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MARIO NEGRI L a crociera della “Caird” La “rotta impossibile” di Shackleton fra Elephant Island e la South Georgia

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http://www.ibs.it/code/9788876954740/negri-mario/crociera-della-laquocairdraquo.htmlFra il 24 aprile e il 10 maggio del 1916 sei uomini, Shackleton, Worsley, McNeish, McCarthy, Crean e Vincent affrontarono su di una scialuppa di salvataggio, ribattezzata "James Caird", di meno di sette metri di lunghezza, una traversata di circa 700 miglia nel pieno della latitudine australe spazzata dai "Cinquanta Urlanti", in uno dei mari più tempestosi del globo. In questo libro si è tentato di ripercorrerne la straordinaria impresa, privilegiandone però rispetto al racconto, oramai largamente vulgato, la riflessione sulle tecniche nautiche, che hanno resa possibile una rotta a prima vista "impossibile".Between April 24 and May 10 of 1916 six men, Shackleton, Worsley, McNeish, McCarthy Vincent and Crean faced on a lifeboat, renamed "James Caird", less than seven feet in length, a crossing of approximately 700 miles in the middle of south latitude swept by the "Roaring Fifties", in one of the stormy seas of the globe. In this book we have tried to retrace the extraordinary feat, but with the emphasis compared to the story, now widely vulgato, reflection on the nautical techniques, which have made ​​possible a route at first sight "impossible."Entre Avril 24 et 10 mai de 1916, six hommes, Shackleton, Worsley, McNeish, McCarthy, Vincent et Crean face sur un canot de sauvetage, rebaptisé "James Caird", moins de sept pieds de longueur, une traversée d'environ 700 miles au milieu de latitude sud balayée par le «Cinquante Hurlant", dans l'une des mers orageuses de la planète. Dans ce livre, nous avons essayé de retracer l'extraordinaire exploit, mais avec l'accent par rapport à l'histoire, maintenant largement connue, la réflexion sur les fiches techniques, qui ont rendu possible une route à première vue "impossible".Entre el 24 de abril y 10 de mayo de 1916 seis hombres, Shackleton, Worsley, McNeish, McCarthy y Vincent Crean frente en un bote salvavidas, el nombre de "James Caird", a menos de dos metros de longitud, una travesía de aproximadamente 700 millas en medio de latitud sur barridos por los "Roaring fifties" uno de los mares tempestuosos del planeta. En este libro hemos tratado de reconstruir la extraordinaria hazaña, pero con el énfasis respecto a la historia, ahora ampliamente "vulgata", la reflexión sobre las fichas técnicas, que han hecho posible una ruta a primera vista "imposible".Mellom 24 april og mai 10 av 1916 seks menn, Shackleton, Worsley, McNeish, McCarthy og Vincent Crean møtt på en livbåt, omdøpt til "James Caird", mindre enn syv meter i lengde, en kryssing av ca 700 miles i midten av sørlig breddegrad blåst av "Fifty skriking," en av de stormfulle hav av verden. I denne boken har vi forsøkt å spore ekstraordinær prestasjon, men med vekt i forhold til historien, nå allment "vulgato", refleksjon på de tekniske diagrammer, som har muliggjort en rute ved første blikk "umulige".

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MarIo NEGrI

La crociera della “Caird”

La “rotta impossibile” di Shackletonfra Elephant Island e la South Georgia

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© 2012 Mario Negri© 2012 per la presente edizione

arcipelago EdizioniVia Pergolesi 12

20090 Trezzano sul Naviglio - [email protected]

Prima edizione luglio 2012

ISBN 978-88-7695-474-0

Tutti i diritti riservati

ristampe:7 6 5 4 3 2 1 02018 2017 2016 2015 2014 2013 2012

è vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.L’editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non gli è stato possibile comunicare, per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e/o dellefoto.

Le immagini che corredano questo libretto sono state realizzate da Marta Muscariello, che si è anche adoprata per la sua mise en page. Mi ècaro qui ringraziarla, unitamente a Manuela anelli ed Erika Notti, che a diverso titolo hanno, con la consueta disponibilità, contribuito almio lavoro. (M.N.)

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INdICE

9 PrESENTazIoNELe cruces di Shackleton

13 INTroduzIoNEIl quadro storico

23 CaPIToLo 1La determinazione della rotta e il punto-nave astronomico

29 CaPIToLo 11La documentazione nautica e la strumentazione della “James Caird”

31 CaPIToLo 111Timori (e terrori) meteorologici – le scenae dramatis

43 CaPIToLo 1VCalcolare le rotte, centrare il bersaglio

52 aPPENdICEI calcoli in extenso

61 aPPENdICE 11Qualche informazione sulla South Georgia, ricavate dall’Antarctic Pilot (3.12 e ss.)

63 BIBLIoGrafIa

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né ti difese Odisseo dal periglio

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allora, e subito, ho avvertito, accanto a un’ammi-razione che, a mano che m’inoltravo nell’argo-mento, arricchendolo di nuove letture, semprepiù cresceva, tuttavia anche, e non meno forte, ildesiderio, vorrei dire l’obbligo, di comprendere:di qui è nato questo libro e, di qui, anche i suoivolontari – accanto agli involontari – limiti.

di queste cruces – ossia dei punti più proble-matici dell’avventura antartica di Shackleton –le più sfuggono alla mia capacità diretta di valu-tazione (né, per antico abito mentale, mai vorreiscrivere di ciò che non so): per esempio, chiun-que si sia interessato di storia della navigazionesa quanto lo scorbuto abbia infierito sulle naviimpegnate nelle lunghe traversate oceaniche, de-cimandone l’equipaggio, per la mancanza di “vi-tamina C” – l’acido ascorbico –, derivante dal-l’assenza, nella dieta dei marinai del tempo, diverdura e frutta fresca, come pure sugli esplora-tori delle terre estreme (lo stesso Shackleton neera stato colpito nel corso della spedizione conScott nel 1902, e la malattia si ripresentò al-l’esploratore inglese nella tragica vicenda del1912). Come si è detto, la “Spedizione Impe-riale” ne fu invece immune (Shackleton 2009,p. 161). Poteva bastare la carne di foca (e di pin-guino), che è stata la base dell’alimentazione di

Presentazione

Le cruces di Shackleton

Sento, qui in limine, l’obbligo di chiarire, oltreogni possibile dubbio, lo spirito con cui mi ac-cingo ad affrontare la materia che il lettore in-contrerà nelle pagine del libretto che qui pre-sento. E il perché di questo termine – che in fi-lologia indica un “punto dolente” –, crux, a pro-posito delle vicende antartiche di sir ErnestHenry Shackleton. Mai vorrei, infatti, che queltermine, e quanto scrivo, potessero suggerire,anche se solo fra le righe, come un’ambigua presadi distanza dalla veridicità del racconto delle vi-cende che hanno coinvolta la “Spedizione Impe-riale” negli straordinari, terribili cinquecentoven-tidue giorni fra la partenza dell’“Endurance” dallaSouth Georgia e il ritorno di Shackleton sul-l’isola, rispettivamente il 5 dicembre 1914 e il 10maggio 1916. Ne avevo letto, non pochi anni fa,grazie al libro di alfred Lansing, Endurance, e, da

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dalla “James Caird”; e l’ho seguita – e non senzaansia – nel suo esausto incrociare, in attesa dipoter finalmente prender terra, lungo la costaoccidentale della South Georgia, fra secche e ri-dossi, spesso in balia di venti irrisalibili. Non miè stato difficile immaginare la loro ansia di terra,e ammirare la forza d’animo necessaria per al-lontanarsene. Come ho già subito detto, nonavevo dubbi prima ma, ora, credo di aver anchecompreso, nel mio intimo e nella mia esperienza,come abbiano fatto. E so che ce l’hanno fatta.

Poscritto

Quando già questo libro era in stampa, ho letta su “Nau-tica” (luglio 2012, p.16) la notizia della prossima impresadi Tim Jarvis che, accompagnato da sei uomini, salperànel gennaio 2013 da Elephant Island alla volta dellaSouth Georgia (per poi tentarne l’attraversamento viaterra). L’imbarcazione – di cui è presentata una fotografia– avrà le stesse caratteristiche della “James Caird”, e la“spedizione userà la tecnologia, il cibo e le attrezzaturedell’epoca” (penso dunque alla documentazione nauticae alla strumentazione, a partire dalla bussola e dal se-stante). è una prova in più, questa, della fama oramairaggiunta dall’impresa straordinaria cui sono dedicatequeste mie pagine.

Shackleton e dei suoi compagni per circa unanno e mezzo, a supplirvi?

E poi: come mai, in condizioni tanto avverse,un solo caso di congelamento alle dita dei piedi?

E ancora: il superamento della dorsale mon-tuosa della South Georgia, privi com’erano di at-trezzatura alpinistica, a quote intorno ai 2000metri ma alla latitudine di 54° S, non lontani dalcircolo Polare, e in una stagione che oramai vol-geva all’autunno antartico, è un’altra prova cheha dell’incredibile: e la mia impressione, di pro-fano della montagna, almeno a quei livelli, èstata condivisa dalla guida della spedizione bri-tannica che, ma soltanto nel 1955 – e ovvia-mente in tutt’altre condizioni – ha attraversatedi nuovo quelle montagne gelide: “Non so comeabbiano fatto, salvo che dovevano farcela”.

Infine, la traversata da Elephant Island finoalla South Georgia e – difficoltà da non sottova-lutare – lo sbarco sulla sua costa, dirupata e ino-spitale. anche questa ha, a prima vista, tutte lecaratteristiche di un’impresa impossibile. Tutta-via, in questo caso, potevo opporre allo stuporecompetenze e strumenti adeguati per seguirlapasso a passo, e così conoscerla intimamente, evalutarla. Ho così ripercorsa, sulla carta e nei cal-coli, la rotta meravigliosamente puntuale seguita

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Note aggiuntive

Sui problemi dello scorbuto e dei suoi riflessisulla storia della navigazione oceanica vd. p.es.fernández-armesto (2008, pp. 320-4). Il pro-blema dello scorbuto fu attentamente affrontato,e di fatto risolto, da James Cook (1994, I, pp.123, 389, 426, 454, II, 86, 103, 132, 157, 176,456, 476). Come è ben noto, il nostro organismoha persa la capacità di sintetizzare autonoma-mente l’acido ascorbico, che deve in conseguenzaessere assunto da una fonte esterna. oltre, in ge-nerale, ai vegetali freschi (in particolare agrumi,crauti ecc.), l’acido ascorbico è contenuto, ancor-ché in misura minore, nelle interiora di alcunimammiferi (bovini, suini ecc.: Nelson-Cox 2010,pp. 126-7). Non ho trovate notizie concernentile foche ma, evidentemente, anche questi animalidevono aver potuto fornire il quantitativo diacido ascorbico che ha esorcizzata l’insorgenzadello scorbuto in Shackleton e nei suoi compagnidi avventura (a ben vedere, lo stesso problema, eforse la stessa soluzione, dovrebbe riguardareanche le popolazioni indigene dell’estremoNord). Vd., sulla questione – ma non dirimenteper il problema – Huntford 2011, pp. 128-9;

Chichester 2001, pp. 24, 45-9; J. d. Walters inBailey e Bailey 1976-89, p. 171.

La spedizione britannica del 1955 era guidatada duncan Carse, cui si devono le parole, sobrieed efficaci, citate nel testo (Lansing 1999, p.281).

Le mie competenze in materia di navigazione– che ovviamente non sta a me giudicare – sonoquelle di un appassionato dilettante. Ben più si-gnificativi sono gli “strumenti” cui alludo neltesto: in particolare l’Antarctic Pilot e le carte3200, 3585, 3592, 3597, 4213 – in proiezionedi Mercatore – dell’ammiragliato. delle strate-gie di calcolo analitico di rotte e distanze facciocenno più avanti.

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Capitolo iiiTimori (e terrori) meteorologici – le scenae dramatis

“...questo oceano australe è spaventoso, e non solo la zona di Capo Horn. Basta osservare il map-pamondo per vedere come mai queste onde non somiglino a quelle di un altro oceano; non c’è terrache spezzi la loro forza nel girotondo con cui spazzano il globo roteante. Ciò spiega il tremendo marelungo, anche nei gior ni di calma. Non c’è nulla, inoltre, che rompa la forza del vento”: così descrivevale alte latitudini meridionali sir francis Chichester, mentre si avvicinava a Capo Horn (Chichester1975, p. 224).

delle condizioni che il navigante affronta in quel tratto di mare compreso fra l’estremo S dell’ame-rica meridionale e la punta estre ma verso N dell’antartide molto – troppo – si è scritto, né vor rei ag-giungere altre pagine indulgenti, per chi scrive e per chi legge, a quei sentimenti non del tutto nobiliche mirabilmente descrivono alcuni celebri versi del De Rerum Natura.

Mi limiterò così a ricordare che i venti impetuosi da ponente che ha dovuti affrontare la “James Caird”sono stati soprattut to i “furious – o Howling – fifties”, i “Cinquanta urlanti”, così nominati dai marinaibritannici per l’“urlo” che producono al contatto con le sartie e con le vele; così come “ruggono” i “Qua -ranta” (“roaring forties”) e “stridono”, ancora più a Sud, i “Sessanta” (“Shrieking Sixties”).

Probabilmente, se non fosse per Shackleton, nessuno, o quasi, almeno alle nostre latitudini, avrebbemai sentito parlare di Elephant Island. Il lettore potrà, in queste pagine, vederne la posizione sullacarta di quell’area sperduta del mondo e, se lo desidererà, trovarne ampie notizie – come peraltro dellaben più importante, anche dal punto di vista antropico, South Georgia – alle pp. 222-6 dell’AntarcticPilot (soprattutto dal côté marino). altrettanto, come si è già fatto cenno, vale per la South Georgia,che è ampiamente e dettagliatamente trattata alle pp. 150-82 dello stesso Pilot.

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Mentre, però, l’Isola di Elephant non offre materia di partico lare interesse al nostro racconto, lacosta occidentale della South Georgia, raggiunta dopo l’incredibile rotta di cui parle remo nel prossimocapitolo, oltre a rappresentarne il sospirato traguardo, ha rischiato di trasformarsi anche nel cimiterodel la “Caird”: e, non a caso, le pagine dei diari che descrivono l’approdo fortunoso nella Baia del reHaakon raccontano anche del l’ardimento – e, del resto, della fortunosa sorte – di approdare su di unacosta sottovento, quasi sconosciuta, salvo le modeste informazioni deducibili dalla documentazionenautica a disposi zione di Worsley, rocciosa e impervia, battuta dalle grandi onde venienti dallo Strettodi drake, senza nozione quasi dei fondali, su di una scialuppa “modificata” per dotarla di ponte, econ po chissima capacità di risalire il vento – vento forte o di burra sca –, senza luce per illuminare labussola, senza strumenti – con immenso coraggio, con straordinaria perizia. Questo fu l’ap prodo della“James Caird” sulla South Georgia il 10 maggio del 1916.

Così, anche forzando la successione degli eventi, proviamo a seguire, con la carta dettagliata dellaSouth Georgia sotto gli occhi, le vicende della “Caird” lungo la sua costa occidentale [figg. 6, 7]. Ilpiano di navigazione pensato da Shackleton – o più probabil mente da Worsley – prevedeva, una voltaraggiunta l’estremità NW della South Georgia, di doppiarla passando fra Bird Island e le Willis Islands,attraverso lo Stretto di Stewart, largo circa 2 mg e, tenendosi a una certa distanza dalle coste, privo diin sidie. Superatolo, con una rotta che potremmo stimare in circa 35°, in modo da scapolare in franchiale secche di Elliott, la “Caird” avrebbe poi virato verso Est, per superare la Bird Island, e poi seguirela costa orientale della South Georgia fino a raggiungere la stazione baleniera di Leith Harbour, nellaStrom ness Bay, circa a metà della costa orientale. avrebbero così e vitato lo stretto e non facile passaggiodel Bird Sound fra Bird Island e Cape alexandra [figg. 8, 9, 10].

Tuttavia la “Caird” giunge più a S di quanto previsto, di fronte al Capo demidov, circa 16 miglianautiche a S dell’estremità occidentale dell’isola, che era, come sopra si è visto, il loro obbiettivo ori-ginario. è doveroso rilevare che si tratta di un risultato a dir poco mirabile, ma ne parleremo appresso.Qui invece tornia mo alla situazione davvero pericolosa in cui si trovano Shackleton e i suoi compagni,

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al largo di una costa inospitale sottovento, e incerti su quale potesse essere il ridosso migliore: e cioèla Baia del re Haakon, una decina di miglia lungo la costa verso S, ma possibilmente esposta ai ventidominanti di NW, oppure Wilson Harbour, invece verso N rispetto alla loro posizione, e quindi a undipresso controvento, ancorché assai più vicino.

Non so quanti dei miei lettori abbiano provato a identificare un punto di atterraggio su di unacosta sconosciuta, ma chi l’ha fat to ben sa che si tratta di un compito spesso non agevole, almeno inmancanza di una buona descrizione dei luoghi fatta dal porto lano, e di inequivoci punti cospicui. daidati in mio possesso, non credo che Worsley disponesse di un portolano di quelle acque (posto chegià allora esistesse), e infatti il riferimento è sempre alle “charts” e mai al “pilot”. d’altro canto, almenoa giu dicare da quanto ne leggo sul Pilot invece a mia disposizione, il Capo demidov non è privo dicaratteristiche che lo dovreb bero rendere ben identificabile: ma, ancora mi chiedo, che dati aveva inmano Worsley in quella giornata nuvolosa?

Così si misero alla cappa per attendere la luce del giorno suc cessivo. Il quale avrebbe potuto anchesegnare la fine dell’im presa, e la loro morte.

durante la notte, la “James Caird” era scaduta verso SSE – evidentemente spinta dal vento di NWche aveva principiato a montare quando si trovavano di fronte al Capo demidov, e che aveva impeditoloro di risalire verso il miglior ridosso di Wilson Harbour –, cioè lungo la direzione della costa, allon-tanandosi in tal modo dal ridosso, cui miravano, della Baia del re Haakon. al mattino del 9 maggiovalutarono un vento intorno ai 65 nodi, con onde di dodici metri, e visibilità ri dottissima. a mezzo-giorno il vento era virato da SW è rinforzato quasi a 80 nodi (sulla scala Beaufort venti oltre i 64 nodiso no valutati di forza 12 “uragano”).

Ma qui mi faccio da parte, e lascio la parola a colui a cui Shackleton si rivolgeva chiamandolo “skipper”:“all’alba del 9 maggio eravamo sballottati dalle onde, in un terribile mare incrociato, con cavalloni tor-reggianti da ponente che, sotto una furiosa tempesta occidentale, ci spingevano sotto la costa… a mez-zogiorno la tempesta aveva raggiunta forza di uragano, virando da SW, e ci stava gettando dritti su quella

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costa irta di scogli. ogni volta che salivamo sulla cresta di una di quelle onde torreggianti, guardavamocon ansia sottovento, se mai ci fosse una barriera sconosciuta su cui ci saremmo schiantati, o su quellacosta temibile. E fra di noi pregavamo: “acqua, acqua per manovrare o che cambi il vento..”. alle duedel pomeriggio, con sgomento, sono a ridosso della “parte più pericolosa e sconosciuta della costa”, cheWorsley identifica come – mi si consentirà qui di non tradurre – “the stretch between King HaakonSound and annenkov Island” (1999, p. 142-3). anche la mia carta n. 3597 “South Georgia” dell’am-miragliato chiosa l’area di mare a N dell’Isola di annenkov con l’avvertenza “inadequate Surveys” (puressendo aggiornata al 2011): ma non riesco a identificare quello che Worsley chiama “King HaakonSound”, né ne trovo menzione nell’Antarctic Pilot (pp. 181, 476). Se non si tratta di un errore (“Sound”per “Bay”), è possibile che Worsley con quel nome alludesse allo spazio di mare compreso – latamente– fra la Baia del re Haakon e, ma più di venti miglia a Sud del suo estremo meridionale, l’Isola di an-nenkov, fra la quale e la costa si protende verso levante lo Hauge reef, per circa cinque miglia, a delimitarecosì a ponente lo stretto passaggio – non più di tre miglia – dell’Hauge Strait (di cui, e per quanto possogiudicare con piena ragione, Shackleton diffidava). In quelle condizioni che, non lo nego, anche faticoa immaginarmi, riuscirono a issare le vele, terzarolate, e, faticosamente, a guadagnare acqua verso SW,allontanandosi dalla costa. Ma ora il vento li “schiacciava” verso SE, dritti sull’Isola di annenkov. Il rac-conto, qui, si fa, se non m’inganno, confuso – quasi a rispecchiare nella memoria il caos di quelle dram-matiche, lunghissime ore. fatto si è che la scapolarono, tenendola sulla sinistra, quel tanto da superareanche l’insidia dei banchi rocciosi – fra cui Mislaid rock – che contornano annenkov a ponente. Vennecosì un’altra notte da passare al largo: e non è difficile immaginarne l’angoscia.

al mattino del 10 pun tarono finalmente verso la Baia del re Haakon, ma, passato il mezzogiorno,il vento rifiutò, volgendosi a Est, ed anche la marea si opponeva ai loro sforzi. Ma, al di là dell’esseree sausti, e terribilmente provati da un’impresa che ha del sovrumano, era la sete a rendere inaccettabileanche il solo pensiero di un’altra notte in mare. Così, con lucida e disperata determinazione, prima avela e nell’ultimo tratto a forza di remi, entrarono nella Baia e, finalmente, scesero a terra: era il po-meriggio del 10 maggio 1916 [fig. 11].

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Note aggiuntive

La letteratura sullo Stretto di drake e Capo Horn è sterminata. Mi piace però, da studioso e – invotis – marinaio italiano alme no ricordare il bel volume Serafini 2004.

La mia impressione sulla scarsa notorietà “autonoma” di Elephant Island è corroborata dalla relativavoce di Wikipedia, che dedica una parte preponderante della succinta trattazione proprio alla vicendadi Shackleton, fornendo anche una cursoria traccia della rotta seguita dalla “James Caird”.

Mentre i “fifties” e i “Sixties” appartengono al mondo delle esplo razioni e – in tempi più recenti –delle circumnavigazioni spor tive estreme (vd. p. es. Piccardi 2001, da cui è tratta la fIG. 12, Neglia2012), i “roaring forties” hanno giocato un ruolo di pri maria importanza nell’epopea della rotta deiclipper – vd. Chichester 2001; per i vantaggi e i pericoli di latitudini maggiori pp. 108-12 – : non acaso, credo, solo questi ultimi sono riportati con nominazione esplicita nello Ships Atlas (Map 2). èa quelle latitudini che si è svolta l’epica impresa di Vito dumas [fig. 13].

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