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Uil

LA CRISI E LE DONNE

A cura dell’ufficio Politiche economiche e

finanziarie

Roma 18.6.2012

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LA CRISI E LE DONNE

In Italia si nasce pari e si cresce dispari. E‟una problematica generale che colpisce

indistintamente tutti i cittadini sul piano delle prestazioni sociali, previdenziali e della

distribuzione dei redditi ed in ognuna di queste fattispecie si inserisce anche una

problematica di genere che deriva da millenari processi culturali e da meccanismi

politici conniventi e che genera le disparità uomini-donne, ricchi-poveri, lavoratori-

disoccupati.

Relativamente alle problematiche di genere riteniamo che cambiare sia possibile,

perché lo hanno fatto Paesi simili al nostro, dalla „lontana‟ ed „avanzata‟ Svezia alla

vicina e mediterranea Spagna.

Il fatto è che la nostra organizzazione sociale, familista, ormai senza welfare e con

servizi ridotti al minimo e inadeguati ne ha relegato la supplenza alle donne, che sono

diventate dei service provider gratuiti, per cui tutte le attività di cura, dei figli, degli

anziani, dei malati sono state caricate sulle loro spalle.

Tutto ciò pone una esigenza di riqualificazione ed efficacia dei servizi pubblici,

soprattutto in un momento nel quale la finanza pubblica è tutta tesa verso la riduzione

delle spese e con una pressione fiscale ai massimi livelli.

Dobbiamo constatare che è andata anche sfumando quella dicotomia Nord-Sud

nell‟erogazione dei servizi perché oggi vi è un‟Italia fatta di una molteplicità di

realtà, con casi di elevata efficacia anche nel Mezzogiorno e casi di inefficienza dei

servizi presenti al Centro-Nord.

Particolare attenzione va prestata sulle inefficienze dei servizi sociali, innanzitutto

sotto l‟aspetto generale e nel caso specifico perché, per molti aspetti, tali inefficienze

sono riversate sulle donne. Ad esempio i servizi per pazienti cronici e da riabilitare

dopo un ricovero (post acuzie), in larga misura rivolti agli anziani ed ai disabili

rimane, sul piano nazionale, insufficiente e quindi si riversa a carico dalle famiglie.

La spessa cosa avviene per l‟assistenza domiciliare integrata che dovrebbe essere

assicurata ai pazienti principalmente anziani, per prestazioni di medicina generale, di

medicina specialistica, per prestazioni infermieristiche e riabilitative, ma anche per

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prestazioni di assistenza sociale, come aiuto domestico da parte dei familiari o del

competente servizio delle aziende.

Vi è poi la calo dei servizi sociali dei Comuni a seguito delle drastiche riduzioni, a

partire dal 2009, dei tagli di spesa operati sul “Fondo nazionale per le politiche

sociali” e su altri stanziamenti accessori (“Fondo per le politiche della famiglia”,

“Fondo per l’infanzia e l’adolescenza”, “Fondo per la non autosufficienza”) a cui si

sono aggiunti gli effetti delle riduzioni dei trasferimenti erariali e dei vincoli stabiliti

dal “Patto di stabilità interno”, che nell‟insieme hanno prodotto una contrazione delle

risorse disponibili che, a parità di efficienza nella gestione dell‟offerta dei servizi,

inibiscono non solo l‟avvio di nuove iniziative, ma anche la conservazione dei livelli

di offerta già raggiunti.

Infine, negli ultimi anni vi è stato un ampliamento dell‟offerta di nidi pubblici con la

creazione di nuovi posti in strutture socio-educative per la prima infanzia soprattutto

nelle regioni del Mezzogiorno, tuttavia permangono notevoli differenziali nei livelli

di diffusione e di utilizzo dei nidi pubblici. Considerando anche i servizi integrativi

per la prima infanzia i comuni italiani che offrono il servizio sono il 55,2 per cento.

Non è un dato incoraggiante ed infatti, nell‟anno scolastico 2010-2011, su cento

bambini da zero a due anni, gli utenti dei nidi o dei servizi integrativi per la prima

infanzia variano da 29,4 dell‟Emilia Romagna a 2,4 della Calabria, rispetto a una

media nazionale di 14.

In conclusione, anche da questi brevi esempi, è evidente la generale inefficienza delle

prestazioni del welfare ed altrettanto evidente che queste mancanze sono scaricate

sostanzialmente sulle famiglie e, all‟interno di queste, principalmente sulle donne.

Il problema è che le proposte di cambiamento vanno a peggiorare ancor più la

situazione, perché, l‟ipotesi, ad esempio, del quoziente familiare, introdotto in paesi

dove i servizi alla persona sono molti e molto flessibili, in Italia, dove invece questi

servizi mancano, aumenterà ancora di più la funzione di service provider delle donne

in casa.

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In certo qual modo una risposta alla disattenzione politica del lavoro familiare vi è

stata, seppure con effetti socialmente non positivi. Infatti “La struttura delle famiglie

italiane è cambiata – come rileva l‟Istat: nel Rapporto annuale 2012 - si è ridotto il

numero dei componenti, sono diminuite le coppie coniugate con figli e sono

aumentate le nuove forme familiari. La famiglia tradizionale non è più il modello

prevalente nemmeno nel Mezzogiorno: negli ultimi venti anni le libere unioni sono

quadruplicate e la quota di nati da genitori non coniugati si è più che raddoppiata,

raggiungendo il livello del 20 per cento. La quota di giovani tra i 25 e i 34 anni che

vive ancora nella famiglia di origine si è incrementata di quasi 9 punti ed è arrivata

a circa il 42 per cento, quella di adulti (tra i 35 e i 44 anni) si è addirittura

raddoppiata e ha raggiunto il 7 per cento. L’età media delle madri alla nascita del

primo figlio cresce di generazione in generazione.”

I cambiamenti, o meglio gli adattamenti della struttura familiare alle situazioni reali

esprimono il rifiuto di questo modello, fino a qualche anno fa, basato sul principio di

sussidiarietà che significava meno welfare pubblico più famiglia e cioè più donne in

casa.

Per un nuovo dinamismo sociale e democratico, anche in questo periodo di crisi, è

necessario investire sul ruolo dell‟universo femminile. “L’unico universo che – dice il

filosofo francese Alain Touraine – per la sua essenza, ma anche per la sua storia

sociale può essere in grado, nel processo di conquista e di definizione del proprio

ruolo nella società, di procedere anche verso un superamento delle tante differenze e

distonie, soprusi e discriminazioni, presenti nella contemporaneità”.

Bisogna indubbiamente cambiare l‟attuale politica economica che impedisce ogni

cambiamento e appiattisce la Nazione solo sull‟attività speculativa dei mercati,

un‟attività politica corrotta che ha imposto al nostro Paese 1800 – 2000 tasse diverse

e non possiamo permettere che, ancor oggi a fronte di una quasi totale diminuzione

dei servizi sociali, un individuo debba lavorare venti giorni per pagare tasse e 10

giorni per i suoi bisogni. Il professor Sergio Ricossa, economista liberista fra i

teorizzatori dello Stato minimo, ha insegnato nelle aule accademiche che “le tasse ci

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riguardano, prima ancora che come contribuenti, come cittadini, uomini di

coscienza, individui che esprimono scale di valori in cui la libertà è presente con

spicco. Esse determinano la qualità della nostra vita anche non materiale, ben oltre

quanto può sembrare fermandosi all’economia dei tributi. Non modificano solo la

nostra ricchezza: modificano la condizione umana spirituale”.

Il quadro di ricomposizione della società italiana, tuttavia, è ancora lontano dal

delinearsi, l‟Istat rileva che In Italia si vive più a lungo di venti anni fa, ma si fanno

pochi figli. La combinazione tra aumento della sopravvivenza e persistente bassa

fecondità ha reso l‟Italia uno dei paesi con il più elevato livello di invecchiamento, si

esce dalla famiglia più tardi, si assiste ad uno spostamento in avanti di tutte le fasi

della vita.

Anche i comportamenti delle donne sono cambiati nel tempo: l‟investimento in

capitale umano da parte delle donne è cresciuto notevolmente e ha ormai superato

quello degli uomini. Non solo continua ad aumentare la partecipazione scolastica (93

per cento per le femmine e 91,5 per i maschi), ma vi è un divario anche nel

conseguimento dei titoli: nell‟anno scolastico 2009/2010 il 78 per cento delle ragazze

ha ottenuto il diploma, contro soltanto il 70 per cento dei ragazzi.

Il 45° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2011 dice che fra i giovani

vi è meno dispersione scolastica, meno abbandoni, più differenziazioni territoriali,

più scoraggiamento.

Nel 2010 la quota di giovani 18-24enni in possesso della sola licenza media e non più

inseriti in percorsi formativi è scesa dal 19,2% al 18,8%, con varia intensità in tutte le

aree del Paese, ad eccezione del Centro che rimane l‟area dove tale indicatore è più

contenuto (14,8%). Per il fenomeno dei giovani Neet, ovvero dei giovani che non

studiano e non lavorano, l‟Italia detiene un ben triste primato a livello europeo. La

quota di Neet 15-29enni ha ripreso a crescere con l‟inizio della crisi economica,

attestandosi nel 2010 al 22,1% rispetto al 20,5% dell‟anno precedente.

L‟incremento della scolarizzazione ha avuto immediate ripercussioni sul numero dei

giovani che conseguono un diploma di scuola secondaria di II grado: se nei primi

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anni Novanta circa un giovane di 19 anni su due conseguiva un diploma, nel 2010 la

quota di diplomati per 100 giovani di 19 anni ha raggiunto quasi il 74 per cento

Tassi conseguimento diploma

scuola secondaria

60,00

65,00

70,00

75,00

80,00

85,00

2001

-02

2003

-04

2005

-06

2007

-08

2009

-10

Maschi

femmine

Fonte: Elaborazione Istat su dati del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca

Anche questo risultato è fortemente caratterizzato dalle buone performance delle

ragazze: la percentuale di diplomate sul totale delle giovani di 19 anni è aumentata

nel tempo più di quanto sia cresciuta quella dei ragazzi e con una intensità maggiore

di quanto si è registrato per il tasso di scolarità.

Un buon 53,2 per cento delle ragazze scelgono i licei e quasi il 47 per cento i percorsi

tecnico-professionali.

Da notare che fin dagli inizi degli anni Novanta il numero di donne immatricolate

all‟università ha superato quello dei coetanei maschi. Da allora le donne hanno

sempre fatto registrare livelli di immatricolazione superiori a quelli maschili e

nell‟a.a 2009/2010 rappresentano il 56,2 per cento del complesso degli immatricolati.

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TASSI DI CONSEGUIMENTO TITOLI UNIVERSITARI PER SESSO

0,00

10,00

20,00

30,00

40,00

50,00

60,00

maschi

fem

min

e

maschi

fem

min

e

Laurea triennale Lauree di 4 -6

anni

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

Nel mondo del lavoro però permangono le differenze di genere e l‟incremento

occupazionale delle donne si concentra maggiormente in quei settori professionali in

cui la presenza femminile era già relativamente più numerosa e negli impieghi ad

orario ridotto (il 30 per cento a part time), in molti casi con caratteristiche di

involontarietà.

In Italia, tra il 1993 e il 2011, l‟occupazione totale è aumentata di 1.661 mila unità

(+7,8 per cento), grazie all‟incremento verificatosi nel settore dei servizi1, dove gli

occupati sono cresciuti fino al 2010 ad un tasso dell‟1,5 per cento medio annuo, per

un ammontare complessivo di 2,6 milioni di unità, e dell‟1 per cento nel 2011. Il

livello della domanda di lavoro è rimasto fino al 2008 costantemente inferiore a

1 con la crisi economica iniziata nel 2008 le opportunità lavorative si concentrano nelle professioni a bassa qualifica e, in misura

limitata, nel gruppo delle professioni con qualifica intermedia degli impiegati e addetti al commercio e ai servizi. Vi concorre, dal lato dell‟offerta, il persistente flusso migratorio con l‟elevata presenza degli stranieri nelle occupazioni a bassa qualifica. Peraltro, in

base ai dati dell‟indagine sulle forze di lavoro, opera nel terziario

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quello dell‟Ue15, anche se con la successiva crisi la distanza non è aumentata.

La crescita occupazionale complessiva ha beneficiato della positiva evoluzione della

partecipazione femminile al mercato del lavoro: dal 1993 al 2011 il numero di donne

occupate è cresciuto da circa 7,6 milioni a poco più di 9,3 milioni, mentre il livello

dell‟occupazione maschile si è ridotto di 40 mila unità. Ad eccezione dei periodi

1994-1995 e 2009-2010, il ritmo di crescita dell‟occupazione femminile è risultato

sempre decisamente positivo e nel decennio 1998- 2008 è stato di poco inferiore al 19

per cento (+1,5 milioni di unità). L‟occupazione maschile ha registrato un modesto

recupero e un‟accelerazione solo nel 2005-2007, a cui è seguita la decisa contrazione

del 2009-2010 (-430 mila unità) e una sostanziale stabilità del 2011. L‟aumento

dell‟occupazione ha riguardato esclusivamente il Centro-Nord. Nel Mezzogiorno

Occupati Italia Germania Ue15

0

20

40

60

80

100

120

140

2002

2003 2004 2005 2006 2007 2008

8

2009 2010 2011

Italia Germania Ue 15

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l‟occupazione si è ridotta da circa 6,4 a 6,2 milioni tra il 1993 e il 2011. La riduzione

è stata particolarmente significativa tra il 1993 e il 1995 (-326 mila unità, pari a -5,1

per cento) e nel 2009-2010 (-281 mila unità, pari a -4,3 per cento). All‟impatto

negativo sull‟occupazione della crisi economica del 1992-1993 nel Centro-Nord ha

invece fatto seguito un progressivo recupero che, avviatosi nella seconda parte degli

anni Novanta, è proceduto ininterrotto fino alla recente fase ciclica negativa.

Tra il 1993 e il 2011 l‟occupazione femminile è cresciuta del 22,2 per cento, quella

maschile è scesa dello 0,3 per cento: in termini assoluti, le variazioni sono,

rispettivamente, pari a 1,7 milioni e 40 mila.

L‟incremento dell‟occupazione femminile si è distribuito in modo molto disuguale

sul territorio: in quasi venti anni si è registrato circa un milione e mezzo di occupate

in più nel Centro-Nord, ma solo 196 mila nel Mezzogiorno.

Nell‟ultimo decennio, appena il 10 per cento della crescita del lavoro femminile si è

registrato nelle regioni meridionali, con un ulteriore ampliamento della già elevata

forbice tra Nord e Sud.

La quota di donne occupate rimane comunque di gran lunga inferiore a quella

dell‟Ue: nel 2011 esse sono il 40,7 per cento della corrispondente popolazione

femminile, in confronto al 58,5 per cento. Anche il divario con gli uomini, misurato

dal rapporto tra tasso di occupazione femminile e maschile, passato da 0,56 del 1993

a 0,62 del 2000, fino a 0,69 del 2011, rimane sempre ampio e più alto solo di quello

della Grecia e di Malta.

La crescente partecipazione al mercato del lavoro delle donne è stata sostenuta, in

Italia come in Europa, dal processo di terziarizzazione dell‟economia.

In Italia l‟occupazione femminile nel terziario ha avuto uno sviluppo ininterrotto, che

nel 2011 ha portato a circa 7,8 milioni le occupate del settore, un valore pari all‟83

per cento del totale dell‟occupazione femminile.

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A fronte dell‟aumento registrato nei servizi, si è registrata una persistente discesa

dell‟occupazione femminile nell‟industria in senso stretto, con un tasso medio annuo

del 2,5 per cento.

La recente crisi ha accentuato nettamente il divario di genere: in confronto al 2008, le

occupate dell‟industria in senso stretto segnalano nel biennio 2009-2010 un ritmo di

discesa doppio (-12,7%) in confronto agli uomini (-6,3 per cento).

Nel periodo peggiore della recessione (2008- 2009), per una donna occupata

nell‟industria in senso stretto, vi è stato un rischio di perdere il lavoro superiore di

circa il 40 per cento rispetto a un uomo.

Il maggiore calo dell‟occupazione femminile non sembra, quindi, dovuto solo alla

maggiore presenza delle donne in comparti particolari (come il tessile), alla loro

posizione lavorativa (tempi determinati, co.co.co. o impiegati) alla dimensione di

impresa (più donne nelle imprese di più ridotta dimensione) poiché eliminando

l‟influenza di questi fattori, la differenza di genere rimane significativa.

Alla crescita dell‟occupazione femminile ha sicuramente contribuito anche il

progressivo innalzamento del livello di scolarizzazione, che ha cambiato la coscienza

femminile e il modello di partecipazione al lavoro. In passato le donne entravano

presto nel mercato del lavoro e ne uscivano a seguito del matrimonio, con il

trascorrere del tempo è cresciuto l‟investimento femminile in capitale umano e si

sono modificate le aspettative e le variabili di scelta rispetto all‟occupazione, che non

è più intesa come limitata soltanto ad una fase della vita. L‟utilizzo del part time è

stato un ulteriore elemento che ha contribuito notevolmente alla crescita

dell‟occupazione femminile, infatti, tra il 1993 e il 2011, i due terzi dell‟aumento

occupazionale femminile sono dovuti agli impieghi a orario ridotto.

Attualmente, il 30 per cento delle donne occupate svolge un lavoro part time e questa

tipologia è in continua crescita essendo arrivato all‟attuale quota vicino al 50%, da

circa un terzo del 2004. Comunque è una scelta necessaria e non volontaria visto che

molte donne dichiarano di lavorare con una tale modalità in mancanza di occasioni di

impiego a tempo pieno.

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L‟utilizzo della flessibilità oraria tende, quindi, a rispondere più alle esigenze delle

imprese che alle scelte delle lavoratrici. Peraltro, in Italia lo sviluppo del part time ha

coinvolto in misura contenuta le donne laureate ed ha principalmente interessato

quelle con licenza media o diploma: nel 2004 le donne tra i 40 e i 59 anni con al più

un diploma di scuola secondaria superiore rappresentavano il 40 per cento del totale

delle donne part time; nel 2011 l‟incidenza è salita al 53 per cento.

Anche nel lavoro a tempo determinato in oltre un terzo dei casi questi contratti

riguardano le donne più giovani (nelle classi 25-29 e 30-34 anni), che risultano anche

maggiormente esposte al rischio di mancato rinnovo o di stabilizzazione, in caso di

gravidanza.

Per le donne non solo è più alta la percentuale di precarietà, ma anche quella di

permanenza in forme contrattuali a tempo determinato e di collaborazione.

La crescita dell‟occupazione femminile si è concentrata maggiormente nei settori

professionali in cui la presenza delle donne era già relativamente più numerosa,

infatti, in un gruppo di dieci professioni (insegnante, ragioniere, infermiere,

segretario, sarto, commesso, parrucchiere, cameriere, addetto alle pulizie uffici,

collaboratore domestico) risultava pari al 51,1 per cento. Tale incidenza è rimasta

costantemente superiore al 50 per cento del totale tra il 1994 e il 2008, è cresciuta

ulteriormente fino a 53,1 per cento nel 2010 e ha registrato solo una modesta

attenuazione nel 2011. Nell‟ambito di questo insieme, l‟attività di collaboratore

domestico (e di assistente familiare) vede una quasi esclusiva presenza femminile,

mentre la distribuzione occupazionale per genere delle altre professioni registra un

certo equilibrio solo per la figura professionale dei camerieri. Per il resto, rimane

confermato il quadro di segregazione orizzontale: nel 2011 il tasso di

femminilizzazione specifico è compreso tra il 66 per cento della professione tecnica

intermedia del ragioniere e l‟81,7 per cento degli insegnanti (dalla scuola materna alle

superiori), un‟articolazione, cioè, non molto diversa da quella di diciotto anni prima.

Approfondendo ad esempio la realtà di una delle professioni dove è più alta

l‟incidenza delle donne e cioè l‟insegnamento, possiamo constatare che, in Italia,

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questa categoria ha stipendi che si attestano (dati EURISPES 2010) ben al di sotto di

quelli delle principali economie europee.

La Commissione europea Education, Audovisual and Culture Executive Agency ha

messo a confronto le retribuzioni degli insegnanti nei vari paesi.

Nazione SCUOLA

Elem entare Media Superiore

min max min max min max

Belgio 86,3 149,1 86,3 149,1 107,4 188,5

Danimarca 87,80 103,90 87,80 103,90 100,70 119,10

Germania 108,90 149,90 108,90 149,90 122,60 209,10

Grecia 65,00 112,60 65,00 112,60 65,00 112,60

Irlanda 72,80 141,50 72,80 141,50 72,80 141,50

Spagna 115,20 166,40 132,40 187,60 132,40 187,60

Francia 75,10 149,00 79,30 153,10 79,30 187,30

Italia 66,50 97,40 72,20 108,00 72,20 113,30

Ungheria 63,10 122,00 63,10 150,30 67,80 150,30

Paesi Bassi 91,90 144,60 95,30 191,20 95,30 191,20

Austria 79,30 158,00 79,30 158,00 90,00 190,70

Polonia 37,00 162,60 37,00 162,60 37,00 162,60

Portogallo 97,30 282,50 97,30 282,50 97,30 282,50

Romania 54,40 103,20 61,80 126,80 61,80 126,80

Finlandia 91,10 122,50 101,30 134,20 104,00 142,40

Svezia 70,70 88,60 73,30 103,70 81,40 112,00

RegnoUnito 109,70 186,10 109,70 186,10 109,70 186,10

Islanda 65,30 80,80 65,30 80,80 68,40 86,90

Norvegia 65,30 77,00 65,30 77,00 65,30 77,00

I dati sono espressi come percentuale del PIL lordo pro capite, che è un indicatore standard di vita

della popolazione di un Paese e consente di fare raffronti fra paesi diversi

Insomma la tabella mostra l‟insufficienza delle retribuzioni dei docenti in Italia a

confronto con i principali Paesi europei e questa insufficienza colpisce innanzitutto le

donne vista la loro incidenza in questo settore professionale. Ma non è in questo

settore che la laurea non basta a garantire stipendi dignitosi, anche nelle imprese si è

poco disposti a riconoscere e dare il giusto valore ai lavori più qualificati in cui, per

di più, alle donne è data una retribuzione sensibilmente inferiore a quella dei

lavoratori maschi.

Infine non possiamo dimenticare che la maternità è strettamente connessa al mercato

del lavoro femminile.

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Le interruzioni del lavoro a due anni di distanza dalla nascita dei figli interessano il

22,7 per cento delle madri e l‟interazione maternità-lavoro è uno dei momenti più

delicati nella storia lavorativa di una donna. I dati delle indagini sulle nascite

condotte dall‟Istat consentono di monitorare l‟evoluzione negli ultimi 10 anni della

partecipazione delle neo- madri al mercato del lavoro, confrontando le variazioni

avvenute tra l‟inizio della gravidanza e il momento della rilevazione, che avviene a

circa due anni di distanza dalla nascita di un figlio.

Neo madri per condizione professionale

Al momento della gravidanza

Condizioni

professionali

2000- 2001 2003 2009-2011

occupate 59.9 64.4 64.7

in cerca di occupazione 3.6 3.3 5.4

Non occupate in entrambi

i momenti

33.8 29.3 26.6

occupate solo al momento

dell‟intervista

2.7 3.0 3.3

Totale 100.0 100.0 100.0 Fonte Istat: Indagine campionaria sulle nascite

2002-2003 2005 2011-2012

Condizioni

professionali

per 100 madri per 100 madri per 100 madri intervistate occupate

in

gravidanza

intervistate occupate

in

gravidanza

intervistate occupate

in

gravidanza

occupate in entrambi i momenti 47.1 80.1 51.2 81.6 50.0 77.3

Lavoro lasciato o perso 11.7 19.9 11.6 18.4 14.7 22.7

non occupate in entrambi i

momenti 37.3 - 33.3 - 31.6 -

occupate solo al momento

dell‟intervista 3.9 - 3.9 - 3.7 -

TOTALE 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 100.0 Fonte Istat: Indagine campionaria sulle nascite

Sulla base di questi dati, il 64,7 per cento delle donne che hanno avuto un figlio nel

periodo 2009/2010 si dichiara occupata all‟inizio della gravidanza, una percentuale

pressoché invariata rispetto al 2003 (64,4) e più elevata rispetto a quella delle neo-

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madri del periodo 2000/2001 (59,9). Aumentano, invece, le donne in cerca di

occupazione (5,4 per cento nel 2009/2010) rispetto ai periodi precedenti e poco più di

1 donna su 4 si dichiara casalinga. Al momento dell‟intervista, due anni circa dopo la

nascita di un figlio, il quadro muta sostanzialmente: nel 2012 solo il 53,6 per cento

delle madri si dichiara occupata, mentre raddoppia rispetto al momento della

gravidanza la quota delle donne in cerca di occupazione (10,1 per cento) e aumenta

quella delle casalinghe (33,6 per cento). Nel 2012 una quota rilevante di neo-madri

lascia o perde il lavoro che svolgeva, quando si è accorta di aspettare il bambino: a

distanza di due anni dalla nascita del figlio, quasi una madre su quattro di chi era

occupata non ha più un lavoro (22,7 per cento), contro una quota del 18,4 per cento

rilevata nel 2005 e del 19,9 per cento nel 2002. I dati riferiti al 2012 confermano che

a lasciare o perdere il lavoro sono prevalentemente le neo-madri residenti nel

Mezzogiorno (29,8 per cento delle neo-madri occupate in gravidanza residenti nel

Mezzogiorno), le madri più giovani (45,1 per cento delle neo-madri occupate in

gravidanza con meno di 25 anni), le primipare (24,7 per cento delle neo-madri

occupate in gravidanza al primo figlio), le madri che vivono in coppia (22,9 per cento

delle neo-madri occupate in gravidanza che vivono in coppia) e quelle con basso

livello di istruzione (32,2 per cento delle neo-madri occupate in gravidanza con basso

livello di istruzione). Il titolo di studio, in particolare, è un fattore rilevante per la

partecipazione femminile al mercato del lavoro, tant‟è vero che lasciano o perdono il

lavoro solo il 12,2 per cento delle neo-madri occupate in gravidanza con alto livello

di istruzione. Tra quelle che hanno interrotto il lavoro, circa la metà dichiara di averlo

perso (Tavola 3): in particolare, il 23,8 per cento delle interruzioni è dovuta ad un

licenziamento e il 19,6 per cento alla cessazione dell‟attività lavorativa (scadenza di

contratti a progetto, a tempo determinato, di collaborazione, chiusura dell‟azienda,

ecc). Il 56,1 per cento delle neo-madri che hanno interrotto il lavoro ha dichiarato nel

2012 di essersi volontariamente licenziata, una quota decisamente inferiore a quella

del 2005 (68,1 per cento). Analizzando i motivi alla base di tale scelta si osserva che,

rispetto al 2005, nel 2012 diminuiscono le madri che riferiscono motivazioni

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riconducibili a difficoltà di conciliazione dei ruoli: queste ultime, pur restando di gran

lunga prevalenti, scendono dal 78,4 per cento al 67,1 per cento, mentre aumentano

quelli riconducibili all‟insoddisfazione per il tipo di lavoro svolto, sia in termini di

mansioni che di retribuzione (dal 6,9 al 13,5 per cento). Il 62 per cento delle neo-

madri residenti nel Mezzogiorno motiva la scelta di lasciare il lavoro “per avere più

tempo da trascorrere con i figli”, una proporzione decisamente più alta rispetto a

quella delle residenti al Nord e al Centro (rispettivamente il 50,9 e il 46,5 per cento).

Per molte intervistate lasciare il lavoro dopo la nascita di un figlio è solo una

condizione temporanea: al momento dell‟intervista, infatti, quando il bambino ha

ormai quasi due anni, dichiara di aver cercato un nuovo lavoro nelle ultime quattro

settimane il 35,8 per cento delle donne che si sono licenziate, mentre questa

proporzione è solo del 19,8 per cento per le neo-madri che non erano occupate né alla

gravidanza né al momento dell‟intervista. Tuttavia, le difficoltà di reinserimento nel

mercato del lavoro possono, nel tempo, tradursi in una crescita dell‟inattività

femminile legata a fenomeni di scoraggiamento, ovvero al ripresentarsi del

tradizionale ruolo in famiglia con l‟abbandono della ricerca di un impiego. Nel 2012,

il 77,3 per cento delle neo-madri mantiene a due anni dalla nascita del figlio il lavoro

che svolgeva in gravidanza (era l‟81,6 per cento nel 2005): di queste, tuttavia, ben il

43,1 per cento dichiara di avere problemi di conciliazione, una proporzione che è

andata aumentando nel tempo (erano il 36,4 per cento nel 2003 e il 39,2 per cento nel

2005).

Gli ostacoli che si frappongono alla conciliazione dei tempi del lavoro con quelli

familiari sono, oggi come in passato, riconducibili principalmente alla rigidità

nell‟orario di lavoro (impossibilità di entrare più tardi o uscire anticipatamente se

necessario, o di usufruire di ore di permesso privato, ecc.), indicata come prioritaria

dal 52,5 per cento delle neo-madri che dichiarano di avere problemi di conciliazione,

mentre l‟obbligo di svolgere dei turni, di lavorare in orario serale o nel fine settimana

nel complesso è considerato il principale problema dal 20,5 per cento delle

intervistate.

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E‟ quindi consequenziale che il 93% delle donne ritenga importante il tema

complessivo delle politiche di pari opportunità.

Tema questo che incontra le maggiori resistenze nell‟universo dell‟economia e del

lavoro, rispetto a quello della politica.

Anche la Banca d‟Italia nella sua Relazione Annuale, del 31 maggio 2012, rileva che

l‟Italia si colloca tra i Paesi più arretrati nella graduatoria dell‟indice Global Gender

Gap, al 74° posto su 145 Paesi al 21° posto nella UE.

Evidenze internazionali mostrano i possibili benefici di una maggiore partecipazione

delle donne al mercato del lavoro nelle posizioni di vertice: livelli di corruzione più

bassi; allocazione delle risorse orientate alla spesa sanitaria e ai servizi di cura e di

istruzione. Una maggiore occupazione femminile si associa all’acquisto di beni e

servizi, specie quelli di cura, altrimenti prodotti all’interno della famiglia,

stimolando l’espansione di un mercato in Italia poco sviluppato; può determinare un

aumento del numero di famiglie con redditi da lavoro e una riduzione del rischio di

povertà, con una crescita complessiva del PIL.

Tale visione implica una forte attenzione alle politiche di empowerment per le donne:

non è sufficiente la promozione di una ampia presenza femminile nei centri

decisionali della vita sociale, politica ed economica, ma centrale la creazione di nuovi

strumenti per accrescere le competenze, l‟autostima, le abilità, l‟esperienza delle

donne, che sono particolarmente sottorappresentate nelle posizioni di lavoro apicali.

“In base all’indagine Invind, a fronte di una quota di occupate nelle imprese con

almeno 50 addetti del 33 per cento, solo il 12 per cento dei dirigenti è donna.

Secondo i dati di Cerved Group, nei Consigli di Amministrazione delle circa 28 mila

imprese italiane con oltre 10 milioni di euro di fatturato la quota di donne si colloca

stabilmente intorno al 14% nel periodo 2008-2011… Più contenuta, circa il 9%, è la

quota di coloro che rivestono posizioni di “alta dirigenza” (amministratore delegato,

presidente del consiglio di amministrazione, amministratore unico)2.

2 Banca d‟Italia- Relazione annuale 2012

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Giustamente quindi le donne chiedono alla società italiana l‟avvio di una vera

rivoluzione trasformativa e, in modo precipuo, all‟universo maschile sollecitano un

nuovo approccio alle politiche di crescita del paese.

Insomma l‟universo femminile giustamente non chiede solo maggiori spazi e diritti,

ma auspica l‟insediarsi di una nuova mentalità, che comprenda le visioni femminili e

le faccia divenire parte costituente e strumento del rinnovamento dell‟Italia.

Ciò comporta che bisogna adottare, in ogni settore – dalla politica all‟economia,

passando per le classi dirigenti diffuse (dall‟università alla società civile e culturale) -

una strategia di mainstreaming, puntando all‟adozione di un modello di “governance

di parità”.

Il processo di rinnovamento e una nuova stagione di sviluppo dell’Italia

necessita di un ruolo centrale all’universo femminile (l‟unico in grado di offrire al

paese nuova linfa e energia e, soprattutto, un nuovo approccio complessivo e

dinamico alla crescita).

Ciò vuol dire che il “potere” alle donne, ovvero la necessità di avere autonomia e

voce in qualsiasi ambito - nella famiglia, nella società, nella politica – costituisce

oggi, per la società italiana, un valore in se stesso e anche uno strumento strategico

per avviarci sulla strada di uno sviluppo più equo della società e della sua economia.

Tale impostazione implica anche una trasformazione del modo di pensare lo

sviluppo. Si tratta di passare dall‟inossidabile Pil, all‟approccio seniano per lo

sviluppo umano.

Si deve far diventare negoziazione politica ed economica (e non semplice retorica) un

sistema che miri a modificare la prospettiva delle politiche e a ridefinirne lo spazio

della valutazione direttamente in termini di qualità della vita.

Una delle prime dichiarazioni europee che affronta la discriminazione tra uomo e

donna risale al trattato CEE del 1957 in cui si affermava il diritto di pari retribuzione

tra uomo e donna.

Negli anni successivi si è costituito un ricco corpus legislativo sulle pari opportunità

in cui era evidente la prevalenza delle disposizioni per l‟affermazione dei diritti di

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uguaglianza di trattamento e di opportunità nel lavoro e in termini di sicurezza

sociale.

L‟evoluzione del tema trova una accelerazione dopo la Conferenza di Pechino, 1995

e con il Trattato di Amsterdam del 1999 nel quale si prescrive il divieto di

discriminazione oltre l‟ambito lavorativo, includendo la parità tra i sessi come uno

dei compiti primari della Comunità europea.

Per raggiungere l‟obiettivo del superamento delle discriminazioni di genere, nel

Trattato di Amsterdam si chiarisce che è possibile adottare misure dirette a favorire il

sesso sottorappresentato.

Queste disposizioni hanno autorizzato l‟introduzione di affirmative action,

intendendo tali misure con una validità limitata fino al momento in cui saranno

superati gli squilibri attuali. D‟altro canto le affirmative action non devono essere

viste come azioni che minano il principio di uguaglianza ma sono da considerarsi

come strumenti necessari per raggiungere l‟auspicata parità tra i sessi.

Notevoli risultati sono stati raggiunti nell‟ambito delle policies. Inoltre il principio

del mainstraming ha consentito di integrare le pari opportunità nella ricerca

scientifica o nelle politiche culturali e all‟interno dei Fondi Strutturali.

Ultimo caposaldo legislativo europeo, il Trattato di Lisbona del 2007 consentirà il

consolidamento della legittimità democratica dell‟Unione, basato sui valori

espressione della cultura europea. Il trattato, frutto di negoziati fra gli Stati Membri,

la Commissione e il Parlamento europeo, dovrà essere approvato e accettato dai 27

Paesi.

La ratifica del Trattato di Lisbona dovrebbe conferire validità giuridica e vincolante

alla Carta dei Diritti Fondamentali dell‟Unione Europea in cui sono racchiusi i

principi sostanziali che stanno alla base della costituzione di un‟identità comune a

tutti i popoli europei, quei valori considerati il fulcro della futura Costituzione

Europea. Nella Carta i diritti delle donne si affermano non più solo in ambito

lavorativo ma divengono parte centrale dell‟uguaglianza sostanziale in tutti i campi.

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Il processo di elaborazione della Carta riflette il tradizionale law-making europeo,

teso ad armonizzare l‟unità dei principi espressi con le diversità e le peculiarità di

ciascuno Stato.

Innovativo, in tal senso, è stato il tentativo di applicare il principio democratico di

condivisione. Infatti, oltre ai membri della Convenzione le sedute sono state aperte al

pubblico e, soprattutto, i documenti in itinere sono stati pubblicati sul web per

consentire alla società civile di contribuire con proposte e osservazioni mediante un

forum di discussione. Nonostante il tentativo di applicare la democrazia virtuale,

bisogna notare che la partecipazione sul web ha escluso le categorie più svantaggiate

(poveri, anziani e donne). Inoltre, pur superando i tradizionali schemi della

diplomazia del vecchio continente, le Convenzioni, incaricate di redigere la Carta,

erano costituite solo per il 16% da donne confermando la predominanza maschile nei

processi decisionali in ambito politico e giuridisdizionale.

La parità fra uomini e donne, affermata nell‟articolo 23 della Carta, deve essere

assicurata “in tutti campi”, in particolare nell‟ambito lavorativo sia in termini

retributivi che occupazionali.

A tal proposito, la Carta interviene nelle politiche di conciliazione lavoro-famiglia e,

pur lasciando autonomia decisionale in materia di famiglia, ne sancisce la tutela ”sul

piano giuridico, economico e sociale” per meglio conciliare il lavoro e la vita

familiare. Si promulga pertanto il diritto di non perdere il lavoro in caso di maternità

e la possibilità di usufruire dei congedi retribuiti o di congedi parentali per accudire i

propri figli naturali o adottivi. In tal modo si introduce il concetto di pari

responsabilità fra uomini e donne nella cura dei figli, al fine di evitare che le madri

siano costrette a stare troppo tempo lontane dal lavoro, limitando la loro crescita

professionale.

La garanzia delle pari opportunità tra uomini e donne è alla base degli obiettivi

generali dell‟Unione europea per assicurarne la crescita, l‟occupazione e la coesione

sociale.

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La legislazione europea ha contribuito certamente al miglioramento delle politiche

attuate da ciascuna nazione, assumendo un ruolo di traino nell‟affermazione di

standard minimi di parità.

Così, ad esempio, è avvenuto negli anni Settanta quando in seguito all‟emanazione di

direttive europee adottate allo scopo di intervenire contro la discriminazione nella

retribuzione e per incentivare la parità di trattamento per l‟accesso e le condizioni di

lavoro, i singoli Stati si sono adeguati esprimendo ciascuno le proprie peculiarità.

Per accogliere tali disposizioni nel Regno Unito è stata ratificata la parità retributiva

oltre che il divieto di discriminazioni sessiste, regolando anche l„attribuzione di

promozioni, l‟accesso di formazione professionale.

In Francia oltre alla parità di salario per i medesimi lavori, allo scopo di rafforzare la

battaglia contro la discriminazione è stato fatto divieto di proporre offerte di lavoro

differenziate per sesso, licenziare o assumere avendo come criterio di scelta il sesso o

la situazione familiare.

In Spagna con lo Statuto dei lavoratori è stata garantita l‟uguaglianza nel mondo del

lavoro in termini di remunerazioni e tempi. In Italia era stata affermata la parità di

retribuzione già nella Costituzione del 1948 e negli anni Settanta fu introdotta la

possibilità di usufruire dei congedi parentali anche per i padri di bambini di età

inferiore ai tre anni e di prolungare il congedo per maternità dopo il parto.

Nonostante i notevoli risultati raggiunti in Europa, soprattutto per quanto riguarda

l‟occupazione delle donne, sussistono ancora differenze molto evidenti tra le diverse

realtà nazionali.

Sebbene il tasso di occupazione femminile dell‟Unione europea sia stato del 58,3%

nel 2007, avvicinandosi all‟obiettivo di Lisbona (+ 60%) da raggiungere nel 2010,

tuttavia le differenze tra i singoli stati oscillano dal 36,9% di Malta al 73,2% della

Danimarca.

Inoltre i tassi di occupazione sono molto diversi se si considerano gli uomini e le

donne con figli minori di 12 anni: le donne diminuiscono in percentuale del 12,4,

mentre gli uomini aumentano del 7,3. Tale discrepanza rispecchia la cristallizzazione

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dei ruoli nelle famiglie e mostra quanto siano insufficienti le politiche di

conciliazione fra la vita lavorativa e la cura familiare.

L‟aumento della presenza delle donne nel mondo del lavoro non coincide con un

miglioramento della qualità occupazionale. La percentuale delle lavoratrici che hanno

un contratto a tempo parziale è quattro volte superiore rispetto agli uomini. La

condizione di precariato genera, in tutto il continente, un‟instabilità della condizione

lavorativa, rendendo l‟universo femminile più vulnerabile di fronte alla crisi

economica. Secondo un‟indagine dell‟Eurostat, non a caso, ben 6 milioni di

lavoratrici della fascia di età compresa fra i 25 e i 49 anni dichiarano di non riuscire a

conciliare in modo soddisfacente lavoro e famiglia e quindi sono costrette ad optare

per un lavoro a tempo parziale.

La famiglia tradizionale è sempre stata considerata alla base delle discriminazioni fra

uomo e donna e tuttora appare ancora un freno all‟empowerment delle donne. Le

politiche europee di conciliazione del lavoro con la famiglia si sono avviate verso una

distinzione tra la maternità che include il periodo precedente e successivo al parto

quando la madre è insostituibile, e la parità, riconoscendo un ruolo più attivo dei

padri nella cura dei figli. In tal modo, oltre ad affermare l‟uguaglianza tra i genitori,

si cerca di ovviare agli svantaggi derivanti dall‟allontanamento dal lavoro per un

periodo prolungato, rischiando in taluni casi ripercussioni negative per la carriera

professionale.

Una politica per il ruolo attivo delle donne nella società, in ogni caso, non può

prescindere dalla disponibilità di servizi per coadiuvare le madri lavoratrici nella

difficile opera di conciliazione dei tempi lavoro – famiglia. E‟ dimostrato dalle

statistiche che nei Paesi in cui sono più numerosi gli asili, specie per i bambini al di

sotto dei 3 anni, aumenta non solo il tasso di occupazione delle donne ma anche il

tasso di natalità.

Il riconoscimento dell‟importanza delle politiche di conciliazione per lo sviluppo

economico e demografico ha incentivato negli ultimi anni la crescita del numero

degli asili in Germania, nel Regno Unito e nei Paesi Bassi; ha permesso

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l‟introduzione di modalità di congedo più vantaggiose in Svezia, Germania, Lituania

e Spagna; ha avviato azioni di sensibilizzazione sul ruolo dei padri in Slovenia.

La difficoltà nella conciliazione e la conseguente propensione a scegliere modalità di

lavoro flessibili hanno forti ripercussioni sul reddito medio percepito dalle donne,

compromettendo la loro indipendenza economica e la futura posizione pensionistica.

La differenza di retribuzione, spesso dovuta alle mansioni lavorative inferiori, si può

valutare con uno scarto del 17,4% nell‟UE e aumenta il rischio di povertà specie per

le mamme single e per le donne di età superiore ai 65 anni. L‟interruzione

dell‟evoluzione della carriera è un altro fardello che le donne-madri europee devono

affrontare. Nel nostro continente solo il 30% delle occupate ricopre il ruolo di

dirigenti di piccole imprese o di amministratori delegati. I consigli di

amministrazione registrano la presenza di una donna su dieci componenti, mentre

solo il 3% dei direttori delle imprese quotate in Borsa sono di sesso femminile. Tutto

ciò stride con l‟incremento del numero delle donne laureate (58,6% nel 2006) e con la

presenza sempre più evidente di donne altamente qualificate nel mercato del lavoro.

Il miglioramento del livello dell‟istruzione dell‟universo femminile, registrato in

questi anni, non ha prodotto ancora significative svolte sulle mansioni svolte dalle

donne nei luoghi di lavoro: l‟aumento del tasso di occupazione femminile è avvenuto

soprattutto nei settori in cui erano tradizionalmente in maggioranza e per i ruoli bassi

o intermedi.

Tutto ciò accade nonostante i numerosi studi che segnalano il vantaggio di una

maggiore presenza femminile nei ruoli decisionali e di responsabilità. La presenza

delle donne nei suddetti ambiti, secondo questi studi, garantirebbe una gestione degli

affari più equilibrata, producendo risultati positivi sia a livello finanziario che

organizzativo e gestionale delle aziende.

Secondo la Commissione europea, inoltre, per favorire un maggiore accesso delle

donne a incarichi di responsabilità e di dirigenza, è necessario un potenziamento delle

azioni dei mezzi di comunicazione volti a diffondere immagini e contenuti non

stereotipati delle donne. Per la Commissione, un ostacolo reale e forte al ruolo

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femminile nell‟universo economico è legato al permanere di pregiudizi sulle

lavoratrici che ricoprono ruoli chiave nei processi decisionali privati e pubblici.

Come più volte è stato sottolineato, il problema della quantità di presenza femminile

riguarda anche le istituzioni. Nel 2008 la percentuale media di donne tra i deputati dei

parlamenti nazionali era del 24% ma bisogna considerare che si oscilla da un minimo

del 9% ad un massimo del 46% di rappresentanti politici di sesso femminile. Solo un

ministro su quattro è donna variando secondo una percentuale che oscilla tra lo 0% e

il 60%. Per porre rimedio a questo deficit sono state messe in atto varie strategie da

parte di ciascun Paese, conseguendo risultati non sempre eclatanti.

Nei paesi della penisola scandinava e in Danimarca da oltre 30 anni si è reso

obbligatorio inserire lo stesso numero di candidati uomini e donne nelle liste

elettorali e negli incarichi governativi. Oggi le parlamentari scandinave sono le più

numerose (45,3% in Svezia, 37,5% in Finlandia, 36,9% in Danimarca) e

frequentemente è parificato anche il numero dei ministri.

In Belgio le liste elettorali devono comprendere una quota minima di candidati per

ciascun sesso, e inoltre per assicurare l‟eguale esercizio dei diritti, si sostiene

l‟accesso ai mandati elettivi in modo che ci sia la partecipazione di entrambi i sessi

nelle istituzioni pubbliche.

In Francia le quote rosa sono state applicate alle liste elettorali e il finanziamento

pubblico favorisce le candidature femminili e sono state rafforzate le sanzioni per i

partiti che non rispettano l‟obbligo della parità delle candidature.

In Spagna le quote sono state stabilite per volontà dei partiti ad esempio il PSOE

prevede che negli organi direttivi, esecutivi e nelle liste elettorali ciascun sesso sia

rappresentato da un numero minimo di candidati pari al 40% fino ad un numero

massimo che non superi il 60%. L‟attenzione per la pari rappresentanza è stata

evidente nella composizione delle liste spagnole presentate per le elezioni del 2000: il

PSOE aveva un egual numero di candidati per genere, mentre il PP aveva il 35% di

donne. Inoltre, il Governo Zapatero era costituito da 9 ministre e 8 ministri.

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In Germania gli effetti dell‟introduzione delle quote già negli anni Ottanta e il

contributo positivo dell‟unificazione con la parte Orientale del Paese hanno

contribuito a un radicale mutamento della mentalità tanto che il Cancelliere attuale è

Angela Merkel, peraltro originaria della Germania dell‟Est.