La critica a Feuerbach e alla sinistra hegelianafilosofia, essa repli a quanto Prometeo repli a al...

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La critica a Feuerbach e alla sinistra hegeliana “Una volta un valentuomo si immaginò che gli uomini annegassero nell'acqua soltanto perché ossessionati dal pensiero della gravità. Se si fossero tolti di mente questa idea, dimostrando per esempio che era un'idea superstiziosa, un'idea religiosa, si sarebbero liberati dal pericolo di annegare. Per tutta la vita costui combatté l'illusione della gravità, delle cui dannose conseguenze ogni statistica gli offriva nuove e abbondanti prove. Questo valentuomo era il tipo del nuovo filosofo rivoluzionario tedesco”. (L’ideologia tedesca) “Dicono di combattere contro frasi e a questa stesse non oppongono altro che frasi. Ma non combattono il mondo realmente esistente quando combattono solo le frasi di questo mondo” (La sacra famiglia) Tesi su Feuerbach 1. "Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto [Gegenstand, ciò che sta di fronte], il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma dell'obietto [Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto] o dell'intuizione; ma non come attività umana sensibile, come prassi, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato, in modo astratto e in contrasto col materialismo, dall'idealismo, che naturalmente ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell'Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la prassi è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non comprende l'importanza dell'attività "rivoluzionaria", dell'attività pratico-critica." 2. "La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero isolato dalla prassi è una questione puramente scolastica." 3. "La dottrina materialistica, secondo la quale gli uomini sono prodotti delle circostanze e dell'educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che modificano le circostanze e che l'educatore stesso deve essere educato. Essa è perciò costretta a separare la società in due parti, una delle quali sta al di sopra dell'altra. La coincidenza nel variare delle circostanze dell'attività umana, o autotrasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria." 4. "Feuerbach prende le mosse dall'auto-estraneazione religiosa, dalla duplicazione del mondo in un mondo religioso e in un mondo terreno. Il suo lavoro consiste nel risolvere il mondo religioso nella sua base mondana. Ma il fatto che la base mondana si distacchi da se stessa e si costruisca nelle nuvole come un regno fisso e indipendente si può spiegare solo con l'auto-dissociazione e con l'auto-contraddizione di questa base mondana. Questa deve pertanto essere tanto compresa nella sua contraddizione quanto rivoluzionata praticamente. Così, per esempio, dopo che si è scoperto che la famiglia terrena è il segreto della sacra famiglia, è proprio la prima che deve essere dissolta teoricamente e praticamente." 5. "Feuerbach, non soddisfatto del pensiero astratto, vuole l'intuizione; ma egli non concepisce la sensibilità come prassi umana sensibile." 6. "Feuerbach risolve l'essenza religiosa nell'essenza umana. Ma l'essenza umana non è un'astrazione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà, essa è l'insieme dei rapporti

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  • La critica a Feuerbach e alla sinistra hegeliana

    “Una volta un valentuomo si immaginò che gli uomini annegassero nell'acqua soltanto perché ossessionati dal pensiero della gravità. Se si fossero tolti di mente questa idea, dimostrando per esempio che era un'idea superstiziosa, un'idea religiosa, si sarebbero liberati dal pericolo di annegare. Per tutta la vita costui combatté l'illusione della gravità, delle cui dannose conseguenze ogni statistica gli offriva nuove e abbondanti prove. Questo valentuomo era il tipo del nuovo filosofo rivoluzionario tedesco”. (L’ideologia tedesca)

    “Dicono di combattere contro frasi e a questa stesse non oppongono altro che frasi. Ma non combattono il mondo realmente esistente quando combattono solo le frasi di questo mondo” (La sacra famiglia)

    Tesi su Feuerbach

    1. "Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto [Gegenstand, ciò che sta di fronte], il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma dell'obietto [Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto] o dell'intuizione; ma non come attività umana sensibile, come prassi, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato, in modo astratto e in contrasto col materialismo, dall'idealismo, che naturalmente ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell'Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la prassi è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non comprende l'importanza dell'attività "rivoluzionaria", dell'attività pratico-critica."

    2. "La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero isolato dalla prassi è una questione puramente scolastica."

    3. "La dottrina materialistica, secondo la quale gli uomini sono prodotti delle circostanze e dell'educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che modificano le circostanze e che l'educatore stesso deve essere educato. Essa è perciò costretta a separare la società in due parti, una delle quali sta al di sopra dell'altra. La coincidenza nel variare delle circostanze dell'attività umana, o autotrasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria."

    4. "Feuerbach prende le mosse dall'auto-estraneazione religiosa, dalla duplicazione del mondo in un mondo religioso e in un mondo terreno. Il suo lavoro consiste nel risolvere il mondo religioso nella sua base mondana. Ma il fatto che la base mondana si distacchi da se stessa e si costruisca nelle nuvole come un regno fisso e indipendente si può spiegare solo con l'auto-dissociazione e con l'auto-contraddizione di questa base mondana. Questa deve pertanto essere tanto compresa nella sua contraddizione quanto rivoluzionata praticamente. Così, per esempio, dopo che si è scoperto che la famiglia terrena è il segreto della sacra famiglia, è proprio la prima che deve essere dissolta teoricamente e praticamente."

    5. "Feuerbach, non soddisfatto del pensiero astratto, vuole l'intuizione; ma egli non concepisce la sensibilità come prassi umana sensibile."

    6. "Feuerbach risolve l'essenza religiosa nell'essenza umana. Ma l'essenza umana non è un'astrazione immanente all'individuo singolo. Nella sua realtà, essa è l'insieme dei rapporti

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  • sociali. Feuerbach, che non s'addentra nella critica di questa essenza reale, è perciò costretto: 1) a fare astrazione dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé e a presupporre un individuo umano astratto, isolato; 2) per lui, perciò, l'essenza umana può essere concepita solo come genere, come universalità interna, muta, che leghi molti individui naturalmente."

    7. "Perciò Feuerbach non vede che il 'sentimento religioso' è anch'esso un prodotto sociale e che l'individuo astratto, che egli analizza, in realtà appartiene a una determinata forma sociale."

    8. "La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nell'attività pratica umana e nella comprensione di questa prassi."

    9. "Il punto più alto cui giunge il materialismo intuitivo, cioè il materialismo che non concepisce la sensibilità come attività pratica, è l'intuizione dei singoli individui nella società borghese."

    10. "Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese; il punto di vista del nuovo materialismo è la società umana, o l'umanità sociale."

    11. "I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo."

    La critica a Hegel e la dialettica

    Certo, il modo di esporre un argomento deve distinguersi formalmente dal modo di compiere l'indagine. L'indagine deve appropriarsi il materiale nei particolari, deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo e deve rintracciarne l'interno concatenamento. Solo dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in maniera conveniente. Se questo riesce, e se la vita del materiale si presenta ora idealmente riflessa, può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori. Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico, non solo è differente da quello hegeliano, ma ne è anche direttamente l'opposto. Per Hegel il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in soggetto indipendente col nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce a sua volta solo il fenomeno esterno dell'idea o processo del pensiero. Per me, viceversa, l'elemento ideale non è altro che l'elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini. Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent'anni fa, quando era ancora la moda del giorno. Ma proprio mentre elaboravo il primo volume del Capitale i molesti, presuntuosi e mediocri epigoni che ora dominano nella Germania colta si compiacevano di trattare Hegel come ai tempi di Lessing il bravo Moses Mendelssohn trattava lo Spinoza: come un «cane morto». Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore, e ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare. La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico.

    Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca, perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e per i suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza.

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  • Fondamenti “umanistici” del pensiero marxiano: la critica della religione

    “Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono della apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dèi Ermete: “io, t’assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedel messaggero esser di Giove”. Prometeo è il più grande santo e martire del calendario filosofico. Berlino, marzo 1841” (Differenze tra la filosofia di Democrito e quella di Epicuro)

    “L'uomo il quale nella realtà fantastica del cielo, dove cercava un superuomo, non ha trovato che l'immagine riflessa di se stesso, non sarà più disposto a trovare soltanto l'immagine apparente di sé, soltanto il non-uomo, là dove cerca e deve cercare la sua vera realtà. Il fondamento della critica irreligiosa è: l'uomo fa la religione, e non la religione l'uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un essere astratto, posto fuori del mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, Stato, società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. […]. Essa è la realizzazione fantastica dell'essenza umana, poiché l'essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l'aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L'esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l'esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l'aureola. La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l'uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi. La critica della religione disinganna l'uomo affinché egli pensi, operi, configuri la sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova intorno a se stesso e perciò, intorno al suo sole reale. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all'uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso. È dunque compito della storia, una volta scomparso l'al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell'al di qua. È innanzi tutto compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell'autoestraneazione umana, quello di smascherare l'autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica”.

    “L'arma della critica non può certamente sostituire la critica delle armi, la forza materiale dev'essere abbattuta dalla forza materiale, ma anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse. La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem, non appena diviene radicale, Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l'uomo, è l'uomo stesso. La prova evidente del radicalismo della teoria tedesca, dunque della sua energia pratica, è il suo partire dalla decisa eliminazione positiva della religione. La critica della religione finisce con la dottrina per cui l'uomo è per l'uomo l'essere supremo, dunque con l'imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l'uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione (“Annali franco-tedeschi, 1843-44))

  • Dall’umanesimo astratto alla “classe con catene radicali”

    “Soltanto nel nome dei diritti universali della società, una classe particolare può rivendicare a se stessa il dominio universale. Per espugnare questa posizione emancipatrice e quindi per sfruttare politicamente tutte le sfere della società nell'interesse della propria sfera, non sono sufficienti soltanto energia rivoluzionaria e autocoscienza spirituale. Affinché la rivoluzione di un popolo e la emancipazione dì una classe particolare della società civile coincidano, affinché uno stato sociale valga come lo stato dell'intera società, bisogna al contrario che tutti i difetti della società siano concentrati in un'altra classe, bisogna che un determinato stato sia lo stato dello scandalo universale, impersoni le barriere universali, bisogna che una particolare sfera sociale equivalga alla manifesta criminalità dell'intera società, cosicché la liberazione da questa sfera appaia come la universale autoliberazìone. Affinché uno stato divenga lo stato della liberazione par excellence, bisogna al contrario che un altro stato diventi manifestamente lo stato dell'assoggettamento. […]

    Dov'è dunque la possibilità positiva della emancipazione tedesca? Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile la quale non sia una classe della società civile, di uno stato che sia la dissoluzione di tutti gli stati, di una sfera che per i suoi dolori universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitato non una ingiustizia particolare bensì l'ingiustizia senz'altro, la quale può fare appello non più ad un titolo storico ma al titolo umano, che non si trova in contrasto unilaterale verso le conseguenze, ma in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico tedesco, di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società e con ciò stesso emancipare tutte le rimanenti sfere della società, la quale, in una parola, è la perdita completa dell'uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo riacquisto dell'uomo. Questa dissoluzione della società in quanto stato particolare è il proletariato”.

    Dai Manoscritti economico-filosofici del 1844: la teoria dell’alienazione

    “Il tasso minimo, e il solo necessario, per il salario è la sussistenza dell’operaio durante il lavoro e inoltre quel tanto con cui egli possa nutrire una famiglia e la razza degli operai non si estingua. Il salario ordinario è secondo Smith il più basso che sia compatibile con la simple humanité, cioè con un’esistenza bestiale. La domanda di uomini regola necessariamente la produzione di uomini come di ogni altra merce. Se l’offerta è molto maggiore della domanda, una parte degli operai è costretta alla mendicità o a morire di fame. L’esistenza dell’operaio è quindi ridotta alla condizione di esistenza di ogni altra merce. L’operaio è divenuto una merce, ed è una fortuna per lui se può trovare un acquirente”.

    “L’economia politica parte dal fatto della proprietà privata. Non ce la spiega. Esprime il processo materiale della proprietà privata, ossia il processo che questa compie nella realtà, in formule generali, astratte, a cui dà poi il valore di leggi. Essa non comprende queste leggi, cioè non mostra come esse derivino dall’essenza della proprietà privata […] Ora noi dobbiamo appunto comprendere la relazione essenziale tra la proprietà privata, l’avidità, la divisione di lavoro, capitale e proprietà fondiaria, tra valore e svalorizzazione degli uomini, tra monopolio e concorrenza ecc., e tra tutto questo mondo alienato e il sistema del denaro. Non trasferiamoci, come fa l’economista politico quando vuole dare spiegazioni, in uno stato originario di pura fantasia. Un simile stato originario

  • non spiega nulla. Non fa che spostare la questione in una lontananza grigia e nebulosa. Presuppone nella forma del fatto, di un determinato avvenimento, ciò che deve dedurre, cioè il rapporto necessario tra due cose, per esempio tra divisione del lavoro e scambio. Come la teologia spiega l’origine del male col peccato originale, così l’economista presuppone come un fatto, nella forma della storia, ciò che deve spiegare. Noi partiamo da un fatto dell’economia politica, da un fatto attuale. L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza ed estensione. L’operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la valorizzazione del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalorizzazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, esattamente nella proporzione in cui produce merci in generale.

    Questo fatto non esprime altro che questo: l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, si leva di fronte ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente dal produttore. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che è diventato cosa: è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione illustrata dall’economia politica, come venir meno della realtà dell’operaio, l’oggettivazione come perdita dell’oggetto e asservimento ad esso, l’appropriazione come estraniazione, come alienazione.

    La realizzazione del lavoro si rivela a tal punto una sottrazione di realtà che l’operaio viene annullato fino a morir di fame. L’oggettivazione si rivela a tal punto una perdita dell’oggetto che l’operaio è spogliato degli oggetti più necessari, non solo per la vita ma anche per il lavoro.

    Anzi il lavoro stesso diventa un oggetto di cui egli riesce a impadronirsi soltanto con lo sforzo più grande e le interruzioni più irregolari. L’appropriazione dell’oggetto si rivela a tal punto una estraniazione che, quanti più oggetti l’operaio produce, tanto meno può possederne e tanto più soggiace al dominio del suo prodotto, del capitale. Tutte queste conseguenze sono contenute nella determinazione che l’operaio rispetto al prodotto del suo lavoro si trova come di fronte a un oggetto estraneo.

    Infatti, dato questo presupposto, è chiaro che quanto più l’operaio si affatica nel lavoro tanto più potente diviene il mondo estraneo, oggettivo, ch’egli si crea di fronte, tanto più povero diventa lui stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno è ciò che gli appartiene. La stessa cosa avviene nella religione. Quante più cose l’uomo pone in Dio, tante meno ne conserva in se stesso. L’operaio pone la sua vita nell’oggetto; ma così la vita non appartiene più a lui, ma all’oggetto. Quanto maggiore è dunque quest’attività, tanto più l’operaio è privo di oggetto. Quel che è il prodotto del suo lavoro, egli non lo è. Quanto più grande è dunque questo prodotto, tanto più piccolo è lui stesso.

    L’alienazione dell’operaio nel suo prodotto non significa soltanto che il suo lavoro diviene un oggetto, un’esistenza esterna, ma che esso esiste fuori di lui, indipendentemente, estraneo a lui e che diviene una potenza autonoma di fronte a lui; che la vita, da lui conferita all’oggetto, gli si leva di fronte ostile ed estranea.

    Consideriamo ora più da vicino l’oggettivazione, la produzione dell’operaio, e in essa l’estraniazione, la perdita dell’oggetto, del suo prodotto. L’operaio non può creare nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. È questa la materia su cui si realizza il suo lavoro, in cui esso agisce, da cui e mediante cui esso produce. Ma come la natura offre alimento al lavoro, nel senso che il lavoro

  • non può sussistere senza oggetti su cui venga esercitato, così essa, d’altra parte, fornisce anche gli alimenti in senso stretto, cioè i mezzi per la stessa sussistenza fisica dell’operaio. Quanto più dunque l’operaio si appropria col suo lavoro del mondo esterno, della natura sensibile, tanto più sottrae a sé gli alimenti, in un duplice senso: innanzitutto il mondo esterno sensibile cessa sempre più di essere un oggetto appartenente al suo lavoro, un alimento del suo lavoro; in secondo luogo il mondo sensibile cessa sempre più di essere un alimento nel senso immediato, cioè un mezzo per la sussistenza fisica dell’operaio.

    L’economia politica nasconde l’estraniazione che è nell’essenza del lavoro per il fatto che non considera il rapporto immediato tra l’operaio (il lavoro) e la produzione. È vero che il lavoro produce meraviglie per i ricchi, ma produce privazione per l’operaio. Produce palazzi, ma stamberghe per l’operaio. Produce bellezza, ma deformità per l’operaio. Rimpiazza il lavoro con le macchine, ma rigetta una parte degli operai in un lavoro barbaro e trasforma in macchina la parte restante. Produce spirito, ma insieme produce stupidità e cretinismo per l’operaio […]

    Abbiamo considerato finora l’estraniazione, l’alienazione dell’operaio sotto un unico aspetto, quello del suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l’estraniazione non si mostra soltanto nel risultato, bensì nell’atto della produzione, all’interno della stessa attività produttiva. Come potrebbe l’operaio porsi come un estraneo di fronte al prodotto della sua attività, se non si estraniasse da se stesso nell’atto stesso della produzione? Il prodotto è anzi il résumé dell’attività, della produzione. Se dunque il prodotto del lavoro è l’alienazione, la produzione stessa deve essere l’alienazione attiva, l’alienazione dell’attività, l’attività di alienazione. Nell’estraniazione dell’oggetto del lavoro si riassume soltanto l’estraniazione, l’alienazione dell’attività stessa del lavoro.

    In che consiste ora l’alienazione del lavoro? In primo luogo nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere. Di conseguenza nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, non si sente pago ma infelice, non sviluppa alcuna libera energia fisica e spirituale, ma mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente pertanto presso di sé soltanto fuori del suo lavoro, e nel suo lavoro fuori di sé. A casa propria è solo quando non lavora, e quando lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma fatto per costrizione, è lavoro forzato. Non è quindi l’appagamento di un bisogno, ma solo un mezzo per appagare bisogni ad esso esterni. La sua estraneità risulta chiaramente dal fatto che in mancanza di una costrizione fisica o di altro genere il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di autosacrificio e di mortificazione.

    Infine l’esteriorità del lavoro per l’operaio si rivela nel fatto che esso non è suo proprio ma di un altro, che non gli appartiene e che in esso egli non appartiene a sé, ma a un altro. Come nella religione l’attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano, agisce sull’individuo indipendentemente dall’individuo, cioè come un’attività estranea, divina o diabolica, così l’attività dell’operaio non è sua autoattività. Essa appartiene a un altro, è la perdita di sé. Si giunge così al risultato che l’uomo (l’operaio) sente di agire liberamente ormai soltanto nelle sue funzioni animali, mangiare, bere, procreare, e tutt’al più nell’avere un’abitazione, nel vestirsi, ecc., mentre nelle sue funzioni umane non si sente altro che una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale. Mangiare, bere, procreare ecc. sono senza dubbio anche funzioni schiettamente umane. Ma nell’astrazione che le isola dalla restante sfera dell’attività umana e le trasforma in scopi ultimi e unici sono funzioni bestiali […]

  • Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi si leva dinanzi come una potenza estranea, a chi appartiene allora? Se la mia propria attività non mi appartiene, se è un’attività estranea e coatta, a chi appartiene allora? A un essere diverso da me. Chi è quest’essere? Gli dei? Certamente, nei primi tempi, la produzione principale – come ad esempio la costruzione di templi ecc. in Egitto, in India, nel Messico – appare al servizio degli dei, e il prodotto appartiene parimenti agli dei. Ma gli dei non furono mai i soli padroni del lavoro. Tanto meno lo fu la natura. E quale contraddizione sarebbe se, a misura che l’uomo sottomette a sé la natura col suo lavoro, e che i miracoli degli dei son resi superflui dai miracoli dell’industria, l’uomo dovesse rinunciare alla gioia della produzione e al godimento del prodotto a favore di queste potenze. L’essere estraneo, a cui appartiene il lavoro e il prodotto del lavoro, a servizio del quale sta il lavoro e che gode del prodotto del lavoro, può essere soltanto l’uomo stesso. Se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, se gli sta di fronte come una potenza estranea, ciò è possibile solo per il fatto che esso appartiene a un uomo diverso dall’operaio. Se l’attività dell’operaio è per lui un tormento, per un altro essa dev’essere godimento e gioia di vivere. Non gli dei, né la natura, solo l’uomo stesso può essere questa potenza estranea al di sopra dell’uomo. Riflettiamo ancora sulla proposizione precedente, che il rapporto dell’uomo a se stesso è per lui oggettivo, reale, soltanto attraverso il suo rapporto all’altro uomo. Se egli si rapporta dunque al prodotto del suo lavoro, al suo lavoro oggettivato, come a un oggetto estraneo, ostile, potente, indipendente da lui, il suo rapporto verso l’oggetto è tale che un altro uomo è padrone di quest’oggetto – un uomo estraneo, ostile, potente, indipendente da lui. Se egli si rapporta alla sua propria attività come ad un’attività non libera, si rapporta ad essa come ad un’attività compiuta al servizio, sotto il dominio, la costrizione e il giogo di un altro uomo. Ogni autoestraneazione dell’uomo da sé e dalla natura appare nel rapporto verso altri uomini, distinti da lui, in cui egli pone sé e la natura.

    Dal rapporto del lavoro estraniato alla proprietà privata segue che l’emancipazione della società dalla proprietà privata ecc., dalla servitù, si esprime nella forma politica dell’emancipazione degli operai, non come se si trattasse soltanto della loro emancipazione, ma perché nella loro emancipazione è contenuta l’emancipazione umana generale – e vi è contenuta perché nel rapporto dell’operaio alla produzione è implicata l’intera servitù umana e tutti i rapporti di servitù sono solo modificazioni e conseguenze di quel rapporto”.

    “Il comunismo in quanto soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e perciò in quanto reale appropriazione dell’essenza umana da parte dell’uomo e per l’uomo; in quanto ritorno completo, divenuto cosciente, attuato all’interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico precedente, dell’uomo per sé come uomo sociale, ossia umano – questo comunismo coincide, in quanto compiuto naturalismo, con l’umanismo, e in quanto compiuto umanismo col naturalismo; è la vera soluzione del conflitto dell’uomo con la natura e con l’uomo, la vera soluzione del conflitto tra esistenza ed essenza, tra oggettivazione e autoaffermazione, tra libertà e necessità, tra individuo e genere. La soppressione positiva della proprietà privata, come appropriazione della vita umana, è perciò la soppressione positiva di ogni estraniazione, dunque il ritorno dell’uomo dalla religione, dalla famiglia, dallo Stato ecc. nella sua esistenza umana, cioè sociale. L’estraniazione religiosa come tale si produce soltanto nel dominio della coscienza, della vita interiore dell’uomo, ma l’estraniazione economica è l’estraniazione della vita reale – e la sua soppressione abbraccia perciò l’uno e l’altro aspetto”.

  • La concezione materialistica della storia: dai Manoscritti economico-filosofici del 1844

    “L’attività sociale e il godimento sociale non esistono affatto esclusivamente nella forma di un’attività immediatamente comune, quantunque l’attività comune e il godimento comune, cioè l’attività e il godimento che si manifestano e si affermano immediatamente nel rapporto sociale reale con altri uomini, si incontrino dovunque una tale diretta espressione della socialità sia fondata nell’essenza del loro contenuto e sia conforme alla natura di questo. Ma anche quando io sono attivo scientificamente ecc. – quando sono impegnato in un’attività che di rado posso esplicare in immediata comunità con altri – agisco pur sempre socialmente, perché agisco come uomo. Non solo il materiale della mia attività – come il linguaggio stesso per mezzo del quale il pensatore è attivo – mi è dato come prodotto sociale, ma la mia propria esistenza è attività sociale; e di conseguenza ciò che faccio da me, lo faccio da me per la società e con la coscienza di me come essere sociale.

    La mia coscienza universale non è che la forma teoretica di ciò di cui la comunità reale, l’essere sociale, è la forma vivente, laddove ai nostri giorni la coscienza universale è un’astrazione dalla vita reale e come tale le si contrappone ostilmente. Perciò anche l’attività della mia coscienza universale come tale è la mia esistenza teoretica in quanto essere sociale. Bisogna evitare innanzitutto di fissare di nuovo la «società» come un’astrazione di fronte all’individuo. L’individuo è l’essere sociale. La sua manifestazione vitale – anche se non dovesse apparire sotto la forma immediata di una manifestazione vitale comune, compiuta a un tempo con altri – è quindi una manifestazione e un’affermazione di vita sociale. La vita individuale e la vita generica dell’uomo non sono differenti, per quanto – inevitabilmente – il modo d’essere della vita individuale sia un modo più particolare o più universale di vita generica, e la vita generica una vita individuale più particolare o più universale. In quanto coscienza generica l’uomo afferma la sua vita sociale reale e riproduce semplicemente nel pensiero la sua esistenza reale; come inversamente l’esistenza generica si afferma nella coscienza generica, ed esiste per sé, nella sua universalità, come essere pensante. L’uomo – per quanto sia dunque un individuo particolare, e per quanto proprio la sua particolarità ne faccia un individuo e un essere individuale reale della comunità – è nondimeno la totalità, la totalità ideale, l’esistenza soggettiva della società pensata e sentita per sé; allo stesso modo che egli esiste anche nella realtà sia come intuizione e godimento reale dell’esistenza sociale sia come una totalità di manifestazioni vitali umane. Pensiero ed essere sono quindi indubbiamente distinti, ma nello stesso tempo sono in unità l’un con l’altro”.

    Da L’ideologia tedesca

    I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per, via puramente empirica. Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini. Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la

  • coscienza, per la religione per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell’attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione.

    Il fatto è dunque il seguente: individui determinati che svolgono un’attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l’osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra l’organizzazione sociale e politica e la produzione. L’organizzazione sociale e lo Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente, cioè come operano e producono materialmente, e dunque agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dalla loro volontà. La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata alla attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo.

    Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, cosi come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita.

    Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico. Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma sono gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni

  • materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.

    Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza. Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non appena viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di essere una raccolta di fatti morti, come negli empiristi che sono anch’essi astratti, o un’azione immaginaria di soggetti immaginari, come negli idealisti. Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia dunque la scienza reale e positiva, la rappresentazione dell’attività pratica, del processo pratico di sviluppo degli uomini. Cadono le frasi sulla coscienza e al loro posto deve subentrare il sapere reale. Con la rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde i suoi mezzi d’esistenza.

    Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro). Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall’idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza anche al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell’« autocoscienza » o trasformandoli in « spiriti », « fantasmi », « spettri », ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria. Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella «autocoscienza» come «spirito dello spirito», ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze.

    F. Engels, Lettera a J. Bloch del 21 settembre 1890

    Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di piú non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i suoi risultati, le costituzioni promulgate dalla classe vittoriosa

  • dopo aver vinto la battaglia, ecc., le forme giuridiche, e persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi partecipano, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le concezioni religiose e la loro evoluzione ulteriore sino a costituire un sistema di dogmi – esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca di tutti questi fattori, ed è attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali (cioè di cose e di avvenimenti il cui legame intimo reciproco è cosí lontano e cosí difficile a dimostrarsi, che possiamo considerarlo come non esistente, che possiamo trascurarlo). Se non fosse cosí, l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe piú facile che la soluzione d’una semplice equazione di primo grado”.

    Il Manifesto del Partito Comunista (1848)

    La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotta delle classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche anteriori della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di piú, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi frale classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre piú in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato.

    La borghesia ha avuto nella storia una parte altamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, Il bisogno di uno smercio sempre piú esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato una impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita odi morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano piú soltanto materie prime del luogo, ma delle zone piú remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi piú lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari. Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale,

  • si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato. Con l’estendersi dell’uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l’operaio. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un’operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima da imparare. Quindi le spese che causa l’operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della sua specie. L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarca nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell’industria, sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, dello Stato dei borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto piú meschino, odioso ed esasperante, quanto piú apertamente esso proclama come proprio fine ultimo il guadagno. Quando lo sfruttamento dell’operaio da parte del padrone di fabbrica è terminato, in quanto all’operaio viene pagato il suo salario in contanti, si gettano su di lui le altre parti della borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e cosí via. Il proletariato passa attraverso diversi gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia con la sua esistenza… Gli operai cominciano col formare coalizioni contro i borghesi e si riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfino associazioni permanenti per approvvigionarsi in vista di quegli eventuali sollevamenti. Qua e là la lotta prorompe in sommosse. Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle loro lotte non è il successo immediato ma il fatto che l’unione degli operai si estende sempre piú. Questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico torna ad essere spezzata ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi. Ma risorge sempre di nuovo, piú forte, piú salda, piú potente. Essa impone il riconoscimento in forma di legge di singoli interessi degli operai, approfittando delle scissioni all’interno della borghesia. Cosí fu per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra. Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto piú specifico. Il sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli infimi strati della società, che in seguito a una rivoluzione proletaria viene scagliato qua e là nel movimento, sarà piú disposto, date tutte le sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazionarie. La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. È naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia. Ogni società si è basata finora, come abbiamo visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. L’operaio diventa povero, e il pauperismo si sviluppa anche piú rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora piú a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitú, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di essere da lui nutrita, essa

  • è costretta a nutrirlo. La società non può piú vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è piú compatibile con la società. I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d’una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdere fuoerché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi, unitevi!

    Dal Capitale

    Il carattere di feticcio della merce

    L'arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili cioè cose sociali. Proprio come l'impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell'occhio. Ma nel fenomeno della vista si ha realmente la proiezione di luce da una cosa, l'oggetto esterno, su un'altra cosa, l'occhio: è un rapporto fisico fra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale essa si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un'analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s'appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.

    Solo all'interno dello scambio reciproco i prodotti di lavoro ricevono un'oggettività di valore socialmente eguale, separata dalla loro oggettività d'uso, materialmente differente. Questa scissione del prodotto del lavoro in cosa utile e cosa di valore si effettua praticamente soltanto appena lo scambio ha acquistato estensione e importanza sufficienti affinché cose utili vengano prodotte per lo scambio, vale a dire affinché nella loro stessa produzione venga tenuto conto del carattere di valore delle cose. Da questo momento in poi i lavori privati dei produttori ricevono di fatto un duplice carattere sociale. Da un lato, come lavori utili determinati, debbono soddisfare un determinato bisogno sociale, e far buona prova di sè come articolazioni del lavoro complessivo, del sistema naturale spontaneo della divisione sociale del lavoro; dall'altro lato, essi soddisfano soltanto i molteplici bisogni dei loro produttori, in quanto ogni lavoro privato, utile e particolare è scambiabile con ogni altro genere utile di lavoro privato, e quindi gli è equiparato. L'eguaglianza di lavori completamente differenti può consistere soltanto in un far astrazione dalla loro reale disuguaglianza, nel ridurli al carattere comune che essi posseggono, di dispendio di forza-lavoro umana, di lavoro astrattamente umano. Il cervello dei produttori privati rispecchia a sua volta

  • questo duplice carattere sociale dei loro lavori privati, nelle forme che appaiono nel commercio pratico, nello scambio dei prodotti, quindi rispecchia il carattere socialmente utile dei loro lavori privati, in questa forma: il prodotto del lavoro deve essere utile, e utile per altri, e rispecchia il carattere sociale dell'eguaglianza dei lavori di genere differente nella forma del carattere comune di valore di quelle cose materialmente differenti che sono i prodotti del lavoro.

    Gli uomini dunque riferiscono l'uno all'altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che queste cose contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l'un con l'altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l'uno con l'altro, come valori, nello scambio, i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno32. Quindi il valore non porta scritto in fronte quel che è. Anzi, il valore trasforma ogni prodotto di lavoro in un geroglifico sociale. In seguito, gli uomini cercano di decifrare il senso del geroglifico, cercano di penetrare l'arcano del loro proprio prodotto sociale, poichè la determinazione degli oggetti d'uso come valori è loro prodotto sociale quanto il linguaggio. La tarda scoperta scientifica che i prodotti di lavoro, in quanto sono valori, sono soltanto espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell'umanità, ma non disperde affatto la parvenza oggettiva dei carattere sociale del lavoro. Quel che è valido soltanto per questa particolare forma di produzione, la produzione delle merci, cioè che il carattere specificamente sociale dei lavori privati indipendenti l'uno dall'altro consiste nella loro eguaglianza come lavoro umano e assume la forma del carattere di valore dei prodotti di lavoro, appare cosa definitiva, tanto prima che dopo di quella scoperta, a coloro che rimangono impigliati nei rapporti della produzione di merci: cosa definitiva

    Il Capitale

    I due fattori della merce

    La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una "immane raccolta di merci" e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l'analisi della merce.

    Ogni cosa utile, come il ferro, la carta, ecc., dev'essere considerata da un duplice punto di vista, secondo la qualità e secondo la quantità. Ognuna di tali cose è un complesso di molte qualità e quindi può essere utile da diversi lati. E' opera della storia scoprire questi diversi lati e quindi i molteplici modi di usare delle cose. Così pure il ritrovamento di misure sociali per la quantità delle cose utili. La differenza nelle misure delle merci sorge in parte dalla differente natura degli oggetti da misurare, in parte da convenzioni.

    L'utilità di una cosa ne fa un valore d'uso. Ma questa utilità non aleggia nell'aria. E' un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, un diamante, ecc., è quindi un valore d'uso, ossia un bene.

    Nella forma di società che noi dobbiamo considerare i valori d'uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio.

    Il valore di scambio si presenta in un primo momento come il rapporto quantitativo, la proporzione nella quale valori d'uso d'un tipo sono scambiati con valori d'uso di altro tipo; tale rapporto cambia

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  • continuamente coi tempi e coi luoghi. Perciò si presenta come qualcosa di casuale e puramente relativo, e perciò un valore di scambio interno, immanente alla merce (valeur intrinsèque) si presenta come una contradictio in adjecto. Consideriamo la cosa più da vicino.

    Una certa merce, per esempio 1 kg di grano, si scambia con x lucido da stivali, o con y seta, o con z oro: in breve, si scambia con altre merci in differentissime proporzioni. Quindi il grano ha molteplici valori di scambio invece di averne uno solo. Ma poiché x lucido da stivali, e così y seta, e così z oro, ecc. è il valore di scambio di 1 kg di grano, x lucido da stivali, y seta, z oro, ecc. debbono essere valori di scambio sostituibili l'un con l'altro o di grandezza eguale fra loro. Perciò ne consegue: in primo luogo, che i valori di scambio validi della stessa merce esprimono la stessa cosa. Ma, in secondo luogo: il valore di scambio può essere in generale solo il modo di espressione, la " forma fenomenica " di un contenuto distinguibile da esso.

    1 kg di grano = 1 kg di ferro.

    Cosa ci dice questa equazione? Che in due cose differenti, in 1 kg di grano come pure in 1 kg di ferro, esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza. Dunque l'uno e l'altro sono eguali a una terza cosa, che in sé e per sé non è né l'uno né l'altro. Ognuno di essi, in quanto valore di scambio, dev'essere dunque riducibile a questo terzo.

    Come valori d'uso le merci sono soprattutto di qualità differente, come valori di scambio possono essere soltanto di quantità differente, cioè non contengono nemmeno un atomo di valore d'uso.

    Ma, se si prescinde dal valore d'uso dei corpi delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Eppure anche il prodotto del lavoro ci si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore d'uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che lo rendono valore d'uso. Non è più tavola, né casa, né filo né altra cosa utile. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate. E non è più nemmeno il prodotto del lavoro di falegnameria o del lavoro edilizio o del lavoro di filatura o di altro lavoro produttivo determinato. Col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto.

    Consideriamo ora il residuo dei prodotti del lavoro. Non è rimasto nulla di questi all'infuori di una medesima spettrale oggettività, d'una semplice concrezione di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza riguardo alla forma del suo dispendio. Queste cose rappresentano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza lavorativa umana, è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono valori, valori di merci.

    Dunque, un valore d'uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato, o materializzato, lavoro astrattamente umano. E come misurare ora la grandezza del suo valore? Mediante la quantità della "sostanza valorificante", cioè del lavoro, in esso contenuta. La quantità del lavoro a sua volta si misura con la sua durata temporale, e il tempo di lavoro ha a sua volta la sua misura in parti determinate di tempo, come l'ora, il giorno, ecc.

    Però il lavoro che forma la sostanza dei valori è lavoro umano eguale, dispendio della medesima forza lavorativa umana. La forza lavorativa complessiva della società che si presenta nei valori del

  • mondo delle merci, vale qui come unica e identica forza-lavoro umana, benché consista di innumerevoli forze-lavoro individuali. Ognuna di queste forze-lavoro individuali è una forza-lavoro umana identica alle altre, in quanto possiede il carattere di una forza-lavoro sociale media e in quanto opera come tale forza-lavoro sociale media, e dunque abbisogna, nella produzione di una merce, soltanto del tempo di lavoro necessario in media, ossia socialmente necessario. Tempo di lavoro socialmente necessario è il tempo di lavoro richiesto per rappresentare un qualsiasi valore d'uso nelle esistenti condizioni di produzione socialmente normali, e col grado sociale medio di abilità e intensità di lavoro. Il valore di una merce sta al valore di ogni altra merce come il tempo di lavoro necessario per la produzione dell'una sta al tempo di lavoro necessario per la produzione dell'altra. Come valori, tutte le merci sono soltanto misure determinate di tempo di lavoro congelato.

    Una cosa può essere valore d'uso senza essere valore. Il caso si verifica quando la sua utilità per l'uomo non è ottenuta mediante il lavoro: aria, terreno vergine, praterie naturali, legna di boschi incolti, ecc. Una cosa può essere utile e può essere prodotto di lavoro umano senza essere merce. Chi soddisfa con la propria produzione il proprio bisogno, crea sì valore d'uso, ma non merce. Per produrre merce, deve produrre non solo valore d'uso, ma valore d'uso per altri, valore d'uso sociale. (E non solo per altri semplicemente. Il contadino medievale produceva il grano d'obbligo per il signore feudale, il grano della decima per il prete. Ma né il grano d'obbligo né il grano della decima diventavano merce per il fatto d'essere prodotti per altri. Per divenire merce il prodotto deve essere trasmesso all'altro, a cui serve come valore d'uso, mediante lo scambio). E, in fine, nessuna cosa può essere valore, senza essere oggetto d'uso. Se è inutile, anche il lavoro contenuto in essa è inutile, non conta come lavoro e non costituisce quindi valore.

    Le merci vengono al mondo in forma di valori d'uso o corpi di merci, come ferro, tela, grano, ecc. Questa è la loro forma naturale casalinga. Tuttavia esse sono merci soltanto perché sono qualcosa di duplice: oggetti d'uso e contemporaneamente depositari di valore. Quindi si presentano come merci oppure posseggono la forma di merci soltanto in quanto posseggono una duplice forma: la forma naturale e la forma di valore.

    Tuttavia, ricordiamoci che le merci posseggono oggettività di valore soltanto in quanto esse sono espressioni di una identica unità sociale, di lavoro umano, e che dunque la loro oggettività di valore è puramente sociale, e allora sarà ovvio che quest'ultima può presentarsi soltanto nel rapporto sociale fra merce e merce. Di fatto noi siamo partiti dal valore di scambio o dal rapporto di interscambio delle merci, per poter trovare le tracce del loro valore ivi nascosto. Ora dobbiamo ritornare a questa forma fenomenica del valore.

    Ognuno sa, anche se non sa nient'altro, che le merci posseggono una forma di valore, che contrasta in maniera spiccatissima con le variopinte forme naturali dei loro valori d'uso, e comune a tutte: la forma di denaro. Ma qui si tratta di compiere un'impresa che non è neppure stata tentata dall'economia borghese: cioè di dimostrare la genesi di questa forma di denaro, dunque di perseguire lo svolgimento dell'espressione di valore contenuta nel rapporto di valore delle merci, dalla sua figura più semplice e inappariscente, fino all'abbagliante forma di denaro. Con ciò scomparirà anche l'enigma del denaro.

    Il rapporto di valore più semplice è evidentemente il rapporto di valore d'una merce con un'unica merce di genere differente, qualunque essa sia. Il rapporto di valore fra due merci ci fornisce dunque la più semplice espressione di valore per una merce.

  • Aristotele non poteva ricavare dalla forma di valore stessa il fatto che nella forma dei valori di merci tutti i lavori sono espressi come lavoro umano eguale e quindi come egualmente valevoli, perché la società greca poggiava sul lavoro servile e quindi aveva come base naturale la disuguaglianza degli uomini e delle loro forze-lavoro. L'arcano dell'espressione di valore, l'eguaglianza e la validità eguale di tutti i lavori, perché e in quanto sono lavoro umano in genere, può essere decifrato soltanto quando il concetto della eguaglianza umana possegga già la solidità di un pregiudizio popolare. Ma ciò è possibile soltanto in una società nella quale la forma di merce sia la forma generale del prodotto di lavoro, e quindi anche il rapporto reciproco fra gli uomini come possessori di merci sia il rapporto sociale dominante. Il genio di Aristotele risplende proprio nel fatto che egli scopre un rapporto d'eguaglianza nella espressione di valore delle merci. Soltanto il limite storico della società entro la quale visse gli impedisce di scoprire in che cosa insomma consista "in verità" questo rapporto di eguaglianza.

    Immaginiamoci in fine, per cambiare, un'associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale. Qui si ripetono tutte le determinazioni del lavoro di Robinson, però socialmente invece che individualmente. Tutti i prodotti di Robinson erano sua produzione esclusivamente personale, e quindi oggetti d'uso, immediatamente per lui. La produzione complessiva dell'associazione è una produzione sociale. Una parte, serve a sua volta da mezzo di produzione, Rimane sociale. Ma un'altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell'associazione. Quindi deve essere distribuita fra di essi. Il genere di tale distribuzione varierà col variare del genere particolare dello stesso organismo sociale di produzione e del corrispondente livello storico di sviluppo dei produttori. Solo per mantenere il parallelo con la produzione delle merci presupponiamo che la partecipazione di ogni produttore ai mezzi di sussistenza sia determinata dal suo tempo di lavoro. Quindi il tempo di lavoro rappresenterebbe una doppia parte. La sua distribuzione. compiuta socialmente secondo un piano, regola l'esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni. D'altra parte, il tempo di lavoro serve allo stesso tempo come misura della partecipazione individuale del produttore al lavoro in comune, e quindi anche alla parte della produzione comune consumabile individualmente. Le relazioni sociali degli uomini coi loro lavori e con i prodotti del loro lavoro rimangono qui semplici e trasparenti tanto nella produzione quanto nella distribuzione.

    Il processo di scambio

    Le merci non possono andarsene da sole al mercato e non possono scambiarsi da sole. Dobbiamo dunque cercare i loro tutori, i possessori di merci.

    Per riferire l'una all'altra queste cose come merci, i tutori delle merci debbono comportarsi l'uno di fronte all'altro come persone, la cui volontà risieda in quelle cose, cosicché l'uno si appropria la merce altrui, alienando la propria, soltanto con la volontà dell'altro; quindi, ognuno dei due compie quell'atto soltanto mediante un atto di volontà comune a entrambi. Quindi i possessori di merci debbono riconoscersi, reciprocamente, quali proprietari privati.

    La sua merce non ha per lui nessun valore d'uso immediato. Altrimenti non la porterebbe al mercato. Essa ha valore d'uso per altri. Per lui, immediatamente, essa ha soltanto il valore d'uso d'essere depositaria di valore di scambio, e così d'essere mezzo di scambio. Perciò egli la vuole alienare per merci il cui valore d'uso gli procuri soddisfazione. Tutte le merci sono pei loro possessori valori non d'uso, e pei loro non-possessori valori d'uso. Quindi debbono cambiar di mano da ogni

  • parte. Ma questo cambiamento di mano costituisce il loro scambio, e il loro scambio le riferisce l'una all'altra come valori, e le realizza come valori. Dunque, le merci debbono realizzarsi come valori, prima di potersi realizzare come valori d'uso.

    Se guardiamo più da vicino, per ogni possessore di merci la merce altrui conta come equivalente particolare della propria merce, e quindi la sua merce conta per lui come equivalente generale di tutte le altre merci. Ma poiché tutti i possessori di merci fanno la stessa cosa, nessuna merce è equivalente generale, e quindi le merci non posseggono neanche una forma relativa generale di valore, nella quale si equiparino come valori e si mettano a paragone come grandezze di valore. Quindi esse non si trovano l'una di fronte all'altra come merci, ma soltanto come prodotti ossia valori d'uso.

    Nel loro imbarazzo, i nostri possessori di merci pensano come Faust. All'inizio era l'azione. Ecco che hanno agito ancor prima di aver pensato. Le leggi della natura delle merci hanno già agito nell'istinto naturale dei possessori di merci. Costoro possono riferire le loro merci l'una all'altra come valori, e quindi come merci, soltanto riferendole per opposizione, oggettivamente, a qualsiasi altra merce quale equivalente generale. Questo è. il risultato dell'analisi della merce. Ma soltanto l'azione sociale può fare d'una merce determinata l'equivalente generale. Quindi l'azione sociale di tutte le merci esclude una merce determinata, nella quale le altre rappresentino universalmente i loro valori. Così la forma naturale di questa merce diventa forma di equivalente socialmente valida. Mediante il processo sociale, l'esser equivalente generale diventa funzione sociale specifica della merce esclusa. Così essa diventa - denaro. "Costoro hanno un medesimo consiglio; e daranno la loro potenza e podestà alla bestia. E che niuno potesse comperare o vendere, se non chi avesse il carattere o il nome della bestia, o il numero del suo nome". (Apocalisse).

    La cristallizzazione "denaro" è un prodotto necessario del processo di scambio, nel quale prodotti di lavoro di tipo differente vengono di fatto equiparati e quindi trasformati di fatto in merci.

    Accompagniamo ora un qualsiasi possessore di merci, per esempio. il tessitore di lino, nostra vecchia conoscenza, sulla scena del processo di scambio, il mercato delle merci. La sua merce, 20 metri di tela, è definita nel prezzo. Il suo prezzo è di 10 €. La scambia con 10 €, e, uomo d'antico stampo com'è, torna a scambiare i 10 € con una Bibbia di famiglia dello stesso prezzo. La tela, che per lui è soltanto merce, depositaria di valore, viene alienata in cambio d'oro, che è la figura di valore di essa, e da questa figura viene retroalienata in cambio d'un'altra merce, la Bibbia, che però deve andarsene come oggetto d'uso nella casa del tessitore e soddisfare quivi bisogni di edificazione. Dunque il processo di scambio si compie in due metamorfosi opposte e integrantisi reciprocamente: trasformazione della merce in denaro e retrotrasformazione del denaro in merce. I momenti della metamorfosi delle merci sono insieme atti commerciali del possessore di merci: vendita, scambio della merce con denaro; compera, scambio del denaro con merce, e unità dei due atti: vendere per comprare.

    Se il tessitore esamina il risultato finale dell'affare, egli possiede una Bibbia invece della tela, possiede invece della sua merce originaria un'altra merce dello stesso valore, ma di utilità differente. Allo stesso modo egli si procura i suoi altri mezzi di sostentamento e di produzione. Dal suo punto di vista l'intero processo procura soltanto lo scambio del prodotto del suo lavoro con prodotto di lavoro altrui, lo scambio dei prodotti.

    Il processo di scambio della merce si compie dunque nei seguenti mutamenti di forme:

  • Merce — Danaro — Merce M — D — M

    Quanto al contenuto materiale il movimento è M-M, scambio di merce con merce, ricambio organico del lavoro sociale, nel cui risultato si estingue il processo stesso.

    Il cambiamento di forma nel quale si compie il ricambio organico dei prodotti del lavoro, M-D-M, porta con sé che il medesimo valore costituisca, come merce, il punto di partenza del processo, ritornando poi come merce allo stesso punto. Dunque questo movimento delle merci è un ciclo. D'altra parte la stessa forma esclude il ciclo del denaro. Il suo risultato è un costante allontanamento del denaro dal suo punto di partenza, non un ritorno ad esso. Finché il venditore tiene ferma la figura trasformata della sua merce, cioè il denaro, la merce si trova nello stadio della prima metamorfosi; ossia ha percorso soltanto la prima metà della circolazione. Quando il processo, vendere per comprare, è compiuto, anche il denaro torna ad essere allontanato dalla mano del suo primo possessore. Certo, quando il tessitore, dopo aver comprato la Bibbia, torna a vendere di nuovo tela, anche il denaro ritorna in sua mano. Ma non ritorna mediante la circolazione delle prime venti metri di tela; anzi, questa l'ha allontanato dalle mani del tessitore portandolo in quelle del venditore di Bibbie. Il denaro ritorna soltanto mediante il rinnovamento o la ripetizione dello stesso processo di circolazione per merce nuova, e qui finisce con lo stesso risultato di prima.

    LA FORMULA GENERALE DEL CAPITALE.

    La circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale. La produzione delle merci e la circolazione sviluppata delle merci, cioè il commercio, costituiscono i presupposti storici del suo nascere. Il commercio mondiale e il mercato mondiale aprono nel secolo XVI la storia moderna della vita del capitale.

    Se facciamo astrazione dal contenuto materiale della circolazione delle merci, allo scambio dei vari valori d'uso, e consideriamo soltanto le forme economiche generate da questo processo, troviamo che suo ultimo prodotto è il denaro. Questo ultimo prodotto della circolazione delle merci è la prima forma Fenomenica del capitale.

    Dal punto di vista storico, il capitale si contrappone dappertutto alla proprietà fondiaria nella forma di denaro, come patrimonio in denaro, capitale mercantile e capitale usurario. Tuttavia, non c'è bisogno dello sguardo retrospettivo alla storia dell'origine del capitale, per riconoscere che il denaro è la prima forma nella quale esso si presenta: la stessa storia si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi.

    Ogni nuovo capitale calca la scena, cioè il mercato - mercato delle merci, mercato del lavoro, mercato del denaro - in prima istanza come denaro, ancora e sempre: denaro che si dovrà trasformare in capitale attraverso processi determinati.

    Denaro come denaro e denaro come capitale si distinguono in un primo momento soltanto attraverso la loro differente forma di circolazione.

    La forma immediata della circolazione delle merci è M-D-M: trasformazione di merce in denaro e ritrasformazione di denaro in merce, vendere per comprare. Ma accanto a questa forma, ne troviamo una seconda, specificamente differente, la forma D-M-D: trasformazione di denaro in merce e ritrasformazione di merce in denaro, comprare per vendere. Il denaro che nel suo

  • movimento descrive quest'ultimo ciclo, si trasforma in capitale, diventa capitale, ed è già capitale per sua destinazione.

    Consideriamo un po' più da vicino il ciclo D-M-D. Come la circolazione semplice delle merci, esso contiene due fasi antitetiche l'una all'altra. Nella prima fase, D-M, compera, il denaro viene trasformato in merce. Nella seconda fase, M-D, vendita, la merce viene ritrasformata in denaro. Ma l'unità delle due fasi è il movimento complessivo che scambia denaro contro merce, e questa stessa merce, a sua volta, contro denaro; che compera merce per venderla, ossia, se si trascurano le differenze formali fra compera e vendita, compera merce con il denaro e denaro con la merce. Il risultato nel quale si risolve tutto il processo è: scambio di denaro contro denaro, D-D.

    Quel che distingue a priori ì due cicli M-D-M e D-M-D è l'ordine inverso delle identiche e antitetiche fasi dei ciclo. La circolazione semplice delle merci comincia con la vendita e finisce con la compera; la circolazione del denaro come capitale comincia con la compera e finisce con la vendita. Là è la merce a costituire il punto di partenza e il punto conclusivo del movimento; qui è il denaro. Nella prima forma la circolazione complessiva è mediata dal denaro, nella seconda, viceversa, dalla merce.

    Il riafflusso del denaro al suo punto di partenza non dipende dal fatto che la merce sia venduta più cara di quanto sia stata comprata. Questa circostanza ha effetto solo sulla grandezza della somma di denaro che riaffluisce. Il fenomeno del riafflusso come tale ha luogo appena la merce comperata è rivenduta, e così il ciclo D-M-D è descritto completamente. E questa è una distinzione tangibile fra la circolazione del denaro come capitale e la circolazione del denaro come puro e semplice denaro.

    Il ciclo M-D-M comincia da un estremo, che è una merce, e conclude con un estremo, che è un'altra merce, la quale esce dalla circolazione per finire nel consumo. Quindi il suo scopo finale è consumo, soddisfazione di bisogni, in una parola, valore d'uso. Il ciclo D-M- D comincia invece dall'estremo denaro e conclude ritornando allo stesso estremo. Il suo motivo propulsore e suo scopo determinante è quindi il valore stesso di scambio.

    Una somma di denaro si può distinguere da un'altra somma di denaro, in genere, soltanto mediante la sua grandezza. Dunque il processo D-M-D non deve il suo contenuto a nessuna distinzione qualitativa dei suoi estremi, poiché essi sono entrambi denaro, ma lo deve solamente alla loro differenza quantitativa. In fin dei conti, vien sottratto alla circolazione più denaro di quanto ve ne sia stato gettato al momento iniziale. Il cotone comprato a 24.000€, per esempio, viene venduto una seconda volta a 24.000 + 2.400 €, ossia a 26.400 €. La forma completa di questo processo è quindi D-M-D', dove D' = D + ΔD, cioè è uguale alla somma di denaro originariamente anticipata, più un incremento. Chiamo plusvalore (surplus value) questo incremento, ossia questa eccedenza sul valore originario. Quindi nella circolazione il valore originariamente anticipato non solo si conserva, ma in essa altera anche la propria grandezza di valore, aggiunge un plusvalore, ossia si valorizza. E questo movimento lo trasforma in capitale.

    E, considerate quantitativamente, 26.400 € sono una somma di valore limitata quanto 24.000 €. Se i 26.400 € fossero spesi come denaro, essi cesserebbero di rappresentare la loro parte. Cesserebbero di essere capitale. Sottratti alla circolazione, si pietrificano in un tesoro e non s'accrescono neppure d'un centesimo, anche se continuano a stare immagazzinate fino al giorno del giudizio universale. Dunque, una volta che si tratti di valorizzazione del valore, il bisogno che si ha di valorizzare 26.400 € è lo stesso di quello che si ha per 24.000 €, poiché 24.000 e 26.400 sono entrambi espressioni limitate del valore di scambio, e quindi hanno ambedue la stessa vocazione di

  • avvicinarsi alla ricchezza assoluta espandendo la propria grandezza. Certo, per un momento il valore di 24.000 € inizialmente anticipato si distingue dal plusvalore di 2.400 € del quale s'accresce nella circolazione; ma questa distinzione torna subito a dileguarsi. Alla fine del processo, non si ha da una parte il valore originale di 24.000 € e dall'altra il plusvalore di 2.400 €. Il risultato è un solo valore di 26.400 € che si trova nella stessa e corrispondente forma, cioè pronto a cominciare il processo di valorizzazione, come i 24.000 € originari. Alla fine del movimento, risulta, ancora, denaro, e come nuovo inizio del movimento. Quindi la fine di ognuno dei singoli cicli nei quali si compie la compera per la vendita, costituisce di per se stessa l'inizio di un nuovo ciclo. La circolazione semplice delle merci - la vendita per la compera - serve di mezzo per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, cioè per l'appropriazione di valori d'uso, per la soddisfazione di bisogni. Invece, la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura. Il possessore di denaro diventa capitalista nella sua qualità di veicolo consapevole di tale movimento. La sua persona, o piuttosto la sua tasca, è il punto di partenza e di ritorno del denaro. Il contenuto oggettivo di quella circolazione - la valorizzazione del valore - è il suo fine soggettivo, ed egli funziona come capitalista, ossia capitale personificato, dotato di volontà e di consapevolezza, solamente in quanto l'unico motivo propulsore delle sue operazioni è una crescente appropriazione della ricchezza astratta. Quindi il valore d'uso non dev’essere mai considerato fine immediato del capitalista. E neppure il singolo guadagno: ma soltanto il moto incessante del guadagnare.

    Senza l'assunzione della forma di merce il denaro non diventa capitale, quindi il denaro non si presenta qui in antagonismo con la merce, come nella tesaurizzazione. Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto possano aver aspetto miserabile o per quanto possano aver cattivo odore, sono in fede e in verità denaro, sono giudei intimamente circoncisi e, per di più, mezzi taumaturgici per far del denaro più denaro.

    Comprare per vendere, ossia, in modo più completo, comprare per vendere più caro, D-M-D', sembra invero forma propria solo di una specie di capitale, del capitale mercantile. Ma anche il capitale industriale è denaro che si trasforma in merce e, mediante la vendita della merce, si ritrasforma in più denaro. Gli atti che si svolgono, per esempio, fra la compera e la vendita, al di fuori della sfera di circolazione, non cambiano nulla a tale forma del movimento. Infine, nel capitale produttivo d'interesse la circolazione D-M-D' si presenta abbreviata, si presenta nel suo risultato, senza la mediazione, in stile, per cosi dire, lapidario, come D-D', denaro che equivale a più denaro, valore più grande di se stesso. Di fatto, quindi, D-M-D', è la formula generale del capitale, come esso si presenta immediatamente nella sfera della circolazione.

    Dunque, con l'inversione della successione non siamo usciti al di fuori della sfera della circolazione semplice delle merci; anzi, dobbiamo star a vedere se essa, per sua natura, permetta la valorizzazione dei valori che in essa affluiscono, e quindi la formazione di plusvalore.

    Prendiamo il processo di circolazione in una forma sotto la quale esso si presenti come semplice scambio di merci. Questo caso si verifica sempre quando entrambi i possessori di merci comprano merci l'uno dall'altro e il bilancio dei loro reciproci crediti viene pareggiato il giorno dei pagamenti. Il denaro qui serve da moneta di conto, per esprimere i valori delle merci nei loro prezzi, ma non si contrappone come cosa alle merci stesse. Finché si tratta del valore d'uso, è chiaro che entrambi i permutanti possono guadagnare. Entrambi alienano merci che per loro sono inutili come valori d'uso e ricevono merci delle quali hanno bisogno per loro uso.

  • Poniamo ora che, per un qualche inspiegabile privilegio, sia dato al venditore di rendere la merce al di sopra del suo valore, a 26.400 € se essa vale 24.000 €, cioè con un rialzo nominale di prezzo del 10 %. Dunque il venditore incassa un plusvalore di 2.400 €. Ma dopo esser stato venditore, diventa compratore. Ora l'incontra un terzo possessore di merci in qualità di venditore, che gode a sua volta il privilegio di vender la merce rincarata del 10%. Il nostro personaggio ha guadagnato 2.400 come venditore, per perdere 2.400 come compratore. Il risultato di tutto ciò si riduce in realtà al fatto che tutti i possessori di merci si rendono l'uno all'altro le loro merci al 10% al di sopra del loro valore, il che è esattamente la stessa cosa che se vendessero le merci ai loro valori. Un rialzo di prezzo nominale e generale di questo tipo produce lo stesso effetto che se per esempio i valori delle merci fossero stimati in argento invece che in oro. I nomi in denaro, cioè i prezzi delle merci, gonfierebbero; ma i loro rapporti di valore rimarrebbero inalterati.

    Supponiamo viceversa che sia privilegio del compratore comperare le merci al di sotto del loro valore. Qui non c'è neppure bisogno di ricordare che il compratore torna a diventare venditore. Era venditore, prima di diventare compratore. Ha perduto già il 10% come venditore prima di guadagnare il 10 % come compratore. Tutto rimane come prima.

    La formazione di plusvalore, quindi la trasformazione di denaro in capitale, non può dunque essere spiegata né per il fatto che i venditori vendano le merci al di sopra del loro valore, né per il fatto che i compratori le comperino al di sotto del loro valore.

    Quindi i sostenitori coerenti della illusione che il plusvalore scaturisca da un supplemento nominale di prezzo, ossia dal privilegio del venditore di vendere la merce troppo cara, suppongono una classe che compri soltanto senza vendere, che quindi anche consumi senza produrre. L'esistenza di tale classe è ancora inspiegabile dal punto di vista al quale finora siamo arrivati, quello della circolazione semplice. Dunque, ci si può rigirare come si vuole; il risultato è sempre lo stesso. Se si scambiano equivalenti, non nasce nessun plusvalore; se si scambiano non-equivalenti, neppure in tal caso nasce plusvalore. La circolazione, ossia lo scambio delle merci, non crea nessun valore.

    S'è visto che il plusvalore non può sorgere dalla circolazione, e che quindi nella sua formazione non può non accadere alle spalle della circolazione qualcosa che è invisibile nella circolazione stessa.

    Ma il plusvalore può scaturire da qualcosa d'altro che dalla circolazione?

    La circolazione è la somma di tutte le relazioni di scambio dei possessori di merci. Al di fuori di esse, il possessore di merce sta in relazione ormai soltanto con la propria merce. Per quel che riguarda il valore della merce, il rapporto è limitato al fatto che questa contiene una quantità del lavoro del possessore, misurata secondo determinate leggi sociali. Tale quantità di lavoro si esprime nella grandezza di valore della sua merce, e, poiché la grandezza di valore s'esprime in moneta di conto, in un prezzo, per esempio, di 10 Euro. Ma il suo lavoro non si rappresenta nel valore della merce e in un eccedente sul valore proprio di questa, non si rappresenta cioè in un prezzo di 10 che sia simultaneamente un prezzo di 11, non si rappresenta in un valore che sia più grande di se stesso. Il possessore di merci può col suo lavoro creare valori ma non valori che si valorizzino. Egli può alzare il valore d'una merce, aggiungendo al valore esistente nuovo valore mediante nuovo lavoro, per esempio facendo, con il cuoio, degli stivali. La medesima materia ha ora più valore, perché contiene una maggiore quantità di lavoro. Quindi lo stivale ha più valore del cuoio, ma il valore del cuoio è rimasto quel che era. Non si è valorizzato, non si è aggiunto un plusvalore durante la fabbricazione degli stivali. Dunque è impossibile che il produttore di merci, al di fuori della sfera della circolazione

  • e senza entrare in contatto con altri possessori di merci, valorizzi valori e trasformi quindi denaro o merce in capitale.

    Dunque è impossibile che dalla circolazione scaturisca capitale; ed è altrettanto impossibile che esso non scaturisca dalla circolazione. Deve necessariamente scaturire in essa, ed insieme non in essa.

    Dunque, si ha un duplice risultato.

    La trasformazione del denaro in capitale deve essere spiegata sulla base di leggi i