore del nostro ragionamento – risponde all’esigenza di sgombe-rare immediatamente il campo da vecchi moduli di pensiero, ancora tributari dell’idea che sistemi giuridici come quelli moderni, caratteriz-zati dall’accentramento della funzione nomotetica, possano essere letti secondo criteri di gerarchizzazione dei vari settori in cui quei medesimi sistemi si articolano. In realtà, e l’osservazione vale in particolare per il diritto privato, la distinzione tra regole sostanziali (la “validità”) e rego-le processuali (la “tutela giurisdizionale”) ha un valore solo descrittivo e, comunque, può essere accettata a condizione che si guardi al proces-so come ad un arnese utile per il conseguimento di uno scopo dislocato al suo esterno. A ben vedere, infatti, la giustiziabilità dei diritti soggetti-vi, la loro tutela giurisdizionale, è una qualità indefettibile che ad essi viene garantita dal trovare fondamento in titoli giuridici “validi” (per lo più, ma non necessariamente, contratti); di talché, ripetiamo, “validità” e “tutela” descrivono i termini di una relazione pensata già in apicibus come circolare e che, poi, può sperimentare questa circolarità anche in

24 Anche la sentenza che revoca l’atto lesivo della garanzia patrimoniale generica ha un’efficacia costitutiva e, quindi, realizza immediatamente l’interesse del creditore: v. Cap. II, nt. 25.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 16

concreto, a seconda del modo in cui, volta per volta, i rapporti tra le parti evolvono 25.

Si tratta, ora, di vedere come quella relazione si strutturi, avendo sempre ben presente che “validità” e “tutela” sono impastate della me-desima materia, ovvero della forza coercitiva del diritto statuale.

25 Voglio dire che, in apicibus, l’ordinamento comprende la relazione tra “validità” e “tutela” come necessariamente circolare (fatto qualificato – frustrazione della impegna-tività del fatto qualificato – presa di parola della giurisdizione che significa ripristino dell’impegnatività del fatto) ma che, in concreto, può accadere che il risultato atteso dalle parti venga raggiunto senza che la giurisdizione prenda la parola (adempimento spontaneo).

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Capitolo Secondo – Cosa significa “attuare un diritto”? 17

CAPITOLO SECONDO

COSA SIGNIFICA “ATTUARE UN DIRITTO”?

SOMMARIO

1. L’“attuazione del diritto” e il processo. – 2. Diritti e diritto (soggettivo). – 3. Illeciti minori. – 4. Conclusioni.

1. L’“attuazione del diritto” e il processo

Il giurista italiano usa comunemente la formula “attuazione dei dirit-ti” e le locuzioni derivate. Si tratta di uno di quei casi in cui, mancando una definizione lessicale (del tipo di quelle che, talvolta, predispone il legislatore), o anche solo convenzionale (del tipo di quelle che, talvolta, scaturiscono da un loro impiego consapevole, reiterato nel tempo e lar-gamente condiviso ad opera di dottrina e giurisprudenza: ad es., fino a non moltissimo tempo fa, “negozio giuridico” come sinonimo di tutti gli atti di autonomia privata di carattere non puramente esecutivo di una regola dettata in precedenza tra le parti), il significato dell’uso lin-guistico esige di essere approssimato da chi se ne avvale, anche solo per prenderne le distanze.

Ora, nelle grandi linee, si può dire che questa formula evochi l’idea di una modalità coercitiva di soddisfacimento dell’interesse del titolare del diritto. In altri termini, un diritto viene attuato quando un ostacolo esterno (e non la decisione di chi sarebbe legittimato ad esercitarlo: ad es., l’inerzia prolungata nel tempo del creditore che porti alla prescri-zione; l’inerzia prolungata nel tempo del proprietario che, unitamente al possesso del terzo, sfoci nell’usucapione) pregiudichi la possibilità per il titolare di servirsi dell’utilità che l’ordinamento ha inteso assicurargli

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 18

mediante l’attribuzione di un diritto soggettivo. A questo livello di ge-neralizzazione, la formula che stiamo esaminando presenta almeno due inconvenienti: il primo attinente al piano della metodologia o, comun-que, delle infrastrutture categoriali del ragionamento; il secondo, vice-versa, relativo al piano delle ricostruzioni di merito.

In generale, va osservato che, diversamente da quanto “attuazione dei diritti” potrebbe lasciar intendere d’acchito, la coercibilità è una qualità intrinseca del diritto soggettivo 1, di talché risulterebbe del tutto fuorviante pensare che il fatto costitutivo della sua giustiziabilità sia rappresentato dall’insorgenza dell’ostacolo 2. In altri termini, sarebbe erroneo pensare che l’azione – nome anche questo venerando, di diretta ascendenza romana (actio) – ovvero il potere di istaurare il giudizio ex

1 Il diritto soggettivo è della stessa pasta della “validità”; e, del resto, i fatti sociali cui la “validità” sia stata somministrata sono i vettori mediante i quali la legge, asse-gnando titoli giuridici, presiede a quel grande “monopoli” che è la circolazione della ricchezza. Nel Capitolo I abbiamo parlato della “validità” in relazione ai contratti per-ché, in economie avanzate come quella capitalistica, le transazioni economiche tra pri-vati rappresentano la modalità elettiva della circolazione della ricchezza, coincidendo quest’ultima, attraverso la mediazione del mercato, in quanto forma generalizzata di socializzazione, con lo scambio (perfino l’estorsione del pluslavoro ai danni dell’ope-raio, ovvero ciò che consente l’istaurazione del rapporto di produzione tipicamente capitalistico, avviene per il tramite di uno scambio tra “eguali”). Tuttavia, non tutti i fatti sociali “validi” sono contratti perché, sia pure residualmente, non sempre la ric-chezza circola attraverso lo scambio (si pensi ai modi di acquisto della proprietà di cui parla l’art. 922, quasi tutti a titolo originario). Talora, la modalità extramercantile di circolazione è la risultante di una scelta politica del sistema: è questo il caso paradigma-tico della successione mortis causa dove, a prevalere, è un’esigenza di conservazione della ricchezza familiare (art. 42, co. 4, Cost.). Sul diritto ereditario come spazio resi-duale sottratto al governo della libertà contrattuale v. le osservazioni di Weber, Socio-logia del diritto, cit., 179.

2 L’emergenza dell’ostacolo è ciò che, nel linguaggio del codice di rito, prende il nome di interesse ad agire (art. 100 c.p.c. «per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse»). Al pari della legittimazione ad agire – v. infra, nel testo – l’interesse ad agire è una delle condizioni per l’esercizio dell’azione (legiti-matio ad causam). Se ne distingue in ragione del maggiore grado di concretezza, nel senso che la sua sussistenza implica l’accadimento di uno specifico, puntuale fatto sto-rico (l’ostacolo) in difetto del quale, d’altra parte, la domanda di tutela non sarebbe in alcun modo giustificata. Proprio per questa ragione, però, deve ritenersi che, come af-fermato nel testo, la giustiziabilità sia una caratteristica immanente al diritto soggettivo il quale, nei termini chiariti più sopra, individua il contenuto nucleare della legittima-zione ad agire e garantisce, sul piano logico, la possibilità stessa di pensare un ostacolo.

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Capitolo Secondo – Cosa significa “attuare un diritto”? 19

art. 2907 sia una cosa diversa dal diritto soggettivo, se non in un senso del tutto particolare, sul quale è opportuno brevemente soffermarsi. Per chiarire questo punto, si rammenti che, al fine di accordare tutela al di-ritto dedotto in giudizio, è necessario, in primo luogo, stabilire che quel diritto sussiste (in realtà, buona parte dell’attività che, rispettivamente, l’attore e il convenuto svolgono nel corso di un processo è finalizzata a provare l’esistenza, o l’inesistenza, del diritto controverso). Da qui una contraddizione, tanto inevitabile quanto, a ben vedere, solo apparente. Se scopo, diciamo così, intermedio 3 del processo è l’accertamento del diritto, ne consegue che, all’atto della istaurazione del giudizio, l’esi-stenza del diritto è, per definizione, dubbia (controversa), altrimenti la stessa ragion d’essere del ricorso alla giurisdizione verrebbe meno. Il le-gislatore è così tanto consapevole di questo che, tra le condizioni per un efficace esercizio dell’azione, include la c.d. legittimazione ad agire, ossia la mera affermazione della titolarità di un diritto soggettivo, in difetto della quale verrebbe meno proprio la materia prima dell’investigazione processuale. Orbene, poiché l’affermazione di essere titolare di un dirit-to non è, all’evidenza, la medesima cosa che l’essere titolari di un diritto, se ne potrebbe desumere che potere d’azione e diritto soggettivo indivi-duino funzioni ordinamentali distinte: ciò è vero, ma solo nel senso che il processo, come istituzione, esige che la legge sospenda il giudizio sulla esistenza del diritto sino a quando quest’ultimo non venga accertato.

In altri termini, l’autonomia del potere d’azione è il mero riflesso dell’autonomia del processo che può svolgere il suo compito di garanti-re l’effettività dei diritti solo accertandone l’esistenza; resta il fatto, pe-rò, che questa stessa autonomia è relativa, là dove, appunto, compito del processo è di tutelare i diritti soggettivi (art. 2907): sicché, indipen-dentemente dalla circostanza che la logica interna del giudizio sembri accantonare il diritto soggettivo per dare spazio al potere d’azione, in realtà il processo è funzione del diritto soggettivo e diretta emanazione delle prerogative accordate al titolare attraverso il riconoscimento della situazione di vantaggio 4.

3 Scopo intermedio perché, in genere, l’accertamento del diritto è prodromico e stru-mentale alla somministrazione della misura immediatamente volta all’eliminazione del-l’ostacolo. Ciò non toglie che, in talune ipotesi, come vedremo più avanti, la sentenza di-chiarativa dell’esistenza del diritto sia idonea, di per sé, a soddisfare l’interesse dell’attore.

4 Sul punto v. quanto già scritto in L. Nivarra, I diritti nel processo tra “eccezioni in

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Il succo di questo discorso è che “attuazione del diritto” è un’espres-sione che va intesa, per così dire, attivamente, nel senso che il diritto soggettivo, tramite la mediazione del giudizio, provvede ad attuare sé medesimo, e non nel senso che, ab extrinseco, una forza esterna al dirit-to, nelle forme del processo, interviene a rimuovere l’ostacolo. Del re-sto, l’anello di congiunzione tra il diritto soggettivo e la sua tutela giuri-sdizionale, ossia il potere d’azione, deve necessariamente vestire i panni di un diritto soggettivo (sia pure, per le ragioni dette prima, all’inizio solo postulato): e il mancato accoglimento della domanda starà a testi-moniare l’inesistenza del diritto e, in pari tempo, l’inutilità della tutela: come si dice, dunque, simul stabunt, simul cadent.

Veniamo ora alle perplessità che la formula suscita sotto il profilo del merito. A prima vista, “attuare un diritto” sembra voler dire che, grazie al processo, l’attore ottiene ciò che la legge gli ha già dato riconoscen-dogli il diritto soggettivo. In realtà le cose non possono stare così per-ché altrimenti il processo rappresenterebbe l’inutile (e costoso) doppio-ne della norma sostanziale. E, in effetti, come abbiamo già detto, all’ori-gine del ricorso alla giurisdizione si trova un ostacolo esterno, ossia il comportamento di un terzo, che pregiudica l’interesse protetto dal di-ritto e che, per conseguenza, giustifica quel ricorso alla giurisdizione fi-nalizzato all’ottenimento della tutela di cui parla l’art. 2907 5. Il punto è che l’ostacolo si può atteggiare molto diversamente non solo perché i

senso stretto” e “mere difese”. Osservazioni in margine a Sez. Un., n. 295/2016, Studi in onore di Antonio Gambaro, II (Milano 2017), 1631 s. Una chiara conferma della esat-tezza di quanto affermato nel testo ce la offre l’art. 99 c.p.c. secondo il quale «fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome pro-prio un diritto altrui». Infatti, dal punto di vista dell’ordinamento, chi afferma di essere titolare di un diritto è (deve essere) il titolare del diritto: donde, appunto, la inammis-sibilità tendenziale di un esercizio del potere d’azione scompagnato dalla postulazione del diritto soggettivo che, comunque, là dove sia eccezionalmente consentito, esige l’immediata chiamata nel giudizio del titolare, l’unico nei confronti del quale la pro-nunzia possa essere resa.

5 Due rapide osservazioni. La prima: l’interesse protetto pregiudicato è l’interesse ad agire di cui abbiamo parlato alla nt. 2. La seconda: in “interesse protetto dal dirit-to”, diritto può essere inteso indifferentemente come diritto oggettivo e diritto sogget-tivo, a conferma del fatto, ormai acclarato, che norma agendi e ius agendi sono due fac-ce della medesima medaglia, e, cosa ancora più importante, del fatto che tutto ciò che proviene dal legislatore moderno è impastato di un’unica materia, ossia della forza del-la coercizione.

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Capitolo Secondo – Cosa significa “attuare un diritto”? 21

modi in cui l’ordinamento protegge gli interessi meritevoli di tutela dif-feriscono gli uni dagli altri (ad es., attraverso dispositivi che, in omaggio ad una tradizione plurisecolare, prendono il nome ora di diritti di credi-to, ora di diritti reali), ma anche perché – e questo aspetto è tanto più importante quanto più spesso viene trascurato al prezzo di gravi confu-sioni – gli stessi interessi tutelati sono, tra loro, fortemente eterogenei.

Da tutto questo discende che per dare un significato alla nostra for-mula, è necessario vedere secondo quali forme si presenta l’ostacolo o, se arrivati a questo punto del discorso, vogliamo usare una terminologia meno criptica, l’interferenza illecita o, direttamente, l’illecito 6. Vedia-mo, in primo luogo, a quale tipo di illecito è esposto un diritto di credi-to, là dove, cioè, l’interesse protetto dalla legge è quello del creditore a ricevere una prestazione, ovvero un’utilità suscettibile di valutazione economica ai sensi dell’art. 1174, da parte del debitore. Come è noto, qui, l’illecito veste i panni dell’inadempimento, il quale si può presenta-re, a sua volta, in modi diversi a seconda che la prestazione sia ancora possibile, oppure sia divenuta impossibile per causa imputabile al debi-tore (art. 1218) 7. Se la prestazione è ancora possibile 8, la tutela offerta al creditore si articola nelle due fasi del processo di cognizione (dove la posta in gioco à l’accertamento della esistenza del diritto e la conse-guente condanna del debitore ad eseguire la prestazione) e del processo di esecuzione (il quale assumerà le forme della esecuzione per espro-priazione, quando la prestazione abbia ad oggetto una somma di dena-ro, o della esecuzione in forma specifica, allorché la prestazione abbia un oggetto diverso (rilasciare un bene immobile, consegnare una cosa

6 Tracce importanti di una definizione dell’illecito si rinvengono all’art. 2043 dove si parla di «danno ingiusto»: lì, però, la prospettiva è quella del risarcimento del danno aquiliano il quale, per le ragioni che vedremo, si colloca al di fuori del perimetro della tutela giurisdizionale dei diritti propriamente intesa. Ma su tutto questo dovremo tor-nare più avanti.

7 Su queste nozioni torneremo al Cap. V, §§ 7-9. 8 La possibilità della prestazione non va intesa in senso puramente naturalistico

perché essa, secondo quanto si ricava dall’art. 1174, va misurata sulla permanenza nel tempo dell’interesse del creditore a riceverla (se ne trae una conferma, a contrario, dal-l’art. 1256, co. 2 dove il protrarsi di una impossibilità temporanea sino a quando il cre-ditore non abbia più interesse a riceverla è equiparata all’impossibilità definitiva, con conseguente estinzione dell’obbligazione; e, fondamentalmente, dalla circostanza che l’ordinamento contempli una misura come la risoluzione del contratto: art. 1453 ss.).

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mobile, fare, o non fare, qualcosa 9). Qualora, viceversa, la prestazione fosse divenuta impossibile per causa imputabile al debitore, il creditore dovrà accontentarsi del risarcimento del danno 10.

L’illecito al quale, tipicamente, anche se non esclusivamente 11, è esposto il titolare di un diritto di proprietà (il più completo dei diritti reali) è la sottrazione del bene. La perdita del possesso di quest’ultimo, infatti, impedisce al proprietario di godere e di disporre della cosa co-me, invece, lo autorizza a fare l’art. 832. Dunque, in questo caso, l’inte-resse dell’attore è di ottenere dalla giurisdizione un provvedimento che condanni chi ha effettuato lo spoglio a restituire il bene e, là dove que-sto non avvenga, a recuperare forzosamente il bene attraverso l’esecu-zione in forma specifica dell’obbligo di consegna (là dove si tratti di un bene mobile) o di rilascio (là dove si tratti di un bene immobile). Anche in questo caso la legge contempla l’eventualità che la res sia andata peri-

9 La distinzione tra processo di cognizione e processo di esecuzione è nel codice di rito dove il Libro II e il Libro III, rispettivamente, recano queste intitolazioni. La sen-tenza di condanna rappresenta, per così dire, l’ideale anello di collegamento tra cogni-zione ed esecuzione, posto che, ai sensi dell’art. 474, co. 2, n. 1, c.p.c., esso è il primo dei titoli esecutivi, il possesso dei quali è indispensabile per poter aggredire il patrimo-nio e, in senso più ampio, la sfera possessoria del debitore. L’esecuzione per espropria-zione e l’esecuzione in forma specifica sono disciplinate tanto nel codice di rito (rispet-tivamente artt. 474 ss., 605 ss., c.p.c.) quanto nel codice civile (artt. 2910 ss., 2930 ss.). Come abbiamo già detto (Cap. I, § 3) l’obbligo di concludere un contratto, ove ina-dempiuto, può essere funzionalmente surrogato da una sentenza (c.d. costitutiva) che produce i medesimi effetti di quel contratto. Nella misura in cui la pronunzia del giu-dice fa ottenere al creditore esattamente ciò che egli avrebbe ottenuto se il debitore avesse adempiuto, l’attuazione forzosa dell’obbligo scaturente dal preliminare si lascia iscrivere nell’orizzonte dell’esecuzione in forma specifica (v., del resto, la sedes materiae dell’art. 2932), sebbene la modalità impiegata per il raggiungimento dello scopo non sia una pronunzia di condanna.

10 Più avanti vedremo che il risarcimento del danno di cui parla l’art. 1218 non può essere identificato con il rimedio schiettamente riparatorio di cui agli artt. 1223 e 2056: ma il discorso richiede uno svolgimento suo proprio e non è questo il momento per affrontarlo.

11 Il proprietario, infatti, può subire anche aggressioni di altro tipo: ad es., può ve-dersi contestata la titolarità del diritto, o la pienezza di quest’ultimo. In entrambi i casi, la tutela offertagli dalla giurisdizione pone capo a sentenze di mero accertamento (art. 2653, co. 1, n. 1, art. 949, co. 1); oppure subire delle molestie di fatto, alle quali si può rimediare mediante una sentenza di condanna che ordini al molestatore di cessare dalla condotta illecita (art. 949, co. 2). V. infra, § 3.

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ta o distrutta per fatto imputabile al responsabile dello spoglio, il quale, pertanto, sarà tenuto a corrisponderne al proprietario l’equivalente economico L’art. 948, infine, espressamente riserva al dominus il diritto al risarcimento del danno conseguente alla temporanea indisponibilità del bene 12.

L’inadempimento e lo spoglio descrivono due modi di essere dell’il-lecito, diversi in ragione della diversa morfologia degli interessi protetti dall’ordinamento attraverso la previsione dei diritti di credito e del di-ritto reale. Tuttavia, non si può non osservare come, sul piano delle tec-niche di cui si serve la giurisdizione, quelle differenze, vistosissime fuori dal processo, tendano ad attenuarsi fino a divenire quasi impercettibili. Questo fenomeno di livellamento delle posizioni di partenza potrebbe essere spiegato invocando la rigidità (se non la tipicità) delle forme di tutela: in altri termini, come pure fu autorevolmente osservato, il pro-cesso agirebbe sui diritti dedotti in giudizio al pari di un potente rullo compressore che eguaglia quello che, in limine litis, eguale non era 13. A nostro avviso, però, esiste una spiegazione alternativa alla luce della quale l’uniformità della strumentazione processuale non è la causa, ma l’effetto di un eguagliamento “a monte” reso possibile (anzi inevitabile) dall’impiego su scala sistemica della categoria del diritto soggettivo. Al-lo sviluppo di questo punto, abbastanza complesso, sarà dedicato il prossimo §.

12 A differenza dell’art. 1218, il quale sul punto non distingue generando, come me-glio vedremo più avanti, una certa confusione, l’art. 948 nettamente separa la corre-sponsione del valore economico del bene (perito o smarrito), quale surrogato di que-st’ultimo, dalla riparazione della perdita patrimoniale generata dalla temporanea indi-sponibilità della cosa.

13 Scriveva nel 1911 Giuseppe Chiovenda [Dell’azione nascente dal contratto preli-minare, Riv. dir. comm., 1911, 96 s.; e ora in Saggi di diritto processuale civile (1896-1937), I (Milano 1993), 101 s.]: «azione ed obbligazione (e parlando d’obbligazione mi riferisco ad ogni diritto a una prestazione, perché ogni diritto, assoluto o relativo, ten-dente ad una prestazione si presenta come obbligazione nel momento del processo) sono due diritti soggettivi distinti che insieme uniti soltanto coprono pienamente la vo-lontà concreta di legge che diciamo diritto obiettivo». Chiovenda coglie bene la spinta uniformatrice del processo pur collocando questa intuizione all’interno della sua nota teoria dell’azione come autonomo diritto soggettivo di carattere potestativo (G. Chio-venda, L’azione nel sistema dei diritti, Prolusione letta nell’Università di Bologna nel 1903 e ora in Saggi di diritto processuale civile, cit., 3 ss.

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2. Diritti e diritto (soggettivo)

È opportuno riprendere il discorso dal principio, e, segnatamente dall’art. 2907, co. 1 e dall’art. 24, co. 1, Cost. In entrambe queste dispo-sizioni si parla, in relazione alla somministrazione della tutela giurisdi-zionale, dei “diritti”, alludendo, va da sé, ai diritti soggettivi. Il punto è che quella dei diritti soggettivi è una figura normativa dai contorni al-quanto rarefatti, della quale, appunto, il legislatore si avvale allorché si tratti di proclamarne la generica giustiziabilità, o, ad un livello minore di astrazione, di individuarne il giudice 14. Sono questi impieghi che consentono di distinguere il diritto soggettivo dal negozio giuridico, nel senso che mentre quest’ultimo è una categoria di elaborazione ed uso solo dottrinali 15, il primo (per di più declinato al plurale, ciò che, natu-ralmente, vale a mitigarne l’astrattezza) può vantare un crisma di uffi-cialità. Ora, se dei diritti soggettivi non sappiamo null’altro che questo, di una ricca messe di informazioni disponiamo, viceversa, a proposito delle loro incarnazioni più significative, ossia i diritti reali (e, tra questi, il diritto di proprietà) e i diritti di credito.

I primi sono oggetto di un’analitica disciplina nel Libro II del codice civile (dal Titolo II al Titolo VI) e alcune di queste disposizioni sono specificamente dedicate alla materia della tutela giurisdizionale (il Capo IV del Titolo II si intitola «Delle azioni a difesa della proprietà», il Capo VI del Titolo VI si intitola «Delle azioni a difesa della servitù»). Ancora più pervasiva è la presenza, nel codice civile, dei diritti di credito: baste-rà menzionare il Libro IV – «Delle obbligazioni» – dove, accanto ad una minuziosa regolamentazione del rapporto obbligatorio in quanto tale, si rinviene una parimenti analitica disciplina delle sue fonti; e, ancora, il Libro VI dove, accanto alle già richiamate norme di principio in punto di tutela giurisdizionale e a quelle in materia di esecuzione forzata 16, trovano spazio i privilegi, il pegno e l’ipoteca (artt. 2745-2899), grazie ai

14 Basti pensare agli artt. 103, co. 1 e 113, co. 1, Cost. a proposito della giurisdizione amministrativa in materia di diritti soggettivi; o anche all’art. 7, co. 1 del d.lgs. 104/2010 (Codice del processo amministrativo).

15 Anche la giurisprudenza se ne avvale, ma si tratta, per lo più, di un espediente terminologico privo di reali risvolti costruttivi.

16 Le quali, però, come si è visto, finiscono per essere serventi anche rispetto alla pretesa restitutoria del proprietario spogliato.

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quali il creditore rafforza la sua posizione in executivis, nonché i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale (artt. 2900-2906) che con-sentono al creditore di preservare l’integrità del patrimonio del debitore sul quale egli è destinato a soddisfare le sue ragioni (art. 2740).

Dunque, diritti reali e diritti di credito, in limine, diventano diritti soggettivi: in altre parole, si disincarnano e si angelicano per arrivare al-l’incontro con il processo nella condizione di massima purezza. Può sembrare un modo fin troppo scherzoso di affrontare una questione molto seria ma, a ben vedere, il punto è esattamente questo. L’astrazio-ne (connotato che scolpisce più di ogni altro la fisionomia del diritto moderno) che si compie attraverso il medio del diritto soggettivo sul corpo vivo di proprietà e credito finisce per isolare (altrimenti, come sa-rebbe possibile costruire la categoria?) ciò che l’una e l’altra condivido-no, sulla base di un’ascendenza tributaria del paradigma dominicale, ovvero l’istanza di inviolabilità di cui la c.d. sfera giuridica del singolo viene automaticamente corredata a seguito dell’attribuzione del diritto. Beninteso, questo non significa che diritti di credito e diritti reali siano la stessa cosa: non lo sono, e non potrebbero esserlo, perché essi tutela-no interessi strutturalmente diversi (posso voler acquisire la disponibili-tà di un immobile per viverci solo per alcuni anni e, quindi, stipulo un contratto di locazione che fa di me il titolare di un credito (artt. 1571 e 1575); posso voler acquisire la disponibilità di un immobile per farne la mia abitazione stabile o investire una somma di denaro, e allora stipulo un contratto di compravendita che fa me un proprietario (art. 1470). Queste peculiarità, salvo che per alcuni profili importanti ma non deci-sivi 17, si attenuano fino, ripeto, quasi a dissolversi allorché un diritto di credito o un diritto reale venga dedotto in giudizio e trasformato, per così dire, in un diritto soggettivo: perché la tutela giurisdizionale coglie, dell’insieme delle prerogative attribuite a creditore e proprietario, il so-lo profilo, in un certo senso estrinseco, della intangibilità 18.

17 Ad es., il regime della prescrizione, posto che il diritto di credito, per regola gene-rale, si prescrive in 10 anni (art. 2946), mentre il diritto di proprietà è imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione (art. 1158 ss.). Su questo v. Cap. V, § 10.

18 È interessante notare che, nell’esperienza romana, specie quella più risalente, è lo schema processuale a presentare un notevole grado di astrattezza: esemplare il caso della legis actio sacramento dove, come è noto, la pronunzia risolutiva della controver-sia non verteva sul merito perché essa era intesa, piuttosto, a «stabilire la conformità, o

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 26

Vi è, poi, un ulteriore aspetto da considerare. Sia lo spoglio, sia l’ina-dempimento appartengono alla dimensione del fatto, nel senso che en-trambi, per essere rimossi, richiedono una modificazione forzosa della sfera, ancora prima che giuridica, materiale, dell’autore dell’illecito. Questa circostanza, tanto elementare, quanto inoppugnabile, ci conse-gna una verità parimenti indiscutibile, e cioè che la tutela giurisdiziona-le di un diritto (sia esso di credito o reale, quindi, di un diritto soggetti-vo) reclama la mobilitazione della procedura esecutiva, la quale rappre-senta la modalità tipica di aggressione legale al patrimonio del reus. Ri-salendo ulteriormente “per li rami”, l’esecuzione forzata rinvia alla con-danna (titolo esecutivo per eccellenza, come abbiamo visto), con la con-seguenza che il binomio condanna – esecuzione forzata segnerà i confi-ni della tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi allorché essi vengano violati nella forma più grave, ovvero privando il proprietario o il credi-tore dell’utilità loro accordata dall’ordinamento.

Arrivati a questo punto del nostro discorso, dovrebbe risultare suffi-cientemente chiaro cosa debba intendersi per “attuazione di un diritto”. “Attuare un diritto”, è lo specifico destino della tutela giurisdizionale, ed esso si compie nella replica di quello statuto di inviolabilità che rap-presenta il proprium del diritto soggettivo come categoria normativa riepilogativa delle due principali epifanie dell’“appartenere” in senso giuridico: la proprietà e il credito 19. Questa circostanza, che potremmo

non conformità, al ius (iustitia o iniustitia) del sacramentum – che, come emerge dal nome, era in origine un atto religioso – posto in essere da ciascuno dei litiganti, quale supremo sigillo del proprio comportamento processuale» [B. Albanese, Il processo pri-vato romano delle legis actiones (Palermo 1987), 58]. Tanto ciò è vero che una costante dell’evoluzione del processo romano è rappresentata dalla differenziazione e specifica-zione degli schemi originari (un fenomeno, questo, che si accentua in epoca formulare ma già riscontrabile con le legis actiones: si pensi proprio all’articolazione dell’actio sa-cramento nelle due varianti in rem e in personam) in funzione della peculiarità degli in-teressi deducibili dalle parti in giudizio [A. Schiavone, Ius (Torino 2005), 185, nt. 39]. Il progressivo arricchirsi del repertorio dei verba concepta, prima, e della formulae, poi, da un lato illustra il senso del diffuso convincimento secondo cui, nel diritto romano, almeno fino ad un certo stadio della sua storia, il remedium precederebbe il ius; e, dal-l’altro, dalla prospettiva del “moderno”, e attraverso il confronto con quest’ultimo, la-scia intravedere il modo radicalmente diverso di atteggiarsi della relazione tra regola privatistica e tutela giurisdizionale negli ordinamenti che ignorano e in quelli che cono-scono il “diritto soggettivo” (v. Cap. III).

19 Tenuto conto delle vedute ancora oggi correnti circa l’irriducibilità di ius in re e

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Capitolo Secondo – Cosa significa “attuare un diritto”? 27

definire “sistemica” o “strutturale”, unitamente alla fattualità, nel senso chiarito in precedenza, di spoglio e inadempimento, spiega perché il modo in cui concretamente si articolano le forme della tutela tende ad agglutinarsi intorno ai due poli della condanna e dell’esecuzione. Que-sto stesso concetto può esprimersi richiamando ancora una volta l’atten-zione sulla forza di astrazione e, in pari tempo, di riduzione del reale a sé medesimo, che compete al diritto soggettivo: una forza che, anche in virtù della comune radice fattuale di spoglio e inadempimento, finisce per investire anche il processo, conferendogli quel tratto di uniformità da cui questa parte del nostro discorso ha tratto origine 20.

3. Illeciti minori

Lo spoglio e l’inadempimento si collocano ai vertici di una ipotetica gerarchia degli illeciti. Esistono, però, tipologie di illecito meno invasive che, però, reclamano pur sempre una tutela giurisdizionale dell’interes-se leso. Spesso, anche se non sempre, come vedremo da qui a breve, in casi di questo genere, la pronunzia del giudice (di accoglimento della domanda dell’attore) assume quei connotati di autosufficienza di cui abbiamo parlato più sopra 21.

Il primo caso è quello di cui all’art. 949, co. 2, ove si contempla

ius ad rem, il punto dovrà essere ripreso e chiarito più avanti (v., in particolare, Cap. V, § 2).

20 Per farsi un’idea del modo in cui funzionano gli ordinamenti giuridici che non di-spongono di un congegno categoriale del tipo “diritto soggettivo”, basti pensare al processo per legis actiones, dove per l’attuazione forzosa di un diritto di credito (in realtà si trattava di stati di cose diversi, accomunati da un generico “spettare” di qual-cosa a qualcuno nei confronti di qualcun altro) erano previste due distinte sequenze di certa verba: quella della l.a. per manus iniectionem e quella della l.a. per pignoris capio-nem (Albanese, Il processo privato romano, cit., 35 s.). Anche parlare di “attuazione del diritto”, almeno nel senso dell’affermazione della inviolabilità dello specifico interesse protetto attraverso il riconoscimento del diritto soggettivo (e non nel senso della re-staurazione di un più generale ordine/equilibrio magico-sacrale) suona abbastanza im-probabile ove solo si consideri che, ad es., l.a. per manus iniectionem si concludeva con l’addictio del debitore il quale, dietro autorizzazione del pretore, veniva condotto a casa del creditore e, dopo sessanta giorni, qualora non avesse pagato, ucciso, venduto come schiavo e, in epoca più progredita, dopo la lex Poetelia, imprigionato.

21 V. Cap. I, § 3.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 28

l’eventualità che il proprietario subisca turbative o molestie di fatto (ad es., Tizio può attraversare regolarmente il fondo di Caio, o utiliz-zarlo come discarica, senza essere stato autorizzato dal dominus). Si tratta, con tutta evidenza, di comportamenti illeciti, che limitano il godimento del bene ma che, in linea di massima, non attingono il gra-do di invasività di uno spoglio: anche in questo la reazione giurisdi-zionale sarà commisurata alle caratteristiche dell’illecito, sicché il pro-prietario potrà chiedere la cessazione 22 delle molestie e il risarcimento del danno.

In base al co. 1 dello stesso art. 949, invece, «il proprietario può agire per fare dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa, quando ha motivo di temerne pregiudizio». Si tratta di un antico rimedio, di origine romanistica (actio negatoria servitutis), del quale il proprieta-rio di una cosa può avvalersi quando un terzo dichiari di essere titolare di un diritto (ad. es., appunto, una servitù) che, a suo dire, insisterebbe su quella medesima cosa. È evidente che una situazione di questo gene-re può risultare anche gravemente pregiudizievole per il proprietario incidendo sia sulla disponibilità del bene, nel senso della sua commer-ciabilità (le affermazioni del terzo, infatti, possono scoraggiare i poten-ziali acquirenti, intimoriti dall’idea di comprare una cosa gravata da di-ritti che ne limitino l’uso), sia sul suo godimento (ad es., dovendo farsi autorizzare dall’autorità competente dei lavori sul suo fondo, il proprie-tario potrebbe incontrare delle difficoltà derivanti dall’incertezza pro-palata dal terzo in ordine all’effettivo regime giuridico del bene). Una pronunzia che accerti l’inesistenza dei diritti vantati dal terzo, se debi-tamente trascritta ai sensi dell’art. 2653, co. 1, n. 2, cpv., eliminando ogni dubbio circa la pienezza dei poteri in capo al proprietario, rappre-

22 L’ordine di cessazione è conosciuto con il nome di inibitoria. Si tratta di un’azio-ne volta ad ottenere la condanna del trasgressore alla cessazione, appunto, della con-dotta illecita. In genere essa si accompagna ad un ordine di rimozione (eseguibile in forma specifica ex art. 2931) delle conseguenze materiali dell’uso indebito del bene al-trui (nel nostro esempio, i detriti depositati sul fondo altrui) oggetto, talvolta, di una espressa e distinta previsione normativa (v. art. 2599; artt. 156 e 158 l. aut.). L’inibito-ria è stata a lungo al centro di un dibattito molto vivace che investiva sia il profilo della sua configurabilità come rimedio di portata generale, sia il profilo della sua riconduci-bilità alla tutela condannatoria, apparendo problematica l’eseguibilità in forma specifi-ca di condotte “infungibili”. Entrambe le questioni appaiono oggi, per varie ragioni, superate: ma sul punto torneremo in seguito (Cap. V, § 6).

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Capitolo Secondo – Cosa significa “attuare un diritto”? 29

senta una forma di tutela del tutto adeguata rispetto ad un’aggressione insidiosa ma circoscritta 23.

Sul versante dei diritti di credito, comportamenti pur sempre illeciti, ma meno pregiudizievoli di quanto non lo sia l’inadempimento, sono quelli contro i quali si rivolgono i c.d. mezzi di conservazione della ga-ranzia patrimoniale (artt. 2900-2905). Qui non è questione della manca-ta esecuzione della prestazione quanto, piuttosto, del rischio, per il cre-ditore, di imbattersi nell’incapienza del patrimonio del debitore e, quin-di, della impossibilità di attivare la responsabilità patrimoniale di cui al-l’art. 2740: un’incapienza, si badi bene, non casuale, ma frutto di con-dotte fraudolente o, quanto meno, negligenti, della controparte. L’ipo-tesi più interessante è quella dell’azione revocatoria ordinaria (art. 2901), esperibile alle condizioni indicate dalla legge, quando il debitore abbia compiuto atti di disposizione che diminuiscano, come si dice, o quantitativamente, o qualitativamente, il suo patrimonio con ciò met-tendo a repentaglio, appunto, la possibilità per il creditore di soddisfar-si 24. Si noti che anche in questo caso la tutela accordata al titolare del diritto presenta i caratteri dell’autosufficienza, perché la sentenza che accoglie la domanda dell’attore rende l’atto revocato “inopponibile” al creditore il quale, in altre parole, potrà far espropriare il bene uscito dal patrimonio del debitore anche presso il terzo 25.

23 Come abbiamo già osservato (v. supra, nt. 11) l’aggressione può consistere anche nell’affermazione del terzo di essere egli il proprietario del bene: lo strumento della tu-tela sarà, comunque, sempre lo stesso, ovvero una pronunzia dichiarativa della titolari-tà del diritto in capo all’attore.

24 La disciplina dell’azione revocatoria ordinaria è piuttosto laboriosa: in questa se-de la diamo per conosciuta dal lettore. Per diminuzione quantitativa si intende una ri-duzione secca dell’entità del patrimonio del debitore, per es., a seguito di una donazio-ne; per diminuzione qualitativa si intende una diversa composizione delle varie poste patrimoniali, tale da rendere più disagevole o, addirittura impossibile, il soddisfacimen-to del credito (per es., un’alienazione immobiliare che sostituisca al cespite “apparta-mento” il cespite “denaro”, assai più facile da sottrarre all’espropriazione).

25 È questo il significato della “inopponibilità” che individua una caratteristica nor-mativa dell’atto (impressagli dalla sentenza, donde la natura costitutiva di quest’ultima) apprezzabile erga omnes, a differenza dell’“inefficacia” la quale, viceversa, agisce inter partes. L’“inopponibilità” dell’atto revocato al creditore si comporta, sul piano pratico, come il pegno o il pignoramento: l’atto in questione è valido ed efficace ma, per il credi-tore in executivis è come se il bene oggetto di esso non fosse mai uscito dal patrimonio del debitore. Come si è appena detto, la pronunzia che accoglie l’istanza revocatoria ha

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Quando a minacciare l’integrità del patrimonio sia l’inerzia del debi-tore, allora il rimedio apprestato dall’ordinamento prende il nome di azione surrogatoria (art. 2900) grazie alla quale il creditore può surro-garsi, appunto, al debitore nell’esercizio di un diritto che questi, pur es-sendone titolare, si astiene dal fare valere. Si tratta di un raro caso di so-stituzione processuale 26 che consente al creditore di procurare al debi-tore l’utilità spettantegli: in tal modo, ove domani si rendesse necessario far espropriare il patrimonio della controparte inadempiente, esso risul-terà arricchito del cespite acquisito in via surrogatoria.

4. Conclusioni

In questo capitolo ci siamo chiesti che cosa significhi “attuare un di-ritto”, espressione ben radicata nel vocabolario del giurista italiano an-che se non del tutto immune da una certa oscurità. Il ragionamento si è concentrato sullo spoglio e sull’inadempimento, ovvero sugli illeciti che colpiscono, rispettivamente, i diritti reali (in particolare, il diritto di proprietà) e il diritto di credito. La tutela giudiziale apprestata dall’ordi-namento si sviluppa attraverso un percorso comune ai due casi, e che prevede una sentenza di condanna all’esito del processo di cognizione, l’appropriazione forzosa del bene (o dell’utilità) all’esito del processo di esecuzione. Questo fenomeno si deve alla circostanza per cui, nei siste-mi giuridici moderni e, in particolare, in quelli dell’Europa continenta-le, le varie tipologie di diritti non individuano la risultante di un proces-so di differenziazione che, come accade, direi in modo emblematico nell’esperienza giuridica romana, si sviluppa dal basso attraverso l’opera dei giuristi e del Pretore (o, in epoche meno progredite, di figure omo-loghe), quanto piuttosto come il punto di approdo di un processo che si sviluppa dall’alto, facendo di essi species di un unico genus, il diritto

un’efficacia costitutiva, al pari della sentenza di cui all’art. 2932 (v. supra, Cap. I, § 3). Tuttavia, a differenza di quest’ultima, essa non ha una portata attuativa del diritto, limi-tandosi a preservare le condizioni perché un’attuazione si dia (l’azione revocatoria pre-scinde completamente dall’inadempimento del debitore): e ciò si spiega in ragione del fatto che la conformazione del mezzo di tutela è comandata dai caratteri dell’illecito.

26 Come si è già detto, ai sensi dell’art. 81 c.p.c. infatti, «fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può fare valere nel processo in nome proprio un diritto al-trui»: ora, l’azione surrogatoria rappresenta uno di quei casi.

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Capitolo Secondo – Cosa significa “attuare un diritto”? 31

soggettivo. Quest’ultimo, a sua volta, si presenta come una categoria co-struita attorno ad un nucleo, tanto elementare quanto potente, descrivi-bile in termini di inviolabilità ed esclusività, tributario del paradigma dominicale ma poi generalizzato fino al punto da diventare consustan-ziale all’idea stessa di diritto. In più, poi, come abbiamo già detto, l’omologia delle forme di tutela è facilitata dalla circostanza per cui, in entrambi i casi, il ripristino delle prerogative del proprietario o del cre-ditore implica un’alterazione forzosa della sfera possessoria dello spo-gliante o del debitore. Dunque, per concludere, solo provvisoriamente, su questo punto, si può dire che “attuare un diritto” significa istaurare uno stato di cose fisico conforme all’interesse protetto mediante il rico-noscimento del diritto soggettivo.

Questo schema si ripete sempre, anche a seguito di ingerenze meno odiose di quelle provocate dallo spoglio o dall’inadempimento. Talora, in questi casi, ad attuare il diritto può bastare la sola cognizione (senza che sia necessario, dunque, modificare la realtà fisica), salvo che la mo-lestia metta capo ad uno stato di cose incompatibile con l’interesse del proprietario sicché, di nuovo, si riproporrà il binomio sentenza di con-danna – esecuzione forzata.

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Capitolo Terzo – Intermezzo sul diritto soggettivo 33

CAPITOLO TERZO

INTERMEZZO SUL DIRITTO SOGGETTIVO

SOMMARIO

1. Astrazioni buone e astrazioni cattive. – 2. Cenni: al diritto romano arcaico. – 3. … e al diritto romano classico. – 4. L’Editto e noi. – 5. Noi e l’Editto. – 6. Conclusioni.

1. Astrazioni buone e astrazioni cattive

In questo capitolo esamineremo il rapporto tra diritto soggettivo e giurisdizione privilegiando una prospettiva storico-metodologica. Come si ricorderà, infatti, tanto l’art. 2907 quanto l’art. 24 Cost. fanno dipen-dere l’accesso alla giurisdizione dalla circostanza che l’attore dichiari di essere titolare di un diritto soggettivo. È interessante notare come, per il modo in cui è abituato a pensare, il giurista moderno trovi questo del tutto ovvio. Si tratta, però, del sottoprodotto di una cattiva astrazione, molto prossima ad una versione particolarmente corriva del senso co-mune, a causa della quale il diritto (oggettivo) viene rappresentato nei termini di un complemento, tanto naturale quanto ineluttabile, della pensabilità stessa di un ordine sociale: ubi societas ibi ius. Secondo que-sto modo di vedere le cose, in ogni tempo e in ogni luogo si ripropor-rebbe il medesimo meccanismo per cui un aggregato umano diviene un ordine sociale grazie all’azione coesiva del diritto la quale si manifeste-rebbe, in primis, attraverso l’istituzione di un’autorità investita del compito di dirimere le controversie individuali (è questo l’humus di cui si alimenta il convincimento, spesso alquanto nebuloso, relativo al pri-mato del processo sul c.d. diritto sostanziale: vi abbiamo già accennato e ci torneremo più avanti).

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Questo livello di astrazione è cognitivamente vuoto perché ad esso corrisponde non un oggetto determinato ma la risultante di un’altra astrazione che, però, si presenta al cospetto del pensiero come se fosse un dato di realtà. L’astrazione inerisce strutturalmente al processo della conoscenza, ma perché sia fruttuosa è necessario che verta su un ogget-to reale (che, in quanto reale, però, non può, per definizione, coincidere con la realtà come totalità perché quest’ultima, semplicemente, non esi-ste se non, appunto, come una mera, sterile astrazione). I giuristi, inve-ce, molto spesso praticano una forma di astrazione indeterminata pro-prio perché verte su un oggetto assunto come identico a sé stesso (il “diritto”, la “società”): con la conseguenza che lo specifico modo di at-teggiarsi della relazione tra “diritto” e “società” finisce per essere de-gradato ad una mera variante empirica di essenze istituite per sempre 1.

1 Un caso esemplare di corretta metodologia dell’astrazione offre Marx ne “Il capi-tale”. Come ha scritto R. Fineschi [Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica. MEGA2 (Roma 2008), 151], «il modello del modo di produzione capitalistico ha una storicità logica immanente, determinata dallo svolgi-mento della dialettica di valore-valore d’uso, dunque ha un principio e una fine che non coincidono con gli avvenimenti dei differenti capitalismi empirici, passati, presenti o prossimi. È storico perché ha un tempo interno. Questo concetto di storia corrisponde in verità alla storicità interna al sistema, alla sua dinamica “logica” di autosuperamen-to» (corsivo mio). Il metodo delle astrazioni determinate consente di elaborare un mo-dello cognitivo astratto, grazie al quale è poi possibile indagare e, ancora prima, rileva-re le singole occorrenze storico-empiriche le quali, dal canto loro, contribuiscono ad arricchire quel modello. In questa prospettiva la storicità dell’oggetto astratto coincide con la sua logica di funzionamento, sicché il suo tempo (e la sua storia) non coincidono con quello, puramente cronologico, dei singoli oggetti concreti. I giuristi, quando si misurano su questa scala, non si preoccupano minimamente di predisporre uno stru-mento di indagine collocato ad un livello medio di astrazione (medio o determinato proprio perché incarnato da un modello che ha saputo attingere la storicità logica del-l’oggetto): essi, infatti, imitano gli economisti classici i quali parlavano di lavoro, valore, proprietà privata come se si trattasse di categorie metastoriche, utilizzabili in ogni tem-po e in ogni luogo. Un esempio di questo modo di ragionare, tanto più significativo quanto più illustre, lo offre, ad avviso di chi scrive, S. Satta, Norma, diritto, giurisdizio-ne, Quaderni del diritto e del processo civile, II (Padova 1969), 3 s. dove viene propo-sta una nozione di diritto non soltanto priva di qualsiasi contenuto storico ma anche (e, anzi, proprio per questo) assolutamente impalpabile (al di là, naturalmente, della forza di suggestione affidata ad una prosa di grande eleganza).

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2. Cenni: al diritto romano arcaico

Nel diritto romano più risalente, ad es., il significato originario del lege agere può essere rintracciato in una urbanizzazione della vendetta privata: qui la posta in gioco, difatti, non è l’applicazione di una regola (di diritto sostanziale, per usare una terminologia a noi familiare) dalla quale far dipendere la risoluzione della controversia, quanto, piuttosto, la ritualizzazione della violenza mediante il suo assoggettamento ad una procedura affidata ad un’autorità munita di poteri che, oggi, diremmo pubblicistici.

Il diritto romano arcaico, dunque, presenta almeno due caratteri che già a prima vista appaiono incompatibili con il nostro modo di vedere l’esperienza del giuridico. Il primo, davvero appariscente, è costituito dalla permanenza di aree, più o meno estese, di uso legittimo della vio-lenza da parte dei singoli membri della comunità: in altri termini, quel diritto non ricava il proprio senso primario dal monopolio della forza, diversamente dal diritto moderno per il quale l’esclusiva della coerci-zione fisica è un tratto ineliminabile della sua identità. Il secondo carat-tere “arcaico” risiede nella netta prevalenza della “procedura” sulla “sostanza”: come già detto, lege agere sta a significare, fondamentalmen-te, una ritualizzazione della violenza attraverso l’uso di formule verbali di chiara matrice magico-religiosa.

Si spiega in questo modo, con ogni probabilità, perché il diritto ro-mano abbia mantenuto, nel corso di una storia plurisecolare, quell’im-pronta processualistica che rappresenta il suo connotato più saliente. Il “giuridico” irrompe sulla scena ed acquista visibilità, agli occhi dell’os-servatore (moderno), nella forma di un rito rigidamente scandito dalla pronuncia di parole sempre eguali che proiettano i due antagonisti ver-so quel reciproco sacramentum dalla decisione intorno al quale dipen-derà la sorte del reus (il quale rischia la vita o, come minimo, la libertà). Ma l’attenzione va portata anche su un altro fenomeno, altrimenti per noi indecifrabile: ovvero, l’istaurarsi e il progressivo rafforzarsi di un or-dine sociale il quale, per il fatto di attingere ad un giacimento di cre-denze magico-religiose profondamente sentite dai cives, può permettersi il lusso di considerare il “diritto” (a sua volta impastato di quelle cre-denze) solo uno dei presidi della sua effettività.

Da questo punto di vista, è difficile immaginare una distanza mag-giore dagli ordinamenti giuridici moderni, sorti sulla base della grande

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rivoluzione scientifica che si compie tra il XVI e il XVII secolo e di una concezione del mondo integralmente demitizzata e desacralizzata (etsi Deus non daretur, come dice Grozio per affermare la validità, a prescin-dere da Dio, del diritto naturale). Il prevalere del paradigma baconiano-galileiano espelle mito e magia dalla realtà umana, ed anche la religione che, fino ad allora, attraverso la mediazione della teologia, aveva propo-sto una chiave di lettura “razionale” del mondo, si ritira in interiore homine, consegnando la fede ad una dimensione puramente individua-le. È su queste presupposti che si sviluppa quel movimento di giuridi-cizzazione del mondo che si presenta, in definitiva, come l’altra faccia dell’autonomia della politica, di cui la dottrina della “ragion di Stato” individua la prima, eclatante epifania.

Su questo torneremo più avanti. Per adesso basterà osservare come l’uso della medesima parola (“diritto”), designando processi di regola-zione sociale che rimandano ad immagini del mondo tanto diverse (un mondo popolato di forze misteriose, da temere, da ingraziarsi e anche da mettere al servizio di un’esigenza basilare di disciplinamento, attra-verso il rito, della violenza; un mondo vuoto, abitato solo da regolarità naturali ormai perfettamente intellegibili e, dunque, nella piena dispo-nibilità di attori solo umani) possa ambire ad un statuto di mera stipula-tività, ma non certo individuare oggetti omogenei.

3. … e al diritto romano classico

L’evoluzione successiva del diritto romano pone capo, nell’età classi-ca della giurisprudenza (II sec. a.C.; I-II secc. d.C.) ad un assetto istitu-zionale dominato dalla figura del praetor (urbanus e peregrinus) a fianco del quale, in una scena che il Corpus iuris civilis e la tradizione romani-stica trasformeranno in un modello di perfezione, si trovano, da un lato, i giuristi, dall’altro lato i cives (e i peregrini) intenti ai loro negotia.

La predisposizione dell’Editto, a monte, e la concessione della for-mula, a valle, sono i due momenti attraverso i quali il pretore contribui-sce, in un sistema caratterizzato da una incidenza complessivamente modesta delle fonti pubblicistiche, alla creazione di un ordine giuridico dei privati. Come è noto, questa peculiare modalità di regolazione giu-ridica nel corso dei secoli ha richiamato l’attenzione della dottrina giu-ridica: un’attenzione che, a partire dall’Ottocento, specie in Germania,

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Capitolo Terzo – Intermezzo sul diritto soggettivo 37

ha preso le forme di un dibattito intorno allo statuto logico della norma pretoria: se, quest’ultima, in altri termini, adottasse la prospettiva del diritto soggettivo, oppure quella dell’azione.

Senza nulla voler togliere ad una discussione di straordinaria ric-chezza culturale, sebbene talora un po’ripetitiva, è del tutto evidente (in primo luogo, ormai, alla romanistica odierna che sembrerebbe essersi emancipata da qualsiasi velleità “attualizzante”) che la pretesa di ingab-biare l’Editto dentro l’alternativa, tutta moderna, tra “diritto soggetti-vo” e “azione”, manca di qualsiasi fondamento. E questo per una ragio-ne abbastanza semplice, che ora proveremo ad illustrare.

4. L’Editto e noi

Nella società romana, come in tutte le società precapitalistiche, poli-tica ed economia sono nettamente separate. Questa affermazione non va presa alla lettera: la storia di Roma è costellata di numerosi episodi che, per usare una terminologia ipermoderna, possono essere iscritti en-tro l’orizzonte di policy promercantili. La stessa istituzione della pretura peregrina si lascia spiegare in questa chiave: Roma è ormai un mercato-mondo, il ius civile non può essere liquidato ma, in pari tempo, rappre-senta un ostacolo allo sviluppo di commerci su una scala transcittadina; da qui la devoluzione ad un organo giurisdizionale speciale della com-petenza relativa ai rapporti tra cives e non cives e il consolidarsi di un corpo normativo autonomo (il ius gentium). Aggiustamenti di questo tipo, assecondati da una politica appena lungimirante in funzione dei bisogni della sfera economica, non hanno nulla a che vedere, però, con il disegno, davvero titanico, di conformazione di quella stessa sfera a misura della produzione capitalistica, perseguito e attuato dalla borghe-sia europea nei secoli tra il XVII e il XIX, fondamentalmente attraverso la mediazione del diritto.

Il punto è che nell’antichità e, dunque, anche a Roma, l’economia (che, in larga misura si identificava con il mercato degli scambi) era og-getto di una regolazione che, per distinguerla da quella moderna, po-tremmo dire ricognitiva. Questo significa che l’Editto era il luogo depu-tato a recepire il diritto dei privati il quale essendo, dal canto suo, una realtà dinamica, richiedeva correzioni e integrazioni continui. In altre parole, il Pretore, avvalendosi anche dell’ausilio dei giuristi, si faceva

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carico di rendere giustiziabili (o, anche, di escludere la giustiziabilità – denegatio actionis – o anche di paralizzare – exceptiones –) le pretese delle parti allorché i loro negotia non fossero andati pacificamente a buon fine. Il processo come modalità elettiva di giuridicizzazione dei rapporti sociali rispecchia un’idea profondamente radicata nella menta-lità romana, per la quale l’esercizio dell’autorità è finalizzata, in primo luogo, alla soluzione di una controversia 2. Del resto, come abbiamo vi-sto, era così già l’arcaico lege agere e questa impronta, per così dire arbi-trale, rimane una costante che si appannerà solo negli ultimi secoli quando la produzione del diritto incrocerà una traiettoria centralizza-trice.

Già questo dovrebbe essere sufficiente a spiegare la ragione per la quale la coppia diritto soggettivo/azione non è di alcun aiuto per com-prendere il senso autentico della sintassi giuridica dell’Editto. L’uso di quella concettuologia, infatti, presuppone la integrale colonizzazione della realtà sociale ad opera del diritto il quale si impadronisce di spazi sin lì occupati da mondi vitali contigui, ma non assimilati, al “giuridi-co” 3. Per dirla in breve, con la modernità, il diritto dei privati diventa il diritto privato e tramonta, di conseguenza, ogni possibilità di inquadra-

2 Qui si impone una precisazione. L’uso del termine “giuridicizzazione” nella corni-ce del ragionamento sviluppato nel testo è il classico lapsus in cui può incorrere il giuri-sta moderno, per il quale, inevitabilmente, “giuridicità” è sinonimo di “coercibilità” [lo dice benissimo G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (Roma-Bari 1979), § 94: «Il diritto astratto è un diritto di violenza, poiché il torto contro il medesimo è una violenza contro l’esistenza della mia libertà, in una cosa esteriore; la conservazione di quest’esistenza, di fronte alla violenza, è, per ciò stesso, come un’azione esterna e come una violenza che annulla quella prima»: ed Hegel è un testimone molto attendibile proprio per la sua straordinaria capacità di ricapitolare e rivelare la sintassi profonda del tempo moderno]. Per i Romani, viceversa, “giuridico” è franto in due segmenti: la prassi dei cives (e, poi, dei peregrini) e il processo (che, difatti, è congegnato, almeno sino ad un certo punto della vicenda storica in modo da adattarsi a quella matrice). È vero, poi, che la controprassi (quella dei praetores) si consolida, attraverso gli Editti fino al Perpetuum, in modo da alterare gli originari rapporti di forza al punto che sa-ranno i cives (e i peregrini) ad adattarsi al canone pretorio. Discorso in parte diverso andrebbe fatto per il ius civile: v. E. Betti, La creazione del diritto nella “iurisdictio” del pretore romano, Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda (Padova 1927), 67 s. Resta il fatto che quell’impronta rimane indelebile e ogni tentativo di usar-la contro il “moderno” (per il quale l’idea stessa di un’articolazione del “giuridico” ri-sulta semplicemente inconcepibile) è puro folklore intellettuale.

3 V. la nt. precedente.

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Capitolo Terzo – Intermezzo sul diritto soggettivo 39

re il processo dentro uno schema di tipo arbitrale. Il processo moderno viene investito della funzione di applicare una regola istituita dallo stes-so potere (lo Stato) di cui quella funzione è un’epifania: e questo accade perché, in pari tempo, l’autonomia privata diventa oggetto di una disci-plina giuridica minuziosa e “preventiva” di cui, appunto, il processo rappresenta un mero prolungamento (di quella disciplina, non dell’au-tonomia privata, come invece era proprio dell’esperienza romana) 4.

5. Noi e l’Editto

La sovrapposizione del diritto privato al diritto dei privati 5 e la

4 I riferimenti al diritto romano si giustificano in ragione della sua esemplare distan-za dal paradigma del moderno diritto statuale. Comunque, una lettura fondamentale, per chiunque sia interessato a gettare un primo sguardo sulla legis actio sacramento in rem – un vero laboratorio dell’arcaico – è R. Santoro, Potere ed azione nell’antico diritto romano, AUPA, XX, 1967, 103 s. Per una visione d’assieme, B. Albanese, Premesse allo studio del privato romano (Palermo 1978), 7 s. Sul processo formulare, l’Editto, la con-cessione della formula, v. C.A. Cannata, Profilo istituzionale del processo privato roma-no, II. Il processo formulare (Torino 1983), 1 s. Sul rapporto tra diritto soggettivo e azione l’ovvio richiamo è a G. Pugliese, Actio e diritto subiettivo (Milano 1939) (rist. Napoli 2006). Un bilancio (che è anche un congedo) del dibattito successivo alla mo-nografia di Pugliese in E. Stolfi, Riflessioni attorno al problema dei “diritti soggettivi” fra esperienza antica ed elaborazione moderna, Studi senesi, 2006, 120 s. Importanti nota-zioni anche in M. Brutti, Il “vadimonium” nelle azioni nossali, RISG, 1970, nt. 24.

5 Nel testo il “diritto dei privati” è distinto dal “diritto privato”: entrambe le locu-zioni sono usate secondo il significato propostone da W. Cesarini Sforza, Il diritto dei privati (Milano 1963), 3 s. (ma il libro apparve nel 1929), per il quale l’espressione “di-ritto privato” «denota un complesso di volontà statuali miranti a regolare rapporti tra persone private, il diritto dei privati, invece, pur regolando rapporti tra persone private (e, qualche volta, quegli stessi rapporti che sono già regolati dal diritto privato anche pubblico), non emana dallo Stato, né immediatamente né mediatamente» (corsivi del-l’A.). Il senso e il compito di ciò che chiamiamo “giurisdizione” variano completamen-te a seconda che essa si metta al servizio del “diritto dei privati” oppure del “diritto privato”. In quest’ultimo caso, infatti, la validità dell’atto di autonomia privata è un puro travaso del comando statuale (si rammenti il disposto dell’art. 1372, co. 1), sicché il processo è sempre questione dell’applicazione di una norma ad un fatto. Nel primo caso, viceversa, la giurisdizione è in presa diretta con l’atto negoziale o, nella prospetti-va dell’Editto, con l’intero mondo delle transazioni private, di cui il pretore deve ne-cessariamente tenere conto per accordare o denegare l’azione e l’eccezione. In altre pa-role, manca qui il medium rappresentato dal precetto legislativo istitutivo della condi-

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 40

completa omogeneizzazione, all’insegna del monopolio statale della re-golazione giuridica, di autonomia privata e processo, trovano posto dentro la cornice di una potentissima ideologia la quale, abbastanza cu-riosamente, assume come un dato oggettivo ciò che, viceversa, costitui-sce il risultato di una gigantesca tecnologia istituzionale: ovvero, il mer-cato capitalistico.

Lo statuto ontologico di quest’ultimo è avvolto, ancora oggi, nel mi-stero. Da un lato, esso viene presentato come un dispositivo naturale (basti pensare alla “mano invisibile” di Adam Smith); dall’altro, però, la sua istaurazione esige una sintassi giuridica del tutto inedita, non tanto dal punto di vista dei contenuti, per i quali si attinge a piene mani alla tradizione romanistica, quanto, piuttosto, delle forme che, in un primo momento, sono concetti generali ed astratti e poi enunciati normativi altrettanto generali ed astratti.

Ora, questa imponente opera di ridefinizione delle categorie del “giu-ridico” – che passa attraverso la fondazione di una nuova scientia iuris (la Pandettistica), e l’allestimento di una nuova tecnica legislativa (il codice civile) – trova il suo baricentro in un’astrazione potentissima, a partire dalla quale il diritto privato si struttura in un sistema logicamente coeren-te. Parliamo del “soggetto”, condizione stessa della pensabilità di transa-zioni economiche seriali, immediatamente convertite in rapporti giuridici governati dalla sola volontà delle parti. Il moderno “soggetto di diritto” è il frutto della ibridazione di ragione giusnaturalistica (l’“uomo” e le sue innate prerogative) e di ragione statualista (la pervasività del “giuridico” come irrinunciabile garanzia di quelle prerogative): suo tramite si compie quel disegno di integrale giuridicizzazione ab extrinseco della realtà socia-le che trasforma il processo in una funzione dell’autonomia privata “posi-tivizzata”. Un chiaro riscontro di tutto questo offre il ruolo attribuito dal-la dottrina giuridica alla volontà, che da mero presupposto empirico della attendibilità di un impegno contrattuale si trasforma nell’architrave stessa di una teoria degli atti di autonomia privata imperniata sul negozio giuri-dico (Rechtsgeschäft, Willenserklärung).

È importante sottolineare come la cattura, ad opera di una normazio-ne giuridica “sovrana”, delle persone, della loro volontà, del loro agire, pur vestendo i panni di un’apologia del “soggetto” e delle sue “libertà”,

zione di validità il quale, da un lato, trasforma l’accordo dei privati in un fatto e, dal-l’altro lato, il processo in un prolungamento della legge.

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Capitolo Terzo – Intermezzo sul diritto soggettivo 41

si risolva, a ben vedere, in una gigantesca manovra di oggettivazione e fis-sazione in strutture normative permanenti di spezzoni di una dinamica sociale fluida, per lungo tempo affidata, viceversa, a meccanismi di auto-regolazione. Sarebbe un grave errore, tuttavia, pensare che quella che abbiamo chiamato, con formula breviloquia e di necessità approssimati-va, “conversione del diritto dei privati in diritto privato”, sia vicenda estranea ad un’ottica promozionale della libertà. Tutto sta, però, ad in-tendersi su cosa debba intendersi per libertà (ed i suoi presupposti an-nessi e complementi: soggetto, volontà, diritto soggettivo, atto giuridico).

Dobbiamo a Benjamin Constant la distinzione della libertà dei mo-derni da quella degli antichi 6. Si tratta di una distinzione per molti aspetti condivisibile (ad es., l’idea “antica” di libertà, nei termini in cui viene presentata da Constant, fornisce una conferma indiretta di quanto si diceva più sopra a proposito della netta separazione della sfera politi-ca da quella economica tipica di quelle società): tuttavia, essa non sem-bra tenere conto e, comunque, non fino in fondo, della circostanza che la libertà dei moderni non è un attributo naturale del soggetto garantito dal diritto positivo (sebbene l’ideologia liberale la presenti esattamente così: ma una caratteristica inconfondibile di questa ideologia è il suo giocare con un doppio registro, quello giusnaturalista e quello giusposi-tivista), quanto, piuttosto, il riflesso (o il portato) di un dispiegamento della (immensa) forza regolatrice posseduta dallo Stato che si estende sino a coprire l’intera area delle relazioni sociali coincidente con i rap-porti di mercato. In altri termini, è vero, come osserva Constant, che la libertà dei moderni è una liberta giuridica: ma ciò, lo si è già detto, non solo nel senso che essa è garantita dal diritto ma anche, e fondamental-mente, nel senso che essa è istituita dal diritto. Dietro la libertà dei mo-derni, a ben vedere, sta la maieutica borghese delle forze di mercato, amministrata dallo Stato e dalla sua esclusiva sul diritto: in questa pro-spettiva la libertà assume i connotati di una infrastruttura dell’economia capitalistica, integralmente denaturalizzata e conformabile per rapporto alle esigenze di quest’ultima, come testimoniato dalle forme che ne hanno accompagnato l’evoluzione negli ultimi tre secoli 7.

6 Il riferimento è, naturalmente, a B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni (Torino 2005) (si tratta del testo di una conferenza tenuta al-l’Athénée Royal nel 1819).

7 La dissoluzione di nozioni (come “persona”, “libertà”, “diritto”), che si pensavano

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 42

6. Conclusioni

Arrivati sin qui, potremmo legittimamente interrogarci quanto al modo in cui tutto questo si colleghi al problema da cui abbiamo preso le mosse, ovvero il rapporto tra diritto soggettivo e giurisdizione. La ri-sposta all’interrogativo, però, è abbastanza semplice, e il senso del no-stro discorso può ricavarsi, ancora una volta, dal confronto tra due mo-delli – quello romano e quello moderno – caratterizzati da una conce-zione e da una pratica del processo radicalmente differenti.

Nel primo caso, infatti, il processo è complemento dell’autonomia privata rispetto alla quale svolge una funzione arbitrale; nel secondo ca-so, viceversa, il processo è complemento della regolazione coattiva (isti-tuita dallo Stato) dell’autonomia privata: e ciò deve intendersi nel senso che il processo moderno è il luogo nel quale la soluzione della contro-versia è l’inevitabile effetto dell’applicazione della norma disciplinatrice dell’affare, mentre nel processo romano, almeno fino ad un certo stadio del suo sviluppo, tanto la regola edittale, quanto la concessione della formula sono molto più simili ad una sorta di convenzione d’arbitrato, a formazione progressiva e culminante nella litis contestatio. Trovano così spiegazione almeno due grandi narrazioni radicate nell’ideologia giuri-dica moderna – la sentenza come concretizzazione della norma generale ed astratta; il giudice bouche de la loi – che, ovviamente, non potrebbe-ro mai trovare cittadinanza in sistemi nei quali il giudizio è il frutto del-l’uso di criteri di valutazione immanenti allo stesso atto di autonomia privata. Ma si spiega in tal modo anche perché la questione attorno alla

dotate di una qualche “sostanza”, in sottoinsiemi di norme attributive di diritti sogget-tivi o di doveri giuridici (come dice H. Kelsen, «Essere persona» o «avere la personali-tà giuridica» coincide con l’avere doveri giuridici o diritti soggettivi» [La dottrina pura del diritto (Torino 1975) 197] è la pura e semplice verità del giuridico moderno. Essersi scagliati contro questa verità, addossando al positivismo giuridico e alla sua elabora-zione teorica più coerente e compiuta, la reine Rechtslehre, appunto, la responsabilità morale dei grandi orrori del XIX secolo, a cominciare dal nazismo, ha segnato uno scadimento della facoltà di giudizio sino ai limiti del vaniloquio. Basterà ricordare che per Mengoni, giurista inquieto e tutt’altro che ortodosso, «il vincolo del diritto positivo a valori metalegislativi, il rinvio ad essi come misure di “diritto giusto”, a principi rego-lativi dell’attività di formazione delle leggi e dell’attività giurisprudenziale di sviluppo del diritto positivo per la soluzione di nuovi problemi di decisione» presuppone, ov-viamente, la sua positivizzazione attraverso un «atto di volontà dello stato espresso nel-la legge fondamentale» [L. Mengoni, Diritto e valori (Bologna 1985), 6-7].

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Capitolo Terzo – Intermezzo sul diritto soggettivo 43

quale si è a lungo travagliata la dottrina romanistica – se sia possibile postulare un’autonomia del diritto soggettivo rispetto all’azione prefi-gurata nell’Editto e accordata con la formula – è proprio fuori quadro. Infatti, un discorso di questo genere presuppone un eguagliamento del-le due figure, la loro appartenenza al medesimo ordine, anche simboli-co, che nella modernità è quello istituito dalla legge, mentre non si vede chi, o cosa, nell’esperienza giuridica romana – contrassegnata da un alto grado di policentrismo regolatorio – possa credibilmente candidarsi ad interpretare quel medesimo ruolo. È certo ben possibile che, pervenuta ad un certo stadio del suo sviluppo, l’elaborazione dei giuristi abbia at-tinto frammenti di un discorso congegnato secondo cadenze che, oggi, noi, saremmo inclini ad inquadrare entro lo schema del diritto soggetti-vo come categoria distinta dall’azione (cioè, visibile su un terreno pre-processuale). In ogni caso, ammesso pure che questo sia vero, si tratta di un dato apprezzabile fondamentalmente sul piano culturale, non in grado di scalfire un assetto istituzionale a cui è estranea l’idea che l’esito di una controversia tra privati possa essere deciso dalla allocazione, previa e autoritativa, di un “diritto”.

Con quest’ultima osservazione, il nostro breve ragionamento può dirsi concluso. Il “giuridico” moderno non è soltanto totale, ma è anche totalitario: esso, cioè, non si limita a penetrare, in guise diverse (leggi, senatoconsulti, plebisciti, editti, pareri, negozi) gli innumerevoli inter-stizi del mondo della vita, ma lo fa secondo un’unica modalità (la legge dello Stato) che lascia fuori di sé soltanto ciò che essa decide di lasciare fuori di sé. Orbene, il diritto soggettivo è il luogo concettuale in cui precipita e, al contempo, prende forma il monismo normativo degli or-dinamenti giuridici statualizzati: il compito ad esso attribuito è quello di trasferire dentro il processo, privandolo, nella sostanza, di ogni auto-nomia, tutto il peso della validità somministrata alle transazioni indivi-duali, ovvero, in definitiva, di replicare e di riaffermare nel giudizio l’in-violabilità del precetto legale.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 44

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Capitolo Quarto – Cosa significa “risarcire un danno”? 45

CAPITOLO QUARTO

COSA SIGNIFICA “RISARCIRE UN DANNO”?

SOMMARIO

1. Danno e risarcimento. – 2. Tutela reale e tutela risarcitoria. – 3. Segue. – 4. L’ingiu-stizia del danno. – 5. Dagli “interessi giuridicamente protetti” agli “interessi giuridica-mente rilevanti”: breve storia della responsabilità civile. – 6. Il risarcimento del danno in forma specifica. – 7. Il risarcimento del danno non patrimoniale. – 8. Punire senza sorvegliare: la responsabilità civile “afflittiva”. – 9. Conclusioni.

1. Danno e risarcimento

Un’altra espressione di uso molto frequente nel linguaggio giuridico è “risarcire un danno” (e i suoi derivati, a cominciare da “risarcimento del danno”). Dei due morfemi, quello caratterizzato dal più elevato grado di ambiguità è “danno”, mentre “risarcimento” è, per così dire, neutro, nel senso che, apparendo esso sempre in correlazione a “dan-no”, il suo significato dipenderà dal modo in cui viene risolto il pro-blema del significato di “danno”. Una buona base di partenza tanto per individuare l’ordine di questioni con le quali ci si deve misurare, quanto per porre le basi di una possibile soluzione è rappresentata dall’art. 2043 (intitolato «risarcimento per fatto illecito»), a mente del quale «qualunque fatto doloso o colposo cagioni ad altro un danno ingiusto, ob-bliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno». Prima di passa-re all’esame del profilo per noi più importante – quello del significato di “danno” – è opportuno richiamare l’attenzione sulla rubrica dell’art. 2043, dove “risarcimento” è congiunto a “fatto illecito” attraverso la preposizione “per” che, qui, introduce un complemento di causa (come

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 46

nella frase “tremare per il freddo”). Il “fatto illecito”, in altre parole, è la causa del “risarcimento” o, come si ricava dalla lettura dell’intera di-sposizione normativa, dell’obbligo di risarcire il danno: ciò che, del re-sto, trova conferma nell’art. 1173 dove il “fatto illecito”, insieme con il contratto, figura tra le fonti nominate dell’obbligazione.

Dunque, si può dire, almeno in via di prima approssimazione, che il “risarcimento” individui un effetto giuridico la cui fattispecie è costitui-ta dal “fatto illecito”. Ora, se questa può essere considerato un’acquisi-zione sul piano formale, ovvero della c.d. nomodinamica (un’acquisizio-ne, tra l’altro, come già detto, anticipata dalle risultanze dell’art. 1173), ancora nulla ci è dato sapere quanto alla sostanza del fenomeno risarci-torio, totalmente dipendente da come si riterrà di intendere “danno”. Il punto è che, nel corpo dell’art. 2043 la parola “danno” ricorre due vol-te, sicché è necessario, in primo luogo, stabilire se si tratta del medesi-mo “danno” oppure di due modi diversi di usare la medesima parola 1. Per provare a risolvere questo ulteriore problema (alla luce del quale l’art. 2043, per il modo in cui è formulato, ci appare, almeno a questo stadio del discorso, un po’ meno affidabile), è necessario allontanarsi (solo temporaneamente e solo in parte, per le ragioni che vedremo da qui a breve) dal territorio del fatto illecito (extracontrattuale o aquilia-no) e indirizzarci verso quello della responsabilità del debitore (o, come si continua a dire, in omaggio ad un uso linguistico consolidato ma non immune da ambiguità, della “responsabilità contrattuale”) dove, all’art. 1223 (intitolato proprio “risarcimento del danno”) troviamo enunciata la seguente disposizione: «Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta».

Nella prospettiva dell’art. 1223, l’obbligo di risarcire il danno è una conseguenza dell’inadempimento, mentre in quella dell’art. 2043, esso è la conseguenza del fatto illecito. Il punto è indubbiamente molto rile-vante e sul valore di questa differenza torneremo nel prosieguo del di-scorso. Adesso, però, noi dobbiamo concentrarci sulla questione da cui

1 C. Castronovo, La nuova responsabilità civile (Milano 2006), 3. Come emergerà dal prosieguo del discorso (§ 4), la prima occorrenza di danno sta a designare il carattere illecito dell’interferenza, presupposto indefettibile della rilevanza e, dunque, della ri-sarcibilità del danno nel significato proprio della seconda occorrenza (perdita patri-moniale o anche esistenziale).

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Capitolo Quarto – Cosa significa “risarcire un danno”? 47

abbiamo preso le mosse (“cosa significa risarcire un danno”) e, in rap-porto a tale questione, il contributo dell’art. 1223 risulta davvero decisi-vo, per due ragioni: la prima di ordine dogmatico, la seconda di ordine sistematico. Sotto il profilo dogmatico, è del tutto chiaro che, a meno di non volersi esporre al rischio di un grave errore logico, l’art. 1223 ci fornisce, puramente e semplicemente, tutti gli elementi necessari a comprendere cosa significhi risarcire un danno, identificandosi tali ele-menti con i due criteri in base ai quali il “danno” (risarcibile) andrà ac-certato e valutato: ossia, la “perdita subita” (il danno emergente) e il “mancato guadagno” (il lucro cessante). In sostanza, dunque, non po-tendo immaginare che vi sia un “oltre”, rispetto ai due criteri dettati dalla legge, il quale, metafisicamente, identifichi il danno, è giocoforza concludere che quest’ultimo, non essendo altro dal danno emergente e dal lucro cessante, individui un accadimento che può essere descritto solo nei termini di una diminuzione, o perdita, patrimoniale subita dal danneggiato.

Dal punto di vista sistematico, è cruciale la circostanza che l’art. 1223, venga richiamato, insieme agli artt. 1224 e 1227, dall’art. 2056 (in-titolato “valutazione dei danni”) a mente del quale «Il risarcimento do-vuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli arti-coli 1223, 1226 e 1227. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso». Il collegamento in tal modo istituito con la materia della responsabilità contrattuale permette, anzi, impone, di concludere che la nozione legale di danno (allorché quest’ul-timo designi una perdita patrimoniale) riveste un carattere unitario, nel senso che il suo modo di essere prescinde totalmente dai presupposti di volta in volta richiesti dalla legge ai fini della sua risarcibilità. In altri termini, a seconda dei casi (i quali, poi, in definitiva, sono due: l’inadem-pimento e il fatto illecito), le condizioni di risarcibilità del danno varia-no, ma ciò che viene risarcito è sempre eguale a se stesso, e coincide, appunto, con una perdita patrimoniale.

Può dirsi ora acquisito, salvo gli ulteriori, necessari approfondimenti, che risarcire un danno significa corrispondere alla vittima una somma di denaro di importo pari al valore del segmento di patrimonio inciso dall’illecito; e che il mezzo tecnico di cui la legge si avvale a questo fine è rappresentato dall’obbligazione. In altre parole, l’illecito aquiliano provoca la nascita di un diritto nuovo, il diritto al risarcimento del dan-no; là dove lo spoglio e l’inadempimento – le due forme di illecito esa-

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 48

minate nel capitolo precedente – hanno come sola conseguenza quella di radicare in capo al proprietario e al creditore l’interesse ad agire proiettando il diritto soggettivo, ormai vestito dei panni dell’azione, verso il processo. Si tratta di una differenza molto importante, la quale mette in luce il diverso modo di atteggiarsi della tutela giurisdizionale a seconda che la posta in gioco sia l’“attuazione di un diritto” o il “risar-cimento del danno”. Nel prossimo § vedremo perché.

2. Tutela reale e tutela risarcitoria

Come si ricorderà, secondo l’art. 2907 «alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria su domanda di parte e, quando la legge lo disponga, su istanza del pubblico ministero». Nel primo capitolo ci siamo a lungo soffermati su questa disposizione per illustrarne i nessi che la legano all’art. 1322, co. 2 e all’art. 1325 (ovvero al regime delle condizioni di validità degli atti di autonomia privata) nel quadro di una prospettiva rigorosamente “coercitivista” dell’ordinamento giuridico. Allora, il nostro scopo era quello di dimostrare che “validità” e “tutela” (giurisdizionale: se si preferisce, “processo”) sono due facce della mede-sima medaglia e che le norme regolatrici dell’una e dell’altra sono diret-ta emanazione del monopolio statuale della violenza. Qui, invece, dob-biamo concentrarci proprio sull’art. 2907 il quale è formulato in modo da non lasciare dubbi circa il fatto che si goda della legittimazione ad agire (una delle condizioni dell’azione insieme con l’interesse ad agire) solo quando l’attore affermi di essere titolare di un diritto soggettivo. Ora, nel caso dello spoglio e dell’inadempimento questa condizione è sicuramente soddisfatta trattandosi di illeciti collegati alla lesione di un diritto di proprietà (e, più in generale, di un diritto reale) o di un diritto di credito. Non altrettanto può dirsi per l’illecito aquiliano il quale non implica affatto la lesione di un diritto soggettivo 2 quanto, piuttosto, un

2 Nel senso in cui ne abbiamo parlato a proposito del modo in cui va intensa la for-mula “attuazione di un diritto”, ossia come rimozione di uno stato di cose incompatibile con la direttiva di inviolabilità immanente al diritto soggettivo. Si rammenti, poi, che quest’ultimo può subire aggressioni anche meno invasive dello spoglio o dell’inadem-pimento che, però, al pari di questi ultimi, vanno rimosse attraverso rimedi appropriati (v. Cap. II, § 3).

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Capitolo Quarto – Cosa significa “risarcire un danno”? 49

danno, ossia la perdita di valore del patrimonio del danneggiato. Un esempio può aiutare ad intendere il senso di questo discorso. L’art. 948 – il quale contempla l’azione di rivendicazione della proprietà – preve-de che l’autore dello spoglio, oltre a restituire la cosa sottratta (o a cor-risponderne l’equivalente monetario) sia anche tenuto a risarcire il danno patito dal dominus a seguito della privazione del bene. Orbene, in questo caso, mentre ai fini del recupero della cosa all’attore dovrà affermare e dimostrare di essere il proprietario del bene e allegare l’av-venuto spoglio, ai fini del risarcimento egli dovrà invocare il diverso di-ritto al ristoro della perdita patrimoniale, che da quello di proprietà è distinto anche se ad esso collegato secondo modalità che esamineremo più avanti 3.

Un altro caso interessante è quello del risarcimento del danno deri-vante dalla violazione di una norma antitrust (art. 33, co. 2 della l. 287/1990). Oggi, a seguito del recepimento della dir. 2014/104/UE, l’or-dinamento interno contempla la possibilità che chiunque abbia subito un danno a causa della violazione del diritto della concorrenza possa agire per il risarcimento del danno (art. 1, co. 1 del d.lgs. 3/2017). Sor-voliamo sull’obiettivo che il legislatore europeo ha inteso perseguire estendendo al consumatore finale la tutela risarcitoria (il private enfor-cement che, nel disegno comunitario, dovrebbe affiancarsi al public en-forcement per assicurare il massimo grado di effettività alla disciplina antitrust); e anche sul modo in cui è stata articolata la strumentazione tecnica attraverso la quale quell’obiettivo dovrebbe essere raggiunto 4. Interessa, qui, piuttosto, sottolineare come il consumatore finale, ex an-te, ovvero prima del perfezionarsi dell’illecito antitrust, non vanti nei confronti dell’impresa alcun diritto che possa essere azionato autono-mamente da quello al risarcimento del danno: il quale, dal canto suo, prenderà corpo solo quando la violazione avrà avuto luogo. Ancora. Nelle loro celebri pronunzie del 2008, le SS.UU. della Cassazione han-no sposato la tesi secondo cui quella risarcitoria sarebbe la forma di «tutela minima» destinata a presidiare quei diritti (o valori, o interessi: la terminologia è alquanto incerta) di rango costituzionale per rapporto

3 E l’onere probatorio che grava sul proprietario è ben più impegnativo di quello che grava sul creditore (Cap. V, § 12).

4 Al riguardo v. E. Camilleri, Il risarcimento per violazioni del diritto della concorren-za: ambito di applicazione e valutazione del danno, Nuova giur. civ. comm., 2018, 143 s.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 50

ai quali non è rinvenibile nel sistema altra modalità di protezione 5. Nei casi appena menzionati, ancor più che in quello avuto presente

dall’art. 948, appare chiaro come il diritto fatto valere in giudizio dal danneggiato non sia la traduzione in potere d’azione di un diritto sog-gettivo riconosciuto in precedenza, quanto piuttosto un diritto nuovo, di cui la vittima dell’illecito dichiara di essere titolare in ragione di un danno (o, per meglio dire, di un fatto illecito produttivo di un danno), all’accertamento del quale l’intero processo sarà consacrato.

Il punto è questo. Il diritto di proprietà e il diritto di credito descri-vono stati di cose finali, o compiuti. Il proprietario gode della cosa, il creditore attende la prestazione dovutagli dal debitore (e, medio tempo-re, può comunque trarre delle utilità dal suo diritto, ad es., cedendolo ad un terzo oppure iscrivendolo in bilancio). Nel loro caso, la reazione all’illecito è esercizio di un potere intrinseco alla situazione di vantaggio accordata al titolare: un potere che veste i panni dell’azione solo per af-frontare la parentesi del processo. Non altrettanto può dirsi per il dirit-to al risarcimento del danno, il quale non esiste prima che l’illecito sia stato accertato in giudizio (tanto è vero che, come abbiamo già più volte ricordato, il fatto illecito è fonte di obbligazione ex art. 1173) 6. In altri termini, nella misura in cui il risarcimento è puro rimedio compensativo della perdita patrimoniale subita dal danneggiato, esso è del tutto ec-centrico rispetto alla sequenza “diritto soggettivo-potere d’azione” che, viceversa, domina l’orizzonte della tutela là dove si tratti di ripristinare uno stato di cose conforme alla promessa di inviolabilità che accompa-

5 V. infra, nt. 24. 6 Bisogna chiedersi come mai il «fatto illecito» di cui parla l’art. 1173 venga comu-

nemente inteso quale sinonimo di “illecito aquiliano”. In linea puramente teorica, in-fatti, anche lo spoglio potrebbe essere considerato come fonte di un’obbligazione e, in specie, dell’obbligazione di restituire la cosa sottratta al dominus. Se questo non acca-de, è perché questa obbligazione restitutoria è, in realtà, solo un pallido riflesso del di-ritto del proprietario, e della sua esistenza è possibile accorgersi solo in sede processua-le, attraverso la specola della condanna, prima, e dell’esecuzione forzata, poi (il discor-so vale, a maggior ragione, per l’inadempimento in costanza della possibilità della pre-stazione, il quale, al netto del risarcimento del danno, non modifica in nulla lo stato di cose preesistente). La rilevanza accordata all’illecito aquiliano come specifica fonte di obbligazione, in altre parole, è il segno più chiaro della impossibilità di ravvisare, al-meno nella sua fase genetica, un diritto soggettivo separabile dal fatto lesivo cui esso pone rimedio.

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Capitolo Quarto – Cosa significa “risarcire un danno”? 51

gna il riconoscimento del diritto. In luogo di quella sequenza troviamo qui, in posizione di netta eminenza, il potere d’azione dietro il quale si intravede, ma solo allo stato larvale, la pretesa risarcitoria che, però, as-sumerà i tratti di un’entità giuridica definita solo alla fine del processo, allorché il convenuto, in seguito all’accertamento dell’illecito e del dan-no, verrà condannato a ristorare la controparte 7.

Tutto questo si spiega perché, in realtà, la locuzione “tutela giurisdi-zionale dei diritti” è ingannevole, o, quanto meno, ambigua come spes-so accade alle formule breviloquie. Il processo, infatti, come si è appena visto, non serve solo ad “attuare un diritto” (tutela reale), ma può servi-re anche a ristorare una perdita patrimoniale (tutela risarcitoria). Questi due impieghi della tutela sono, tra loro, molto differenti perché, appun-to, nel primo caso, la finalità perseguita è il ripristino dello stato di fatto conforme alle prerogative accordate al titolare del diritto 8, mentre, nel secondo caso, la finalità perseguita è il ripristino della integrità del pa-trimonio.

3. Segue

Il diritto al risarcimento del danno, come si è visto nel precedente §, è uno strano diritto soggettivo il quale possiede tutte le caratteristiche di un diritto di credito ma che, a differenza dei diritti di credito scatu-

7 Sul punto v. infra, § 3. 8 Lo spoglio e l’inadempimento non privano il proprietario e il creditore del loro di-

ritto: semplicemente ne pregiudicano l’esercizio istituendo uno stato di fatto sconnesso rispetto al Sollen incorporato in quel diritto. Tutela reale vale quanto dire, appunto, riallineamento del Sein al Sollen. La tutela risarcitoria, come vedremo da qui a breve, obbedisce ad una logica molto più complessa perché non ripristina un diritto ma lo attribuisce ex novo (il diritto al risarcimento del danno). La definitiva messa in chiara della distinzione tra risarcimento (di un danno) e reintegrazione (nel nostro vocabola-rio: attuazione, di un diritto) si deve a Renato Scognamiglio di cui si vedano almeno Il risarcimento del danno in forma specifica, Riv. trim. dir. proc. civ., 1957, 206 ss. e la vo-ce Illecito (diritto vigente), Noviss. Dig. it., VIII (Torino 1962), 164 [ora entrambi in R. Scognamiglio, Responsabilità civile e danno (Torino 2010), rispettivamente alle pagine 250 s. e 14 s.: ma anche gli altri contributi in tema di responsabilità contrattuale ed ex-tracontrattuale raccolti in questo volume meriterebbero di essere studiati]. Più di re-cente si v. V. Scalisi, Illecito civile e responsabilità: fondamento e senso di una distinzio-ne, Riv. dir. civ., 2009, 657 s.

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renti da un contratto, non è strumentale all’acquisizione di una nuova utilità, bensì al ristoro di una perdita (patrimoniale o non patrimoniale). Una volta accertatane l’esistenza e condannato il convenuto al paga-mento della somma compensativa (salvo che non ricorrano i presuppo-sti di una riparazione in forma specifica ex art. 2058), esso si comporte-rà come un qualsiasi altro diritto di credito, suscettibile di attuazione coattiva nelle forme dell’esecuzione per espropriazione, trattandosi, in linea di massima, di prelevare dal patrimonio del debitore una certa quantità di denaro. Il modo del tutto peculiare di atteggiarsi del diritto al risarcimento del danno si manifesta, però, ex ante, ossia proprio al momento della istaurazione del giudizio. Un chiaro indice di questa sua peculiarità è rappresentato dal regime dell’onere probatorio che differi-sce profondamente da quello che governa le controversie nelle quali il diritto fatto valere abbia una genesi contrattuale. In quest’ultimo caso, infatti, sull’attore, indipendentemente dalla circostanza che egli agisca per ottenere la condanna all’adempimento, il risarcimento del danno o anche la risoluzione 9, spetterà solo di provare l’esistenza del titolo da cui il diritto vantato trae origine, gravando, viceversa, sul convenuto l’onere di provare l’avvenuto adempimento (o altro fatto estintivo del credito): e ciò sebbene l’inadempimento, a rigori, individui, dal punto di vista sostanziale, un fatto costitutivo della pretesa esercitata dall’attore e, dal punto di vista processuale, un segmento dell’interesse ad agire.

Viceversa, allorché il giudizio concerna il risarcimento di un danno extracontrattuale, sull’attore graverà per intero l’onere probatorio do-vendo egli farsi carico della dimostrazione della sussistenza di tutti gli elementi di cui si compone l’illecito aquiliano 10. Come bene hanno avu-to modo di chiarire le SS.UU., «la titolarità del diritto fatto valere in giudizio è un elemento costitutivo della domanda. Gli elementi costitutivi

9 Cass. s.u. 30-10-2001, n. 13533, Contratti, 2002, 133 s. con nota di U. Carnevali, Inadempimento e onere della prova.

10 In alcuni casi questo schema conosce degli aggiustamenti, se non delle vere e proprie deroghe come nel caso dell’art. 28, co. 4 del d.lgs. 150/2001 il quale pone a carico del convenuto l’onere di provare il carattere non discriminatoria della sua con-dotta. La portata di deviazioni di questo genere non va enfatizzata, trattandosi di rego-le dettate da specifiche finalità repressive di condotte ad alto tasso di disdicevolezza sociale. E, del resto, non è un caso che, al comma successivo, lo stesso art. 28 contem-pli la possibilità che il giudice liquidi a favore del discriminato un danno punitivo (v. infra, § 8).

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possono consistere in meri fatti o in fatti-diritto. Per chiedere in giudizio il riconoscimento di un diritto è necessario allegare e dimostrare una serie di fatti: ad esempio, per il riconoscimento di una pensione di inabilità biso-gna presentare un certo grado di inabilità e un reddito inferiore a deter-minati livelli. Ma tra gli elementi costitutivi di un diritto possono esserci anche altri diritti. Nel caso in esame, il diritto oggetto della domanda è il risarcimento del danno subito da un immobile e tra gli elementi costituti-vi della domanda vi è il diritto di proprietà sul bene danneggiato. Per chiedere in giudizio il risarcimento del danno la parte deve dimostrare, ol-tre ad una serie di elementi materiali (il danno, il nesso di causalità), an-che di essere titolare di un diritto reale sul bene danneggiato. Il diritto di proprietà non è il diritto oggetto della domanda, e quindi della tutela giudiziaria, ma è un elemento costitutivo di quel diritto» 11. Questa im-portante decisione delle SS.UU., maturata all’interno di un contrasto di giurisprudenza dove l’orientamento maggioritario penalizzava la posi-zione del convenuto nel presupposto che, inerendo la questione della titolarità del rapporto controverso al profilo del merito, questi dovesse contestare l’allegazione della controparte nella forma più impegnativa, cioè attraverso la proposizione di un’eccezione in senso stretto ex art. 2697, co. 2, presenta, però, un importante risvolto anche dal punto di vista del diritto sostanziale. Infatti, l’addossamento dell’intero carico probatorio in capo all’attore è la conseguenza dell’impossibilità, per chi chiede il risarcimento del danno aquiliano, di avvalersi di quello che i giudici di legittimità chiamano il «principio di presunzione della persi-stenza del diritto» 12 grazie al quale il titolare di un diritto di credito ex contractu può limitarsi alla prova della esistenza del diritto, gravando sul debitore di provare il fatto estintivo dell’adempimento. Il punto è che l’attore “aquiliano” non potrebbe mai appellarsi alla “presunzione di persistenza del diritto” per la semplice ragione che, nel suo caso, non vi è nulla su cui quella presunzione possa poggiare, se non la postulazione di un danno, del quale non soltanto va provata la sussistenza in concre-to, ma, ancora prima, la rilevanza, attraverso la dimostrazione di tutti gli elementi dei quali si compone l’illecito civile.

Il confronto che stiamo sviluppando permette di vedere in una pro-

11 Cass. s.u. 16-2-2016, n. 2951. 12 Così le SS.UU. citate alla nt. 9.

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spettiva diversa, e con una particolare chiarezza, quel nesso tra la “tute-la” di cui parla l’art. 1322, co. 2 e la “tutela” di cui parla l’art. 2907, ov-vero tra “validità” e “coercibilità” 13. La “presunzione di persistenza del diritto”, infatti, è il risvolto giudiziale di quel nesso, grazie al quale l’attore può subito fare pesare la sua veste di titolare di un diritto sog-gettivo radicato in un fatto sociale (la convenzione privata) il quale, avendo già superato il test di rilevanza giuridica, può accedere recta via al giudizio. In altri termini, la regola probatoria è la visibile traduzione processuale del continuum diritto soggettivo – potere d’azione istituitosi per il tramite della “validità” accordata all’atto di privata autonomia. Non altrettanto può dirsi per il diritto al risarcimento del danno perché qui, come si è già accennato, il giudizio di rilevanza del danno è inte-gralmente affidato alla sentenza di condanna, ossia all’atto con il quale il processo si conclude. In altre parole, si può dire che, mentre l’interesse dedotto dal creditore gode di una rilevanza in re ipsa, perché esiste un fatto storico concreto – il contratto – su cui l’ordinamento si è già pro-nunciato attraverso la somministrazione della validità, il danneggiato deduce una insieme di circostanze che, all’atto della proposizione della domanda, nella migliore delle ipotesi, può vantare una generica con-formità allo schema legale, ma nulla più di questo.

L’esattezza di questo ragionamento trova una conferma, in apparen-za paradossale, nei casi in cui il contratto sia invalido. Infatti, per disat-tivare la rilevanza “positiva” del titolo a cui si richiama l’attore, il con-venuto deve qui dedurre la rilevanza “negativa” del medesimo, sicché il rigetto della domanda dell’attore avverrà sulla base di una pronunzia che accerti l’inidoneità del contratto a sostenere le ragioni del (presun-to) creditore. Il contratto, quindi, si colloca sempre al centro del pro-cesso perché, una volta che i privati abbiano usato il nomen iuris per battezzare il loro accordo, il giudizio non potrà che vertere sulla sua at-tuazione o sulla sua rimozione 14. Per concludere, si può dire che, per

13 V. Cap. I, § 1. Quel nesso, in realtà, come si è detto, meglio si presta ad essere let-to nei termini di una vera e propria identità dei due termini della relazione.

14 I giudizi che vertono sull’attuazione (del diritto di credito) sono tutti quelli in cui l’attore si richiami ad un titolo valido e nei quali il convenuto non eccepisca la invalidi-tà di quel titolo. È bene distinguere, al riguardo, tra nullità e annullabilità, perché nel primo caso, trattandosi di mera eccezione, il convenuto potrà fare valere il vizio in ogni grado e stato del processo (vizio, peraltro, rilevabile anche officio iudicis), mentre nel

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rapporto alla tutela, la rilevanza, “positiva” o “negativa”, del contratto, è sempre attuale, mentre quella del danno è solo virtuale.

La spiegazione di questo fenomeno va rinviata, però, al § successivo, dedicato all’esame del ruolo che il diritto soggettivo gioca nella costru-zione del giudizio di responsabilità civile.

4. L’ingiustizia del danno

In effetti, sarebbe un errore dedurre, da quanto siamo venuti dicen-do sin qui, che il diritto soggettivo non intrattiene alcun rapporto con l’illecito aquiliano. Al contrario, un rapporto esiste, anche se esso non presenta quel carattere di immediatezza che contrassegna la tutela reale. Qui, come abbiamo potuto vedere, ad essere dedotto in giudizio è pro-prio il diritto soggettivo di cui l’attore afferma di essere titolare (legitti-mazione attiva) e di cui egli, in pari tempo, denuncia la lesione (interes-se ad agire). Viceversa, quando, il ricorso alla giurisdizione ha come scopo il ristoro di una perdita, il quadro si presenta assai meno lineare perché, ancora prima di dimostrare l’esistenza di un danno, l’attore do-vrà provarne la giuridica rilevanza, posto che, come si vedrà tra breve, non tutti i danni sono rilevanti per l’ordinamento e, dunque, non tutti i danni sono risarcibili 15.

Per affrontare adeguatamente questo punto, dobbiamo tornare sul-l’art. 2043 («qualunque fatto doloso o colposo cagioni ad altro un danno

secondo caso il vizio potrà essere fatto valere dal solo convenuto già in sede di compar-sa di risposta (eccezione in senso stretto). Quando il convenuto (o, trattandosi di nulli-tà, anche il giudice) non contesti la validità del titolo, il giudizio verterà sempre sulla attuazione della pretesa creditoria e il debitore potrà difendersi solo attraverso il ricor-so ad eccezioni in senso stretto, ad es. adducendo l’adempimento, oppure la compen-sazione (art. 1242, co. 1) o, ancora, la prescrizione del diritto (art. 2938).

15 Questo ordine di problemi è ignoto alla tutela reale perché la rilevanza del diritto dedotto in giudizio è riflesso della rilevanza in positivo (“validità”) del contratto. Il convenuto, per conseguenza, potrà difendersi o neutralizzando la “validità” del titolo, eccependone l’invalidità, oppure provando l’insussistenza in concreto del diritto, venu-to in essere ma poi estintosi a seguito di adempimento, prescrizione, compensazione, ecc. (v. nt. precedente). Si tratta della medesima dialettica tra rilevanza ed esistenza al-l’opera nel giudizio risarcitorio dove però, a parte il diverso modo di atteggiarsi del-l’onere probatorio, il primo profilo non si lascia esaurire dal richiamo al titolo costitu-tivo del diritto.

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ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno»). È facile rendersi conto che questa disposizione normativa segue, all’incir-ca, lo schema della fattispecie di effetti, dove la fattispecie è rintraccia-bile nella sua prima parte (quella che va da «qualunque» a «ingiusto»), mentre gli effetti (o, per essere precisi, l’effetto, consistente nella obbli-gazione risarcitoria) si annidano nella seconda parte (quella che va da «obbliga» a «danno»). La struttura dell’illecito si compone, secondo una veduta largamente diffusa, di tre elementi, rappresentati dall’ingiustizia del danno, dalla imputabilità della condotta foriera del pregiudizio (im-putabilità che, sulla scorta dell’art. 2043, si misurerebbe secondo i soli criteri del dolo o della colpa – responsabilità soggettiva – ai quali, però, vanno affiancati il criterio degli artt. 2050 e 2054 – responsabilità aggra-vata per l’esercizio di attività pericolose o per la circolazione di veicoli – e quello degli artt. 2048, 2049, 2051, 2052 – responsabilità oggettiva –), dal nesso di causalità (quest’ultimo elemento non è esplicitamente men-zionato dalla norma, ma lo si può ricavare abbinando il «cagioni» della prima parte dell’art. 2043, al «conseguenza immediata e diretta» dell’art. 1223 in quanto richiamato dall’art. 2056) 16. Naturalmente, a questi tre elementi va aggiunto il danno – perdita patrimoniale che, però, la sin-tassi dell’art. 2043, verosimilmente per ragioni di concisione espressiva, colloca nella seconda parte della disposizione, ad indicare il contenuto dell’obbligazione risarcitoria.

Sarebbe un errore, però, ritenere che gli elementi di cui si compone la fattispecie dell’illecito si collochino tutti sullo stesso piano. Abbiamo già osservato, infatti, che, a differenza di quello che accade quando si agisce sulla base di un titolo “valido”, di cui all’attore basterà provare l’esistenza, quando si agisce sulla base di un illecito la risarcibilità del pregiudizio subito discende dalla prova della sua rilevanza e, per il mo-do in cui è congegnata la fattispecie aquiliana, la “chiave” della rilevan-za è custodita, nel senso che ora vedremo, dalla ingiustizia del danno. Questa formula, attorno alla quale, nella dottrina civilistica italiana, si è sviluppato, a partire dalla metà degli anni ’60 un dibattito intensissimo, poi trasferitosi alla giurisprudenza cui va riconosciuto il merito di avere disvelato il senso stesso della responsabilità civile, non senza taluni ec-

16 Dalla lettera dell’art. 2043 si ricava che il danno (ingiusto) deve essere causato dal fatto doloso o colposo; ma solo attraverso l’integrazione apprestata dall’art. 1223 si chia-risce che quel fatto, dal punto di vista causale, deve trovarsi a ridosso di quel danno.

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cessi: questa formula, si diceva, sta a significare che la perdita lamentata dall’attore sarà risarcibile, intanto, alla sola condizione che essa investa un segmento del patrimonio del danneggiato coperto da un titolo giuri-dico, ovvero un’utilità protetta dal diritto mediante la sanzione della sua eteronoma indefettibilità.

Un esempio banale può aiutare a chiarire il senso di questo discorso. Il fallimento provocato dalla maggiore abilità e intraprendenza del concor-rente, pur implicando un notevole danno per l’impresa sconfitta, non può dar luogo ad alcuna misura compensativa perché la legge non tutela la posizione di mercato degli operatori economici. Il discorso cambiereb-be del tutto se il concorrente avesse agito in modo sleale (art. 2600) o vio-lando le norme antitrust (art. 33, co. 2 della l. 287/1990; art. 1, co. 1 del d.lgs. 3/2017). Infatti, in questi casi, direttamente o indirettamente (il punto non necessita qui di essere approfondito), l’interesse dell’impresa a non essere danneggiata dall’azione del rivale acquista, in virtù della previ-sione di legge (art. 2598; artt. 2, 3 della l. 287/1990), una giuridica rile-vanza. È questo il modo in cui, in estrema sintesi, opera l’ingiustizia del danno alla quale spetta di stabilire se la perdita patrimoniale subita da Tizio sia rilevante sub specie iuris e, quindi, ove ricorrano le altre condi-zioni (imputabilità, nesso di causalità), anche risarcibile. Come si vede, la prospettiva offerta dalla regola dell’ingiustizia suffraga l’idea, già anticipa-ta, secondo la quale, allorché si tratti di riparare un danno, tra il diritto soggettivo e la tutela giurisdizionale intercorre un rapporto mediato dalla perdita patrimoniale (che costituisce il vero bersaglio della misura), a dif-ferenza di quanto accade con la tutela reale, dove il processo rappresenta il naturale corollario della prerogativa accordata al singolo dalla legge e, quindi, lo strumento per il ripristino della sua integrità.

È opportuno precisare, arrivati a questo punto del discorso, che vi è un nesso piuttosto stretto tra il modo in cui è stata a lungo intesa l’in-giustizia del danno e l’idea che il rimedio compensativo si iscriva entro l’orizzonte della tutela giurisdizionale. Il risarcimento aquiliano, infatti, ha sempre intrattenuto una relazione molto stretta con il diritto di pro-prietà e anche il codice civile vigente, quello stesso che ospita l’art. 2043, contempla numerose ipotesi nelle quali la misura riparatoria viene somministrata a seguito della lesione della proprietà o, comunque, di un diritto assoluto (artt. 948, 949, 7, 10) 17. In particolare, l’art. 948 offre

17 Al di fuori del codice civile (ma fino ad un certo punto: v. art. 2569 s.), sarà suffi-

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una sorta di compendio dei mezzi a tutela del dominio (attuazione in natura o, in alternativa, attuazione per equivalente, risarcimento del danno) e per il modo in cui esso è formulato può davvero suscitare l’im-pressione che si tratti di rimedi omogenei allineati secondo un ordine di intensità decrescente. Questa lettura ha un costo: la sostanziale super-fluità della regola dettata dall’art. 2043 e, in specie, di quella parte di essa che include, tra gli elementi costitutivi dell’illecito, l’ingiustizia del danno la quale, nella prospettiva in esame, si riduce ad un inutile dop-pione di tutte le norme che, autonomamente, prevedono la riparazione di una perdita patrimoniale 18.

Negli ultimi decenni, tuttavia, il volto della responsabilità civile è completamente mutato. In genere, l’avvio del nuovo corso si fa risalire ad una pronunzia delle SS.UU. che, nel 1971, estese la tutela aquiliana alla lesione dei diritti relativi 19. Si tratta di una sentenza certamente molto importante, ma forse più dal punto di vista del percorso di pro-gressivo eguagliamento, in punto di tutela, dei diritti di credito ai diritti reali che non dal punto di vista della storia interna della responsabilità civile 20. In quella sentenza, infatti, le SS.UU. affermarono con grande chiarezza che «la “ingiustizia”, che l’art. 2043 assume quale componente essenziale della fattispecie di responsabilità civile, va intesa nella duplice accezione di danno prodotto non iure e contra ius: non iure, nel senso che il fatto produttivo del danno non debba essere altrimenti giustificato dal-l’ordinamento (per es., artt. 2044, 2045 c.c.); contra ius, nel senso che il fatto debba ledere una situazione soggettiva riconosciuta e garantita dal-l’ordinamento giuridico nella forma del diritto soggettivo». La quale in-terpretazione «mentre lascia fuori dalla sfera di protezione dell’art. 2043

ciente ricordare l’art. 158 della l. 633/1941 in materia di diritto d’autore e gli artt. 124-125 c.p.i., in materia di marchi e brevetti.

18 V. F. Carnelutti, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile (Milano 1946), 7-9. Si v. anche S. Pugliatti, Alterum non laedere, Enc. dir., II, 1958, 99.

19 Cass. s.u. 26-1-1971, n. 174, Foro it., 1971, 342. 20 Nel 1971, la non attingibilità del rimedio aquiliano era una delle due tessere di

cui si componeva il mosaico della minorità del credito rispetto alla proprietà: l’altra era la non attingibilità dell’esecuzione in forma specifica, sicché il diritto alla prestazione era sempre destinato a convertirsi in diritto al risarcimento del danno (contrattuale). L’art. 18 Stat. lav. (entrato in vigore l’anno prima) avrebbe inaugurato una stagione al-l’insegna dell’effettività culminata nell’affermazione del primato dell’adempimento in natura. Su questo punto torneremo nel Cap. V.

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quegli interessi che non siano assunti al rango di diritti soggettivi … pone in luce, d’altra parte, l’arbitrarietà di ogni discriminazione fra una catego-ria e l’altra dei diritti soggettivi, al fine di riconoscere o escludere la tutela aquiliana».

Come si vede, la Cassazione ribadì che di “ingiustizia” si potesse par-lare soltanto a condizione che ad essere lesa fosse «una situazione sog-gettiva riconosciuta e garantita dall’ordinamento giuridico nella forma del diritto soggettivo». Questo assunto lascia sostanzialmente immutata, pe-rò, la condizione di semplice replicante assegnata all’ingiustizia dall’opi-nione tradizionale, posto che il riconoscimento di un diritto soggettivo può aver luogo solo sulla base di una esplicita previsione di legge. Già più indicativa della strada che la parabola della responsabilità civile avrebbe imboccato nel corso degli anni a venire, è la pronunzia della S.C., di poco posteriore a quella del 1971, nella quale il risarcimento del danno viene accordato in relazione alla lesione del diritto alla riserva-tezza subìto da un personaggio all’epoca di grande notorietà pubblica e costantemente al centro dell’attenzione dei rotocalchi “rosa” 21. L’aspet-to più interessante di questo caso è che, pur mantenendosi fedele alla dottrina del diritto soggettivo 22, la corte di legittimità sperimenta una modalità del ragionamento giuridico che, in prosieguo di tempo, si dif-fonderà tra i nostri giudici e che, in poche parole, consiste nel rileggere una serie di disposizioni normative, accomunate dalla considerazione, sia pure non omogenea, di un interesse che, attraverso la specola di un principio costituzionale (qui, l’art. 2), viene ridotto ad una misura uni-taria. In altri termini, nel momento in cui la Cassazione ne proclama la tutelabilità in sede aquiliana, il diritto alla riservatezza non è stato anco-ra istituito dal legislatore, ma viene “rinvenuto” dall’interprete median-te la tecnica argomentativa di cui si è appena detto.

Il risultato finale di questo modo di ragionare è rappresentato, a ben

21 Cass. 27-5-1975, n. 2129, Foro it., 1976, 2895 (caso “Soraya”). 22 «Va premesso che la soluzione del problema non può prescindere dallo strumento

tecnico privatistico del diritto soggettivo, fondato su una antica concezione dommatica. Per quanto apprezzabili, invero, siano i tentativi della dottrina, intesi ad aprire più larghe prospettive, specialmente per una moderna elaborazione dell’istituto dell’illecito civile, non sembra che siano maturi i tempi per ritenere superato il tradizionale concetto di dirit-to soggettivo come categoria qualificante le situazioni giuridiche soggettive particolarmen-te rilevanti nel nostro sistema, in quanto tutelate in modo diretto».

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 60

vedere, da una strana figura di diritto soggettivo la cui unica manifesta-zione è l’ingiustizia, ovvero l’attitudine a fondare un giudizio di respon-sabilità, là dove i “veri” diritti soggettivi hanno epifanie ben più ricche. Il proprietario, ad es., può chiedere la restituzione del bene, inibire condotte invasive della sua sfera possessoria, esigere l’eliminazione degli effetti materiali di queste ultime, e, se del caso, chiedere il risarcimento del danno. Il creditore, dal canto suo, può intimare al debitore di adempiere, può costituirlo in mora, può ottenerne la condanna e il con-seguente assoggettamento dei suoi beni ad esecuzione forzata. Anche in questo caso, l’ordinamento prevede la compensazione dell’eventuale perdita patrimoniale stimata secondo i criteri dell’art. 1223, ma, appun-to, si tratta di una misura che si aggiunge a quelle specificamente intese a reintegrare le prerogative del titolare. Sicché, un diritto soggettivo 23 che viva nella sola dimensione risarcitoria è un’autentica bizzarria: ed è per questo motivo che, a partire da un certo momento in poi, le nostre Corti rinunceranno alla pretesa di ancorare la riparabilità di una perdita patrimoniale alla sussistenza, sempre e comunque, di un diritto sogget-tivo, accontentandosi, viceversa, della lesione di un «interesse giuridi-camente rilevante».

Il progressivo differenziarsi dell’ingiustizia dal diritto soggettivo è una vicenda di grande rilievo, che si presta ad alcune considerazioni di ordine generale. In primo luogo, va sottolineato il ruolo decisivo svolto dai principi costituzionali, ovvero da quelle norme della Carta che enunciano i fini e i valori che dovrebbero conformare l’ordine politico, sociale ed economico del nostro Paese. Queste norme hanno conosciuto tre distinti modi di essere trattate da parte della giurisprudenza. Negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Costituzione, di esse la Cassazione parlava come di norme “programmatiche” e non

23 Il discorso riguarda anche quelle situazioni di vantaggio come il possesso e l’in-teresse legittimo, per varie ragioni inassimilabili ai diritti soggettivi, ma che, al pari di questi ultimi, hanno una propensione alla tutela che eccede la scala risarcitoria (le azioni possessorie ex artt. 1168-1170; il potere di chiedere l’invalidazione dell’atto am-ministrativo). Sul risarcimento del danno da lesione del possesso v. A. Iuliani, Note in tema di tutela aquiliana del possesso, Riv. crit. dir. priv., 2016, 363 s.; C. Attanasio, La tutela aquiliana del possesso: profili sistematici, Foro nap., 2017, 3 s. (e qui ampi richia-mi alla giurisprudenza); mentre per quanto riguarda la tutela aquiliana dell’interesse legittimo, d’obbligo il rinvio alla “storica” Cass. s.u. 22-7-1999, n. 500, Foro it., 1999, II, 569.

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“precettive”, nel senso di risultare vincolanti (ma solo sul piano della responsabilità politica) per il legislatore, e non anche per l’interprete. In una seconda fase, coincidente con il c.d. “disgelo costituzionale” inau-gurato dalla sentenza d’esordio del giudice delle leggi, ai principi costi-tuzionali fu riconosciuto lo statuto di norme pleno iure. Naturalmente, trattandosi di enunciati di portata molto generale, la loro efficacia era destinata ad esplicarsi sul terreno interpretativo: con la precisazione che ad essi poteva (e doveva) farsi ricorso non solo quando, come nell’ottica tradizionale dell’art. 12 Preleggi, l’interprete si fosse imbattuto in una lacuna, ma anche quando il precetto infracostituzionale si prestasse ad una pluralità di letture, per selezionare, tra queste ultime, quella più in linea con gli obiettivi della Carta. La sentenza “Soraya” alla quale ab-biamo accennato in precedenza si iscrive in questo quadro, sebbene qui l’uso che i giudici fanno del principio costituzionale, come di una sorta di potente agglutinatore delle sparse membra di un diritto soggettivo allo stato di latenza, ecceda i limiti della semplice funzione ermeneutica, sia pure declinata in chiave selettiva e non semplicemente integrativa.

Infine, nell’ambito di una vivace e lunga discussione relativa al modo in cui intendere la locuzione «nei casi determinati dalla legge», le SS.UU., in alcune importanti pronunce “gemelle” del 2008 che rappre-sentano un piccolo trattato in materia di responsabilità civile, sono arri-vate alla conclusione per la quale anche gli «specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione» sono idonei a soddi-sfare la riserva istituita dall’art. 2059 in materia di danni non patrimo-niali 24. È opportuno precisare che la formula «diritti inviolabili secondo Costituzione» non vuole affatto significare il richiamo ai diritti soggetti-vi “veri” di cui si diceva più sopra. Nessuna norma costituzionale espli-ca un’efficacia del tipo di quella che, viceversa, riconnettiamo agli artt. 833, 948, 1174, 1218, 1453, ecc.; tutt’al più, come nel caso degli artt. 24 e 103 Cost., si tratta di disposizioni che dando per scontata la previsio-ne, da parte del legislatore ordinario, di diritti soggettivi (e interessi le-gittimi) stricto sensu, ne proclamano solennemente la tutelabilità di fronte al giudice competente.

In realtà, i «diritti inviolabili secondo Costituzione» sono il risultato di un uso alquanto spregiudicato (e, certamente, irriducibile alla dimen-sione ermeneutica) di enunciati-principio ridotti a piattaforme semanti-

24 Cass. s.u. 11-11-2008, n. 26972/3/4/5, Foro it., 2009, 120 s.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 62

che bon a tout faire dalle quali ricavare, senza alcuna mediazione di li-vello infracostituzionale, norme sprovviste di fattispecie la cui unica funzione è quella di assicurare un minimo di significanza all’ingiustizia e, dunque, ove ricorrano gli ulteriori elementi di cui si compone l’illeci-to aquiliano, di disporre il risarcimento del danno. Ad es., dall’art. 29, co. 1, Cost. (il quale «riconosce i diritti della famiglia come società natu-rale fondata sul matrimonio») ricavare il diritto ad un sereno svolgimen-to della vita familiare grazie alla postulazione del quale sarà possibile schierarsi per l’ingiustizia (e la conseguente risarcibilità) del danno da perdita della capacità sessuale provocata dal fatto del terzo.

E, infatti, a conferma di quanto siamo venuti osservando sin qui, ad avviso delle SS.UU. «la risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell’ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Co-stituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessaria-mente presidiato dalla minima tutela risarcitoria». L’espressione «mi-nima tutela risarcitoria» sta a denotare proprio il fatto che questi speci-fici (tali con una buona dose di ottimismo) diritti inviolabili della per-sona non hanno nessuna altra possibilità di farsi valere in giudizio se non attraverso la mediazione di una pretesa risarcitoria: e questo pro-prio perché essi non sono diritti soggettivi “veri” ma, appunto, “interes-si giuridicamente rilevanti”: della cui esistenza e della cui rilevanza si fanno garanti i giudici (in particolare, le Corti superiori) attraverso una manipolazione creativa di enunciati-principio costituzionali dai quali vengono richiamate norme – principio di contenuto appena appena più definito (dalla famiglia società naturale fondata sul matrimonio al diritto ad una vita familiare serena) da travasare dentro l’ingiustizia allo scopo di attivare il dispositivo della «minima tutela risarcitoria».

5. Dagli “interessi giuridicamente protetti” agli “interessi giuridica-mente rilevanti”: breve storia della responsabilità civile

Il danno non patrimoniale offre una prospettiva particolarmente fa-vorevole a partire dalla quale intercettare quel fenomeno di differenzia-zione dell’ingiustizia dal diritto soggettivo di cui si è parlato dianzi: e

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questo perché l’impianto patrimonialista del diritto privato rende mar-ginali le ipotesi di “interessi giuridicamente rilevanti” che non siano an-che “interessi giuridicamente protetti” mediante il riconoscimento, ap-punto, di un diritto soggettivo (o del possesso o di un interesse legitti-mo). Resta il fatto che la formula del risarcimento come “tutela mini-ma” ha il pregio di cogliere l’autonoma funzione del rimedio compensa-tivo, che non è quella di ripristinare un ordine giuridico violato, ma di trasferire una perdita di ricchezza (patrimoniale o anche esistenziale) da un soggetto ad un altro.

Sia pure sulla base di un percorso abbastanza tortuoso che, sul piano dei protocolli culturali, ha incrociato un uso non sempre controllato dell’argomento costituzionale e, sul piano istituzionale, un’incidenza sempre maggiore del ruolo delle Corti, la dottrina giuridica italiana, a partire dai primi anni ’60, ha acquisito una consapevolezza crescente dell’effettivo compito della responsabilità civile nelle moderne società industriali: compito che consiste, in definitiva, nel dare un prezzo alla libertà (tendenzialmente illimitata) riservata ai singoli di agire e, dun-que, di immettere nell’ambiente quantità variabili ma costanti di ri-schio 25. Quello della responsabilità civile, in altri termini, è il problema della allocazione della perdita subita da “X” a seguito dell’azione (o del-l’attività) intrapresa da “Z”.

La funzione assegnata alla responsabilità civile aiuta a comprendere le ragioni per le quali la sua disciplina è congegnata in modo da lasciare aperta la questione relativa all’allocazione della perdita. Ciò deve inten-dersi nel senso che solo quando il fatto generatore del danno sia impu-tabile a qualcuno secondo uno dei criteri di collegamento stabiliti dalla legge; o solo quando il danno sia riconducibile ad una porzione del pa-

25 Nella letteratura italiana il libro che, con geniale anticipazione perfino rispetto ai successivi e travolgenti sviluppi d’oltreoceano, non soltanto riapre un dibattito sin lì alquanto torpido ma riorienta tutta la discussione in materia di responsabilità civile è quello di P. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva (Milano 1961). Un impatto analogo anche se affidato ad un registro culturale in parte diverso da quello privilegiato da Trimarchi (per il quale la responsabilità civile è il luogo elettivo di sperimentazione del metodo che poi diventerà famoso con il nome di “analisi economica del diritto”) avrà, a distanza di qualche anno, il libro di S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile (Milano 1967) il quale attraverso l’uso di codici linguistici e categoriali più fami-liari al giurista italiano immette il mondo, sin lì alquanto angusto, del torto aquiliano dentro le grandi coordinate del discorso costituzionale.

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trimonio su cui insiste un interesse giuridicamente protetto, o, quanto meno, un interesse giuridicamente rilevante, esso sarà risarcibile. Vice-versa, ad es., al cospetto di uno spoglio, o anche di una interferenza mi-nore nella sfera possessoria del titolare del diritto, l’insorgere dell’obbli-gazione restitutoria, di cassare la condotta o anche di rimuovere gli ef-fetti di quest’ultima, prescindono del tutto da un’indagine in ordine alla qualità della condotta dell’agente il quale sarà responsabile (cioè tenuto a reintegrare il proprietario) per il solo fatto illecito posto in essere 26.

Del resto, un chiaro indice della struttura costitutivamente aperta del giudizio di responsabilità civile è rappresentato proprio dal modo in cui, nel corso del tempo, è stato risolto il problema della imputazione del danno. A lungo, torto aquiliano e colpa hanno dato vita ad un con-nubio inscindibile, e ciò trova una verosimile spiegazione nelle lontane origini sanzionatorie dell’istituto 27. Tuttavia, già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, il primato della colpa quale criterio di imputazio-ne dell’illecito extracontrattuale muta di segno: difatti, in un torno di tempo dominato dall’esigenza di favorire i processi di industrializzazio-

26 È interessante notare che, per converso, allorquando, come accade di regola, condotte lesive di diritti soggettivi del tipo di quelle richiamate nel testo siano anche causa di pregiudizi patrimoniali, il venire in essere dell’obbligazione risarcitoria seguirà le regole della responsabilità civile (quindi, ad es., si tratterà di stabilire se il fatto dan-noso sia imputabile e a che titolo).

27 Sul punto è d’obbligo il rinvio a B. Albanese, Illecito (storia), Enc. dir., XX (Mi-lano 1970), 50 s. (e ora anche in Scritti giuridici, I, Il circolo giuridico «Luigi Sampolo», n.s., XLVII, 1991, 793 s.). Va detto che, nel quadro della ricostruzione storica propo-sta da Albanese, la quale documenta con grande efficacia quel fenomeno di progressiva «degradazione della penalità» che, ad avviso dell’A., rappresenterebbe la costante del-l’esperienza giuridica romana, dalla fase arcaica (ove “illecito” è sinonimo di “illecito punito”) alla Compilazione (dove è dato registrare la sostanziale prevalenza dell’“illeci-to neutralizzato”), il caso della Lex Aquilia, con le due grandi innovazioni della respon-sabilità per colpa e di una poena (condemnatio) commisurata, di regola, al quanti ea res est e, quindi, sostanzialmente risarcitoria, riveste un valore esemplare. Tuttavia non so-lo, come lo stesso Albanese sottolinea, l’actio legis Aquiliae rimane, comunque, «un’azio-ne penale per i caratteri tipici della nossalità, dell’intrasmissibilità ereditaria passiva, dell’esperibilità cumulativa contro più responsabili e del concorso con altre azioni» (806); va anche considerato, nella prospettiva della lunga durata, che altro è un illecito civile depenalizzato, altro è un illecito civile funzionale ad obiettivi di allocazione del danno secondo logiche di efficienza economica, proprie delle società contemporanee. Il primato della colpa, con ogni probabilità, corrisponde ad un paradigma intermedio, già oltre l’idea della punizione ma ancora vincolato a quello della riprovazione.

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ne già in atto, regole di responsabilità a curvatura soggettiva appaiono più idonee ad incentivare (o, se si preferisce, a non scoraggiare) le attivi-tà organizzate in forma imprenditoriale 28. Tuttavia, in prosieguo di tempo, il consolidamento e la diffusione, su scala ancora più ampia, di questi processi, e il conseguente incremento della quota di rischio posto a carico della collettività, spingono la disciplina dell’illecito in direzione dell’apertura a criteri di responsabilità oggettiva, secondo una logica di contemperamento dei benefici arrecati dalla produzione e dal consumo di massa con i costi (in termini di sicurezza) tipicamente collegati a tali processi.

Anche il codice civile del 1942 reca evidenti i segni dell’evoluzione appena descritta. Basti pensare alle soluzioni accolte dagli artt. 2048-2052 che individuano modalità di imputazione del danno irriducibili alla colpa e conformate, tendenzialmente, in senso oggettivo. Tuttavia, fino ai primi anni ’60, appunto, prevalse una lettura conservatrice di questa disciplina sulla base della quale, per un verso, le novità introdot-te dal codice venivano sterilizzate ponendo a fondamento di essa (ci si riferisce in particolare alle ipotesi di cui agli artt. 2048-2049) una (ipote-tica) culpa in vigilando o in eligendo e, per altro verso, esse venivano de-classate al livello di mere eccezioni al paradigma della colpa, così ricon-fermato nella sua posizione di regola principe. Viceversa, la piena accet-tazione della pluralità dei criteri di imputazione ed il loro eguagliamen-to hanno significato la “laicizzazione” della responsabilità civile e la sua definitiva fuoriuscita dallo schema sanzionatorio.

Per concludere. L’irriducibilità dell’ingiustizia al danno da lesione di un diritto reale, al pari della irriducibilità dell’imputazione alla colpa, sono fenomeni congeneri, i quali entrambi catturano la trasformazione del torto extracontrattuale da “quinta ruota” del carro della tutela reale in autonoma modalità di regolazione del conflitto che, tipicamente, si istaura nelle società in cui viviamo, tra l’esigenza di conservare la ric-chezza sin lì accumulata e quella di accrescerla: un conflitto, di per sé stesso, foriero del rischio di interferenze distruttive nella vita altrui.

28 Ohne Schuld, keine Haftung (senza colpa, nessuna responsabilità), secondo il noto insegnamento di R.v. Jhering.

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6. Il risarcimento del danno in forma specifica

Come si è visto, il risarcimento del danno consiste nel pagamento di una somma di denaro determinata sulla base dei criteri dettati dall’art. 1223 29. Tuttavia, il codice civile contempla l’eventualità che la ripara-zione abbia luogo in natura 30. Ai sensi dell’art. 2058, infatti, «il danneg-giato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile. Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risul-ta eccessivamente onerosa per il debitore». Si tratta di una figura dai con-torni alquanto opachi e, anzi, affetta da una certa ambiguità perché sembra innestare sul tronco risarcitorio una diramazione “reale”. Que-sta prima impressione trova conferma nelle applicazioni che del rimedio propone la giurisprudenza, spesso incline ad avvalersi del risarcimento in forma specifica per conseguire finalità di tipo ripristinatorio 31.

In realtà, anche nella sua variante “specifica” il risarcimento resta pur sempre risarcimento, ovvero reintegrazione di un equilibrio patri-moniale alterato da una interferenza illecita. Semmai, è necessario veri-ficare se, per avventura, questo diverso modo di atteggiarsi del rimedio non rinvii, del tutto specularmente, ad un diverso modo di atteggiarsi

29 V. supra, § 1. 30 Anticipando lo sviluppo del discorso, si può osservare che la riparazione in natu-

ra individua una di quelle ipotesi nelle quali il conseguimento dell’effetto tipicamente inerente ad una forma di tutela (qui, quella risarcitoria) viene affidato ad una tecnica che, in concreto differisce dalla modalità normalmente impiegata (qui, appunto, il ri-pristino della materiale integrità del bene piuttosto che la corresponsione di un equiva-lente monetario). A volte può accadere il contrario: ad es., nel caso dell’azione di ri-vendica (art. 948) o, come si vedrà più avanti (Cap. V, § 7), anche nel caso dell’azione di adempimento (art. 1218), là dove la restituzione del bene, o l’esecuzione della pre-stazione, siano divenute impossibili per causa imputabile allo spogliante e, rispettiva-mente, al debitore, questi ultimi saranno tenuti a corrispondere all’avente diritto l’equi-valente monetario del valore di mercato della res perita o smarrita (dunque, una tecnica risarcitoria al servizio di una forma reintegratoria). Sulla distinzione tra forma e tecnica di tutela v. A. Di Majo, Forme e tecniche di tutela, Processo e tecniche di attuazione dei diritti, a cura di S. Mazzamuto, I (Napoli 1987), 11 s.

31 Ad es., tutte le volte in cui alla riparazione in natura viene affidato il compito di vicariare la tutela possessoria non più esperibile per la sopravvenuta decadenza dal-l’azione (per i necessari riferimenti v. i saggi di Iuliani e Attanasio richiamati alla nt. 23).

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del danno. Il punto merita di essere trattato con la massima cautela per-ché, se non si tiene ben salda la barra (il danno è ciò, e solo ciò, di cui parla l’art. 1223 richiamato dall’art. 2056, ovvero la risultante di danno emergente e di lucro cessante), il risarcimento in forma specifica rischia di essere traghettato fuori dal perimetro assegnatogli dal legislatore che è quello, appunto, della compensazione 32.

In economie nelle quali il denaro non è solo mezzo di scambio, ma è anche misuratore del valore delle merci, la stima del danno emergente ha luogo, di regola, per il tramite di un parametro astratto rappresenta-to, appunto, dal valore che al bene pregiudicato, in quanto per defini-zione sostituibile, assegna il mercato. Il lucro cessante, dal canto suo, è una variabile già meno rigida, perché dipendente da almeno due fattori – la destinazione produttiva del bene e la domanda di forza lavoro ne-cessaria allo sfruttamento di quest’ultimo (o, in alternativa, la domanda di beni trasformati se quello danneggiato è inserito all’interno di una organizzazione d’impresa). Tuttavia, per quanto più legato alla storia personale del danneggiato, anche il lucro cessante assume il bene come una merce e, quindi, sostituibile. In questi casi, che il legislatore consi-dera, del tutto comprensibilmente, normali, il risarcimento veste i panni della compensazione monetaria 33. Arrivati sin qui, la domanda da porsi è la seguente: quando, sia pure entro i limiti stabiliti dall’art. 2058 – possibilità della riparazione in natura e sua non eccessiva onerosità – è giustificata e, dunque, verrà accolta, la domanda del danneggiato intesa ad ottenere che il bene sia riparato e non sostituito?

È chiaro che l’alternativa sostituzione/riparazione implica che il ce-spite danneggiato possieda caratteristiche non rintracciabili sul mercato dei beni appartenenti alla medesima classe merceologica: e ciò nel senso che la sua redditività dipende dal suo specifico modo di essere, di tal-

32 Questo, poi, è successo in passato, in una stagione dominata dal mito della “spe-cificità” della tutela (per una essenziale ricostruzione di quel dibattito v., M.G. Cecche-rini, Risarcimento in forma specifica e funzioni della responsabilità civile, Resp. civ. pre-videnza, 2017, 724 s.). Oggi, per varie ragioni, sul tema delle tutele si è guadagnato uno sguardo più posato (sebbene, come vedremo da qui a breve, quello della responsabilità civile rimanga un terreno alquanto sismico) sicché alla riparazione in natura è possibile restituire la sua giusta collocazione.

33 Quindi non ha molto senso discorrere di una “superiorità” del risarcimento per equivalente su quello in natura: semplicemente il primo rispecchia l’ordinario anda-mento delle cose, ciò che i giuristi chiamano l’id quod plerumque accidit.

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ché, una volta sostituito, l’utilizzatore subirà comunque un decremento patrimoniale, sotto forma di una contrazione dei margini di guadagno. Supponiamo, ad es., che la trattoria “X” disponga di un vecchio model-lo di affettatrice grazie al quale è possibile servire alla clientela un pro-sciutto crudo unico non solo per la sua bontà ma anche per dimensioni e spessore di ciascuna porzione. Ora, è evidente che, là dove il prezioso congegno venisse danneggiato, sostituirlo anche con un modello più re-cente e tecnologicamente più avanzato che, però, non fosse in grado di offrire lo stesso tipo di prestazione, metterebbe a repentaglio il volume d’affari della trattoria, il cui appeal dipende in buona misura dalla impa-reggiabile perfezione delle sue fette di prosciutto.

L’esempio non sarà elegantissimo ma serve a mettere in luce come, in un caso del genere, la linea di demarcazione tra il danno emergente e il lucro cessante si assottigli al punto da diventare quasi invisibile; ed è per questa ragione che, qui, riparare ha più senso di sostituire. Infatti, la riparazione dell’affettatrice che, nel linguaggio del risarcimento per equivalente, è la corresponsione del valore del bene di sostituzione re-peribile sul mercato, ripristina, al contempo, il potenziale di redditività del cespite danneggiato: cioè, in altri termini, risana il lucro cessante. La coalescenza di perdita subita e di mancato guadagno non è un fenome-no frequente e ciò spiega perché la riparazione in natura possa apparire come una modalità risarcitoria residuale: in realtà, come si già osserva-to, la “normalità” della compensazione è solo lo specchio fedele della normale equivalenza dei beni trasformati dal mercato capitalistico in merci eguagliate dalla comune destinazione allo scambio monetario. E questo spiega anche la cautela con la quale il legislatore tratta la ripara-zione in natura la quale, in effetti, potrebbe comportare costi non pre-vedibili e, appunto, eccessivi rispetto al valore del bene accertato se-condo parametri standard 34.

34 L’eccessiva onerosità di cui parla l’art. 2058, co. 2 non può essere assimilata al-l’eccessiva onerosità di cui all’art. 130 cod. cons. e questo per almeno due ragioni. La prima è che, nell’ipotesi della vendita dei beni di consumo (su cui v. Cap. VI, § 3), il limite può riguardare tanto la riparazione quanto la sostituzione; la seconda è che, ap-punto, la disciplina riguarda beni per definizione sostituibili. È chiaro, quindi, che, in questo caso, l’eccessiva onerosità, più che inerire all’operazione in sé considerata, è un fatto apprezzabile sulla scala dell’organizzazione di impresa (ad es., per una filiale peri-ferica munita di un efficiente servizio postvendita, i costi di invio del nuovo esemplare potrebbero essere di molto superiori a quelli di riparazione). Viceversa, come accenna-

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7. Il risarcimento del danno non patrimoniale

L’evoluzione della giurisprudenza in punto di danno non patrimo-niale mostra chiaramente come la tutela risarcitoria non sia assimilabile allo schema della reintegra di un diritto. Il principale merito di questa giurisprudenza, criticabile per molti altri aspetti, risiede nell’idea della «minima tutela risarcitoria», senz’altro sbagliata là dove parrebbe ac-creditare la tesi secondo cui la “tutela risarcitoria” sarebbe “minima” (trattasi di un’evidente insensatezza riveniente da una stagione culturale dominata dall’esigenza di restituire effettività alla tutela giurisdizionale del diritto di credito); e invece giusta se intesa nel senso che il rimedio risarcitorio prescinde dalla sussistenza di un diritto soggettivo, o di fi-gure ad esso assimilabili perché, al pari di quest’ultimo, munite di un’energia normativa che eccede i confini dell’ingiustizia. In altre paro-le, come si è già detto, quello del danno non patrimoniale è stato il grande laboratorio all’interno del quale si è consumato il passaggio dalla risarcibilità circoscritta ai soli “interessi giuridicamente protetti”, alla risarcibilità inclusiva degli “interessi giuridicamente rilevanti”.

Il carattere esemplare della vicenda del danno non patrimoniale, ri-conducibile, verosimilmente, alla circostanza che i danni patrimoniali, di regola, sono presidiati da interessi giuridicamente protetti, pone, tut-tavia, un problema piuttosto serio che è quello della sua esatta colloca-zione nel quadro del torto aquiliano. È ben chiaro, infatti, cosa debba intendersi per danno patrimoniale: e questo grazie all’art. 1223 in quan-to richiamato dall’art. 2056. Il modo in cui si atteggia il danno patrimo-niale, poi, illumina il senso della misura risarcitoria la quale persegue l’obiettivo di compensare il danneggiato, ovvero di riportarne il patri-monio all’equilibrio precedente al fatto lesivo: ciò che, per lo più, acca-de mediante la corresponsione di una somma di denaro.

Con il danno non patrimoniale le cose stanno abbastanza diversa-mente. È vero che, al pari dell’art. 2043, l’art. 2059 si preoccupa di fis-

to nel testo, nel caso del risarcimento in forma specifica, trattandosi di beni idiosincra-tici [ovvero di beni in possesso di caratteristiche tali da renderli insostituibili o sosti-tuibili solo per difetto: M.R. Marella, La riparazione del danno in forma specifica (Pado-va 2000), 163 s.], quello dell’eccessiva onerosità è un problema che investe la ripara-zione in quanto tale, potendo quest’ultima richiedere costi (ad es., di reperimento, di selezione, di ingaggio e di acquisto della manodopera e, rispettivamente, della materia prima o della tecnologia, necessarie ai fini del ripristino) del tutto fuori mercato.

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sare le condizioni di rilevanza (e, quindi, di risarcibilità) del danno non patrimoniale («il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previ-sti dalla legge»): solo che, in questo caso, manca qualsiasi indicazione in ordine a ciò che deve essere risarcito, una volta appurato che qualcosa va comunque risarcito. In altre parole, si può dire che mentre nel caso del danno patrimoniale, cosa sia quest’ultimo ci aiuta a capire cosa sia il risarcimento, nel caso del danno non patrimoniale va compiuta l’opera-zione esattamente inversa, ovvero muovere dalla nozione di risarcimen-to, per provare a delineare i contorni del pregiudizio che esso è destina-to a riparare. Questo significa che se si vuole mantenere il danno non patrimoniale dentro la cornice della responsabilità civile (rispettando la scelta operata dal legislatore del ’42) e, al contempo, risparmiare a que-st’ultima la giostra delle “plurime funzioni” (oggi rilanciata dalla pro-nunzia delle SS.UU. sulla delibabilità delle sentenze straniere di con-danna al pagamento di danni puntivi: sul punto torneremo da qui a breve), è necessario immaginare, per la misura risarcitoria, un modo di essere compensativa che abbracci anche il danno non patrimoniale.

Orbene, il punto di partenza del ragionamento è che “compensare” equivale a “sostituire” 35. Il patrimonio del danneggiato, ove nulla fosse accaduto, avrebbe attinto un certo equilibrio grazie (anche) al cespite poi pregiudicato dall’interferenza del terzo. Scopo del risarcimento è, appunto, di ripristinare quell’equilibrio, ciò che avviene attraverso la corresponsione di una somma di denaro liquidata dal giudice sulla scor-ta dei criteri di cui all’art. 1223. È evidente, quindi, che, se dal punto di vista del suo astratto ammontare, il patrimonio “compensato” equivale al patrimonio originario, dal punto di vista della sua configurazione ma-teriale, il patrimonio “compensato” differirà da quello originario se non altro per la quota di ricchezza distrutta e rimpiazzata dal denaro. Si trat-ta di vedere se questo algoritmo a tre valori – “sostituzione”, “compen-sazione”, “riequilibrio” – possa essere utilizzato per descrivere anche il risarcimento del danno non patrimoniale, posto che, comunque, anche nel caso del danno patrimoniale, il grado, maggiore o minore, di succes-

35 Come si è visto, però, nel caso contemplato dall’art. 2058, a motivo della coale-scenza di danno emergente e lucro cessante, la perdita patrimoniale presenta caratteri-stiche tali per cui il risarcimento non compensa ma ripara. Da qui a breve vedremo che, là dove si tratti di un danno non patrimoniale, viceversa, il risarcimento sarà decli-nabile nella sola variante compensativo-sostitutiva.

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Capitolo Quarto – Cosa significa “risarcire un danno”? 71

so dell’operazione dipende da una variabile rappresentata dal livello di fungibilità del bene da rimpiazzare.

Si consideri, ad es., quanto previsto dall’art. 138, co. 2, lett. a), cod. ass., ai sensi del quale «per danno biologico si intende la lesione tempo-ranea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico – legale che esplica un’incidenza negativa sulle atti-vità quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneg-giato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito». Il rilievo di questa disposizione è tanto maggiore ove si consideri il peso avuto dal danno biologico nella “storia” del danno non patrimoniale; essa, inoltre, rappresenta uno dei non frequentissimi casi nei quali quest’ultimo è stato oggetto di una vera tipizzazione legi-slativa (altri casi sono quelli del danno alla riservatezza, alla protezione dei dati personali e all’identità ex art. 15, co. 2, c.d.p. e quello del danno da condotte discriminatorie di cui all’art. 28, co. 5 del d.lgs. 150/2001). Anche a non voler sopravvalutare l’uso della formula «incidenza negati-va», è difficile non pensare che il legislatore abbia voluto alludere ad una perdita di qualità e di potenzialità della esistenza individuale. Un’idea che, del resto, trova riscontro in quel «pieno sviluppo della per-sona umana», di cui parla l’art. 3, co. 2, Cost. per garantire il quale il le-gislatore si impegna a rimuovere tutti gli ostacoli («di ordine economico e sociale») che ad esso si frappongano. Si può allora immaginare che, su scala privatistica, il danno non patrimoniale occupi una posizione ana-loga a quella occupata, sulla scala politico – istituzionale, dagli ostacoli che la Repubblica sarebbe tenuta a rimuovere. Certo, a differenza di questi ultimi che, per il loro carattere strutturale, impongono l’allesti-mento di uffici pubblici deputati alla erogazione di prestazioni di welfa-re, esso è, per definizione, un evento occasionale e casuale: e, nondime-no, il danno non patrimoniale, come gli «ostacoli», incide, sul progetto di vita del singolo, privandolo della possibilità di imprimere alla propria vita una certa direzione, o anche solo di farlo in modo pieno.

A ben vedere, poi, la distanza che separa le due tipologie di “avversi-tà” è minore di quanto possa apparire d’acchito. È vero, infatti, che ri-guardato dal punto di vista dell’“incidentato”, il danno non patrimonia-le è il classico infortunio che, pur potendo sconvolgere un’intera vita, è sempre iscritto nella dimensione della contingenza; mentre gli «ostaco-li», proprio perché di «ordine economico e sociale», sono molto più prossimi all’idea del destino che non a quella del caso. Tuttavia, in una

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prospettiva di tipo sistemico, il danno non patrimoniale, come quello patrimoniale, si presenta come l’ombra minacciosa che accompagna la vita di tutti noi, sempre esposti al rischio, non neutralizzabile perché innervato nelle strutture del quotidiano, di subire interferenze distrutti-ve di salute, affetti, aspettative, desideri. Se si guarda al danno non pa-trimoniale in questo modo, se ne recupera un’immagine di piena, anche se inquietante, normalità in linea con il processo di laicizzazione della responsabilità civile di cui si parlava prima. Non solo: perché una sua piena reintegra dentro la logica risarcitoria, varrebbe, per un verso, a ridimensionare l’ipoteca penalistica che sul danno non patrimoniale grava in virtù dell’originaria connessione con l’art. 185 c.p.; e, per altro verso, ad allinearne la fisionomia alle letture costituzionalmente orienta-te dell’art. 2059 promosse dalle nostre Corti superiori negli ultimi de-cenni le quali, come è noto, hanno allargato l’ambito applicativo dello stesso art. 2059 ben oltre i confini del danno morale soggettivo.

Insomma, sia pure con qualche sforzo, lo schema compensazione – sostituzione – riequilibrio può valere anche per il danno non patrimo-niale. L’impressione contraria, e la conseguente ricerca di funzioni ulte-riori della responsabilità civile (punitiva, satisfattiva) o, in alternativa, l’espianto del danno non patrimoniale dall’orizzonte di quest’ultima, si riannodano, con ogni probabilità, ad una visione di esso come preordi-nato alla tutela di interessi radicalmente altri rispetto a quelli tradizio-nalmente coperti dall’ombrello aquiliano. Come si è già detto, si avverte in un atteggiamento di questo tipo l’eco, neppure troppo lontana, della matrice punitiva imposta al danno non patrimoniale dal rinvio all’art. 185 c.p. e dalla connotazione soggettiva del danno morale che rimanda ad un’idea della umana sofferenza schiacciata sull’interiorità quando, piaccia o meno, il modello antropologico oggi dominante restituisce l’immagine di una persona tutta proiettata verso l’esterno: una persona per la quale, dunque, l’esposizione al rischio è parte integrante della co-struzione del “sé” e alla quale, dunque, in caso di incidente, va offerto il modo di riprendere, nei limiti del consentito, il percorso interrotto, e non il pretium doloris o la punizione dell’altro.

Piuttosto, si dovrà osservare come, nel caso del danno non patrimo-niale, la compensazione non potrà aver luogo che in forma monetaria, giacché, trattandosi di beni in sommo grado idiosincratici, un’eventuale riparazione in natura pencolerebbe irresistibilmente verso la reintegra del diritto, con conseguente metamorfosi della tutela da risarcitoria in

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Capitolo Quarto – Cosa significa “risarcire un danno”? 73

reale 36. La ragione di questo fenomeno risiede in ciò che i beni suscetti-bili di pregiudizi non patrimoniali sono puro valore d’uso 37, sicché, ove risarciti in forma specifica, finirebbero, in realtà, per essere reintegrati e non solo riparati. Vediamo di chiarire meglio il senso di questo discor-so. Tornando al (grossolano) esempio dell’affettatrice, si è visto come in questo caso il ricorso alla riparazione in natura venga reso possibile da quella che abbiamo chiamato coalescenza di danno emergente e di lu-cro cessante, ovvero dal fatto che qui l’integrità di quello specifico bene coincide con la sua capacità di generare profitto. Ne consegue che la va-riante “specifica” del risarcimento potrà avere corso perché essa, co-munque, neutralizza una perdita nel momento stesso in cui ripara un bene strumentale alla produzione di ricchezza. Per la ragione eguale e contraria, la riparazione in natura di un danno non patrimoniale si con-verte immediatamente in una reintegra dell’interesse leso. Ad es., la pubblicazione della sentenza che, ai sensi dell’art. 20 della l. 633/1941, riconosce la paternità dell’opera dell’autore, ripristina l’integrità del di-ritto morale violato, dislocandosi lungo una direttrice di intervento asim-metrica rispetto agli effetti esistenziali dell’usurpazione che, ove mai si siano verificati, potranno essere compensati attraverso la liquidazione di una somma di denaro che ripaghi il titolare del diritto della perdita (esi-stenziale) subita 38.

36 A riprova di quanto affermato nel testo si può richiamare la disciplina del danno ambientale (art. 311 del d.lgs. 152/2006) dove quello che il legislatore chiama risarci-mento in forma specifica coincide, puramente e semplicemente, con il ripristino dei luoghi. In realtà, anche il c.d. risarcimento per equivalente presenta, piuttosto, le carat-teristiche dell’attuazione forzosa di un obbligo di fare (o non fare), nel senso che il ma-teriale svolgimento dell’attività è a carico dell’avente diritto, mentre i costi sono addos-sati al responsabile. Semmai, la vera anomalia, tenuto conto del modo in cui è conge-gnato il rimedio, deve rinvenirsi nella circostanza che, quando l’inquinatore non svolga un’attività qualificata, egli risponda solo per dolo o per colpa.

37 A differenza dei beni che compongono il capitale fisso (l’affettatrice), quelli che possono generare un danno non patrimoniale sono, per definizione, privi di valore di scambio e neppure possono essere oggetto di usi produttivi. Questa affermazione va intesa non nel senso che tali beni siano ontologicamente sprovvisti di queste caratteri-stiche, ma solo nel senso che ne sono sprovvisti quanto vengono in considerazione nel-la veste di interessi giuridicamente rilevanti in grado di giustificare l’insorgere dell’ob-bligo di risarcire un danno non patrimoniale (tipico esempio di questa ambivalenza so-no il diritto al nome e il diritto all’immagine di cui agli artt. 7 e 10).

38 Ad es., l’incertezza generata dalla usurpazione della paternità dell’opera potrebbe

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 74

8. Punire senza sorvegliare: la responsabilità civile “afflittiva”

Dunque, anche là dove si tratti del danno non patrimoniale, la fun-zione della responsabilità civile resta quella di riparare un pregiudizio, sia pure esistenziale, secondo una logica che privilegia la neutralizzazio-ne compensativa delle conseguenze di una condotta illecita. L’impianto risarcitorio del rimedio aquiliano dovrebbe escludere di tutto principio la possibilità di ravvisare in esso attitudini diverse ed ulteriori, ricondu-cibili immediatamente alla ratio dell’istituto, alla sua conformazione normativa, e non selezionate sulla scorta di un grossolano scrutinio del-le sue potenziali ricadute effettuali 39. Va detto che questo approccio monofunzionale alla responsabilità civile è stato messo severamente alla prova proprio dall’espansione dell’area di rilevanza del danno non pa-trimoniale, il quale, diversamente da quanto qui sostenuto, è parso a molti, in dottrina e in giurisprudenza, ictu oculi refrattario all’applica-zione di una misura soltanto compensativa 40. Così, ad es., ad avviso del-la S.C. «quando l’illecito incide sui beni della persona, il confine tra com-pensazione e sanzione sbiadisce, in quanto la determinazione del quan-tum è rimessa a valori percentuali, indici tabellari e scelte giudiziali equi-tative, che non rispecchiano esattamente la lesione patita dal danneggia-to» 41.

avere precluso all’autore la partecipazione ad un importante premio letterario: ciò che di per sé, a prescindere da ipotetici risvolti patrimoniali, determina un impoverimento del percorso professionale dell’interessato, meritevole di essere risarcito. Va sottolinea-ta l’analogia con gli artt. 949 e 1079, dove all’accertamento della titolarità del diritto (reso effettivo dalla trascrizione della sentenza nei pubblici registri) si può accompa-gnare il risarcimento dei danni (qui, ovviamente patrimoniali) provocati dalla contesta-zione/negazione del diritto.

39 V. M. Barcellona, Trattato della responsabilità civile (Torino 2011), 7 s. 40 Si v., ad es., C. Salvi, La responsabilità civile, Tratt. dir. civ. diretto da G. Iudica e

P. Zatti (Milano 1998), 27 s. 41 Cass. (ord.) 16-5-2016, n. 9978. Si tratta dell’ordinanza con la quale la S.C. ha ri-

messo gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle SS.UU. della questione relati-va al riconoscimento di sentenze straniere recanti una condanna al pagamento di danni non puramente compensativi. Le SS.UU., investite della questione, hanno sposato la tesi della delibabilità dei provvedimenti stranieri “punitivi” (Cass. 5-7-2017, n. 16601) abbracciando incondizionatamente la tesi della polifunzionalità della responsabilità civile. Per una lettura in chiave critica delle due pronunzie rinvio a L. Nivarra, La Cas-sazione e il punitive damage: un mondo piccolo per grandi danni, I mobili confini del

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Capitolo Quarto – Cosa significa “risarcire un danno”? 75

Il ripudio dell’idea secondo la quale al torto aquiliano spetti (solo) di ristorare un danno è all’origine anche di quella giurisprudenza che, prendendo le mosse da una questione, tanto importante dal punto di vista pratico, quanto circoscritta sotto il profilo teorico (delibabilità del-la sentenze straniere di condanna al pagamento di danni ultracompen-sativi), ha voluto riconoscere nella responsabilità civile una piega puni-tiva che ne permetterebbe impieghi di tipo sanzionatorio 42.

Questa torsione in senso criminale del torto aquiliano, nonostante venga presentata come un’acquisizione modernizzatrice, rivela un’im-pronta decisamente regressiva e in netto contrasto con l’evoluzione sto-rica dell’istituto Inoltre, come si è già ricordato, il dibattito italiano sui c.d. danni punitivi è stato condizionato dal problema da cui esso ha tratto spunto: infatti, ai fini di una sua soluzione positiva, sarebbe stato sufficiente promuovere una lettura più ariosa e moderna della nozione di «ordine pubblico» (art. 64, lett. g) della l. 218/1995) 43 senza dovere immaginare una vocazione punitiva dell’illecito aquiliano. In altri ter-mini, la Cassazione, mutando sul punto il suo precedente orientamento, ravvisa nel torto extracontrattuale una sponda normativa idonea a sor-reggere l’innesto nel nostro sistema della pronunzia d’oltreoceano, quando, a tal fine, sarebbe stato sufficiente argomentare (come pure viene fatto) nel senso della astratta, e virtuale, compatibilità del rimedio “americano” con i principi della nostra Costituzione. La sovrapposizio-ne dei due piani – quello relativo alla introducibilità nel nostro ordina-mento di una pronunzia straniera ultracompensativa e quello relativo

diritto privato, a cura di L. Nivarra e A. Plaia (Torino 2018), 5 s. Un’ampia panoramica della questione offre M. Grondona, La responsabilità civile tra libertà individuale e re-sponsabilità sociale. Contributo al dibattito sui «risarcimenti punitivi» (Napoli 2017).

42 V. nt. precedente. Una limpida riproposizione dell’impianto monofunzionale del-la responsabilità civile si ha nella coeva Cass. 22-6-2017, n. 15534.

43 Sembrava questa la strada imboccata dall’ordinanza di remissione, anche se poi il Collegio non ha resistito alla tentazione di richiamare, ad adiuvandum, l’argomento del-la polifunzionalità (e, dunque, anche del possibile impiego in chiave punitiva) della re-sponsabilità civile. È pur vero che i precedenti, difformi, si fondavano sull’assunto con-trario: tuttavia, una volta resa autonoma la questione inerente al modo in cui intendere l’ordine pubblico da quella delle funzioni del torto aquiliano, e risolta tale questione sulla base del canone, condivisibile, della “conformità virtuale”, non si vede che neces-sità vi fosse di allargare lo spettro del discorso, tanto più che qui si trattava, semplice-mente, di riconoscere una sentenza straniera e non anche di motivare a sostegno di una pronunzia autoctona che, in tesi, avesse condannato al pagamento di danni punitivi.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 76

alla introducibilità nel nostro ordinamento di una regola che autorizzi il giudice a liquidare danni punitivi – pertinenti, viceversa, a questioni di-verse, pone capo, forse non del tutto casualmente, alla più classica ete-rogenesi dei fini, ovvero, come si diceva prima, alla ascrizione alla re-sponsabilità civile di una funzione punitiva.

Qui, poi, è necessario introdurre un’ulteriore precisazione. Il diritto italiano conosce già ipotesi nelle quali la condanna al pagamento di una somma di denaro soddisfa un’esigenza non puramente risarcitoria. Un esempio, al riguardo, lo offre l’art. 28 del d.lgs. 150/2001 a mente del quale «ai fini della liquidazione del danno il giudice tiene conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una prece-dente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento». Questa disposizione, che si ricollega a quel-la del precedente co. 5, ove è previsto che il responsabile della condotta discriminatoria venga condannato al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, in effetti abilita il giudice a determinare l’ammontare della somma dovuta all’attore tenendo conto di una variabile (la circostanza che la condotta discriminatoria costituisca ritorsione ecc.) irriducibile al danno emergente e al lucro cessante. Tuttavia, non si può dedurre da questo che il legislatore abbia inteso “penalizzare” il risarcimento del danno, al quale, in verità non si può chiedere nulla di più di quanto esso non possa dare, cioè, come si è visto, riparare una perdita (patrimoniale o esistenziale): la norma in questione, viceversa, deve essere intesa nel senso per cui, al momento della liquidazione del danno (da condursi se-condo i parametri usuali fissati dall’art. 1223) il giudice può arricchire la condanna di una frazione di denaro che traduca il disvalore rappre-sentato dalla specifica condotta antidiscriminatoria del responsabile.

L’art. 28 del d.lgs. 150/2001, al pari delle altre norme richiamate dal giudice di legittimità al fine di suffragare la tesi della compatibilità della condanna punitiva con il nostro sistema, però, è una disposizione pun-tuale, il cui ambito applicativo non può essere ampliato oltre i limiti propri (qui particolarmente stringenti) dell’interpretazione. Ciò spiega il perché della pressione esercitata sulla responsabilità civile e del tenta-tivo di ascriverle una funzione punitiva, atteso che, ai sensi dell’art. 23 Cost., «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge». Ora, la riserva di legge istituisce un vincolo procedurale che non può essere aggirato sulla base della sola “compati-

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Capitolo Quarto – Cosa significa “risarcire un danno”? 77

bilità virtuale” la quale, dal canto suo, inerisce al diverso piano della omogeneità del rimedio punitivo con i valori della Costituzione. E, del resto, le varie ipotesi dove, come nel caso dell’art. 28 del d.lgs. 150/2001, si prevede una condanna monetaria in funzione afflittiva, non sono su-scettibili di una censura costituzionale proprio perché rispettose del doppio limite (procedurale e sostanziale) posto dalla Carta. Si tratta, però, pur sempre, di fattispecie tipiche non suscettibili di manipolazioni estensive, attesa l’eccezionalità di regole civilistiche “punitive”. Da qui, appunto, lo zelo profuso dai fautori della generalizzazione del rimedio punitivo nel tentativo di accreditare la tesi di una polifunzionalità della responsabilità civile. Infatti, per il modo in cui è congegnato l’art. 2043, il quale collega l’insorgenza dell’obbligazione risarcitoria alla sola ingiu-stizia del danno, un’esigenza di questo tipo troverebbe agevole soddi-sfazione 44. Tuttavia, va osservato che le indubbie potenzialità espansive della formula dell’ingiustizia trovano, nel disegno originario del legisla-tore, un riequilibrio nell’assegnazione al rimedio aquiliano di una finali-tà precisa, individuata dal richiamo al danno («obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno»), inequivocabilmente inteso come perdita patrimoniale (art. 2056) o anche esistenziale (art. 2059).

La tesi della polifunzionalità della responsabilità civile, innestandosi su un tessuto normativo dove alla (odierna, ormai acquisita) notevole latitudine della protasi si accompagna la puntuale circoscrizione fun-zionale dell’apodosi, rischia di trasformare uno strumento duttile in uno strumento dalla fisionomia sbiadita e sottratto a condizioni d’uso anche solo minimamente definite. L’entusiasmo con cui oggi viene coltivata la prospettiva di una “ricriminalizzazione” su vasta scala del diritto civile, là dove non si ricollega ad interessi professionali tanto prosaici quanto, a modo loro, rassicuranti, è l’inquietante segno della abnorme pervasivi-tà di un paradigma penale destinato a vicariare, anche sul piano simbo-lico, politiche di redistribuzione della ricchezza e di riequilibrio sociale. Se proprio non neutralizzabile, ci sarebbe quanto meno da augurarsi che questa pulsione punitiva si incanalasse dentro i binari stabiliti dal-

44 In un certo senso, la storia si ripete: come nel caso dell’inibitoria, la via per una generalizzazione del rimedio fu indicata nell’art. 2058 (Libertini, La tutela civile inibi-toria, Processo e tecniche di attuazione dei diritti, cit., 315 s.), così oggi per i c.d. danni punitivi, il cui radicamento nel sistema passa attraverso una impropria penalizzazione della responsabilità civile.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 78

l’ordinamento, prendendo le forme di un chiaro disposto normativo conforme alla previsione dell’art. 23 Cost.: così come, del resto, è già avvenuto attraverso l’introduzione nel nostro ordinamento della c.d. astreinte (art. 614-bis c.p.c.).

9. Conclusioni

In questo capitolo abbiamo visto come l’ordinamento giuridico pre-disponga uno specifico rimedio inteso a compensare le perdite patri-moniali (o anche non patrimoniali: art. 2059) che taluno abbia subito a seguito del fatto illecito di un terzo. La perdita riparata attraverso il ri-sarcimento del danno è fenomeno diverso dalla aggressione subita dal diritto soggettivo (o figure affini: l’interesse legittimo, il possesso); e un chiaro indice di questa differenza è il modo in cui si articola, nei due ca-si, la tutela giurisdizionale. Infatti, mentre nel caso della tutela reale l’at-tore dovrà limitarsi ad allegare l’esistenza del diritto di cui lamenta la lesione 45, nel caso della tutela risarcitoria, viceversa, egli dovrà non sol-tanto provare di avere subito un pregiudizio, ma anche che quest’ultimo è ingiusto: cioè che esso consiste nel depauperamento di un cespite iscritto nel patrimonio della vittima sulla base di una regola ordinamen-tale (“ingiustizia del danno”).

Abbiamo potuto vedere anche come sia profondamente mutato, nel corso del tempo, il modo di intendere l’ingiustizia del danno: se per una lunga fase “danno ingiusto” ha significato lesione di un diritto assoluto, oggi, grazie anche all’apporto di una copiosa giurisprudenza, esso è si-nonimo di lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Questa for-mula sta a indicare che il risarcimento del danno può trovare fonda-mento anche nella perdita subita in relazione ad un bene per il quale quella aquiliana è l’unica forma di tutela predisposta dall’ordinamento. Il progressivo ampliamento della nozione di ingiustizia, che si traduce in un parallelo ampliamento dell’area del danno risarcibile, interpreta, sia pure talora in modo non lineare, la vocazione moderna della respon-

45 Per le ragioni che vedremo al Cap. V, § 12, il proprietario, in realtà, deve fornire, di tutto principio, e secondo regole alquanto stringenti, la prova del suo diritto. Tutta-via, come si è già osservato, anche nel caso del proprietario vi è una perfetta continuità tra il diritto dedotto in giudizio e quello di cui si reclama la tutela.

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Capitolo Quarto – Cosa significa “risarcire un danno”? 79

sabilità civile che è quella di redistribuire le perdite derivanti dal com-pimento di atti e dallo svolgimento di attività per definizione liberi.

Un laboratorio particolarmente fertile di questa evoluzione è stato il danno non patrimoniale, il quale si iscrive a pieno titolo entro l’orizzon-te della responsabilità civile di cui condivide la funzione compensativa: anche se qui, trattandosi di riparare non una perdita patrimoniale ma una perdita esistenziale, la tecnica risarcitoria va incontro ad alcuni ine-vitabili aggiustamenti. Infine, si è visto come la tutela aquiliana sia estranea a usi di tipo punitivo, sebbene oggi la giurisprudenza della S.C., con l’avallo della dottrina maggioritaria, sembra volersi orientare in senso diverso.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 80

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 81

CAPITOLO QUINTO

PROPRIETÀ E CREDITO: ANALOGIE (GRANDI) E DIFFERENZE (PICCOLE)

SOMMARIO

1. Breve riepilogo. – 2. Fantasie suprematiste. – 3. L’art. 1218 e l’art. 1453. – 4. Violen-za occulta (“validità”) e violenza manifesta, anche se ritualizzata (“tutela”). – 5. “To-gliere” e “non dare”. – 6. Esecuzione in forma specifica ed esecuzione per espropria-zione. – 7. L’art. 1218 e l’impossibilità imputabile: una prestazione per equivalente sot-to le mentite spoglie di un risarcimento del danno. – 8. Segue: l’inadempimento defini-tivo. – 9. La risoluzione. – 10. Gli obblighi di protezione. – 11. Il diritto di proprietà tra imprescrittibilità, usucapione. – 12. … e probatio diabolica.

1. Breve riepilogo

Abbiamo visto come la tutela giurisdizionale dei diritti si presenti in una duplicità di forme: la tutela reale e la tutela risarcitoria. Questa summa divisio riposa sul fatto che, negli ordinamenti giuridici moderni, i diritti soggettivi non si perdono mai, o, comunque, non per mano di un terzo e contro la volontà del titolare. Del resto, sarebbe molto strano se il monopolista della regola, dopo avere unilateralmente predisposto le condizioni di accesso ad un titolo giuridico che abilita chi lo abbia acquisito ad agire liberamente, avendo come sola bussola i propri inte-ressi, trascurasse di predisporre speculari condizioni di ripristino della pienezza di quel titolo, ove quest’ultimo risultasse interferito ab extrin-seco (si tratta, pur sempre, del binomio validità/tutela giurisdizionale su cui abbiamo impostato il nostro ragionamento fin dal principio).

Per converso, l’ordinamento giuridico non può impedire che quote di ricchezza accumulate mediante l’uso di quel titolo vengano distrutte

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 82

da interferenze esterne: e ciò per due ragioni fondamentali. La prima inerisce alla circostanza per cui, avendo il patrimonio una consistenza fattuale, esso non può (nel senso che è proprio impossibile) metterlo al riparo da fatti (cioè fenomeni qualitativamente omogenei) dannosi; la seconda è di natura politica, nel senso che prevenire una interferenza distruttiva di segmenti del patrimonio altrui richiederebbe un blocco pressoché totale della vita associata, evenienza, questa, come è facile supporre, del tutto fantasiosa. In casi di questo genere, l’unico rimedio che la legge può offrire consiste nella reintegrazione del patrimonio at-traverso il pagamento di una somma di denaro corrispondente all’am-montare della perdita subita (risarcimento per equivalente); oppure, da-te certe condizioni, attraverso la riparazione del bene danneggiato (ri-sarcimento in forma specifica).

Viceversa, come si è già accennato, l’idea di una perdita associata al diritto soggettivo è inconcepibile. Chi è titolare di un diritto lo può perdere nel senso che di esso dispone, trasferendolo ad un terzo o ri-nunziandovi (e si tratta pur sempre di atti di esercizio del diritto); op-pure nel senso di patirne l’ablazione per mano dello Stato, ovvero della stessa forza che quel diritto aveva costituito (si pensi al caso, classico, dell’espropriazione per pubblica utilità ma anche a quello dell’espro-priazione nell’ambito di una procedura esecutiva). Si danno, poi, delle figure intermedie dove la “perdita” del diritto risulta dal concorso della volontà attiva dello Stato e di quella passiva dell’interessato (prescrizio-ne, usucapione). Dunque, ripetiamo, l’illecito non può mai provocare la perdita di un diritto soggettivo. La indistruttibilità di quest’ultimo è ciò che spiega la distinzione tra le due forme di tutela di cui ci siamo occu-pati. Adesso è tempo di tornare a parlare della tutela reale 1.

2. Fantasie suprematiste

Nei primi due capitoli di questo libro, abbiamo ravvisato nello spo-glio e nell’inadempimento i due modi in cui il titolare di un diritto sog-gettivo può essere disturbato nell’esercizio delle prerogative accordate-

1 Quella proposta nel testo riecheggia la celebre griglia di G. Calabresi, A.D. Mela-med, Property Rules, Liability Rules and Inalienability: One View of the Cathedral, Harvard Law Reveview, 1972, 1089 s.

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 83

gli dalla legge 2. L’appaiamento di proprietà e credito, ancora oggi, su-scita qualche riserva poiché, sia pure con modalità che hanno dell’ance-strale, è diffusa tra i giuristi l’idea che i diritti reali siano più forti dei di-ritti relativi. Questa idea trae alimento da due fatti, distinti ma collegati. Il primo ha a che vedere con il ruolo svolto dalla proprietà nella elabo-razione del paradigma del diritto soggettivo e, più in generale, nella sto-ria della modernità giuridica; il secondo con una precomprensione non sempre adeguatamente filtrata, e malamente ontologizzata, di una tec-nologia regolatoria che risponde alla elementare esigenza di soddisfare con strumenti diversi domande sociali diverse. Il punto di convergenza è rappresentato dalla “esclusività” e dalla “autosufficienza” del domi-nium, tributarie, entrambe, di una invenzione della tradizione romani-stica 3 messa al servizio del nuovo ordine borghese e, per questo, poten-tissime, come tutti costrutti ideologici vincenti, nel performare un ordi-ne gerarchico dell’autonomia privata, costruito sull’assunto (sottratto a qualsiasi vaglio logico – critico) che i caratteri della proprietà individui-no l’essenza del diritto soggettivo.

Si tratta, come è facile intuire, una volta decostruita l’ideologia, di un’autentica insensatezza. Come si è già osservato, proprietà e credito non sono comparabili, né tanto meno gerarchizzabili, per la stessa ra-gione per la quale non lo sono gli interessi che l’una e l’altra servono. Del resto, basti immaginare quanto efficiente sarebbe un sistema di re-gole giuridiche che non consentisse ai privati di acquisire solo tempora-neamente la disponibilità di un bene. Per converso, le due figure si riav-vicinano, anzi proprio si sovrappongono, quando la prospettiva attra-verso le quali le si riguarda è quella della tutela giurisdizionale, cioè del-la comune appartenenza alla famiglia dei diritti soggettivi. L’essere giu-risdizionalmente tutelabile e l’essere un diritto soggettivo, infatti, sono due qualità non separabili (per essere precisi, sono la medesima cosa considerata da due distinti punti di vista), per la stessa banale ragione in

2 “Esercizio delle prerogative” è una di quelle formulette che usano i giuristi per de-scrivere cose del tipo: “entrare in un immobile senza che il proprietario o il detentore o anche il possessore chiami la forza pubblica”; oppure “scrivere una lettera a qualcuno intimandogli da fare qualcosa senza che il destinatario della lettera chiami la forza pubblica”.

3 Che è cosa diversa dal diritto romano dei romani come ricorda R. Orestano, In-troduzione allo studio storico del diritto romano (Bologna 1987), 455 s.

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forza della quale soddisfare le condizioni di validità di un atto di auto-nomia privata equivale a procurarsi il viatico per il processo. In altri termini, al di là delle differenze di ordine puramente funzionale imposte dalla varietà degli interessi regolati, il (presunto) primato della proprietà avrebbe un fondamento solo se di esso fosse dato rintracciare le basi nel modo di atteggiarsi della tutela. E, in effetti, è questa la strada che parte della dottrina aveva seguito, declassando il diritto di credito a mera si-tuazione strumentale (a fronte della proprietà, considerata una situazio-ne finale) e, per ciò, affidata alle sole cure del rimedio risarcitorio 4. In altri termini, per usare la terminologia di cui ci siamo avvalsi nel capito-lo precedente, in questa prospettiva, la pretesa del creditore retrocede da “interesse giuridicamente protetto” a “interesse giuridicamente rile-vante” il quale, pertanto, finisce per distinguersi dagli altri interessi del-lo stesso tipo, tutelabili in sede aquiliana, unicamente perché, nel suo caso, il giudizio di responsabilità subisce una drastica semplificazione in virtù dell’immanenza dell’ingiustizia all’inosservanza dell’obbligo da parte del debitore 5.

Già a partire dalla metà degli anni ’60 queste posizioni sono state messe in discussione 6 e, poi, nel corso degli anni ’70, grazie anche ad alcune importanti innovazioni legislative (si pensi all’art. 18 Stat. lav. il quale prevedeva la reintegra forzata nel posto di lavoro per il dipenden-te che avesse subito un licenziamento illegittimo) e a un più generale mutamento della cultura giuridica italiana, definitivamente liquidate 7. Il punto d’approdo di questo processo può essere considerato l’art. 614-bis c.p.c. il quale prevede che «con il provvedimento di condanna il giu-dice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la

4 S. Satta, L’esecuzione forzata, Tratt. dir. civ., diretto da Vassalli (Torino 1963). 5 Il destino puramente risarcitorio del credito trasformerebbe l’obbligo di presta-

zione in un semplice obbligo di protezione. Sugli obblighi di protezione v. infra, § 10. 6 M. Giorgianni, Tutela del creditore e tutela reale, Riv. trim. dir. proc. civ., 1975,

853 s. Si veda anche M. Giorgianni, Diritti reali (dir. civile), Noviss. Dig. it., V (Torino 1970), 748.

7 Un documento importante di quella stagione è la monografia di S. Mazzamuto, L’attuazione degli obblighi di fare (Napoli 1978). Un bilancio che, però, è, al contempo, un momento interno a quel processo di revisione culturale, in Mazzamuto (a cura di), Processo e tecniche di attuazione dei diritti, cit. Un riesame completo della materia offre F. Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale (Napoli 2011).

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somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subor-dinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e con-tinuativa di cui all’articolo 409. Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile» 8. Tuttavia, sia pure sullo sfondo, e forte-mente depotenziata, l’idea che il diritto di credito rappresenti una mo-dalità di tutela meno forte della proprietà continua ad abitare nella testa dei giuristi. Nei prossimi §§ vedremo come, in realtà, tra le due posizio-ni non esista, e non possa esistere, sotto il profilo della tutela giurisdi-zionale, cioè della comune vocazione ad attuarsi, nessuna differenza ve-ramente decisiva 9.

3. L’art. 1218 e l’art. 1453

Prendiamo in esame, per cominciare, l’art. 1218 secondo il quale «il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al ri-sarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è sta-to determinato da impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa a lui non imputabile». Per quanto questa disposizione sia stata oggetto di continui montaggi e rimontaggi, indicativi del peso che essa riveste ai fini dell’inquadramento dello stesso rapporto obbligatorio, il suo significato di base è abbastanza chiaro: nel caso in cui la prestazione sia divenuta impossibile per causa imputabile al debitore, il creditore

8 Sulla c.d. astreinte torneremo più avanti, § 6. 9 Questo, naturalmente, non significa che il loro trattamento processuale, sia identi-

co. Ad es., vedremo più avanti (§ 12) che il regime probatorio della proprietà è più se-vero di quello del credito, mentre, per converso, il debitore si libera dall’obbligo di prestare più agevolmente di quanto non accada allo spogliante rispetto all’obbligo di restituire per equivalente (nt. 20). Si tratta, però, di differenze che riflettono la diversa conformazione degli interessi protetti attraverso dispositivi normativi a loro volta, per forza di cose, strutturati, ciascuno, in modo da catturare la specificità dei rispettivi og-getti.

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sarà legittimato ad esigere il risarcimento del danno 10. L’altro punto fermo è che l’impossibilità imputabile non estingue il rapporto obbliga-torio: lo si ricava dall’art. 1256, co. 1 che, viceversa, include l’impossibi-lità sopravvenuta non imputabile tra i modi di estinzione dell’obbliga-zione diversi dall’adempimento.

L’art. 1218 coglie la storia dell’obbligazione in un passaggio critico, quello nel quale la prestazione è divenuta impossibile: quest’ultima, cioè, non potrà più essere eseguita dal debitore che di questo stato di cose sarà chiamato a rispondere («risarcimento del danno»). Proprio perché si presenta in questa versione così estrema, l’inadempimento da impossibilità imputabile individua una scena dai tratti sufficientemente definiti. Meno nitido, almeno d’acchito, risulta invece il quadro allorché la prestazione sia ancora possibile ma il debitore, in assenza di una giu-stificazione oggettiva, si astenga dall’eseguirla 11. Questa ipotesi non è materia di una prescrizione normativa comparabile, quanto a generalità e a (relativa) univocità, a quella dell’art. 1218. Tuttavia, una indicazione utile al riguardo ci viene dall’art. 1453, co. 1 per il quale «nei contratti con prestazioni corrispettive quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua volta chiedere l’adempimento o la riso-luzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno». A differenza di quella dell’art. 1218, la regola di cui all’art. 1453 viene det-tata relativamente ad una specifica sottoclasse di rapporti obbligatori, quelli a prestazioni corrispettive o sinallagmatici, gli unici, in effetti, per i quali l’alternativa azione di adempimento – azione di risoluzione mo-stri di avere un senso nella misura in cui si tratta, qui, di proteggere l’investimento del creditore consentendogli di scegliere tra la prosecu-zione del rapporto (e l’ottenimento forzoso dell’utilità garantitagli dalla validità del contratto) o un disimpegno dal vincolo (che avrà come con-seguenza il pieno recupero di quell’investimento e una più ridotta quan-tificazione del danno).

Tuttavia, dei due rimedi previsti dall’art. 1453, mentre uno (l’azione di risoluzione) è collegato alla bilateralità del rapporto, l’altro (l’azione di adempimento) può trovare comunque applicazione purché il debito-re non adempia. Se è così (e non vi è motivo di dubitare del contrario),

10 Come si vedrà più avanti (§ 7), si tratta di una formulazione ingannevole. 11 Caso diverso è quello di cui all’art. 1256, co. 2 relativo alla impossibilità tempora-

nea la quale, date certe condizioni, può dispiegare un’efficacia liberatoria.

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ne discende che la mancata esecuzione della prestazione potrà dipende-re o 1) dall’impossibilità imputabile, cui consegue il c.d. risarcimento del danno; 2) o dall’inadempimento in costanza della possibilità della prestazione il quale dà ingresso all’azione di adempimento. Vi è poi una terza modalità di crisi del rapporto obbligatorio che ricorre quando la prestazione, pur essendo ancora possibile, non rivesta più alcun interes-se per il creditore a causa del ritardo nell’adempimento da parte del de-bitore. Su tale ultima ipotesi ci soffermeremo successivamente, non sen-za avere precisato fin da ora che qui il problema può porsi in concreto solo a proposito di quelle fattispecie che non consentono l’esercizio del-l’azione di risoluzione.

4. Violenza occulta (“validità”) e violenza manifesta, anche se ritualiz-zata (“tutela”)

L’azione di adempimento è la proiezione processuale del diritto di credito in quanto diritto soggettivo. Essa, infatti, consente all’attore di porre a fondamento della sua domanda il diritto di cui è titolare e di ot-tenere la condanna del debitore ad eseguire la prestazione: condanna che, ove mai l’obbligato non ottemperi all’ordine giudiziale, si trasfor-merà in titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c. Prima di procedere oltre, è opportuno soffermarsi su cosa esattamente questo significhi specie in relazione al tema dei rapporti tra diritti assoluti e diritti relativi.

Come si è già detto più sopra, in particolare la proprietà vanterebbe una superiorità sul credito, sarebbe più forte del credito perché, a diffe-renza del creditore, il proprietario disporrebbe già del bene della vita su cui esercitare le prerogative accordategli dalla legge, mentre il creditore dipenderebbe dalla cooperazione del debitore, libero di decidere se eseguire o non eseguire la prestazione. In altri termini, mentre nel caso della proprietà, diritto e cosa procederebbero di conserva, nel caso del credito essi sarebbero separati, perché fra l’uno e l’altra si interporreb-be la prestazione affidata, se non all’arbitrio, quanto meno alla volontà del debitore. Questo modo di presentare le cose è gravemente sbagliato non solo perché, e lo abbiamo già detto, interessi diversi reclamano so-luzioni normative diverse, ma anche perché esso sembra ignorare la cir-costanza per cui l’unico terreno sul quale è possibile istituire un con-fronto è quello che proprietà e credito condividono, ovvero la tutela

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giurisdizionale dei diritti. Orbene, su questo terreno, salvo che per al-cuni aspetti secondari su cui ci intratterremo più avanti, non è dato scorgere alcuna differenza significativa perché è consustanziale all’idea del diritto soggettivo che esso debba essere attuato: anzi, per essere precisi, solo con riguardo ad un diritto soggettivo ha un senso parlare di attuazione, perché solo nel diritto soggettivo (che è validità dispiegata, ovvero validità vista dal punto di vista dei risultati cui essa può mettere capo) si annida la possibilità di uno scarto tra ciò che il sovrano promet-te e ciò che poi davvero accade: e il processo è il mezzo attraverso il quale l’eventuale cesura viene colmata.

Al proprietario viene promesso di godere e disporre della cosa (art. 833); al creditore viene promessa la prestazione negoziata con il debito-re. Dunque, in un primo momento (che, negli auspici del legislatore ot-timista, dovrebbe essere anche l’ultimo), la promessa viene mantenuta abilitando il proprietario a fare cose che altrimenti non potrebbe fare, tipo recintare il fondo o mettere un cartello con su scritto “Vendesi” al-l’ingresso della casa nella quale abita; ovvero, abilitando il creditore a scrivere lettere intimidatorie al debitore, oppure consentendogli di im-pedire che questi si privi di un bene dal quale, in futuro e ipoteticamen-te, egli (il creditore) potrebbe ricavare quanto necessario ad incamerare l’utilità a suo tempo negoziata con la controparte. In un secondo mo-mento (che il legislatore realista non può non prevedere), la promessa viene mantenuta mettendo a disposizione del proprietario e del credito-re la violenza, fino ad allora nascosta nelle asettiche pieghe della validi-tà, la quale ora si presenta sotto forma di processo. Nella prima fase, in altri termini, abbiamo una coercizione velata (la validità), nella seconda fase abbiamo una coercizione dichiarata, anche se nelle sembianze fel-pate del giudizio (la tutela).

Chiediamoci, ora, in dipendenza di cosa e in vista di cosa si rende necessario il passaggio dalla violenza occulta della validità alla violenza esplicita (anche se altamente ritualizzata) del processo 12. Al proprietario viene tolto il bene su cui gli era stato permesso di fare quello che dice-vamo prima; al creditore non viene dato quanto dovutogli dal debitore. Ridotta all’osso, e spurgata da secoli di retorica e di ideologia, la prima-

12 Il processo moderno è violenza ritualizzata esattamente come il lege agere: la dif-ferenza consiste in ciò, che mentre la violenza ritualizzata dal lege agere è quella priva-ta, la violenza ritualizzata dal processo moderno è quella del sovrano.

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zia della proprietà sul credito si risolverebbe nella differenza tra “toglie-re” e “non dare” (ovvero, come sogliono dire i civilisti, tra “apparte-nenza” e “spettanza”). Si tratta di capire, però, se questa differenza, nel-la prospettiva della tutela giurisdizionale, rivesta il significato decisivo che le si è voluto attribuire.

5. “Togliere” e “non dare”

In effetti, dal punto di vista strettamente empirico, “togliere” e “non dare” sono due cose differenti. Tuttavia, per quanto quella dell’empiria risulti una dimensione molto importante, raramente le è stata concessa l’ultima parola perché la complessità neuronale della specie alla quale apparteniamo tende a sovrastrutturare e a catturare il dato grezzo den-tro sistemi linguistici che trasformano l’input in output molto sofisticati. Il diritto moderno, in misura ancora maggiore rispetto alle esperienze giuridiche del passato (ad es., il diritto romano) si rende programmati-camente autonomo dalla natura (ne è un chiaro indizio lo spazio resi-duale assegnato alla fictio iuris), sicché fatti empirici come il “togliere” e il “non dare”, nella lingua delle norme, assumono un significato diverso e prendono il nome di “spoglio” e di “inadempimento”. Tuttavia, que-sta traduzione avviene sulla base di un sistema di regole che funziona secondo un codice a due valori grazie al quale tutti i comportamenti resi possibili dall’attribuzione del diritto soggettivo sono considerati leciti, mentre quelli che si pongano in contrasto con i primi sono detti illeciti.

Sotto questo profilo, “togliere” (lo spoglio) e “non dare” (l’inadem-pimento) sono perfettamente equivalenti perché entrambi lesivi di quel-la direttiva di inviolabilità che deve reputarsi immanente all’idea stessa di diritto soggettivo. Così stando le cose, dovrebbe risultare chiaro che, in definitiva, anche il “non dare” possiede le caratteristiche del “toglie-re”. Non si dimentichi, infatti, che il credito, come posizione giuridica di vantaggio, consiste in un diritto alla prestazione: e la prestazione, es-sendo il vettore dell’utilità promessa al creditore, è cosa diversa, ovvia-mente, da quest’ultima. Anche qui, dunque, sarebbe bene non perdere di vista la res e sforzarsi di adeguarle l’intellectus: certo, l’inadempimen-to non toglie l’utilità, ma toglie la prestazione, cioè, per il modo in cui è costruito il diritto di credito, anche l’unica cosa che, in pendenza del rapporto obbligatorio, possa essere tolta, ma anche l’unica che il sovra-

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no possa restituire in esecuzione dell’impegno assunto al momento della somministrazione della validità 13. Del resto, che il credito, in quanto ti-tulus idoneo a rivendicare la prestazione, e a trattenere l’utilità individui un valore finale e autonomo, è testimoniato dalla circostanza che esso possa essere ceduto, (art. 1260), pignorato (art. 543 c.p.c.), costituito in pegno (art. 2784, co. 2; art. 2805); iscritto nel bilancio di una società (art. 2424). In altre parole, il diritto di credito, al pari del diritto di pro-prietà, trova posto, a tutti gli effetti, nel patrimonio giuridico (non pu-ramente economico) del suo titolare, sicché, anche da questo punto di vista, ben può dirsi che il “non dare” equivalga ad un “togliere”, o, se si preferisce, che il credito appartenga al creditore.

Riepilogando. Il pieno allineamento, in punto di tutela giurisdizionale, del diritto di proprietà e del diritto di credito, può essere apprezzato sot-to un triplice profilo. In primo luogo, sia l’uno sia l’altro partecipano del-la inviolabilità che spetta loro in quanto diritti soggettivi, cioè emanazio-ne diretta della sovranità dello stato; in secondo luogo, perché quello che, d’acchito, sembra un “non dare” è, in realtà, un “togliere” che ha per og-getto la res; infine, perché il diritto di credito mostra, fin da subito, una piena autosufficienza rivelata dalla sua attitudine lato sensu circolatoria.

6. Esecuzione in forma specifica ed esecuzione per espropriazione

La legge asseconda la pulsione acquisitiva del credito (che, nella so-stanza, non si distingue dalla pulsione acquisitiva della proprietà) met-tendo a disposizione dell’attore che si sia procurato una sentenza di con-danna due strumenti: l’esecuzione per espropriazione e l’esecuzione in forma specifica. La dualità dei procedimenti esecutivi dipende dalle tre circostanze che possono darsi in concreto. La prima, più ovvia, è che il credito abbia ad oggetto una somma di denaro; la seconda è che, essendo divenuta la prestazione impossibile per causa imputabile al debitore, il creditore debba accontentarsi del c.d. risarcimento del danno. Il terzo, e ultimo, scenario, sul quale si tornerà più avanti, è che il creditore, a causa dell’ingiustificato ritardo nell’adempimento da parte del debitore, abbia

13 L’esecuzione forzata, nelle sue due forme, è il surrogato dell’adempimento, ossia il nome che diamo all’attività finalizzata a trasferire nel patrimonio del debitore l’utilità che costituisce oggetto della prestazione.

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perso interesse a ricevere la prestazione. Si tenga presente, poi, che la pretesa risarcitoria ex art. 1223 mettendo capo ad una condanna pecunia-ria, non potrà farsi valere che nelle forme dell’espropriazione.

Quest’ultima, infatti, è congegnata in modo da procurare al creditore il ricavato della vendita forzata dei beni pignorati al debitore, nei limiti imposti dalla capienza del patrimonio dell’esecutato, dall’ammontare del credito e dal concorso di eventuali altri creditori (art. 2741). Secon-do l’opinione dominante, il fondamento normativo dell’esecuzione per espropriazione deve rinvenirsi nell’art. 2740 a mente del quale «il debi-tore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni, presenti e futuri. Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge». La portata di questa norma, la cui esplicitazione si ritrova all’art. 2910, non va enfatizzata. L’assoggetta-mento del patrimonio del debitore alla pretesa creditoria, difatti, è già iscritto nelle regole che governano la procedura esecutiva (a partire da-gli effetti del pignoramento: art. 2912 s.; art. 491 s. c.p.c.), come in quel-le che disciplinano i mezzi di tutela preventiva del credito (artt. 2900-2906). Piuttosto, di essa deve valorizzarsi la rappresentazione efficace del fatto che il creditore gode di una posizione giuridica molto forte, di cui il segno più chiaro è proprio la ingombrante presenza del rapporto obbligatorio nel patrimonio della controparte fin dal momento del suo venire in essere. Non sarà la proprietà, che è immediata e solitaria, ma si tratta pur sempre di un dispositivo nel quale trova espressione, in una forma adeguata alla cosa, quella incoercibile spinta ad annettersi il mondo esterno che è propria dei diritti soggettivi. In particolare il dirit-to di credito, caratterizzato da una struttura tipicamente relazionale, manifesta la sua pulsione acquisitiva non escludendo ma includendo, nel senso che esso, attraverso strumenti quali, ad es., la tutela preventiva o il pignoramento dopo la notifica del precetto, esercita un potente condizionamento sulla sfera giuridica del debitore, trasformandola, al-meno in parte, in una estensione di quella del creditore.

L’esecuzione in forma specifica (artt. 2930-2933; artt. 605-614-bis c.p.c.) consente al creditore di acquisire l’utilità oggetto della prestazio-ne quando quest’ultima sia ancora possibile e non consista una somma di denaro 14. La “specificità” dell’esecuzione in forma specifica esige un

14 Su cui v., ancora oggi, la magnifica trattazione di S. Mazzamuto, L’esecuzione for-zata, Tratt. dir. priv., diretto da P. Rescigno, 20 (Torino 1998), 298 s.

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chiarimento perché altrimenti il confronto con l’esecuzione per espro-priazione potrebbe dare luogo a qualche equivoco e indurre nel convin-cimento (erroneo) che quest’ultima rappresenti un minus rispetto alla prima. In realtà, a decidere la forma dell’esecuzione è il tipo di presta-zione che va surrogata. Può accadere, lo si è già ricordato e sul punto si tornerà da qui a breve, che la prestazione originariamente dovuta sia di-venuta impossibile per causa imputabile al debitore, sicché il creditore dovrà “accontentarsi” del c.d. risarcimento del danno: con la conse-guenza che la procedura esecutiva attingibile sarà quella per espropria-zione e non quella in forma specifica. In altre parole, dovrebbe essere chiaro che così come il binomio tutela specifica/tutela per equivalente (alla quale andrebbe sostituita la coppia tutela reale/tutela risarcitoria) è ingannevole là dove allude ad una qualche forma di gerarchizzazione dei due termini, analogo rilievo vale per il binomio esecuzione per espropriazione/esecuzione in forma specifica le quali non possiedono alcuna virtù performativa della realtà, ma sono il semplice riflesso della regola sostanziale cristallizzata nella sentenza di condanna.

Una chiara conferma di quanto appena osservato si può ricavare mettendo in relazione il risarcimento del danno in forma specifica (art. 2058) e l’esecuzione in forma specifica degli obblighi di fare (art. 2931). Come abbiamo visto, il risarcimento in forma specifica è quella partico-lare modalità riparatoria che, senza compromettere la finalità compen-sativa del rimedio, privilegia la riparazione rispetto alla sostituzione. Ora, è evidente che la condanna alla riparazione dell’affettatrice del no-stro inelegante esempio darà ingresso, si direbbe in modo elettivo, alla machinery descritta dall’art. 2931 («se non è adempiuto un obbligo di fa-re, l’avente diritto può ottenere che esso sia eseguito a spese dell’obbligato nelle forme stabilite dal codice di procedura civile») posto che, in linea di massima, e salvo casi eccezionali, il danneggiante non disporrà degli strumenti tecnici e delle competenze necessarie ad effettuare la ripara-zione. In altri termini, l’alternativa offerta dal sottosistema delle tutele esecutive è mero riflesso della posizione di vantaggio che, volta per vol-ta, deve trovare attuazione: sicché, anche su questo piano, sgomberato il terreno dagli apriorismi dogmatici (il diritto di proprietà più forte del diritto di credito, la tutela specifica più forte della tutela per equivalen-te) e restituita ogni cosa a ciò che le appartiene, (così come impone l’equilibrio nel pensare), l’ossessione gerarchizzante che in modo espli-cito, o surrettizio, ha spesso condizionato il discorso dei giuristi italiani

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 93

in punto di tutela giurisdizionale, può essere mandata in soffitta anche per quello che riguarda le due epifanie dell’esecuzione forzata 15.

Il definitivo epitaffio della cultura della gerarchizzazione lo ha scritto l’art. 614-bis c.p.c. Questa norma (sulla falsariga di misure analoghe in uso presso ordinamenti come, ad es., l’astreinte francese) introduce uno strumento di esecuzione indiretta, grazie al quale è possibile, sempre nei limiti del possibile, indurre il debitore a fare ciò che è tenuto a fare quando, a differenza di ciò che accade nei casi di cui si occupano gli artt. 2931 e 2933, la sua prestazione non sia, come si dice in gergo, fun-gibile, cioè non possa essere attuata a spese di altri.

Si tratta del punto di massima espansione della volontà di potenza della legge che, però, corrisponde in pari tempo alla presa d’atto della inefficacia del suo comando di fronte al concorso della indisponibilità del debitore ad attuare spontaneamente il vincolo, e della insuperabilità del limite naturalistico (che è ciò a cui diamo il nome di infungibilità) 16.

15 Il punto di vista espresso nel testo è criticato da A. Di Majo, L’obbligazione “pro-tettiva”, Europa e dir. priv., 2015, 2, ad avviso del quale «non può trarre in inganno, così da ipotizzare una omologazione tra le due forme, il fatto che la tutela del diritto di obbligazione possa servirsi di “rimedi”, quali la (tecnica dell’)esecuzione in forma spe-cifica (recata dagli art. 2930 ss. c.c.) che indubbiamente non perseguono finalità risarci-torie». In altre parole, secondo l’illustre Autore, la circostanza che i diritti di credito abbiano accesso all’esecuzione in forma specifica non consentirebbe, in ogni caso, di riportare quei diritti entro il perimetro della tutela reale la quale rimarrebbe appannag-gio dei soli diritti reali. Non si può fare a meno di osservare che una prospettiva del tipo di quella indicata da Di Majo sembra fondarsi su un’ipostasi per cui la “natura” di un diritto prescinderebbe dallo strumentario deputato alla sua attuazione: sicché l’ese-cuzione in forma specifica, se posta al servizio della proprietà, si configurerebbe come l’emanazione della “natura”, appunto, del diritto tutelando, mentre se posta al servizio del credito, essa fungerebbe da pura tecnica di sostegno ad una situazione di vantaggio ontologicamente più debole del diritto reale. In realtà, tertium non datur: o, come so-steneva Satta, la strumentalità dei diritti di credito li condanna ad un destino puramen-te risarcitorio, oppure, se, come da tempo generalmente si ritiene, al creditore è con-sentito di appropriarsi della stessa utilità che avrebbe ricevuto attraverso la prestazione è perché, al pari del proprietario, egli ha titolo per infrangere la sfera possessoria di chi ostacola il disegno allocativo che accompagna l’attribuzione del diritto (soggettivo) e per andare a prendere ciò che è suo.

16 Semmai deve segnalarsi come, anche a causa della perdurante debolezza del qua-dro economico generale e della conseguente esposizione al rischio di dissesto di impre-se e famiglie si vadano diffondendo tecniche convenzionali di gestione della crisi del rapporto obbligatorio: dagli accordi di ristrutturazione alla disciplina del sovraindebi-

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 94

Al riguardo, vale la pena di sottolineare la differenza che passa tra que-sto caso e quello contemplato dall’art. 2932 dove, come abbiamo vi-sto 17, il massimo di infungibilità della prestazione (la dichiarazione di volontà del promittente), si abbina il massimo di surrogabilità dell’uti-lità che, consistendo in un effetto giuridico, è per intero nelle mani del sovrano (qui validità e tutela giurisdizionale si sovrappongono fino a coincidere).

Come è stato bene chiarito dalla S.C., sebbene la questione non avesse neppure motivo di porsi, tra l’esecuzione indiretta e i danni puni-tivi non vi è alcun rapporto 18. Per il modo in cui il rimedio è congegna-to, esso è in tutto sganciato da quelle finalità di tipo sanzionatorio che sono proprie del punitive damage. L’astreinte, infatti, non punisce ma introduce una variabile (di convenienza): cioè, l’esatto contrario della sanzione, la quale contiene un ineliminabile tratto di definitività: sicché, da questo punto di vista, ogni accostamento è arbitrario e può essere solo il frutto di un pensiero confuso.

7. L’art. 1218 e l’impossibilità imputabile: una prestazione per equiva-lente sotto le mentite spoglie di un risarcimento del danno

Passiamo ora all’esame del caso nel quale la prestazione sia diventata impossibile. L’art. 1218, come si è già detto, prevede che il debitore, ove l’impossibilità gli sia imputabile, debba risarcire il danno. In questo contesto, il richiamo al risarcimento del danno suona, per le ragioni che vedremo da qui a breve, molto ambiguo e, quindi, bisognoso di un’ana-lisi più ravvicinata. Partiamo da una costatazione elementare, e cioè che il codice civile disciplina espressamente il risarcimento del danno da inadempimento: all’art. 1223, infatti, si legge che «il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la per-

tamento ai c.d. “nuovi marciani” che si presentano come programmaticamente alterna-tive al ricorso all’esecuzione forzata. È anche una delle forme che assume la fuga dal processo, alimentata dal cattivo funzionamento della macchina della giustizia e dai suoi costi crescenti. Sul punto, per un primo inquadramento di carattere generale, v. A. Plaia, Profili evolutivi della tutela contrattuale, Europa dir. priv., 2018, 89 s.

17 Cap. I, § 3. 18 Cass. 15-4-2015, n. 7613.

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 95

dita subita dal creditore come il mancato guadagno in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta». Per il modo in cui la disposizione è congegnata, è chiaro che il legislatore vede nell’inadempimento l’ante-cedente causale del danno – perdita patrimoniale, calcolato secondo i due noti criteri del danno emergente e del lucro cessante (perdita subita e mancato guadagno). Tutto questo è perfettamente comprensibile. Il danno contrattuale – a differenza di quello extracontrattuale – presup-pone, anzi postula, una prossimità di sfere giuridico-patrimoniali che espone il creditore ad un rischio la cui consistenza è direttamente pro-porzionale a quella che i tedeschi chiamano Einwirkungsmöglichkeit (possibilità di interferenza).

Su questa base, e attraverso una enfatizzazione del divario che separa la posizione del “chiunque” aquiliano da quella del debitore, sempre i tedeschi hanno elaborato la categoria degli obblighi di protezione (Schutzpflichten), in virtù della quale pregiudizi eccentrici rispetto a quelli da inadempimento (e, quindi, destinati, per definizione, al suggel-lo extracontrattuale) sono stati ricondotti entro l’orbita della responsa-bilità da contratto 19. L’inadempimento, attraverso il quale si consuma quel “non dare” che, al pari del “togliere” cui pone capo lo spoglio, vio-la il diritto del creditore, è anche causa di una diminuzione del patri-monio di quest’ultimo immediatamente rilevante perché in re ipsa in-giusta.

Torniamo ora all’art. 1218. Qui l’insorgenza dell’obbligazione risar-citoria è collegata a quella particolare, e radicale, epifania dell’inadem-pimento che si accompagna all’impossibilità imputabile. Questa circo-stanza, in astratto, può essere interpretata in due modi molto diversi. Il primo è che l’art. 1218 dica la stessa cosa che dice l’art. 1223, in una forma più contorta e con l’aggiunta di una specifica variante (il riferi-mento all’impossibilità). Il secondo è che la regola istituita dall’art. 1218 faccia dipendere il risarcimento del danno dall’impossibilità im-putabile in quanto tale e non dalle conseguenze che essa, in quanto forma estrema dell’inadempimento, provoca. Ora, la prima ipotesi vio-la un limite fondamentale dell’interpretazione giuridica (ma anche del-la sintassi logica che governa l’economia di qualunque discorso non appartenente al dominio della retorica): il limite che esclude, in linea di massima, la proferibilità della parola ridondante. L’altra ipotesi è che,

19 Infra, § 10.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 96

in realtà, l’art. 1218, subordinando il risarcimento all’impossibilità, in-tenda tutelare il creditore non dalle perdite derivanti dall’inadempi-mento (secondo lo schema genuinamente riparatorio dell’art. 1223), ma dalla sottrazione dell’utilità illo tempore assegnatagli con la stipula del contratto.

Ora, se come appare perfino scontato, il risarcimento del danno (nel-la prospettiva dell’art. 1218) si riannoda all’esigenza di sopperire alla prestazione divenuta impossibile, ne discende che esso si colloca su un terreno asimmetrico rispetto allo spazio in cui trova posto la misura contemplata dall’art. 1223. L’impossibilità, infatti, in quanto iperbole dell’inadempimento, sottrae al creditore quanto è già suo: sicché il pro-blema da risolvere una volta divenuta oggettivamente ineseguibile la prestazione, è di far recuperare al creditore medesimo l’utilità promes-sagli nell’unico modo in cui ciò è ancora (e sempre) consentito, ovvero mediante la corresponsione di una somma di denaro equivalente al va-lore di mercato della res. In altri termini, l’inestinguibilità del denaro (genus nunquam perit), nuovo oggetto dell’obbligazione, ripristina la fattibilità della prestazione e, quindi, in assenza di un adempimento spontaneo da parte del debitore, l’assoggettamento del patrimonio di quest’ultimo alla procedura espropriativa.

Da questo punto di vista molto istruttivo si rivela il confronto con l’art. 948, co. 1 dove, con riguardo all’ipotesi dello spoglio, è detto che «il proprietario può rivendicare la cosa da chiunque la possiede o detiene e può proseguire l’esercizio dell’azione anche se costui, dopo la domanda, ha cessato, per fatto proprio, di possedere o detenere la cosa. In tal caso, il convenuto è obbligato a recuperarla per l’attore a proprie spese o, in man-canza, a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno». Infatti, ai fini del nostro discorso, l’art. 948, co. 1 ha un grande pregio che è quello di accostare e, quindi, allo stesso tempo, di distinguere, il risar-cimento del danno dalla corresponsione del valore della cosa perita (o smarrita): in un certo senso, si potrebbe dire che esso rappresenti una sintesi dell’art. 1218 e dell’art. 1223. Da ciò, in primo luogo, si ricava la conferma del medesimo atteggiarsi di diritto di proprietà e diritto di credito in punto di tutela giurisdizionale: riflesso fedele e infallibilmente verace della comune soggiacenza alla cupola del diritto soggettivo. In secondo luogo, questa norma ribadisce, con grande chiarezza, la diffe-renza che passa tra tutela reale e tutela risarcitoria: altro è, infatti, resti-tuire l’utilità sottratta, altro è reintegrare il patrimonio diminuito. Infi-

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 97

ne, da tutto questo si ricava la congenita neutralità dello strumento ese-cutivo che vestirà i panni dell’esecuzione in forma specifica dello stru-mento esecutivo allorché la prestazione sia ancora possibile, e quelli del-l’esecuzione per espropriazione quando sarà possibile solo per equiva-lente 20.

20 L’accostamento dell’art. 1218 all’art. 948 e il suo corollario – ovvero che il «ri-sarcimento del danno» di cui parla il primo deve considerarsi, piuttosto, un’attuazione per equivalente del diritto leso nel senso proposto dal secondo – non convince Di Ma-jo, L’obbligazione “protettiva”, cit., 3-8 il quale fa valere argomenti fondati, sostan-zialmente, sulla circostanza per cui il debitore si può liberare offrendo la prova della non imputabilità dell’impossibilità sopravvenuta, mentre un’analoga opportunità non sarebbe offerta all’autore dello spoglio. Al riguardo si possono formulare varie osser-vazioni. In primo luogo, si pensi allo stato di cose antecedente l’esecuzione della pre-stazione dovuta: la sopravvenuta, non imputabile, impossibilità di quest’ultima rive-ste, per il creditore, il medesimo significato che per il proprietario possiede il peri-mento fortuito della cosa: entrambi, creditore e proprietario, perdono il loro diritto. Una conferma indiretta di quanto appena affermato si ricava dall’art. 1221, co. 1, a mente del quale «il debitore che è in mora non è liberato per la sopravvenuta impossibi-lità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, se non prova che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore». La disposizione appena richiamata, infatti, rivela come, una volta verificatasi la sottrazione dell’utilità, sotto forma di un inadempimento sacramentale, di essa il debitore sia comunque chiamato a rispondere salvo che egli, sulla base di un giudizio ipotetico di non facile articola-zione, riesca a provare che, per quanto tempestivo fosse risultato il suo adempimento, la cosa sarebbe perita anche presso il creditore. In altri termini: anche una volta con-sumatosi l’illecito (spoglio-inadempimento), le due posizioni (dello spogliante e del debitore) si eguagliano nel comune destino di assoggettamento, sotto la specie della corresponsione del valore della res ormai perita, alla perpetuatio, dominii o obligatio-nis. Il regime più mite riservato al debitore dipende dalla circostanza che il diritto del creditore ha per oggetto la prestazione, la somministrazione della quale implica per la controparte un costo che soltanto un ordinamento svincolato da canoni di razionalità potrebbe esigere anche quando fosse dimostrato che un’esecuzione tempestiva sareb-be stata indifferente per l’avente diritto. Si vuol dire che un meccanismo come quello della perpetuatio obligationis si giustifica solo se funzionale a procurare al creditore (sia pure per equivalente) ciò che davvero gli spetta, e non una sorta di premio di con-solazione, oneroso per il debitore sino ai limiti dell’ingiustificato arricchimento. Quanto, poi, al punto, vigorosamente sottolineato da Di Majo, per cui il debitore, a differenza dell’autore dello spoglio, può liberarsi adducendo fatti di esonero dalla re-sponsabilità che ineriscono alle modalità della sua condotta, si può dire questo. Intan-to, a mio avviso, bisognerebbe distinguere tra criteri soggettivi di imputazione della responsabilità (tipici dei giudizi preordinati all’addossamento di un’obbligazione ri-sarcitoria) e strategie di allargamento del perimetro della responsabilità oggettiva, tra-

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 98

Naturalmente, la doppia anima del risarcimento del danno contrat-tuale, il quale una volta è, in realtà, prestazione per equivalente (art. 1218), e, un’altra volta, genuina riparazione, deve tener conto del tipo di utilità promessa al creditore. Vi sono casi nei quali, infatti, la mancata esecuzione della prestazione (anche nella sua versione più estrema, coincidente con l’impossibilità imputabile), non può che essere solo causa di una perdita patrimoniale. Questo è vero, ad es., in tutte quelle ipotesi nelle quali la prestazione consista in un facere che non metta ca-po ad un opus, risolvendosi, piuttosto, in un’attività funzionale al soddi-sfacimento di un qualche interesse del creditore. Si pensi al contratto di mandato o al contratto di trasporto: in casi di questo genere l’utilità si presenta nella forma di un servizio strumentale all’acquisizione di un’u-tilità che, ove non conseguita, comporta per il creditore, appunto, un mancato guadagno ma non certo il toglimento di un bene. Ad es., il

dizionalmente incardinato sul caso fortuito e sulla forza maggiore, tendenti ad inclu-dere nell’area di irresponsabilità situazioni apprezzabili secondo criteri pur sempre rigorosamente oggettivi (come accade al § 275 B.G.B., Abs. 2 3, richiamato da Di Ma-jo, dove al debitore è consentito di liberarsi invocando la inesigibilità o la sproporzio-ne della prestazione, che sono connotati di uno stato di cose e non modalità di una condotta). In secondo luogo, non si può dimenticare che l’obbligo gravante sull’auto-re dello spoglio di corrispondere, là dove egli ne abbia perduto il possesso, il valore economico della cosa, incontra, comunque, il limite impreteribile del fatto proprio: con la conseguenza che egli potrà liberarsi una volta dimostrato il caso fortuito o la forza maggiore. Si tratta, al netto degli aggiustamenti di cui si diceva appena sopra, di una regola parallela a quella dettata dall’art. 1218 in punto di impossibilità imputabi-le, con la conseguenza che, anche da questo punto di vista, le distanze tra i due ambiti mostrano di accorciarsi notevolmente [sul punto v. C. Argiroffi, Delle azioni a difesa della proprietà, Il codice civile. Commentario, fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F. Busnelli (Milano 2011), 136 s.]. Più in generale, poi, deve ribadirsi che la omogeneità ravvisabile sotto il profilo della comune inclinazione ad attuarsi manu militari non significa che il diritto di proprietà e il diritto, entrambi diritti sog-gettivi al cospetto della tutela, siano in tutto e per tutto identici. Così, la prestazione, oggetto del diritto di credito, è un costrutto risultante dall’attività del debitore e dalle regole che la disciplinano, ivi incluse quelle che, date certe circostanze, ne sanciscono la non esigibilità (in forma specifica o per equivalente) da parte del creditore. Ciò, pe-rò, può significare, al massimo, che egli sarà esposto ad un rischio maggiore di quello che incombe sul proprietario. Non solo: come vedremo, (§ 12) l’onere della prova cui sottostà il dominus è incomparabilmente più gravoso di quello riservato al creditore, senza che ciò implichi alcunché in ordine alla (im)possibilità di ravvisare nelle due tecnologie normative una eguale pulsione a rendere la realtà conforme al disegno allo-cativo che le anima.

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 99

conducente di una vettura a noleggio che, non rispettando l’orario con-venuto, impedisca al cliente di arrivare di arrivare in tempo utile al-l’aeroporto, oppure il mandatario negligente che privi il mandante della disponibilità di un bene da destinare allo svolgimento di un’attività pro-duttiva.

È vero che qui il ritardo o l’inesattezza nell’inadempimento rendono la prestazione sostanzialmente impossibile ma è altrettanto vero che il valore che essa rivestiva per il creditore coincideva con le probabilità di guadagno che ne sarebbero derivate: sicché l’unico rimedio in concreto esperibile è il “vero” risarcimento del danno di cui all’art. 1223. Quan-do, viceversa, il facere del debitore sia destinato a tradursi in un opus (tipico il caso del contratto d’appalto), l’impossibilità imputabile sottrae al creditore l’utilità attribuitagli dal contratto: sicché l’esperimento della misura prevista dall’art. 1218 sarà perfettamente giustificata.

8. Segue: l’inadempimento definitivo

Dunque, gli infortuni nei quali può incorrere il rapporto obbligato-rio sono fondamentalmente di due tipi: l’inadempimento in costanza della possibilità della prestazione e l’inadempimento collegato alla so-pravvenuta impossibilità imputabile della prestazione. Nel primo caso, il creditore potrà esercitare l’azione di adempimento e, una volta otte-nuta la condanna del debitore, procedere con l’esecuzione in forma specifica; nel secondo caso, sostituitosi alla prestazione originaria il suo equivalente monetario, il creditore aggredirà il patrimonio del debitore attraverso l’esecuzione per espropriazione.

Va detto che, nello svolgersi della concreta dinamica processuale, le due occorrenze hanno buone probabilità di incontro e di intreccio. Di massima, infatti, il creditore, che nulla sa e nulla è tenuto a sapere della sorte della prestazione (cioè della sua perdurante possibilità o della sua sopravvenuta impossibilità), in citazione chiederà che il debitore venga condannato ad eseguire la prestazione; mentre questi, nella comparsa di risposta, potrà (e dovrà) eccepirne la sopravvenuta impossibilità, al con-tempo fornendo la prova della non imputabilità della medesima (così come prescritto dall’art. 1218). L’eccezione (in senso stretto) sollevata dal convenuto, nella misura in cui incide sul petitum per il modo in cui questo era stato configurato nella domanda, legittima l’attore a «propor-

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 100

re le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda ricon-venzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto» (art. 183, co. 5, c.p.c.): sicché, a quel punto, l’oggetto del contendere verterà sulla circo-stanza che la prestazione sia davvero divenuta impossibile, ovvero sulla non imputabilità al debitore della impossibilità della prestazione mede-sima.

Questa articolazione della dialettica probatoria incorpora e riflette, nelle forme proprie del tecnicismo processuale, la regola del “primato dell’adempimento in natura”, non enunciata in modo esplicito dal legi-slatore ma ricavabile dall’art. 1218: una regola che, una volta spogliata delle aurorali suggestioni ideologiche, significa una cosa abbastanza semplice, anzi banale: e cioè che il creditore agisce per l’utilità origina-ria fino a quando la prestazione è possibile, agendo per l’utilità equiva-lente allorché la prestazione originaria sia divenuta impossibile. Infatti, non sul piano ideologico, ma sul piano puramente fattuale, l’adempi-mento in natura (una profilassi del linguaggio solo un po’ attenta alla realtà e alla sua evoluzione, dovrebbe cominciare a bandire “primato”) è il modo in cui si svolgono le cose, ossia, un altro modo per dire il cor-rispondente di quello che dice il codice civile.

In effetti, però, vi è un caso in cui il quadro si opacizza e si sottrae, quanto meno ad una prima impressione, al codice binario che regge le due figure precedenti. Esso ricorre quando la prestazione sia ancora possibile ma il debitore abbia rinviato l’adempimento sino al punto da azzerare l’interesse del creditore a ricevere l’utilità promessagli 21. Per meglio inquadrare questa ipotesi, è opportuno richiamare ancora una volta l’art. 1256, co. 2 dove l’estinzione del rapporto obbligatorio di-scende dalla circostanza che, protraendosi l’impossibilità oltre misura, sarebbe irragionevole infliggere alle parti la parallela perduranza del vincolo.

L’impossibilità di cui parla l’art. 1256, co. 2 è, però, cosa diversa da quella di cui parlano l’art. 1256, co. 1 e l’art. 1218. Nella prospettiva di entrambe queste disposizioni, l’impossibilità della prestazione è un ri-flesso del perimento o dello smarrimento dell’utilità che della presta-zione medesima costituisce l’oggetto: mentre nella prospettiva dell’art. 1256, co. 2, l’impossibilità si riferisce direttamente alla prestazione in

21 Si parla, al riguardo, di inadempimento definitivo: v. M. Giorgianni, L’inadempi-mento (Milano 1975), 120.

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 101

quanto attività diretta a impiantare la res (di per sé ancora possibile) nella sfera giuridico-patrimoniale del creditore. Questa differenza trae origine dal fatto che, a volte, il modo in cui la prestazione viene eseguita (ad es., tempestivamente) finisce per individuare un segmento della stessa utilità: sicché tale compenetrazione (che riecheggia anche all’art. 1218 attraverso la menzione del «ritardo») riduce sensibilmente il diva-rio tra le due varianti dell’impossibilità, accomunate dal sopravvenire di stati di cose incompatibili con il permanere dell’interesse del creditore a ricevere la prestazione 22. Ne consegue che, anche in questo caso, il cre-ditore agirà per il “risarcimento del danno” dell’art. 1218, ovvero l’equi-valente monetario della prestazione, oltreché per il risarcimento del danno verace dell’art. 1223.

9. La risoluzione

Si è già accennato alla risoluzione del contratto (art. 1453 s.): qui l’inadempimento si inserisce in un contesto più ampio rispetto a quello dell’art. 1218, perché il creditore ha eseguito (o si è impegnato ad ese-guire) una prestazione (in altre parole, è egli stesso, un debitore). Cu-riosamente, ma fino ad un certo punto, il doppio ruolo in commedia rafforza la posizione del creditore (adempiente o non ancora inadem-piente nella veste di debitore) aprendogli la strada ad un rimedio – la risoluzione – di cui il creditore puro e semplice non dispone. La ragione di questo è abbastanza semplice. Il creditore/debitore è implicato nel rapporto obbligatorio in misura maggiore rispetto al creditore dell’art. 1218 perché ha eseguito (o deve eseguire), a sua volta, una prestazione: sicché, di fronte alla concreta possibilità di vedere frustrato il proprio investimento da una condotta infedele della controparte (che, sulla sca-la della singola transazione, è, in realtà, un socio), è del tutto sensato of-frirgli l’alternativa di ritirarsi dall’affare e di recuperare la risorsa impe-gnata (tutto questo è ciò che, compendiosamente, il legislatore chiama risoluzione).

Quando, invece, il creditore mantenga interesse a ricevere la presta-

22 Del resto, l’art. 1174 mostra chiaramente come la ragion d’essere (la causa) della prestazione, in quanto veicolo di un’attribuzione patrimoniale, risieda nell’interesse del creditore.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 102

zione, egli potrà agire per l’adempimento. Sul punto è opportuno sof-fermarsi brevemente per un chiarimento. Come si è visto poco sopra, l’impossibilità della prestazione si può presentare in una duplice forma: la prima si dà allorché ad essere impossibile sia l’utilità in quanto tale, la seconda, allorché l’impossibilità inerisca alla prestazione, nel senso che le modalità di effettuazione di quest’ultima sono decisive ai fini del soddisfacimento dell’interesse del creditore (c.d. inadempimento defini-tivo). Il creditore “non corrispettivo” – ossia, quello a cui pensa l’art. 1218 – avrà accesso al ripristino per equivalente che, come abbiamo vi-sto, l’art. 1218 chiama, impropriamente, «risarcimento del danno»; men-tre il creditore “corrispettivo” potrà optare per la risoluzione, allorché il ripristino per equivalente non rappresenti, ai suoi occhi, un incentivo sufficiente a conservare il rapporto. Resta il fatto che anche al creditore “corrispettivo”, al pari che al creditore “semplice”, va consentito di av-valersi del ripristino per equivalente tutte le volte in cui catturare il va-lore di mercato della controprestazione risulti vantaggioso, per quanto questo implichi che egli somministri al “socio” la prestazione di sua competenza.

Si tenga conto del fatto che l’ammontare del risarcimento varierà nei due casi, cioè a seconda che il creditore “corrispettivo” opti per l’adem-pimento (ivi incluso quello per “equivalente”), oppure per la risoluzio-ne. Nel primo caso, costante il vincolo, la liquidazione del danno segui-rà i criteri dettati dall’art. 1223; nel secondo caso, viceversa, poiché la risoluzione ha come effetto quello di sciogliere retroattivamente il rap-porto (art. 1458), il danno spettante al creditore dovrà essere stimato secondo il diverso parametro dell’interesse negativo, che, tipicamente, opera là dove, prima della conclusione del contratto, una delle parti impegnate nelle trattative si comporti scorrettamente, pregiudicando il raggiungimento di un (valido) accordo (artt. 1337-1338). La risoluzione, infatti, destituisce il contratto della sua attitudine regolatoria, attitudine che esso mantiene anche quando non venga attuato: questo perché è sulla base del suo disegno allocativo che viene articolato l’intero dispo-sitivo delle tutele (reale e risarcitoria), inteso a procurare al creditore un risultato il più possibile vicino a quello cui avrebbe messo capo la fedele esecuzione dell’impegno preso dalle parti.

Se il creditore, attraverso la risoluzione, rinuncia al “dover essere” del contratto, è chiaro che le sue pretese (a quel punto solo risarcitorie) non potranno commisurarsi alle aspettative istituite dal vincolo che egli

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 103

stesso ha provveduto a rimuovere: sicché ogni cosa si esaurirà nel pren-dere atto della circostanza che, venuto meno il vincolo, il debitore si trasforma nella esangue controparte di una negoziazione non andata a buon fine a causa della sua slealtà, tenuto, pertanto, a corrispondere al non più creditore un danno commisurato alla sola perdita di tempo da questi subita (il c.d. “interesse negativo”) 23.

10. Gli obblighi di protezione

A conclusione del § precedente abbiamo accennato al caso nel quale l’obbligo di risarcire il danno tragga origine dalla condotta scorretta di chi, impegnato in una trattativa per la conclusione di un contratto, si comporti in modo da impedire che essa vada a buon fine. In quel con-testo, il richiamo all’art. 1337 24 consegue alla risoluzione del contratto la quale trasforma il debitore inadempiente in un negoziatore scorretto. La norma in questione, tuttavia, ha una portata molto più ampia che, per la verità, solo relativamente di recente è stata riconosciuta con ri-porti notevoli anche sul piano dell’inquadramento teorico del rapporto obbligatorio.

Prima di dire qualcosa al riguardo, è bene soffermarsi su alcune que-stioni più direttamente attinenti al nostro discorso. Va osservato, intan-to, che, qui, il danno non consiste in una vera perdita patrimoniale, co-me invece accade nella prospettiva degli artt. 1223 e 2056. Il danno precontrattuale, in particolare, a differenza del danno contrattuale e di quello extracontrattuale, è irriducibile allo schema del “lucro cessante” giacché esso non rimanda all’impossibilità di utilizzare produttivamente il cespite assegnato alla vittima del pregiudizio. In altri termini se, ad es., nel caso dello spoglio o dell’inadempimento, la sottrazione dell’utili-

23 Del tutto fuori asse deve ritenersi la pronunzia di Cass. s.u. 11-4-2014, n. 8510 (verosimilmente fuorviata dall’esigenza di risolvere il problema dei rapporti tra azione di adempimento e azione di risoluzione), per la quale, anche in caso di risoluzione, il danno risarcibile includerà il lucro cessante (“interesse positivo”, con ciò mostrando di voler ignorare la portata retroattiva del rimedio). Su questa pronunzia v. le motivate, e condivisibili, critiche di A. Montanari, Le Sezioni Unite sul rapporto tra risoluzione e risarcimento e quantificazione del danno, www.dirittocivilecontemporaneo.com.

24 Su cui si v. il successivo § 11.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 104

tà di spettanza del proprietario o del creditore ha, verosimilmente, con-seguenze nocive per il titolare del diritto (donde, appunto, la previsione della misura risarcitoria: artt. 948 e 1223), nel caso avuto presente dal-l’art. 1337, dove tutto ruota attorno alla mancata conclusione di un con-tratto, nessuna allocazione di beni, suscettibile di essere successivamen-te frustrata da condotte difformi, ha avuto luogo: quindi è del tutto le-gittimo chiedersi da dove provenga l’obbligo risarcitorio.

Per poter rispondere a questa domanda, è necessario affrontare il problema relativo alla struttura dell’obbligazione, alla sua maggiore o minore rigidità rispetto al figurino elementare dell’art. 1174 imperniato sulla coppia prestazione (del debitore) e interesse (del creditore). Biso-gna dire che un’immagine già più articolata del rapporto obbligatorio emerge dallo stesso codice del ’42: si pensi all’obbligo di custodia come naturale corollario dell’obbligo di consegna (art. 1177). Si tratta di un obbligo accessorio o strumentale (i tedeschi parlano di Nebenpflichten, obblighi “vicini” o a “ridosso”) all’obbligazione principale, l’inosser-vanza del quale, difatti, viene riassorbita dall’inadempimento tout court 25.

Molto più significative sono, ai fini del nostro discorso, quelle dispo-sizioni attraverso le quali viene imposto ad una delle parti del rapporto obbligatorio di preservare l’integrità della sfera giuridico-patrimoniale della controparte. Emblematici, al riguardo, l’art. 1681, co. 1 26 in mate-ria di contratto di trasporto e l’art. 2087 27 in materia di contratto di la-voro subordinato. Già d’acchito le regole in esame rivelano come questi “obblighi di protezione” (traduzione letterale di Schutzpflichen: gli ob-

25 Un discorso in parte diverso deve farsi con riguardo ai numerosi obblighi di in-formazione introdotti dalla più recente legislazione consumeristica in vari ambiti. Qui, l’obbligo posto a carico del professionista esibisce un tratto di marcata autonomia ri-spetto alla prestazione principale, il cui indice più evidente è rappresentato dalla circo-stanza che la loro inosservanza, sia pure in modo tortuoso, è sanzionata con l’invalidità del contratto. Sul punto v. Cap. VI, § 5.

26 «Salva la responsabilità per il ritardo e per l’inadempimento nell’esecuzione del tra-sporto, il vettore risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio o della perdita o dell’avaria delle cose che il viaggiatore porta con sé, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno».

27 «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, se-condo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’inte-grità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 105

blighi di protezione, infatti, sono stati oggetto di una ricca e accurata elaborazione da parte della dottrina tedesca) 28 possano gravare, indiffe-rentemente, sul debitore (come nel caso del contratto di trasporto) e sul creditore (come nel caso del contratto di lavoro subordinato). Orbene, questa mobilità, o indifferenza, dell’obbligo di protezione rispetto alle due forme proprie di soggettivazione del contenuto del rapporto obbli-gatorio, ne denuncia l’autonomia rispetto all’asse prestazione – interes-se. L’immediata conseguenza di questo, apprezzabile in primo luogo sul piano strettamente logico, deve ravvisarsi nella speculare (relativa) emancipazione del congegno obbligatorio da quell’asse, nel senso che la materia dell’obbligazione non è più esaurita dal Leistungsinteresse (cioè, appunto, dall’interesse alla prestazione), estendendosi, viceversa, sino a ricomprendere lo Schutzinteresse (cioè, appunto, l’interesse alla prote-zione). Riguardato nell’ottica del movimento centrifugo a cui quest’ulti-mo lo sottopone, il rapporto obbligatorio assume le sembianze, in parte diverse da quelle scolpite da una tradizione secolare, di modalità di ap-prossimazione di due sfere giuridico-patrimoniali reciprocamente espo-ste al rischio di interferenze dannose. In altre parole, l’obbligazione, ol-tre a funzionare come canale di attribuzione della ricchezza, individua anche una peculiare torsione in chiave relazionale dell’alterum non lae-dere 29, grazie alla quale un danno naturalmente destinato a gravitare nell’orbita aquiliana viene attratto, viceversa, in quella della responsabi-lità ex contractu.

Dunque, gli obblighi di protezione segnano un ampliamento del pe-rimetro dell’obbligazione al di là dei suoi confini tradizionali: e questo stesso concetto può essere formulato dicendo che gli obblighi di prote-zione segnano il passaggio da un sistema in cui obbligazione e presta-zione tendono irresistibilmente a sovrapporsi, ad un sistema in cui, af-fiancandosi alla prestazione la protezione, l’obbligazione accentua i suoi

28 V. A. Nicolussi, Obblighi di protezione, Enc. dir., Annali, 2015, 659 s. ove si può trovare la sintetica ma accurata ricostruzione di una vicenda culturale affascinante di cui, per l’Italia, protagonista indiscusso è stato Luigi Mengoni.

29 Fuori da questo specifico contesto, troverebbero applicazione gli artt. 2043 e 2059 in relazione ai quali la rilevanza della perdita, come si è detto molte volte, è su-bordinata all’ingiustizia del danno. Viceversa, se filtrata dal medio dell’obbligazione di protezione, la rilevanza della perdita arrecata alla controparte si avvale dell’antigiuridi-cità immanente all’inosservanza del vincolo.

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tratti (latenti) di schema trascendentale della relazionalità giuridica in grado di catturare contenuti eterogenei 30.

Procedendo nel discorso, si deve osservare che nelle ipotesi richia-mate (contratto di trasporto, contratto di lavoro subordinato), la prote-zione è strettamente connessa alla prestazione, nel senso che il danno di cui il vettore o il datore di lavoro sono chiamati a rispondere si produce in dipendenza dell’adempimento. Tuttavia, come abbiamo già ricorda-to, lo stesso codice del ’42 ospita una disposizione molto importante – quella dell’art. 1337 31 – per la quale la risarcibilità del danno si collega, nei termini che ora vedremo, alla violazione di un obbligo di protezione che si presenta, per così dire, allo stato puro in quanto del tutto auto-nomo da un parallelo obbligo di prestazione 32. Nella culpa in con-

30 C. Castronovo, La relazione come categoria essenziale dell’obbligazione e della re-sponsabilità contrattuale, Europa. dir. priv., 2011, 55 s.

31 «Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto devono comportarsi secondo buona fede». Il successivo art. 1338 (che deve considerarsi un’ap-plicazione puntuale dell’art. 1337) prevede che «la parte che, conoscendo o dovendo co-noscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto».

32 Nell’esperienza giuridica italiana siffatta lettura dell’art. 1337 è stata a lungo pre-clusa dall’idea che qui non si potesse fare questione di una responsabilità contrattuale a causa dell’assenza di un contratto. L’argomento (francamente puerile se solo si pensi al pagamento dell’indebito e alla gestione d’affari altrui che mettono capo ad obbligazioni non contrattuali presidiate da una forma di responsabilità indiscutibilmente contrat-tuale) sembra essere stato archiviato dalla nostra giurisprudenza: v. Cass. 20-12-2011, n. 27648, Europa dir. priv., 2012, 1227 commentata da C. Castronovo, La Cassazione supera se stessa e rivede la responsabilità contrattuale; e, più di recente, Cass. 12-7-2016, n. 14188. In dottrina, imprescindibile il riferimento a L. Mengoni, Sulla responsabilità precontrattuale, Riv. dir. comm., 1956, II, 360 e ora in Scritti, II, a cura di C. Castrono-vo, A. Albanese, A. Nicolussi (Milano 2011), 267 s. Un’altra singolarità del caso italia-no è che da noi il riconoscimento della rilevanza del “contatto sociale” qualificato ha preceduto l’agnizione della contrattualità della culpa in contrahendo (l’esatto contrario di quanto accaduto in Germania): Cass. 22-1-1999, n. 589, Corr. giur., 1999, 441 con nota di A. Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione. Sulla base di questa importante pronunzia, venne affermato il carattere contrattuale della respon-sabilità del medico dipendente, fino ad allora vivacemente controversa, proprio attra-verso il medio concettuale del contatto sociale qualificato. Il paradigma messo a punto dalla S.C. in questa occasione ha poi sperimentato numerose altre applicazioni [v. la giurisprudenza richiamata in L. Nivarra, Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, Nuovi orizzonti della responsabilità contrattuale (Torino 2015), 106, nt.

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trahendo, in altre parole, quella possibilità di interferenza dannosa che, nel caso degli artt. 1679 e 2087, viene creata da un rapporto obbligato-rio già in essere sul quale si innesta il contenuto protettivo, insorge anti-cipatamente, non appena, cioè, tra le parti si verifichi un “contatto so-ciale”, dotato di caratteri tali da giustificare l’insorgere di una obbliga-zione di sola protezione 33. Sotto il profilo tecnico, quindi, il vero pro-blema è rappresentato dalla individuazione degli elementi in presenza dei quali si può dire che un contatto sociale “generico” si trasformi in un contatto sociale “qualificato”. Un esempio può aiutare a chiarire questo punto. Si supponga che Tizio si rivolga a Caio chiedendogli se, per avventura, è interessato a vendere la sua macchina e che Caio ri-sponda positivamente, rinviando ad un momento successivo l’approfon-dimento delle condizioni del possibile affare. Immaginiamo ora, invece, che tizio interpelli Caio quanto alla sua eventuale intenzione di vender-gli una rara copia de “Il Principe” e che Caio, da parte sua, si mostri molto interessato invitando l’interlocutore a formulare una prima offer-ta. Supponiamo, altresì, che la negoziazione tra le parti prosegua sino a raggiungere un’intesa di massima per perfezionare la quale Tizio, da Pa-lermo, raggiunge Caio in Francia, dove questi vive per scoprire, con di-sappunto, che il potenziale venditore ha cambiato idea e non vuole più privarsi del prezioso esemplare.

Queste due situazioni sono profondamente diverse l’una dall’altra. Nella prima la speranza (l’“affidamento”, in gergo tecnico) eventual-mente riposta da Tizio nella conclusione del contratto equivarrebbe alla pura espressione di un desiderio senza riscontro alcuno nella realtà dei fatti. Nella seconda, le trattative si sono spinte tanto oltre che un reces-

25]. Per quanto riguarda, in particolare, la responsabilità del medico dipendente si v, ora l’art. 7, co. 3 della l. 24/2017, a mente del quale «l’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civi-le, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il pa-ziente. Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della con-dotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge».

33 O “obbligazione senza prestazione” per usare la formula coniata da C. Castrono-vo, La nuova responsabilità civile (Milano 2006), 443 s. Nel caso della culpa in con-trahendo, e delle applicazioni ad essa riconducibili (v. nt. precedente), l’obbligazione non rappresenta il presupposto, ma l’effetto dello speciale contesto nel quale ha luogo l’incontro delle parti.

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so dalle medesime potrebbe risultare giustificato solo da eventi partico-larissimi 34, sicché l’affidamento di Tizio risulta legittimo e meritevole di essere tutelato mediante l’assoggettamento di Caio all’obbligo di risarci-re il danno patito dalla controparte 35. Come emerge chiaramente dai due esempi precedenti, qui l’insorgere dell’obbligazione di protezione è collegato all’affidamento maturato da una parte in ordine alla circostan-za che l’altra si comporti (si debba comportare) in un certo modo. Al-l’origine della doverosità della condotta attesa si trova la buona fede che espleta una funzione costitutiva del vincolo nel presupposto, appunto, che la situazione concreta sia caratterizzata, come nel secondo dei due scenari evocati più sopra, da una consistenza fattuale idonea a fondare quell’affidamento 36.

L’obbligazione di protezione presenta alcuni tratti peculiari rispetto all’obbligazione di prestazione. Sotto il profilo genetico, essa, come ab-biamo già detto, è la risultante di un contatto sociale “qualificato”. Si potrebbe osservare che, ad es., anche il contratto è un contatto sociale “qualificato” e che esso, anzi, rappresenti il contatto sociale per eccel-

34 L’orientamento oggi prevalente tende a ravvisare nella “serietà” delle trattative (ovvero, nel modo in cui esse sono state condotte, tale da ingenerare un affidamento ormai inscalfibile) il limite oltre il quale l’interruzione delle medesime, comunque mo-tivata, darà luogo a responsabilità per danni (v., tra le altre, Cass. 11-3-2016, n. 4718, www.ilcaso.it).

35 Analogamente, per riprendere spunti offerti da quella casistica giurisprudenziale che può essere considerata una, sia pure inconsapevole, applicazione del paradigma della culpa in contrahendo (v. supra, nt. 32): è legittimo l’affidamento riposto in un me-dico in possesso del titolo di stato e abilitato all’esercizio della professione medica, ma non quello riposto nel santone guaritore; è legittimo l’affidamento riposto nella banca ma non quello riposto nell’usuraio; è legittimo l’affidamento riposto nella scuola pub-blica o nella scuola privata parificata, ma non quello riposto nel circoletto delle anziane vicine che si prendono cura dei bimbi del condominio.

36 Volendo inquadrare questa fattispecie entro la cornice dell’art. 1173 («Fonti delle obbligazioni»), si può dire che essa appartenga al novero di uno di quegli altri atti o fat-ti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico. Più in par-ticolare, si può dire che l’affidamento (corredato degli elementi concreti di cui si parla nel testo) individui il fatto costitutivo dell’obbligazione omologo al «contratto» e al «fatto illecito»; mentre la buona fede, dal canto suo, garantisce il quantum di precettivi-tà necessario ad istaurare il vincolo sulla base della delega istituita dalla legge – è que-sto, d’altra parte, il modo in cui operano le clausole generali, norme, come si dice, a struttura aperta, il cui completamento è affidato al giudice – al quale spetterà di verifi-care se, in concreto, l’affidamento risulti, o no, meritevole di tutela.

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lenza. In realtà, l’analogia risulterebbe del tutto fuorviante perché il contratto esprime la domanda di trasformazione di una regola privata in un comando legale, cioè una domanda di validità/tutela giurisdizionale; mentre il contatto sociale “qualificato” (l’affidamento) è un puro fatto (secondo la concettuologia ereditata dalla Pandettistica) che ricava la sua efficacia dalla sola volontà manipolatrice della legge (qui operante nelle vesti della clausola di buona fede) 37.

Dal punto di vista contenutistico, l’obbligazione di protezione è monca della esigibilità della prestazione: e la ragione di questo è ovvia, e cioè che non vi è qui, appunto, una prestazione che il creditore possa pretendere e della quale, se del caso, ottenere l’esecuzione coattiva. Ri-prendiamo il secondo dei due esempi precedenti e compariamolo con quello in cui taluno si sia obbligato a concludere un contratto. Il ritiro ingiustificato di una delle parti dalle trattative, per quanto avanzate sia-no queste ultime, darà ingresso alla sola misura risarcitoria; mentre l’inadempimento dell’obbligo di concludere il contratto darà ingresso all’esecuzione in forma specifica nelle forme dell’art. 2932. “Protegge-re”, in altre parole, equivale ad astenersi dall’arrecare un danno (come si è già detto, l’obbligo di protezione è l’alterum non laedere non più ir-relato), di talché la sua inosservanza implicherà condanna alla ripara-zione del pregiudizio subito dalla controparte (tutela risarcitoria), “pre-stare”, viceversa, equivale a procurare al creditore ciò che è suo, di tal-ché la sua inosservanza abiliterà il creditore a prendersi quanto gli spet-ta con la forza apprestata dallo Stato nelle forme della tutela reale 38.

37 Da questo punto di vista non si vede perché, come invece afferma Di Majo, L’ob-bligo “protettivo”, cit., 9 «l’obbligo “di protezione”, per definizione valido erga omnes e quindi privo “di rapporto” qui fini(rebbe) con l’assegnare carattere “relazionale” ad una situazione di non-rapporto, assumendo una “concretezza” che non sarebbe dato “attingere”, per definizione, in una situazione di non rapporto, come accade sul terre-no della responsabilità aquiliana». In realtà, è proprio l’approssimarsi delle due sfere giuridico-patrimoniali a creare il bisogno di protezione e a reclamare la conseguente sua traduzione in un vincolo legale, secondo quel movimento che, andando dal fatto alla sua qualificazione e riconversione in una forma giuridica, caratterizza costantemen-te la dialettica tra ordinamento e dinamica sociale.

38 Quindi, per la elementare ragione indicata nel testo, sarebbe molto sbagliato pen-sare all’obbligazione di protezione come ad un’obbligazione indebolita o ad una sorta di obbligazione naturale. In realtà, vi è una piena continuità tra contenuto, finalità e presidio meramente risarcitorio della protezione.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 110

Tornando al punto di partenza del discorso, è chiaro, a questo pun-to, perché la violazione di un obbligo di protezione non soltanto non comporti l’attingimento di un rimedio reale (inteso, cioè, al prelievo forzoso dell’utilità ancora dimorante sine titulo presso il patrimonio del debitore), ma conosca pura una versione indebolita di quello risarcito-rio. Il quale non può estendersi alla cattura del “lucro cessante” collega-to inestricabilmente, all’indisponibilità della res dovuta al creditore (e alla sua utilizzazione come valore d’uso o come valore di scambio), ri-sultando circoscritto, pertanto, al “danno emergente” (ad es., le spese di viaggio affrontate da Tizio per andare a concludere l’acquisto della co-pia del “Principe”) e al c.d. “interesse negativo”, ovvero al calcolo, più o meno rigoroso, di un mancato guadagno del tutto virtuale derivante dalla impossibilità di coltivare prospettive negoziali alternative.

11. Il diritto di proprietà tra imprescrittibilità, usucapione

Il diritto di proprietà, lo abbiamo già detto, ha rappresentato per molto tempo il paradigma del diritto soggettivo: anzi, si può dire che esso abbia fornito lo stampo sul quale la categoria è stata forgiata. In ef-fetti, se a connotare il diritto soggettivo è il suo configurarsi come l’ellis-si di un fascio di poteri estroflessi, i quali fanno dell’interesse in questo modo protetto qualcosa di più che il semplice banco di prova dell’ingiu-stizia del danno, il diritto di proprietà, con il suo «godere» e con il suo «disporre», corrisponde perfettamente a questo modello. Quindi si comprende perché, se messo a confronto con il diritto di credito, ove il creditore sembrerebbe alla mercé del debitore e della disponibilità di questi a cooperare, il diritto di proprietà abbia potuto accreditare l’idea di una superiorità tutta affidata alla sua autosufficienza. Anche su que-sto abbiamo già preso posizione rilevando, in primo luogo, come i dirit-ti soggettivi non tollerino gerarchizzazioni logicamente incompatibili con il loro fungere da dispositivi di collegamento tra “validità” e “tute-la”; e, in secondo luogo, come si riveli un’operazione del tutto arbitraria sul piano teorico e fortemente condizionata sotto il profilo ideologico (a ben vedere si tratta delle due facce di una medesima medaglia) quella che siffatta gerarchia si impianti sulla più totale indifferenza nei riguardi degli (eterogenei) interessi che attraverso l’una e l’altra tecnica vengono protetti dalla legge.

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 111

Al di là di queste osservazioni di principio, vi sarebbero, però, indici oggettivi della primazia, nel senso di maggiore forza, del diritto di pro-prietà, a cominciare dalla sua imprescrittibilità 39. Infatti, a differenza degli altri diritti a contenuto patrimoniale – i diritti reali minori (super-ficie: art. 954, co. 4; enfiteusi: art. 970; usufrutto: art. 1014, co. 1, n. 1; servitù: art. 1073) – e lo stesso diritto di credito (art. 2934) – la proprie-tà si sottrae al destino della estinzione per il mancato suo esercizio pro-tratto nel tempo. Analogo significato, volendo, riveste la disciplina del-l’usucapione (art. 1158 s.) là dove vi si collega la perdita del diritto solo alla circostanza che un terzo usi del bene trascurato dal proprietario per un certo lasso di tempo.

Procedendo con ordine, quanto alla imprescrittibilità bisogna osser-vare che quest’ultima si presenta come il riflesso di una scelta politica apicale in virtù della quale è escluso, almeno in linea di principio, che il dominus possa essere espropriato, salvo casi eccezionali e sempre previo indennizzo (art. 42, co. 3, Cost.). È evidente, infatti, che l’estinzione del diritto, come vicenda puramente ideale alla quale non si accompagna il perimento del bene, solleverebbe il problema di una riallocazione di quest’ultimo, problema che, verosimilmente, verrebbe risolto attribuen-do la proprietà allo Stato 40. Un’opzione di questo genere sarebbe in-compatibile con il regime che al diritto di proprietà viene riservato dalle costituzioni (perfino quelle più avanzate) e dai codici borghesi, per i quali, anche quando il dominium cessa di essere il presidio della libertà, non si può neppure immaginare, al di là delle declamazioni di principio, che il proprietario venga costretto ad usare del bene 41.

39 L’imprescrittibilità del diritto, nel caso della proprietà, è asseverata attraverso la declamazione della imprescrittibilità dell’azione: art. 948, ult. co.

40 Caso completamente diverso è quello della successione dello Stato (art. 586) la quale presuppone una vacanza in atto e non una vacanza creata ad hoc.

41 Un’eccezione, rimasta sostanzialmente lettera morta, si ha con l’art. 838, per il quale «… quando il proprietario la conservazione, la coltivazione o l’esercizio di beni che interessano la produzione nazionale, in modo da nuocere gravemente alle esigenze della produzione stessa, può farsi luogo all’espropriazione dei beni da parte dell’autorità ammi-nistrativa, premesso il pagamento di una giusta indennità» (la stessa norma, secondo il comma successivo, potrebbe trovare applicazione là dove l’inerzia del proprietario sia di pregiudizio al decoro delle città, all’arte, alla storia e alla sanità pubblica). Sull’art. 838 v. U. Mattei, La proprietà, Tratt. dir. civ., diretto da R. Sacco (Torino 2015), 459-460. Un caso emblematico è quello delle occupazioni di spazi pubblici e privati abban-

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 112

In secondo luogo, su un piano propriamente tecnico, l’imprescritti-bilità del diritto di proprietà rispecchia la non rintracciabilità di con-trointeressati individuabili in modo puntuale. Tanto nel caso dei diritti reali minori, quanto nel caso del diritto di credito, il proprietario e il debitore patiscono le conseguenze, rispettivamente, di un limite e di un obbligo che, al di là del profilo formale, si traducono nell’impiego non produttivo di una risorsa (la frazione di poteri assegnata all’usufruttua-rio, all’enfiteuta, ecc.; l’utilità destinata al creditore). Il proprietario inerte, almeno in un’ottica puramente individualistica, al contrario, non reca danno a nessuno: e questo spiega perché la legge non avverta l’esi-genza di prevedere un meccanismo di tipo ablativo che, tra l’altro, an-drebbe incontro alle obiezioni di principio illustrate più sopra.

A riprova dell’esattezza di quanto si è appena detto, si può richiama-re, infine, la disciplina dell’usucapione la quale presuppone un quadro caratterizzato dalla rottura della solitarietà del proprietario e del paral-lelo riconoscimento della rilevanza di un interesse terzo, quello del pos-sessore. La refrattarietà del dominium al non uso da parte del titolare si infrange contro il protrarsi nel tempo di una situazione di fatto nella quale il bene viene sfruttato anche da chi non avrebbe titolo per farlo.

Insomma, se vista nella giusta prospettiva, l’imprescrittibilità del di-ritto di proprietà perde l’aura di nobiltà che tradizionalmente la ac-compagna, per trasformarsi nel banale precipitato di istanze di ordine politico e tecnico irriducibili ad un’ontologia suprematista.

12. … e probatio diabolica

Un punto sul quale è opportuno soffermarsi brevemente è quello re-lativo alla prova del diritto di proprietà. Come è noto, il proprietario che agisca al fine di ottenere la restituzione del bene sottrattogli da un terzo avvalendosi dello strumento della rivendicazione – il quale pre-suppone l’accertamento del diritto – è tenuto a provare l’esistenza di un titolo in una forma – quella dell’avvenuta usucapione – che rende l’one-

donati da una proprietà assenteista (il Teatro Valle a Roma, l’ex Colorificio a Pisa e molti altri) da parte del movimento dei beni comuni, tutte regolarmente conclusesi con ordinanze di sgombero: v. L. Nivarra, Quattro usi di “beni comuni” per una buona di-scussione, Riv. crit. dir. priv., 2016, 46 s.

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 113

re attoreo particolarmente gravoso. In altre parole, al proprietario non basterà documentare la derivazione della sua investitura da un contratto di compravendita valido, efficace e trascritto dovendo egli, piuttosto, risalire ad un acquisto a titolo originario consumatosi non secondo una qualsiasi modalità (occupazione, invenzione, specificazione, ecc.) ma, appunto, nella sola variante dell’usucapione.

La ragione di questo è abbastanza semplice. Nel nostro, come in altri ordinamenti, il diritto di proprietà subisce la fortissima concorrenza del possesso il quale, del resto, sarà anche una situazione di fatto ma, lo ab-biamo già notato, appartiene comunque al novero degli “interessi giuridi-camente protetti” (è una formula breviloquia: bisognerebbe dire, al novero dei dispositivi ordinamentali che convertono la “rilevanza” di un interesse nella sua “protezione”), cioè di quegli interessi la cui esistenza in vita trava-lica la dimensione risarcitoria. Ora, una delle manifestazioni della ecceden-za del possesso rispetto alla mera funzione di parametro dell’ingiustizia è rappresentata proprio dalle forche caudine (probatio diabolica, si dice con espressione di origine medievale) imposte al proprietario in rivendica.

A ben vedere, infatti, il proprietario, a differenza del creditore, si trova a fronteggiare un avversario che potrebbe avere ragione in un sen-so molto diverso e più intenso rispetto al modo in cui, tipicamente, se la cava il debitore. Questi potrà difendersi solo eccependo uno dei fatti indicati dall’art. 2697, dentro una cornice dialettica dominata dall’as-sunto che l’attore sia il titolare del diritto dedotto in giudizio (principio di persistenza del diritto) 42. L’attore di un giudizio di rivendicazione, viceversa, potrebbe essere un “semplice” possessore al pari dello spo-gliante 43: sicché risulterebbe in contraddizione con le scelte di sistema risparmiargli l’onere di dimostrare di essere un possessore così tanto più forte del suo antagonista da risultare, addirittura, un proprietario. Del resto, lo spogliato ha accesso alla tutela possessoria (art. 1168) a condi-zioni che sono piuttosto facili da soddisfare 44: sicché, una regola diversa

42 V. supra, Cap. IV, § 3. 43 Questo, come si è detto, anche nel caso in cui egli possa esibire una compravendi-

ta valida, efficace e trascritta: a mandare tutto a gambe all’aria, infatti, basterà che suo il dante causa fosse, a sua volta, soltanto un possessore.

44 La violenza è intesa dalla costante giurisprudenza nel senso che lo spoglio deve essere avvenuto contro (o anche semplicemente senza) la volontà del proprietario (Cass. n. 1101/1981, n. 5932/1978); la clandestinità nel senso che lo spoglio deve esse-

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 114

in punto di prova finirebbe per annullare o, almeno, fortemente inde-bolire la distanza che separa “petitorio” e “possessorio”.

La probatio diabolica alla quale, per le ragioni viste, è condannato il proprietario offre un’ulteriore testimonianza della insensatezza di ogni discorso che pretenda di istituire una gerarchia tra i diritti soggettivi. Se fuori dal processo, il «godere» e il «disporre» sembrano fare del proprietario il depositario esclusivo di un fascio di poteri e facoltà au-tosufficienti, là dove si vorrebbe che il creditore attenda, speranzoso, che la controparte dia corso all’impegno assunto, in giudizio le posi-zioni si ribaltano, spettando al creditore di dare prova del titolo sul quale poggia il diritto allegato (una prova, peraltro, in linea di princi-pio, assai agevole) rintuzzabile solo a seguito di una eccezione in senso stretto del convenuto; mentre il proprietario dovrà faticosamente risali-re “per li rami” di un risalente possesso (in questo, per la verità, aiutato dalle presunzioni semplici dell’art. 2729 e dalla regola dell’art. 1146 in punto di successione e accessione) fino a portare alla luce l’agognata usucapione 45.

In definitiva, anche da questa incursione nel vasto campo della pro-prietà, trova conferma quanto più volte ripetuto, e cioè che i diritti sog-gettivi sono semplici tecnologie normative al servizio di famiglie di inte-

re avvenuto all’insaputa del proprietario, purché l’ignoranza non dipenda da una sua condotta negligente (Cass. n. 12740/2006, n. 5215/2014). Quanto al (breve) termine annuale di decadenza, è chiaro che esso risponde ad un’ovvia esigenza di inibire il consolidamento di una situazione di fatto (in un “possessorio”, è bene non dimenti-carlo, si scontrano due possessori, uno dei quali – l’attore – ha dalla sua un’unica ra-gione, lo spoglio). Spirato il termine, i rapporti di forza tra le parti si invertono, per-ché, a fronte del distanziarsi temporale dello spoglio, si registra, appunto, l’ispessi-mento del possesso dello spogliante. A quel punto, l’unica strada che lo spogliato può imboccare è quella della rivendicazione dove il confronto non è più tra possessori ma tra un proprietario e un possessore: donde l’inflessibilità della giurisprudenza in pun-to di prova che, però, risulta assai meno comprensibile là dove il proprietario agisca solo per l’accertamento del diritto ex art. 2653, co. 1, n. 1, seconda parte (Cass. 18-1-2017, n. 1210).

45 Il proprietario, talora, veste anche i panni del creditore, come nel caso della com-pravendita rispetto all’obbligo del venditore di consegnare la cosa (art. 1476, n. 1), o nella locazione e nel comodato rispetto all’obbligo del locatario e del comodatario di restituire il bene (artt. 1571 e 1803). In questi casi egli potrà agire in restituzione piut-tosto che in reintegrazione, facendo valere il diritto (soggettivo) di credito piuttosto che il diritto (soggettivo) di proprietà, con enormi agevolazioni sul piano probatorio. Sul punto v. Cass. s.u. 28-3-2014, n. 7305.

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Capitolo Quinto – Proprietà e credito: analogie (grandi) e differenze (piccole) 115

ressi economici selezionate secondo un disegno politico: essi sono irri-ducibili ad una sostanza e si esauriscono nei rispettivi blocchi di regole, condividendo solo quella irresistibile pulsione attuativa nella quale, at-traverso il filtro del binomio “validità”-“tutela”, precipita il senso ulti-mo degli ordinamenti giuridici moderni.

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Capitolo Sesto – Disciplina del contratto e tutela della concorrenza 117

CAPITOLO SESTO

DISCIPLINA DEL CONTRATTO E TUTELA DELLA CONCORRENZA: LA STAGIONE DEI “RIMEDI”

SOMMARIO

1. Legge, autonomia privata e le trasformazioni del capitalismo. – 2. Il contratto tra va-lidità ed efficienza. – 3. Un caso di conservazione del rapporto: la garanzia nella vendi-ta dei beni di consumo. – 4. Dalla nullità-rifiuto alla nullità (performativa) di protezio-ne. – 5. Gli obblighi di informazione. – 6. Conclusioni.

1. Legge, autonomia privata e le trasformazioni del capitalismo

Il quadro che abbiamo tracciato nei capitoli precedenti rispecchia il modo di essere degli ordinamenti giuridici moderni i quali, raggiunta la maturità con le codificazioni dell’800, istaurano una relazione tra legge ed autonomia dei privati incentrata sulla “validità”. Quest’ultima è la traduzione, nella specifica e stratificatissima lingua della scienza giuridi-ca, di una direttiva politica che permea di sé un’intera epoca storica – quella dell’avvento e del consolidamento del modo di produzione capi-talistico – abbinando, in una mescola geniale, il massimo della coerci-zione (l’acquisito monopolio della violenza da parte dello Stato) e il massimo della libertà riconosciuto ai singoli 1. Accade così che l’autono-mia negoziale divenga funzione di sé stessa nel presupposto, assunto come indiscutibile dato di realtà, che il “mercato” (cioè la somma delle transazioni individuali) individui il bene primario al servizio del quale

1 V. supra, Cap. III, § 5.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 118

porre la risorsa detenuta dallo Stato in via esclusiva, cioè, appunto, la violenza.

Il connubio violenza (istituzionalizzata)-libertà (funzionalizzata) è una costante del diritto capitalistico 2, anche se le sue forme, nel corso di questi poco più di duecento anni di storia 3, sono andate soggette a oscillazioni non trascurabili. In effetti, quello che abbiamo chiamato di-ritto capitalistico è solo l’altra faccia (per così dire, contenutistica) del diritto statuale (che ne esprime, viceversa, il principio formale), poiché, così almeno ci dice la storia, in assenza dello Stato, l’economia di mer-cato non avrebbe potuto funzionare. Tassello decisivo del congegno istituzionale chiamato a svolgere questo compito è, appunto, la regola-zione coercitiva dell’autonomia privata la quale, come abbiamo detto tante volte, si riassume nel binomio “validità” (condizioni di accesso al-la impegnatività giuridica della promessa che le parti si sono scambiate) e “tutela giurisdizionale dei diritti” (attuazione coattiva della promessa non mantenuta) 4.

Ora, questo schema trova un’applicazione lineare e, anzi, viene pro-prio messo a punto, quando, e siamo nell’Ottocento (fase protoliberale del capitalismo), al mercato si guarda come ad un grande organismo au-tosufficiente, di cui l’ordinamento giuridico si limita ad assecondare le regolarità rendendo giuridicamente vincolanti gli affari conclusi dai pri-

2 L’espressione “diritto capitalistico” è più aggiornata dell’espressione “diritto bor-ghese” perché la classe sociale che fu il vettore del nuovo ordine non esiste più da tem-po cancellata (o, comunque, drasticamente ridimensionata) dalla globalizzazione (le borghesie erano nazionali), dalla finanziarizzazione (le borghesie erano manifatturiere) e dalla digitalizzazione (le borghesie erano analogiche, avevano costruito la loro ege-monia culturale su libri – basti pensare all’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert –, gazzette, periodici, giornali).

3Assumendo, convenzionalmente, quale terminus a quo sempre il 1789. 4 Si potrebbe obiettare che questa descrizione si attaglia all’inadempimento ma non

allo spoglio. Ora, a parte che ci sono inadempimenti i quali sono, al contempo, spogli (v. Cap. V, nt. 45), in ogni caso la tutela contro lo spogliante “assoluto” è un corollario della tutela contro lo spogliante “relativo” (che, a ben vedere, è un debitore) perché, proprio dal punto di vista dello Stato regolatore dell’autonomia privata, non avrebbe molto senso presidiare coercitivamente la promessa per poi abbandonarne al suo de-stino l’effetto primario (l’attribuzione del diritto soggettivo). In altri termini, il presidio coercitivo della promessa è, ipso iure, il presidio coercitivo del diritto soggettivo: anzi, il diritto soggettivo è esso stesso, in quanto funzione della tutela giurisdizionale, il gen-darme della promessa.

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Capitolo Sesto – Disciplina del contratto e tutela della concorrenza 119

vati. Lo schema, nella sostanza, appare adeguato a cogliere la relazione tra legge e autonomia privata anche là dove i compiti dello Stato si am-pliano in ragione dell’esigenza di controllare le varianti “macro” del ci-clo economico (moneta, credito, occupazione, salari: Stato interventi-sta); e anche di assicurare alle classi subalterne una gamma di beni pri-mari (abitazione, istruzione, salute), vuoi per mitigare l’asprezza del conflitto capitale-lavoro, vuoi per consentire alle famiglie a più basso reddito di destinare una quota delle risorse di cui esse dispongono al-l’acquisto di merci (fase sociale del capitalismo) 5. Sul piano delle politi-che di regolazione dell’autonomia privata tutto questo si traduce, fon-damentalmente, in un misurato incremento della ortopedia normativa del singolo atto negoziale: si pensi, solo per fare un esempio tra i molti che potrebbero addursi, agli artt. 1418 e 1339 o anche alla disciplina, oggi non più in vigore, istitutiva del c.d. “equo canone”. Tecniche di questo tipo, per quanto invasive, continuano ad agire secondo una logi-ca a due valori (lecito/illecito) resa appena più complessa dalla circo-stanza che la risposta all’illecito non è più esaurita dalla caducazione della clausola ma si estende fino a ricomprendere la sua sostituzione con il precetto legale.

Per i motivi che illustreremo nel § successivo, quello stesso schema sembrerebbe incontrare qualche difficoltà ad adattarsi alla attuale, terza fase del capitalismo, comunemente denominata neoliberale 6. Vediamo subito perché.

2. Il contratto tra validità ed efficienza

L’odierna stagione del capitalismo differisce nettamente dalla prece-dente mostrando un’aperta ostilità nei riguardi di ogni forma di inter-

5 È facile intuire come l’intervento statale in economia e il Welfare State, traducen-dosi in un sostegno indiretto alla domanda aggregata, abbiano consentito elevati livelli di consumo e, quindi, di profitto. In sintesi, questo è ciò che nella pubblicistica odierna va sotto il nome di “compromesso keynesiano-socialdemocratico”. Anticipato dal New Deal roosveltiano esso decolla in Europa con il secondo dopoguerra, per poi venire smantellato a partire dagli anni ’80 del secolo scorso.

6 Per l’articolazione dello sviluppo capitalistico nelle tre fasi di cui si parla nel testo, v. L. Nivarra, Diritto privato e capitalismo. Regole giuridiche e paradigmi di mercato (Napoli 2010).

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 120

vento diretto dello Stato nell’economia, e anche delle tradizionali politi-che di Welfare. Sotto questo profilo, essa appare molto più vicina a quella protoliberale dalla quale, tuttavia, pure si distingue, come si chia-rirà subito. Il capitalismo delle origini, infatti, era guidato dall’idea che il mercato fosse autosufficiente, spettando alla legge il solo compito di creare ab extrinseco, le condizioni per un pieno dispiegamento delle sue potenzialità. Il capitalismo neoliberale (o, meglio ancora, ordoliberale nella declinazione europea), ha introdotto rispetto ad un tale assunto, una correzione significativa: vero è che il mercato individua il migliore dei mondi possibili, ma è anche vero che la sua efficienza può risultare compromessa da un fenomeno che ha angustiato o, comunque, interes-sato politici e teorici (in primis, economisti) di orientamento liberale fin dalla fine del XIX secolo, e cioè quello dell’impresa con troppo potere.

Questo potere può assumere varie forme. Ad es. si può trattare di un potere di mercato, grazie al quale l’impresa si sottrae, in tutto o in parte, alla pressione esercitata dalla competizione con le altre imprese del set-tore. Storicamente, la profilassi per una patologia del genere è rappre-sentata dal diritto antitrust il cui compito è quello di prevenire il feno-meno (divieto delle concentrazioni, nullità delle intese), o anche di im-pedire che l’impresa approfitti del suo potere per rafforzarsi ulterior-mente (divieto dell’abuso di posizione dominante). L’incidenza del di-ritto antitrust su quello dei contratti, però, è sempre stata piuttosto limi-tata: ad es., la nullità delle intese dipenderà dall’accertamento di un ef-fetto di tipo economico (la restrizione della concorrenza) secondo un’analitica che nulla da spartire ha con il puntuale giudizio di illiceità del contratto che presiede alla nullità civilistica. Del resto, la scala sulla quale si muove la disciplina antimonopolistica è, appunto, quella del c.d. mercato rilevante e non quella della singola transazione (se non quando quest’ultima traduca il surplus di potere detenuto da una delle parti).

Negli ultimi decenni, però, specie sotto l’impulso della legislazione dell’UE si è venuto consolidando un vasto campo di norme le quali si propongono di ovviare al divario di potere che esiste tra le parti di un rapporto contrattuale mediante la predisposizione di “rimedi” i quali, a differenza di quelli del diritto antitrust, hanno come punto di riferimen-to privilegiato la singola operazione economica. Al riguardo si possono indicare varie ipotesi. Ad es., nell’ambito dei rapporti tra imprese, l’art. 9, co. 3 della l. 192/1998 che prevede la nullità del patto attraverso il

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Capitolo Sesto – Disciplina del contratto e tutela della concorrenza 121

quale si realizza l’abuso di dipendenza economica; oppure l’art. 7 del d.lgs. 231/2002 che prevede la nullità delle clausole relative ai termini di pagamento, al saggio degli interessi moratori, ecc., quando risultino gra-vemente inique per il creditore. Il terreno d’elezione dei “rimedi” è rap-presentato, tuttavia, dai contratti stipulati tra professionisti e consuma-tori 7 con riguardo ai quali la estesa disciplina accumulatasi nel corso del tempo trova la sua ragion d’essere non in uno squilibrio di potere eco-nomico (così nei due casi citati in precedenza) quanto, piuttosto, in uno squilibrio di conoscenze in ordine al contenuto (spesso molto comples-so) di contratti unilateralmente predisposti dal professionista (c.d. asim-metria informativa).

Queste norme rispondono ad un’esigenza comune al diritto antitrust, che è quella di impedire la formazione (o il consolidamento) di un pote-re di mercato quando esso non derivi dalle capacità dell’impresa di in-novare processi, prodotti, tecnologie ma, piuttosto, da azioni intese a limitare o escludere la concorrenza in quel settore del mercato. Tutta-via, a differenza dell’antitrust tradizionale, la tutela consumeristica e pa-raconsumeristica, come già detto, si disloca a ridosso del singolo con-tratto, nel presupposto che, ove non si neutralizzassero fin da subito gli effetti dello squilibrio di potere, quest’ultimo si dilaterebbe fino al pun-to da trasformarsi in una rendita di posizione incompatibile con i det-tami di una concorrenza efficiente.

Ora, ai nostri fini, tutto questo rileva nella misura in cui la immediata annessione del contratto al dispositivo filoconcorrenziale sembra altera-re la forma moderna della relazione legge-autonomia privata iscritta nel binomio validità-tutela giurisdizionale. In altri termini, il capitalismo neoliberale non si accontenterebbe più di un contratto semplicemente valido, ma esigerebbe un contratto anche efficiente 8; o, se si preferisce, un contratto che include l’efficienza tra le condizioni della sua validità. Il punto è che l’efficienza, diversamente dalla validità, dipende da va-riabili solo approssimativamente formalizzabili e, cosa ancora più im-

7 Limitatamente alla sola materia delle pratiche commerciali, le norme dettate a tu-tela del consumatore valgono anche per le «microimprese» (art. 18, lett. d-bis), cod. cons.).

8 Nel senso di un contratto che, là dove replica sulla sua scala le dinamiche di una concorrenza almeno tendenzialmente perfetta, viralizza la diffusione e il consolidamen-to del modello.

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portante, implica un ruolo attivo del giudice non solo nella interpreta-zione della legge, ma anche nella (ri)modulazione in itinere del contenu-to del contratto: sicché, da questo punto di vista, il ricorso alla giurisdi-zione muterebbe di segno, e non si lascerebbe più inquadrare, al di là di alcune analogie puramente esteriori, entro il continuum diritto soggetti-vo-azione reclamando, viceversa, una nuova veste concettuale che, al-meno nel dibattito italiano, trova la sua ellissi nella parola o (più ambi-ziosamente) nella categoria “rimedio”.

Arrivati a questo punto, però, è necessario andare a vedere più da vi-cino di che cosa si parla quando si parla di “rimedio”.

3. Un caso di conservazione del rapporto: la garanzia nella vendita dei beni di consumo

Un esempio molto chiaro di come il legislatore ordoliberale intende l’efficienza del contratto ce lo offrono gli artt. 129-130 cod. cons. i quali disciplinano la garanzia nella vendita dei beni di consumo. Questa ga-ranzia è la forma, non limpidissima, che, nelle parole della legge, tradu-ce l’obbligo di conformità al contratto del bene venduto: la sua attua-zione è affidata al rimpiazzo, o alla riparazione che l’acquirente potrà esigere allorché, appunto, abbia a costatare il difetto di conformità.

Se posta a confronto con la disciplina civilistica dei vizi della cosa 9 – che è quanto di più vicino al difetto di conformità si possa immaginare – la soluzione consumeristica si caratterizza per il chiaro favore espresso per la conservazione del rapporto contrattuale, largamente ignota al modello tradizionale. Ignota non solo al paradigma rescissorio (che, va da sé, rappresenta l’esatta antitesi della conservazione), ma anche alla tecnica a noi più familiare di conservazione del contratto, ispirata ad un’esigenza di mero riciclaggio dell’atto negoziale amputato (e, talora, eterontegrato) ma ancora vitale 10. Da un certo punto di vista, l’intrusio-

9 Imperniata sulle azioni edilizie, cioè risoluzione del contratto o diminuzione del prezzo (art. 1492, co. 1).

10 La conservazione civilistica protegge il contratto come atto, la conservazione con-sumeristica protegge il contratto come rapporto. Al § 4 vedremo che se posta al servi-zio di finalità consumeristiche, la conservazione del contratto assume movenze inedite rispetto al modello civilistico.

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Capitolo Sesto – Disciplina del contratto e tutela della concorrenza 123

ne nel rapporto è perfino più invasiva della intrusione nell’atto perché, a differenza di quest’ultima, sottrae all’acquirente la possibilità di con-siderare dissolto l’impegno preso con il contratto poi rivelatosi defor-me. In realtà, come abbiamo visto, la cattura statuale è una costante del diritto moderno: e, semmai, la differenza fondamentale rispetto a quel precedente può ravvisarsi in questo, che mentre la regolazione delle origini è indifferente ai fini (o meglio, agli effetti perché considerati di per sé virtuosi), la regolazione odierna si fa carico delle ricadute del sin-golo atto il quale, del tutto conseguentemente, viene assoggettato a stra-tegie di “conservazione” molto più esigenti e sofisticate, certo non ridu-cibili all’alternativa caducazione/sostituzione della clausola nulla.

L’interrogativo che ci si deve porre, a fronte di fenomeni di questo tipo, è se l’efficienza anche quando, come nel caso della garanzia, non investa il piano della validità, incida sul rapporto tra autonomia privata e giurisdizione. Per rispondere a questa domanda, è necessario ripren-dere il discorso sulle differenze che passano tra il regime ordinario e quello consumeristico dei vizi della cosa. Il primo, incentrato, come ab-biamo visto, sui due rimedi alternativi della risoluzione del contratto e della riduzione del prezzo, ha di mira l’equilibrio dello scambio, nei termini in cui quest’ultimo era stato originariamente fissato dalle parti. Il secondo, viceversa, gravita intorno alla prestazione perché rimpiazzo e riparazione agiscono direttamente sull’utilità che della prestazione medesima costituisce l’oggetto. Tuttavia, quest’ultimo punto che con-tiene sicuramente un elemento di verità necessita di una piccola deluci-dazione. È bene tenere presente, infatti, che, per il modo in cui la tutela del consumatore è articolata, il diritto al rimpiazzo o alla sostituzione sorgerà, e, del resto, non potrebbe essere altrimenti tenuto conto del modo in cui funziona la garanzia, solo quando la prestazione sia stata eseguita: perché soltanto allora, come si è già detto, l’acquirente verifi-cherà il difetto di conformità. In realtà, quindi, a voler essere precisi, quella che chiamiamo conservazione del rapporto è una strana forma di efficacia postuma del medesimo che pone il consumatore in una posi-zione intermedia tra quella di un proprietario spogliato e quella di un creditore frustrato. Questa duplice anima è solo lo specchio della ambi-valenza che discende, recta via, dalla messa a servizio della garanzia di un progetto di recupero della integrità di una prestazione già attuata.

La garanzia, infatti, di regola, si collega ad una prestazione in fieri (così gli artt. 1936 e 1944); e quando, viceversa, essa si muove su una

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 124

scena già occupata dalla solutio (come accade, emblematicamente, nel caso del trattamento ordinario dei vizi della cosa venduta), i rimedi pre-visti dalla legge operano, per così dire, dall’esterno, attraverso il ripri-stino del sinallagma, o in negativo (risoluzione), o in positivo (riduzione del prezzo). La novità introdotta dall’art. 130 consiste, invece, nel fatto che essa abbia di mira il soddisfacimento dell’interesse di un creditore che la prestazione ha già ricevuto 11 il quale, pertanto, a voler ragionare in punto di logica, non è più un creditore, ma solo il titolare di un’attri-buzione già perfezionatasi e di cui si reclama il pieno godimento. A con-ferma dell’ambivalenza di cui si diceva prima, dietro la sagoma del tito-lare di questa attribuzione (formula un po’ barocca per non parlare di proprietario) rispunterà il creditore allorché, ricorrendo uno dei casi contemplati alle lett. a), b), c) dell’art. 130, i rimedi esperibili torneran-no ad essere quelli classici della risoluzione del contratto e della ridu-zione del prezzo 12.

È ovviamente impossibile sottovalutare l’importanza, e la novità, di queste regole. Esse, è vero, si pongono lungo la linea, in ciò tutta mo-derna, di cannibalizzazione funzionalizzante dell’autonomia privata da parte della legge: il punto di discontinuità, come si è già detto, è rappre-sentato dall’attenzione riservata agli effetti (non giuridici, ma economi-ci: e qui si tocca con mano l’ibridazione con l’antitrust) della singola transazione la quale, per le ragioni indicate più sopra, diventa il labora-torio della concorrenza perfetta (colpirne uno per ammaestrarne cento): e questo è il punto di discontinuità con l’antitrust. Del resto, l’obiettivo politico di questa disciplina è rappresentato, secondo un orientamento

11 Si è parlato, opportunamente, di “garanzia specifica”: A. Nicolussi, Diritto euro-peo della vendita dei beni di consumo e categorie dogmatiche, Europa dir. priv., 2003, 547. In realtà, un precedente codicistico dell’art. 130 cod. cons. può ravvisarsi nell’art. 1688 in materia di appalto: sul punto rinvio a Nivarra, I nuovi orizzonti, cit., 60 s. Chia-ri indici della tendenza a privilegiare la conservazione del rapporto si rinvengono anche nei c.d. codici europei delle obbligazioni e dei contratti: si pensi, solo per fare un esempio, all’adempimento sanante previsto dall’art. 8.104 PECL (Principles of Euro-pean Contract Law); o, ancora, all’art. 8.106 sempre degli stessi PECL relativo alla fissa-zione di un nuovo termine per l’adempimento. Anche su questo v. Nivarra, I nuovi orizzonti, cit., 17.

12 Si chiama gerarchia dei rimedi: il ricorso alle azioni edilizie è subordinato alle condizioni (tutte incentrate sul fallimento del rimpiazzo o della restituzione) di cui par-la l’art. 130, co. 7.

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Capitolo Sesto – Disciplina del contratto e tutela della concorrenza 125

generalmente diffuso, dalla volontà del legislatore di incentivare le im-prese a dotarsi di servizi di assistenza postvendita che qualifichino l’of-ferta, allontanando dal mercato gli operatori parassitari, che non solo commercializzano prodotti scadenti ma in più non sono neppure in grado di offrire aiuto ai loro clienti insoddisfatti (le due cose, poi, gene-ralmente vanno insieme).

Tornando, poi, alla questione dalla quale abbiamo preso le mosse, non sembra proprio che regole del tipo di quelle descritte siano in gra-do di alterare il continuum autonomia privata-giurisdizione. Semmai, per le ragioni che abbiamo indicato in precedenza, le novità più signifi-cative investono il governo legislativo dell’autonomia privata: tali novi-tà, però, sebbene di grande rilievo non aggrediscono la fisionomia con-ferita alla tutela dagli ordinamenti giuridici moderni, la quale fa perno sull’idea, elementare ma potentissima, che il processo serva ad attuare il diritto soggettivo 13.

13 Piuttosto, bisogna osservare come l’amministrativizzazione del rapporto contrat-tuale – cioè, la verifica in concreto dell’an e del quomodo della reintegra – spalanchi la strada ad un ampliamento dei poteri del giudice che è fenomeno non più circoscrivibi-le alla sola fase in executivis ma si allarga fino a ricomprendere riscritture della regola sostanziale legittimate in nome del canone dell’effettività (proclamato agli art. 13 CEDU, art. 19 TUE, art. 47 CFDUE). Operazioni di questo tipo sono abbastanza fre-quenti nella giurisprudenza della Corte di Giustizia là dove, ad es., venga disposta la riduzione officiosa del prezzo in alternativa (ma si tratta di un’alternativa ricavata at-traverso un uso manipolativo del principio dell’“effetto utile” e non per via di interpre-tazione) alla riparazione del bene non conforme (Corte giust. 3-10-2013, C-32/12); op-pure, quando sempre iussu iudicis trovi applicazione la garanzia dovuta dal venditore sebbene l’acquirente non abbia fatto valere la qualità di consumatore (Corte giust. 4-6-2015, C-497/13); o, ancora, nel caso in cui, in assenza di altro rimedio manutentivo, la Corte ordini la sostituzione del bene pur in presenza, per il professionista, di costi di rimozione/nuova installazione particolarmente elevati [Corte giust. 16-6-2011, cause riunite C-65/09 e C-87/09: su questa giurisprudenza v. S. Pagliantini, Principio di effet-tività e clausole generali: il canone “armonizzante” della Corte di Giustizia, Giurispru-denza per principi e autonomia privata, a cura di S. Mazzamuto e L. Nivarra (Torino 2016), 99 s.]. Sul principio dell’effettività, per come inteso dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, v. G. Vettori, Effettività delle tutele (diritto civile), Enc. dir., Annali, X, 2017, 381 s.

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4. Dalla nullità-rifiuto alla nullità (performativa) di protezione

Come si è già accennato, esistono anche applicazioni propriamente consumeristiche della tecnica che abbiamo chiamato di conservazione civilistica dell’atto. Il caso più importante, si direbbe paradigmatico, è quello dell’art. 36, co. 1, cod. cons., secondo il quale «le clausole consi-derate vessatorie ai sensi degli artt. 33 e 34 sono nulle, mentre il contratto rimane valido per il resto». Inoltre, in base al successivo co. 3 del mede-simo art. 36 «la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice». In effetti, la nullità civilistica, in li-nea di massima, presenta uno spiccato carattere di neutralità: essa esprime, secondo la logica propria degli ordinamenti moderni, il rifiuto dello Stato di consentire ad un atto privo dei requisiti richiesti di bene-ficiare del crisma della giuridicità, ovvero, che è la stessa cosa, della coercibilità.

Viceversa, la nullità consumeristica è una nullità “di parte” (tanto è vero che il legislatore la chiama «nullità di protezione»: questa è la rubrica dell’art. 36 cod. cons.), nel senso che essa può farsi valere solo dall’interessato, cioè, appunto, dal consumatore, oltreché essere rile-vabile d’ufficio dal giudice. Ancora una volta, la regola ordoliberale mostra chiari segni di differenziazione sia rispetto al paradigma origi-nario, sia rispetto a quello, per così dire, in auge con il capitalismo “sociale”. Rispetto al primo perché nella nullità civilistica si rispec-chiano, e si riassumono, i termini stessi della relazione legge-auto-nomia privata; rispetto al secondo perché la nullità ortopedica del se-condo capitalismo conserva l’atto solo dopo averlo corretto e piegato al raggiungimento delle sue più generali finalità. La nullità di prote-zione, al contrario, è il canale stesso di attuazione della tutela del con-sumatore.

Vediamo di chiarire meglio questo punto. La nullità di stampo clas-sico, nella sua configurazione ordinaria, è strumentale all’esigenza, co-mune ad entrambi i contraenti (art. 1421) di accedere al processo per ottenere una declaratoria di ineffettualità del loro accordo. La nullità, qui, come si è già osservato, è la denominazione tecnica di un fatto poli-tico di grande importanza, ossia il giudizio di irricevibilità, ex latere im-perii, del negozio: in una situazione di questo tipo, il ricorso alla tutela giurisdizionale serve solo a procurare alle parti un’attestazione inconfu-tabile di non coercibilità dell’impegno assunto al momento della stipu-

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lazione del contratto deforme. Si spiega così la ragione per la quale, in queste occasioni, la tutela assuma un carattere introflesso, esaurendosi nel mero accertamento della deformità 14. La nullità “sociale” (esem-plarmente: artt. 1339 e 1419, co. 2) è, a ben vedere, una nullità fittizia (o solo transitoria, che è la stessa cosa) perché la presenza nel sistema di norme imperative a contenuto positivo esclude, di tutto principio, che il contratto possa abbracciare un destino di ineffettualità 15. Trattasi, piut-tosto, di uno strano caso di validità differita, anche se l’automatismo che governa l’inserzione della clausola eteronoma rende il riferimento alla dimensione temporale solo suggestivo.

La nullità consumeristica è irriducibile ad entrambi questi modelli. Da un lato, la caducazione della clausola vessatoria è reale, non fittizia (come accade, invece, quando, ed è il caso degli artt. 1339 e 1419, co. 2, la nullità della clausola sia un puro accidente); dall’altro lato, l’ordina-mento (per il quale il governo dell’autonomia privata non necessita più di intrusioni così pesanti) si limita a restituire il contratto ad un equili-brio ideale mediante la caducazione della clausola vessatoria. Questa tecnica non può neppure essere assimilata al progetto di conservazione dell’atto iscritto nell’art. 1419, co. 1 («la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratti, se ri-sulta che i singoli contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpito dalla nullità»). La nullità parziale, infatti, indirettamente ribadisce il primato della volontà di entrambe le parti e, sotto questo profilo, individua una forma di conservazione ossequiosa dell’atto nullo, del tutto identica, pur nella minore impegnatività degli effetti, a quella in opera nel caso della conversione.

La nullità di protezione, al contrario, attua una modalità di conser-vazione del contratto programmaticamente sperequata, in danno del

14 V. supra, Cap. I, § 3. 15 Lo stesso concetto può esprimersi osservando come, in questo caso, la nullità

occupi una posizione puramente servile (sia, in altri termini, un puro mezzo) rispetto al fine autentico, rappresentato dall’adeguamento del contratto alla regola legale. La nullità genuina, viceversa, è sempre un mezzo tecnico che incorpora l’obiettivo politi-co perseguito dal legislatore: e questo, come vedremo subito, è vero anche per la nul-lità di protezione. Da ciò può trarsi conferma della profonda solidarietà che lega il diritto protoliberale e quello ordoliberale, per entrambi i quali la funzionalizzazione del contratto è sempre endogena e mai esogena, come, invece, accadeva con il diritto “sociale”.

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 128

professionista e a beneficio del consumatore 16. La caducazione ab uno latere della clausola vessatoria – un’asimmetria che idealmente compen-sa quella informativa – è reale (e non fittizia, come invece accade nella conservazione eteronoma) e, in pari tempo, si realizza contro la volontà di una delle parti (e, quindi, esibisce un tratto di eteronomia che, come già detto, la distingue dalla nullità parziale). Ora, l’aspetto interessante da sottolineare è che qui il risultato finale – ovvero, un contratto con-forme non ad una regola, ma ad un modello, quello del mercato effi-ciente – viene raggiunto senza che sia necessario passare attraverso il medio della giurisdizione: ciò che, naturalmente, deve considerarsi del tutto normale, e anzi scontato, allorché si tratti di conservazioni osse-quiose e paritarie (nullità parziale, conversione) 17, mentre rappresenta sicuramente un’anomalia là dove, come in questo caso, la conversione sia conflittuale e sperequata 18.

Sotto questo riguardo, la nullità di protezione, proprio là dove ga-rantisce al consumatore un soddisfacimento extragiudiziale del suo in-teresse, mostra la sua indole più autentica, di regola di conformazione eteronoma del singolo contratto e, più in generale, del mercato 19. La compiuta valutazione di fenomeni del tipo di quelli di cui ci stiamo oc-cupando, infatti, deve tenere presente che scopo ultimo del legislatore è di ripulire i mercati dei fattori distorsivi che li inquinano, attraverso la predisposizione di regole intese a disincentivare comportamenti oppor-tunistici o parassitari da parte delle imprese. Secondo questo disegno, i “professionisti”, specie se ben assistiti sul piano legale in linea di mas-sima dovrebbero preferire un’azione preventiva di spontaneo adegua-

16 Per una efficace illustrazione della figura, v. R. Alessi, La disciplina generale del contratto (Torino 2017), 493 s.

17 Ovviamente, se l’ipotesi del legislatore dovesse rivelarsi fallace (il contratto ampu-tato, o il contratto converso, sulla base di una valutazione oggettiva, non è ciò che le parti – o anche solo una di esse – avrebbero voluto, una volta consapevoli del vizio), ritorna in campo la nullità, con tutto quel che ne consegue. Ma è banale: in casi di que-sto genere, è il progetto di conservazione a fallire. Nel caso della nullità di protezione, la conservazione è a prova di fallimento: e questo ne fa un unicum.

18 Certo, può accadere che un professionista, mal consigliato dai suoi legali, con-venga il consumatore in giudizio facendo valere la clausola caducata. Si tratta di un ri-corso alla giurisdizione solo apparente (se non fosse per i costi che esso comporta) per-ché il convenuto potrà eccepire la nullità e il giudice rilevarla d’ufficio.

19 Plaia, L’invalidità satisfattiva, cit., 1111.

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mento a tali regole (servizi postvendita, condizioni generali di contratto monde della presenza di clausole vessatorie), piuttosto che esporsi al ri-schio di un contenzioso (o anche di un procedimento di fronte al-l’AGCM) costoso sia sul piano finanziario, sia sul piano reputazionale 20.

5. Gli obblighi di informazione

A volte la legislazione a tutela del consumatore recupera tecniche già note al repertorio civilistico, ponendole al servizio di obiettivi che trava-licano, nel senso che vedremo da qui a breve, il piano della semplice in-validità dell’atto. Un esempio al riguardo offrono gli artt. 116 e 117 TUB (Testo Unico Bancario) i quali, in materia di contratti bancari, prevedono, nell’ordine, che le condizioni generali di contratto siano pubblicizzate secondo le modalità stabilite dal CICR (Comitato inter-ministeriale per il credito e il risparmio), che il contratto sia stipulato per iscritto, che il difetto della forma scritta dia luogo a nullità (pur sempre di protezione, ex art. 127, co. 2, TUB), e che, là dove il contrat-to contenga disposizioni difformi da quelle rese pubbliche in via preli-minare, esse siano sostituite da queste ultime.

Come è agevole costatare, si tratta di versioni della nullità già am-piamente sperimentate. La nullità per difetto di forma appartiene allo strumentario del diritto civile liberale; la sostituzione automatica di clausole a quello del diritto “sociale”. L’elemento di novità è rappresen-tato, qui, dalla circostanza che entrambe queste applicazioni della nulli-tà rispondono ad un’esigenza inedita, tipica, viceversa, del diritto ordo-liberale, che è quella di rimediare alla asimmetria informativa che, en-demicamente, affligge la contrattazione in ambito bancario, garantendo al cliente la possibilità di conoscere in anticipo il contenuto dell’opera-zione che egli si ci accinge a stipulare (art. 116 TUB) e di acquisire, me-diante consegna di una copia del contratto stipulato con la banca, uno strumento che gli permetta di verificare in itinere l’osservanza da parte di quest’ultima dei termini del rapporto originariamente sottoscritti (art. 117 TUB). Dunque, anche nelle ipotesi in esame, la nullità perse-gue una chiara finalità di protezione del consumatore (ciò che, del re-

20 Plaia, Profili evolutivi della tutela contrattuale, cit., 86 s.

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sto, lo si è già detto, trova un suggello letterale nell’art. 127, co. 2), seb-bene questo risultato venga raggiunto mediante l’impiego di modalità diverse da quella istituita dall’art. 36 cod. cons. Questo si spiega perché mentre qui l’asimmetria informativa da neutralizzare prende corpo nel-lo squilibrio puntuale generato dalla presenza della clausola vessatoria, nel caso dei contratti bancari, viceversa, lo spettro dell’asimmetria ha un’estensione ben maggiore (proporzionale al grado di complessità del-l’operazione e alla delicatezza che essa riveste per il cliente) ed impone un trasferimento di informazioni di corrispondente ampiezza 21.

6. Conclusioni

In questo capitolo abbiamo velocemente passato in rassegna alcune regole accomunate dalla loro incidenza sul contratto: incidenza che può interessare quest’ultimo come atto o come rapporto. Se messe a con-fronto con quelle che nelle fasi storiche precedenti hanno provveduto a delineare la dialettica tra legge e autonomia privata, esse, come abbiamo visto, si caratterizzano per il disegno, agevole da riconoscere, di iscri-zione del contratto entro il quadro della concorrenza e della sua disci-plina. Sul piano per così dire istituzionale, l’effetto più vistoso del tra-pianto può rintracciarsi in un ampliamento dei poteri del giudice: que-sti, ora, infatti, assume la regola legale non più nei termini di una fatti-specie astratta (per quanto discrezionalmente interpretata), quanto,

21 Difatti, in dottrina, opportunamente, si è proposta, con riguardo alla materia bancaria e finanziaria, la formula «asimmetria cognitiva» in luogo della semplice asim-metria informativa: R. Natoli, Il contratto «adeguato». La protezione del cliente nei ser-vizi di credito, di investimento e di assicurazione (Milano 2012), 52, 57, 132. Si può ag-giungere che la conoscibilità previa delle condizioni generali di contratto è, almeno in linea di principio, funzione anche della comparabilità delle offerte attingibili dal cliente sul mercato: sicché, in questo caso, la performatività della regola eteronoma rispetto al fine di promuovere, su scala sistemica, una dinamica concorrenziale è ancora più mar-cata. Una tecnica analoga a quella impiegata in materia bancaria propone l’art. 23 TUF (Testo Unico della Finanza: d.lgs. 58/1998). Talora, la posizione del consumatore è ul-teriormente rafforzata attraverso l’istituzione di un nesso tra obblighi informativi e ius poenitendi (recesso dal contratto esercitabile dal consumatore a proprio libito entro quattordici dalla conclusione del contratto): si v., ad es., l’art. 125-ter TUB, in relazione all’art. 124. Per una esposizione più ampia rinvio sempre a Nivarra, I nuovi orizzonti, cit., 9-13.

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sebbene, alla stregua di una direttiva istitutiva di obiettivi (appunto, di adeguamento del contratto ad una misura di efficienza del mercato in-dividuata secondo una logica di prima approssimazione) che, volta per volta, andranno ribaltati sul singolo atto o sul singolo rapporto così da rendere effettiva la policy filoconcorrenziale incorporata nel precetto le-gale. Questo sforzo di innesto del macromodello sulla scala della singola transazione è ciò che oggi, appunto, prende il nome di “effettività”, mentre gli strumenti attraverso i quali esso si compie prendono il nome di “rimedi”. Vicenda rilevantissima se riguardata nell’ottica del rappor-to tra il diritto privato e il diritto dei privati, essa, per contro, non sem-bra in grado di scalfire le consolidate architetture del sistema della tute-la giurisdizionale ancora oggi saldamente impostato, nei modi esaminati nei primi cinque capitoli di questo libro, sul binomio validità/tutela o, che è la medesima cosa, diritto soggettivo/azione.

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Finito di stampare nel mese di giugno 2018 nella Stampatre s.r.l. di Torino

Via Bologna, 220

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La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni 134

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Volumi pubblicati Sezione Lezioni

1. ENRICO MOSCATI, La disciplina generale delle obbligazioni, 2015, pp. XXII-554.

2. SALVATORE MAZZAMUTO, Il contratto di diritto europeo, Terza edizione, 2017, pp. XVI-664.

3. STEFANO PAGLIANTINI, La tutela del consumatore nell’interpretazione delle Corti, 2012, pp. XVIII-370.

Sezione Strumenti

1. FILIPPO NAPPI, I ragionamenti applicativi nella didattica del diritto privato. Per una ri-forma della didattica e del ruolo del giurista accademico nel sistema delle professioni le-gali, 2011, pp. X-246.

2. LUCA NIVARRA, Lineamenti di diritto delle obbligazioni, 2011, pp. XIV-202.

3. CARLO MAZZÙ, Il diritto civile all’alba del terzo millennio. Volume I: Famiglia – Succes-sioni – Contratto – Patrimoni separati, 2011, pp. XII-192.

4. CARLO MAZZÙ, Il diritto civile all’alba del terzo millennio. Volume II: Diritti reali – Pubblicità immobiliare, 2012, pp. XII-188.

5. SALVATORE MAZZAMUTO, ARMANDO PLAIA, I rimedi nel diritto privato europeo, 2012, pp. X-170.

6. ENRICO MOSCATI, Studi di diritto successorio, 2013, pp. XIV-370.

7. MARCO MILLI, L’amministratore indipendente nel sistema di corporate governance delle s.p.a., 2013, pp. XVI-184.

8. SALVATORE MAZZAMUTO, La responsabilità contrattuale nella prospettiva europea, 2015, pp. VI-250.

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9. ROSALBA ALESSI, La disciplina generale del contratto, 2017, pp. XVIII-590.

10. LUCA NIVARRA, I nuovi orizzonti della responsabilità contrattuale, 2015, pp. VIII-160.

11. FILIPPO NAPPI, Didattica del diritto civile 2.0. Un prototipo di didattica fondata sull’ad-destramento al giudizio applicativo, 2015, pp. XXII-242.

12. FABRIZIO PIRAINO, STEFANO CHERTI (a cura di), I contratti bancari, 2016, pp. XXX-490.

13. MASSIMO GIULIANO, Contributo allo studio dei trust “interni” con finalità parassuc-cessorie, 2016, pp. X-406.

14. GIUSEPPE GRISI, SALVATORE MAZZAMUTO, Diritto del turismo, 2017, pp. VIII-360.

15. MASSIMO GIULIANO, L’adempimento delle obbligazioni pecuniarie nell’era digitale. Dal-la moneta legale alla moneta scritturale e digitale “legalmente” imposta, 2018, pp. XX-252.

16. LUCA NIVARRA, La tutela giurisdizionale dei diritti. Prolegomeni, 2018, pp. XIV-138.

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