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ATTI DELCONVEGNO

La costruzione della ‘verità clinica’ nel

processo: lo psicologo forense al lavoro

10 giugno 2016Sala Cavour - Torino Incontra

Via Nino Costa 8, Torino

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TitoloAtti del Convegno. La costruzione della ‘verità clinica’ nel processo: lo psicologo forense al lavoro

ImpaginazioneCristina Cecconato - #acapoagency

Copertina©gettyimages

Edizioni Ordine degli Psicologi del PiemonteConvegno organizzato dalla Consulta Psicoforense (Viviana Lamarra, Loredana Palaziol, Enrico Parpaglione, Claudia Ricco)

Atti del Convegno. La costruzione della ‘verità clinica’ nel processo: lo psicologo forense al lavoroISBN 9788894182101Prima edizione: Maggio 2018Copyright © 2018 Ordine degli Psicologi del Piemonte.

Ordine degli Psicologi del Piemonte - Consiglio Regionale del PiemonteVia San Quintino n. 44 10121 Torinowww.ordinepsicologi.piemonte.it

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Indice

Presentazione 5di Alessandro Lombardo - Presidente Ordine Psicologi Piemonte

Introduzione 7di Marta Lombardi

La psicologia clinica in ambito forense: 11 mode, metodi e formazione di terzo livello Antonella Granieri

Il ruolo dello psicologo giuridico tra etica 17e buone prassi Paolo Capri

L’analisi funzionale nelle discipline psicoforensi 29Ugo Fornari

L’assessment testologico in ambito forense: 37sintetiche considerazioni metodologiche e integrazioni cliniche Franco Freilone

Tra il ‘probabile, il possibile, il certo’: il metodo 45professionale strutturato del risk assessment nella giustizia penale Georgia Zara

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Lo psicologo forense e l’atto diagnostico: 67il contributo della verità clinica nel processo Loredana Palaziol

Qualche riflessione deontologica sull’attività dello psicologo 81 in ambito forenseEugenio Calvi

La C.T.U. nei procedimenti di separazione e divorzio: 89la metodologia del consulente Cesare Castellani

L’ascolto del minore nel processo e la tutela 99 affettiva nell’accoglimento della verità clinica Claudia Ricco

Realtà processuale e realtà fattuale a confronto 107Anna Maria Baldelli

L’ascolto psicoanalitico nel servizio pubblico 113come percorso di collegamento tra verità del paziente e verità processuale Giuseppe D'Agostino

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Il Convegno organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Psicologi del Pie-monte, il 10 giugno 2016, ha rappresentato un importante momento di riflessione sul lavoro dello psicologo in ambito forense.

Il tema, “La costruzione della verità clinica nel processo”, è stato scelto nella consapevolezza della necessità di mantenere una costante riflessione sul contributo dello psicologo clinico-forense in un ambito in cui la “voce” della psicologia ha il compito di armonizzarsi con quella del sistema giu-diziario, nei suoi diversi contesti.

“Verità clinica” e “Verità processuale” sono, infatti, due voci fonda-mentali della narrazione all’interno del processo. È importante ricordare che si tratta di due “costruzioni”, che devono tra loro integrarsi: periti e consulenti hanno il compito di realizzare, in collaborazione con magistrati e avvocati, il non facile incontro tra categorie cliniche e categorie giuridi-che, tra scienza e diritto.

Nello svolgimento del proprio ruolo, nell’ambito forense, lo psicologo si trova infatti a confrontarsi con altre figure professionali, fatto questo che impone, per lavorare in modo proficuo, una netta percezione dell’identità e della specificità professionale, in difetto della quale diviene impossibile realizzare una valida collaborazione: questo significa piena consapevolezza delle proprie competenze, ma anche dei loro limiti.

Significa, altresì, consapevolezza del ruolo imprescindibile di una for-mazione di alto livello, specialistica, sottoposta ad un costante aggiorna-mento.

Per queste ragioni, il Convegno ha inteso promuovere un dialogo tra tutti i soggetti interessati (magistrati, avvocati, psicologi, servizi territoria-li) sui temi della formazione, della metodologia e della deontologia peri-tali, quali fondamenti irrinunciabili del corretto operare dello psicologo clinico-forense, a garanzia della costruzione di una “verità clinica” che pos-sa offrirsi come fondato contributo specialistico all’interno del Processo.

PresentazioneAlessandro Lombardo - Presidente Ordine Psicologi Piemonte

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Introduzione

Marta Lombardi - Sostituto procuratore presso la Procura della Repub-blica per i Minorenni del Piemonte -Valle d'Aosta. Consigliere del Direttivo Nazionale A.I.M.M.F (Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia).

Ringrazio per avere chiesto il patrocinio dell’AIMMF. Infatti la materia della consulenza tecnica mette in gioco una delle fun-zioni principali dell’Associazione, di favorire una cultura minorile con-divisa dalla giurisdizione ordinaria, minorile e dagli operatori delle aree sociopsicopedagogiche.

La CTU, tanto nel procedimento ordinario di famiglia, che nel pro-cedimento minorile, è disposta quando emerge la complessità [tale per cui il giudice reputi indispensabili per l’accertamento la padronanza di cognizioni tecniche, che egli non possiede, o vi siano altri motivi che impediscano o sconsiglino di procedere direttamente all’accertamento]. Questa complessità è data dalla situazione oggetto dell’accertamento, ma non si esaurisce in questo. Spesso si riverbera in una complessità di sog-getti: non solo i genitori, il minore, il giudice, l’avvocato, ma anche – e qui comincia ad articolarsi la complessità - a volte prima il giudice mi-norile poi quello ordinario, o viceversa, e accanto a questi soggetti anche il pubblico ministero – anche lui sia ordinario che minorile, il giudice onorario (se si è avanti al Tribunale per i minorenni), i servizi sociali, i ser-vizi sanitari (con tutte le loro articolazioni), le forze dell’ordine, la scuola.

A fronte di questa complessità, oggi affrontiamo la materia innanzi-tutto chiarendo la funzione, il contenuto, il ruolo, il valore della CTU nel processo.

È un grosso valore aggiunto, di cui ringrazio gli organizzatori, appro-fondire tutto questo mettendo a confronto le diverse professionalità e

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dando a queste l’occasione di un confronto che allarga l’attenzione: dal focus sul nostro lavoro quotidiano di settore, a uno sguardo complessivo.

Soprattutto è un valore aggiunto affrontare la questione sotto il diver-so profilo, della materia ordinaria e della materia minorile: I) c’è infatti una specificità di ciascuna delle due materie, che si riverbera fortemente non solo sul contenuto, ma sulla funzione, lo scopo, il ruolo, la metodo-logia, della CTU (ben diverso è disporre CTU sulle capacità genitoriali, sullo stato di abbandono, piuttosto che sull’affido del minore all’uno o all’altro genitore o sul diritto di visita. E d’altra parte, anche, sarebbe interessante riscontrare oggi se e quali differenze ci sono nell’approccio alla CTU da parte del giudice minorile e del giudice ordinario, quando si verta in materia di pregiudizio).

È una specificità che questo importante Convegno oggi non solo riconosce ma a cui dà spazio. Un riconoscimento e uno spazio che sono fondamentali e che corriamo il rischio che non siano sufficientemente conosciuti e valorizzati nella riforma ordinamentale in discussione al par-lamento (che prevede la soppressione degli uffici minorili e la istituzio-ne di sezioni distrettuali presso le Corti d’appello e di gruppi all’interno delle Procure ordinarie. Sul tema rimando ai commenti rinvenibili sul sito dell’AIMMF e al documento “Per una giustizia a misura di minore” dell’AIMMF).

È quindi una specificità che qui oggi è valorizzata e che speriamo che anche il Legislatore finisca per riconoscere pienamente, evitando una ri-forma che appiattisca il giudice minorile sulle esigenze della magistratura ordinaria.

Questo Convegno è importante inoltre perché dà occasione alla voce delle due magistrature (ordinaria e minorile) di parlare in uno spazio aperto agli operatori degli altri settori (CTU, ma anche servizi), che han-no così modo di ricevere e confrontarsi in diretta con le due magistrature stesse.

Come Associazione, la presenza qui è anche per cogliere le sollecita-zioni ad approfondire in futuro un secondo step, che parta dall’analisi di oggi dei contenuti, della funzione, della CTU, e affronti le problematiche

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Introduzione

che sorgono rispetto alle relazioni fra CTU e i diversi operatori che hanno un ruolo nei nostri procedimenti. Fra queste, centrale sia nei procedi-menti ordinari che minorili, in ambito sia civile che penale, è il tema della relazione fra CTU e servizi. Forse l’operatore del diritto si muove in questo ambito con disinvoltura, ma poi – quando si confronta con la pratica del processo, su cosa ha fatto e detto il CTU e cosa hanno fatto e detto i servizi - finisce per rendersi pienamente conto della diversità delle indicazioni che giungono ai servizi dalle diverse giurisdizioni, ordinaria e minorile, civile e penale.

Ringrazio quindi vivamente ancora per questa giornata di studio e per questo invito, che ci dà l’occasione di fare ciò per cui l’Associazione è nata, ossia fare dei passi formativi insieme.

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La psicologia clinica in ambito forense: mode, metodi e formazione di terzo livello

Antonella Granieri - Professore Associato di Psicologia Clinica e già Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, Di-partimento di Psicologia, Università di Torino; Specialista in Psicologia Clinica; Psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana; già Giudice Onorario Sezione Minori della Corte D’Appello di Torino.

Mi fa piacere discutere insieme a voi del ruolo della psicologia clinica in contesto forense e della qualità della formazione in questo specifico am-bito, che non può prescindere dal terzo livello. Il mio pensiero, infatti, si è articolato nel tempo a partire dal mio lavoro come perito, poi Giudice Onorario della Sezione Minori della Corte d’Appello per affinarsi a livello di percorsi formativi mirati negli anni della mia direzione della Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università di Torino. Un per-corso la cui punteggiatura epistemologica si fonda sulla mia formazione psicoanalitica all’interno della Società Psicoanalitica Italiana.

Stimolante il titolo di questa giornata di lavoro. Infatti, se il concetto di verità e il processo che può condurre alla sua messa a fuoco portano in campo sentimenti di tutela e di salvaguardia dell’individualità di ognuno, è pur vero che a livello di senso comune si tratta di un concetto spesso evocato da chi detiene un potere e intende sostanziarlo ponendolo alla base di ciò che dice e pensa.

Ognuno degli interpreti dello spazio peritale durante il lavoro costru-isce in sé una propria verità a fronte di passaggi procedurali confortati dalla teoria della tecnica. Una verità che assume peso specifico poiché è pronunciata da persone che in quella determinata situazione detengono a qualche livello un potere, sancito dal ruolo riconosciuto loro.

È ormai noto il fatto che coloro i quali sono cresciuti in famiglie e am-

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bienti allargati propensi a creare menzogne – consapevoli o inconsapevoli – intorno a situazioni traumatiche, e dunque assai dolorose, trovano mol-ta più difficoltà a dare corpo a trasformazioni nei loro eventuali processi terapeutici e noi psicoterapeuti ben sappiamo quanto i risultati siano più incerti (Neri, 2007).

In modo analogo lo spazio peritale è un luogo nel quale il lavoro di tutti gli attori coinvolti deve muovere i suoi passi spesso a partire da siste-mi falsificanti divenuti realtà comportamentale e di pensiero, con ricadute disadattive e talvolta francamente patologiche.

Risulta dunque centrale affrontare le numerose difficoltà dei periziandi a comprendere il senso di quanto sta accadendo e dello sforzo messo in campo per giungere alla costruzione di una verità condivisa. Una verità, cioè, in grado di produrre un sollievo duraturo a partire da modificazioni che, se formalizzate in azioni dal giudice, hanno il potere di avviare trasfor-mazioni di assetti di vita il più delle volte traumatici.

In sostanza, laddove la costruzione della verità psichica diviene pro-cesso condiviso con i periziandi si realizza un salto di senso: da una vita vissuta all’insegna di automatismi cui è stato assegnato il valore di realtà effettiva grazie al lavoro peritale si passa a un’esperienza relazionale che riprende a considerare la corrispondenza tra corporeo, emozioni e regola-zioni affettive funzionali.

Lo spazio peritale non si limita a consentire ai periti di constatare qual-cosa, ma riconosce loro il mandato di dire qualcosa in grado di avviare un cambiamento in chi parla, chi ascolta e chi stila provvedimenti a partire da ciò.

La nuova formulazione dell’articolo 195 del Codice di Procedura Civi-le prevede l’invio della relazione del CTU ai CTP, l’invio delle osservazioni dei CTP al CTU e infine il deposito della relazione finale, delle osservazio-ni delle parti e una breve valutazione alle stesse, secondo termini fissati dal giudice. Questo garantisce che i periti non esauriscano il loro mandato in un percorso di testimonianza, seppure momento fondativo del lavoro, ma si muovano in una direzione squisitamente performativa, cioè finalizzata a promuovere trasformazioni sostanziali. È questo che consente di accredi-tare aspetti veritativi alle valutazioni peritali.

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La psicologia clinica in ambito forense: mode, metodi e formazione di terzo livello

Naturalmente, la costruzione della verità muoverà anche disagi e per taluni dei soggetti coinvolti profondo dolore e angoscia, ma realizzandosi produrrà via via un benessere più condivisibile e allontanerà così l’ombra del potere che porta in campo l’idea di un possesso di una verità iposta-tizzata.

Credo sia questa la verità cui si sono riferiti gli ideatori della giornata.Il perito, sia esso CTP o CTU, deve assolutamente poter compiere in

un clima proficuo quel lavoro psichico che lo metta nelle condizioni di esprimere esattamente ciò che pensa di quella data situazione in termini clinici all’interno di un setting forense.

Centrale, dunque, una formazione di terzo livello che ponga i periti nella condizione di avvertire i sentimenti degli altri, il loro modo di sentire, ma rimanendo in grado di essere se stessi lungo tutto l’arco del lavoro peritale.

Questo coadiuvati da tutti gli strumenti necessari e sufficienti per arti-colare una valutazione clinica nel rispetto della propria cornice epistemo-logica e della teoria della tecnica che ne consegue.

In questo senso, va sottolineata l’importanza del momento iniziale di confronto e condivisione tra i vari periti sulle procedure, momento regio in cui ciascuno può esplicitare gli strumenti e le metodologie elettive e le coordinate della specificità del proprio ascolto, al fine di pianificare gli step per un buon lavoro valutativo congiunto. Non può stupire la necessità del-la cura da dedicare a un tale momento in quanto è noto che diverse sono le scuole psicologiche e ognuna di esse ha prodotto una sua definizione di oggetto e quindi di metodo. Per esempio, per gli psicoanalisti tale oggetto elettivo è rappresentato dai contenuti inconsci dell’attività psichica, che porta ad ascoltare il conflitto e il gioco delle parti e delle varie voci ai vari livelli in cui si esprimono (Petrella, 2016). Il rispetto della possibilità di produrre ascolti diversificati consente la proposta di percorsi e azioni clini-che a partire dalla messa a fuoco di specifiche disfunzionalità.

A questo proposito io penso che un percorso peritale così declinato sia garanzia di un’assunzione di responsabilità, da parte dei periti, nei con-fronti di un lavoro che implica specifiche capacità di ascolto e di applica-zione di metodologie che offrano dati attendibili e dunque permettano di raggiungere ricadute processuali feconde.

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Ecco la ragione per cui l’intero discorso sull’efficacia peritale è falsifica-to se si elicita la bontà di un metodo piuttosto che un altro, svincolandolo dai criteri di protocollarità (Agazzi, 1976), ossia la coerenza e la conse-quenzialità tra teorie di riferimento, linguaggi, procedure e metodi.

Posto che la psicologia è una scienza in quanto ha oggetti propri, ne deriva che ha creato un suo linguaggio e nel tempo ha prodotto un patri-monio di conoscenze su di essi. Ciò che, però, è importante sottolineare è che qualsiasi descrizione psicologica comporta la risposta a domande di natura psicologica e per questa specifica ragione i fatti descritti diventano oggetti psicologici, anche se gli stessi fatti potrebbero essere oggetto di al-tre scienze se indagati e descritti secondo quesiti, procedure e codici propri di altre scienze. La psicologia è una scienza peculiare, poiché la psiche rap-presenta non solo l’oggetto della sua indagine, ma anche il suo strumento: è dunque solo la nostra percezione di un fenomeno che permette un suo uso strumentale e la comprensione della situazione in esame nei sui diversi aspetti.

Lavorando come descritto, ci si parla tra specialisti senza limitarsi alla sola funzione di asserzione, ma producendo argomentazioni in grado di giungere nel tempo a possibili condivisioni. In questo senso, anche a par-tire da angolazioni differenti con cui si guardano gli oggetti psicologici, è possibile condividere un discorso su di essi in quanto sin dai primi passi si è creato e sostanziato il piano dell’intersoggettività. Non è dunque la singola ripresa con la telecamera, il singolo test somministrato o ancora la precisione con cui si riportano alcuni passaggi osservativi del colloquio clinico a conferire scientificità ai passi compiuti. Dare centralità all’una piuttosto che all’altra ha a che fare con il momento storico in cui avviene una perizia e quanto in auge è una certa psicologia in quel momento.

In un consesso peritale, dunque, non hanno senso gli irrigidimenti – espliciti, ma più spesso impliciti – rispetto agli orientamenti o alle me-todologie differenti cui si è fatto ricorso, poiché è fisiologico che siano diverse e che ritaglino oggetti psicologici diversi. In una frase: esattamente come in ogni scienza, anche nella psicologia per un confronto scientifico e responsabile ciò che va sempre chiarito sono i già citati criteri di proto-collarità. Questa garanzia epistemologica tutela i risultati della conoscenza

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scientifica in atto dal rischio di ideologie concepite come discorso totaliz-zante sulla realtà, che miri a rendere universale ciò che è solo un vertice osservativo umano, soggettivo o gruppale, comunque parziale.

Purtroppo, la consapevolezza culturale di un tale rischio, come già scri-vevo nel 1998 (Granieri, 1998; 2010) non è ancora patrimonio comune tra gli psicologi, talvolta anche a livello universitario. Sembra che non sia ancora stata acquisito nella cultura psicologica di ognuno lo spazio neces-sario per cogliere il proprium della psicologia da più punti di vista, o, per dirlo in linguaggio bioniano, da più vertici.

Non esiste una buona o cattiva psicologia. Si deve essere coscienti del proprio vertice di osservazione e avere la capacità di esplicitarne i criteri di protocollarità. Questo a maggior ragione quado incarniamo una funzione che dovrebbe garantire la terzietà necessaria in un percorso forense, sino al suo atto finale, ossia il provvedimento e la sua possibilità di realizzazione.

La formazione psicologica necessaria per poter lavorare in ambito fo-rense deve necessariamente essere di qualità, per tutte le cose dette sinora: ci si pone quesiti, si argomenta su di essi, si scelgono strumenti e metodi congruenti al proprio vertice teorico al fine di raccogliere dati spendibili nel confronto con altri professionisti, a loro volta impegnati in compi-ti complessi. Dunque bisogna essere formati e tale formazione non può omettere un robusto terzo livello. Mi riferisco in particolare alle Scuole di Specializzazione. Per lavorare in ambito forense, a mio parere, bisogna essere formati alle diverse psicologie, a ciò che le accomuna e le diversifica, e in grado di preparare una valigia professionale che includa gli strumenti più idonei a realizzare percorsi valutativi.

Concludo questo mio intervento, dunque, raccomandando a tutti coloro i quali vogliano intraprendere questo tipo di lavoro di non sotto-valutare l’importanza di essere consapevoli e saper argomentare i criteri di protocollarità del proprio vertice osservativo, con la sua declinazione nella scelta di specifici metodi e strumenti. Poi, se per omogeneità ci viene richiesto di filmare i vari passaggi, beh sarà poca cosa (o questo ci auguria-mo) rendersi capaci a farlo.

Nel tempo, sono stata spesso testimone di un uso scorretto di strumen-ti specialistici, come per esempio questionari di personalità, somministrati

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e interpretati senza conoscere a fondo le modalità di somministrazione, scoring e analisi dei risultati e senza il necessario rispetto della cornice teorica di riferimento in base alla quale organizzare i referti. Nei percorsi forensi più che mai ciò che viene speso del proprio bagaglio di psicologi va conosciuto nei suoi aspetti di debolezza e di forza, nel rispetto della risposta da fornire a specifici quesiti peritali. Una formazione esaustiva tutela dalla tentazione di piegare gli strumenti ai nostri intenti, eludendo il rispetto della scientificità di ciò che andremo ad asserire.

Bibliografia

Agazzi, E. (1976). Criteri epistemologici fondamentali delle discipline psico-logiche. In G. Siri (a cura di). Problemi epistemologici della psicologia. Mila-no: Vita e Pensiero.

Granieri, A. (a cura di) (1998). I test di personalità: quantità e qualità. Torino: UTET.

Granieri, A. (a cura di) (2010). I test di personalità: quantità e qualità. Seconda Edizione. Torino: UTET.

Neri, C. (2007). La verità come fattore terapeutico. Funzione Gamma, 19: 1-2.

Petrella, F. (2016). Sui massimi e minimi strumenti della cura. Seminario presentato al Centro Milanese di Psicoanalisi “Cesare Musatti”. Milano, 19 maggio 2016.

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Il ruolo dello psicologo giuridico tra etica e buone prassi

Paolo Capri - Professore Straordinario di Psicologia Giuridica e Cri-minologia, Università Europea di Roma; Presidente dell’Associazione Italiana di Psicologia Giuridica (AIPG).

Uno dei problemi più attuali e complessi che lo psicologo giuridico si trova ad affrontare nella sua pratica peritale è quello del rapporto pro-fessionale fra consulenti, d’ufficio e di parte, all’interno di una perizia o consulenza tecnica.

Il ruolo del perito, del CTU o del CTP, i loro diritti e i loro doveri, i compiti e le funzioni che attribuisce loro la normativa vigente, il loro rap-porto alle volte di collaborazione, altre solo di controllo da parte del CTP sul lavoro svolto dal Perito, sono soltanto alcune - anche se tra le più im-portanti - delle numerose problematiche che investono l’ambito peritale.

Ma a monte, altre sono le difficoltà dello psicologo in questo ambito, difficoltà dalle quali parte la grande problematica del rapporto profes-sionale fra periti e CTP. Infatti, la difficoltà di collegamento fra queste due figure nasce spesso dalla non conoscenza dei ruoli e delle reciproche competenze, dei loro diritti e dei loro doveri.

D’altronde, la normativa che disciplina i ruoli dei Periti e dei Consulenti - d’ufficio e di parte - spiega i compiti e le funzioni dei diversi ruoli in modo molto chiaro, senza equivoci, attraverso gli specifici articoli dei codici.(1)

I problemi, dunque, nascono per la carenza di conoscenze procedurali da parte degli esperti, ma anche per le numerose difficoltà che il perito incontra lungo la sua strada, difficoltà sia interne alla propria personalità, essendo questa una materia molto particolare e delicata, sia esterne legate alla complessità del sistema in cui si opera.

I primi ostacoli che si rintracciano riguardano la difficoltà ad effet-

(1) Artt. 220, 221, 225, 228 e 230 c.p.p.; 194 e 201 c.p.c.

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tuare una specifica e valida formazione e ad acquisire i relativi aggior-namenti, ma anche la difficoltà ad individuare correttamente le proprie competenze e i propri limiti, di comprendere e differenziare i ruoli fra i vari operatori giuridici, psicologi, psichiatri forensi, medici legali, avvo-cati, magistrati, CTU e CTP.

Anche la non conoscenza di criteri e parametri metodologici nello svolgimento di una perizia o CTU condiziona negativamente la relazione professionale all’interno di una perizia, soprattutto in quanto vi è difficol-tà a comprendere che ci si trova in un ambito diverso da quello clinico, anche se da lì si proviene, con regole e norme già stabilite da un’altra disciplina, che ovviamente non è la psicologia, che impone alla psicologia quella chiarezza metodologica necessaria per il confronto sempre presente in ambito giuridico, confronto che in altri contesti esclusivamente psico-logici non sempre si rende necessario.

Molto spesso, proprio la non condivisione - o meglio la non cono-scenza - di tali norme e regole crea problemi e attriti fra i periti e i CTP.

Proprio in considerazione dell’importanza della formazione e dell’ag-giornamento professionale nell’incontro fra queste due discipline - psi-cologia e diritto - l’articolo 3(2) delle Linee Guida Deontologiche per lo Psicologo Forense, sottolinea la necessità di mantenere un livello di pre-parazione professionale adeguato, in un ambito particolarmente delicato come quello forense in cui il parere professionale del perito-consulente incide spesso in modo decisivo sulla decisione del magistrato e quindi sugli aspetti giuridici, sociali e psicologici delle persone entrate in con-tatto con la giustizia. Per fare ciò, per aumentare la propria preparazione dovrebbe ritenersi necessario un continuo aggiornamento che può es-sere effettuato con la partecipazione a convegni e seminari, giornate di studio, corsi professionali, studio di pubblicazioni significative a carat-tere scientifico nazionale e internazionale. Viene espressamente richiesto

(2) “Lo psicologo forense, vista la particolare autorità del giudicato cui contribuisce con la propria prestazione, mantiene un livello di preparazione professionale adeguato, aggiornandosi continuamente negli ambiti in cui opera, in particolare per quanto riguarda contenuti della psicologia giuridica, segnatamente quella giudiziaria, e delle norme giuridiche rilevanti. Non accetta di offrire prestazioni su argomenti in materia in cui non sia preparato e si adopera affinché i quesiti gli siano formulati in modo che egli possa correttamente rispondere”.

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nell’articolo la conoscenza e l’aggiornamento delle norme giuridiche che regolano l’intera attività psicologico-giuridica e, implicitamente, la prassi e la procedura inerenti le attività peritali.

D’altronde, la continua evoluzione che si chiede allo psicologo fo-rense appare come la naturale conseguenza della scienza psicologica che fonda le sue basi scientifiche sulla ricerca e la continua sperimentazione, al punto da essere considerata una scienza dinamica, in movimento e non adinamica e cristallizzata, come invece vengono considerate altre scienze definite “dure”. L’articolo in questione richiede, appunto, allo psicologo forense tale dinamicità, risultando, dunque, perfettamente in linea con le basi teoriche dei costrutti psicologici generali.

Proprio per la particolare delicatezza del ruolo, per il fatto di poter essere causa del destino di altre persone attraverso giudizi, considerazioni e analisi, il perito-consulente - seguendo l’indicazione del presente arti-colo - non dovrebbe fornire il proprio apporto professionale su argomen-ti di cui non possiede la giusta preparazione, se esulano dunque, anche parzialmente dai propri compiti e competenze. Non dovrebbe, ad esem-pio, utilizzare metodologie di cui non ha la necessaria preparazione (test psicologici, interviste strutturate, colloqui clinici, valutazioni attraverso analisi teoriche, ecc.), dovrebbe invece utilizzare soltanto quanto è di pro-pria competenza specifica, delegando ad altri esperti tecniche e strumenti metodologici di cui non ha una profonda e radicata esperienza.

Ciò viene anche riferito alla formulazione dei quesiti da parte del giu-dice e dunque sull’opportunità che possa, il perito-consulente, fornire il proprio contributo senza entrare nel merito investigativo-giudiziario che, ovviamente, non gli compete.

In altri termini, essendo l’attività psicologica - soprattutto negli esami di personalità inerenti l’attività peritale - incentrata sui vissuti del sogget-to, sull’inconscio e sul mondo interno dell’Io, le risposte non potranno che essere probabilistiche e ciò andrebbe sempre spiegato e specificato agli interlocutori giuridici, escludendo quindi la possibilità che risposte ai quesiti all’interno di una CTU o perizia possano essere certezze di prova rispetto a eventuali fatti indagati.

Il mantenere, dunque, un elevato livello di conoscenze, aggiornate

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continuamente, con la consapevolezza che il proprio ruolo è legato alle valutazioni psicologiche e non al contributo di indicazioni a carattere giuridico - di cui dovrebbe avere l’assoluta competenza il magistrato - potrebbe rendere meno complesso e conflittuale il rapporto di colleganza fra consulenti, in quanto alla base di ogni confronto non può non esserci la competenza e la lealtà alla propria disciplina.

Anche in riferimento alla metodologia peritale - frequentemente motivo di scontro tra consulenti - le Linee Guida Deontologiche per lo Psicologo Forense possono fornirci un aiuto e uno spunto. Infatti, l’ar-ticolo 6(3) nel 1° comma, riferendosi all’art. 5 del Codice Deontologico degli Psicologi, specifica che il perito-consulente è tenuto ad utilizzare metodologie scientificamente affidabili e ciò sembra particolarmente im-portante per ridurre gli aspetti soggettivi e non riconosciuti dalla comu-nità scientifica dei metodi utilizzati in ambito forense. Implicitamente viene anche richiesto di rendere espliciti i modelli teorici di riferimento utilizzati, per consentire un libero confronto e per rendere valide le pro-prie analisi, interpretazioni e diagnosi.

Per metodologie scientificamente affidabili si intendono naturalmen-te quelle riconosciute dalla letteratura e dalla prassi psicologico-forense, proprio per evitare interpretazioni soggettive di situazioni non fondate da elementi obiettivi e non confrontabili con situazioni analoghe studiate sta-tisticamente. Da evitare, dunque, facili associazioni simboliche prive di fon-damento scientifico, da privilegiare invece interpretazioni derivate da studi e ricerche che possono indicare, ad esempio, situazioni riscontrabili o non riscontrabili in un numero statisticamente significativo di individui rispetto un determinato comportamento.

(3) “Nell’espletamento delle sue funzioni lo psicologo forense utilizza metodologie scientificamente affidabili (art. 5 C.D. “Lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione professionale e ad aggiornarsi nella propria disciplina specificatamente nel settore in cui opera. Riconosce i limiti della propria competenza ed usa, pertanto, solo strumenti teorico-pratici per i quali ha acquisito adeguata competenza e, ove necessario, formale autorizzazione. Lo psicologo impiega metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti ed i riferimenti scientifici, e non suscita, nelle attese del cliente e/o utente, aspettative infondate”; art. 1 Carta di Noto “Nell’espletamento delle sue funzioni l’esperto deve utilizzare metodologie scientificamente affidabili e rendere espliciti i modelli teorici di riferimento utilizzati”.).

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Il ruolo dello psicologo giuridico tra etica e buone prassi

Lo psicologo forense privo di un solido fondamento teorico delle metodologie che utilizza possiede soltanto una competenza operativa limitata, non sufficiente ad un valido lavoro psicologico-giuridico, sia per le valutazioni relazionali, sia per l’esame della personalità, sia per la diagnosi clinica, sia per le fondamentali risposte ai quesiti del giudice in una CTU o perizia; la sua preparazione dovrebbe dunque permettere una condivisione omogenea di vedute fra esperti, rendere possibile non solo il confronto, ma anche la verifica del risultato.

Inoltre, appare necessaria la vera conoscenza - acquisita oltre che con studi e aggiornamenti anche con l’esperienza - di strumenti meto-dologici riconosciuti scientificamente validi, come ad esempio l’utilizzo dei test psicologici che presuppongono preparazione e competenze non solo testologiche e psicometriche, ma anche e soprattutto competenze cliniche, psicopatologiche e psicodinamiche, facendo bene attenzione ad integrare elementi statistico-standardizzati normativi con elementi contenutistici.

Infatti, l’utilizzazione distorta, in modo più o meno volontario, di strumenti tecnici (test proiettivi) che mirano ad ampliare ed approfondi-re la conoscenza e la comprensione di dinamiche e processi intrapsichici individuali, significa la compromissione e mistificazione di tali strumenti e la sottolineatura del libero arbitrio rispetto a posizioni scientifiche ac-quisite, rendendone non affidabile la metodologia.

È su questo terreno che si sviluppa uno dei più comuni contrasti fra consulenti, uno scontro che potrebbe essere superato soltanto rendendo espliciti - come ci suggerisce l’articolo 5(4) delle stesse Linee Guida - i mo-delli di riferimento e la metodologia utilizzata che, peraltro, deve avere il riconoscimento della comunità scientifica.

Ma, per entrare ancora di più nel vivo del tema, affrontiamo imme-diatamente altri ostacoli che spesso impediscono un proficuo lavoro pro-fessionale fra consulenti.

(4) “Lo psicologo forense presenta all’avente diritto i risultati del suo lavoro, rendendo esplicito il quadro teorico di riferimento e le tecniche utilizzate, così da permettere un effettiva valutazione e critica relativamente all’interpretazione dei risultati. Egli, se è richiesto, discute con il giudice i suggerimenti indicati e le possibili modalità attuative”.

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Per quanto riguarda il perito - o CTU in ambito civile - molti sono i casi in cui chi opera per il giudice, e da lui viene nominato, tende a trovarsi nella condizione di scarsa autonomia decisionale e intellettuale, nel senso di su-bire psicologicamente, anche magari solo a livello inconscio, il ruolo di chi gli ha conferito l’incarico, con la inevitabile conseguenza di “cercare” di non deluderlo tendendo così ad uniformarsi ad una valutazione già costruita.

Ciò comporta, alle volte, perizie o CTU quasi preconfezionate fin dall’inizio, a discapito dell’intera obiettività dell’indagine e delle realtà psicologiche e cliniche. In realtà, la dipendenza che il perito si trova ad avere nei confronti del giudice si rivela essere la faccia di una medaglia il cui retro mostra un’altra realtà, ovvero la “possibilità” di operare al di fuori di metodologie riconosciute dalla comunità scientifica “soltanto” perché si ha la fiducia e la stima del giudice incaricante.

Ciò determina un grave allontanamento dai parametri scientifici della nostra disciplina, a favore di decisioni spesso poco attendibili.

Le conseguenze di una tale modalità peritale si rintracciano ovvia-mente in un’alterazione del rapporto con gli eventuali CTP che, natu-ralmente, si trovano ad operare in condizioni fortemente svantaggiate, in quanto vengono a trovarsi all’interno di una relazione in cui il perito - CTU inconsciamente ha acquisito orientamenti già prima di cominciare gli incontri peritali, e quindi con la consapevolezza di trovarsi di fronte a qualcosa di ineluttabile e non condivisibile, ovvero un percorso di scelte già fatte sulle quali risulta difficile, se non impossibile, intervenire.

Ma anche per la figura del consulente tecnico di parte sono presenti rile-vanti responsabilità nella degenerazione del rapporto con l’eventuale perito. Il ruolo del consulente di parte, anche se incaricato ad assistere, appunto, una parte, non dovrebbe agire in funzione di vittoria e sconfitta, come in-vece solitamente avviene, ma adeguarsi al tipo di perizia e cercare di attivare rapporti di collaborazione con gli altri operatori giuridici.

In realtà, molto spesso avviene che il consulente tecnico di parte si “appiattisce” sulla linea difensiva del proprio legale, anche in questo caso trascurando la necessaria autonomia e indipendenza della valutazione. Il CTP dovrebbe poter serenamente valutare in anticipo la realtà giudiziaria in cui è chiamato ad operare, per poter decidere se accettare e soprattutto

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Il ruolo dello psicologo giuridico tra etica e buone prassi

“come accettare”, per porre le fondamentali condizioni di assistenza psico-logico-giuridica. Ciò avviene raramente e, non avvenendo, succede che il CTP non solo non entra in una eventuale collaborazione con il perito o CTU, ma anzi, soprattutto ad esempio nelle CTU d’affidamento di mi-nori nelle cause di separazione, entra direttamente nelle “beghe” familiari non riuscendo a porsi nella giusta distanza dai fatti e dalle relazioni che si instaurano all’interno di una consulenza. In questo modo assume così un ruolo poco professionale, alle volte anche a discapito del proprio cliente e assistito e dell’eventuale minore.

La “foga” con cui si interpreta il proprio ruolo di consulente di parte può addirittura portarlo ad assumere comportamenti che si scontrano con l’etica professionale e la deontologia, soprattutto nelle consulenze e nelle perizie in cui sono coinvolti i minori.

Dunque, a grandi linee e in estrema sintesi, questi sono i più evidenti problemi che si incontrano all’interno delle perizie nel rapporto profes-sionale tra operatori peritali, problemi che - come abbiamo visto - tendo-no a non permettere un vero rapporto di collaborazione fra i consulenti.

Rispetto al problema sopraccennato dell’autonomia del perito dal ma-gistrato e del consulente dalle parti o dai legali, l’articolo 4(5) e l’articolo 13(6) delle Linee Guida - richiamando l’art. 6 del Codice Deontologico degli Psicologi - indicano in modo chiaro una strada per cercare di non

(5) “Lo psicologo forense nei rapporti con i magistrati, gli avvocati e le parti mantiene la propria autonomia scientifica e professionale. Sia pure tenendo conto che norme giuridiche regolano il mandato ricevuto dalla magistratura, dalle parti o dai loro legali non consente di essere ostacolato nella scelta dei metodi, tecniche, strumenti psicologici, nonché nella loro utilizzazione (art. 6 C.D.). Nel rispondere al quesito peritale tiene presente che il suo scopo è quello di fornire chiarificazioni al giudice senza assumersi responsabilità decisionali né tendere alla conferma di opinioni preconcette. Egli non può e non deve considerarsi o essere considerato sostituto del giudice. Nelle sue relazioni orali e scritte evita di utilizzare un linguaggio eccessivamente o inutilmente specialistico. In esse mantiene distinti i fatti che ha accertato dai giudizi professionali che ne ha ricavato”.

(6) “I consulenti di parte mantengono la propria autonomia concettuale, emotiva e comportamentale rispetto al loro cliente. Il loro operato consiste nell’adoperarsi affinché i consulenti d’ufficio e il consulente dell’altra parte rispettino metodologie corrette ed esprimano giudizi fondati scientificamente”.

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compromettere la professionalità dell’esperto. Si suggerisce, infatti, di mantenere la propria autonomia scientifica, professionale ed emotiva ri-spetto alle parti e i vari operatori giuridici anche nella scelta dei metodi e degli strumenti psicologici, nonché nella loro utilizzazione.

È evidente che, direttamente o indirettamente, la mancanza di auto-nomia dell’esperto rispetto alla parte che l’ha incaricato - magistrato, PM o legali - determina una difficoltà di rapporto fra consulenti all’interno della perizia, sia per l’eccessivo coinvolgimento, sia per la dipendenza nelle scelte.

In relazione al rapporto specifico tra consulenti ci viene in aiuto l’art. 12(7) delle Linee Guida che, ispirandosi soprattutto all’art. 33 del Codice Deontologico degli Psicologi, ricorda come “Lo psicologo che opera nel processo” sia tenuto ad un comportamento leale nei rapporti con i colleghi e rispettoso della dignità dell’altro, anche in relazione al confronto con i consulenti di parte; nel confronto critico fra consulenti lo psicologo forense, d’ufficio e di parte, dovrebbe evitare critiche rivolte alle perso-ne, basandosi esclusivamente su argomentazioni di carattere scientifico e professionale.

Purtroppo, soprattutto in situazioni di eccessivo coinvolgimento del consulente, può capitare che il contrasto fra gli operatori peritali travalichi il normale contraddittorio dialettico, alterando così non solo il rapporto di collaborazione ma anche indirettamente le valutazioni scientifiche.

Tra gli ambiti peritali di maggiore conflitto fra consulenti e di coin-volgimento vi è senz’altro, come abbiamo visto, quello delle consulenze di affidamento minorile in coppie separate, in cui solitamente il genitore

(7)“Lo psicologo che opera nel processo, proprio per la natura conflittuale delle parti in esso, è particolarmente tenuto ad ispirare la propria condotta al principio del rispetto e della lealtà (art. 33 C.D.). Nei rapporti con i colleghi, durante le operazioni peritali o comunque collegiali, lo psicologo è tenuto ad un comportamento leale, mantenendo la propria autonomia scientifica, culturale e professionale, pur prendendo in considerazione interpretazioni diverse dei dati (art. 7 C.D.) anche per il confronto con i consulenti di parte. Ove previsto dalla legge, concerta insieme ai colleghi tempi e metodi per il lavoro comune, manifesta con lealtà il proprio dissenso, critica, ove lo ritenga necessario, i giudizi elaborati dagli altri colleghi, nel rispetto della loro dignità e fondandosi soltanto su argomentazioni di carattere scientifico e professionale evitando critiche rivolte alla persona (art. 36 C.D.)”.

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non affidatario richiede una modifica delle condizioni di affidamento di-sposte in seguito alla separazione.

Purtroppo, tali consulenze risultano essere spesso terreno di battaglia d’elezione e privilegiato di scontri “feroci” fra consulenti; il pericolo mag-giore per i CTP, in questo tipo di consulenza, è il coinvolgimento eccessi-vo per la propria parte (entrare nella “disputa” familiare), per i CTU inve-ce il prevalere di valutazioni che appaiono caratterizzate o da un eccessivo coinvolgimento nella vicenda (più frequente), o da un eccessivo distacco (più raro), in entrambi i casi alterando l’osservazione e la valutazione, in quanto il primo passo per un assessment corretto è naturalmente la giusta distanza dalle situazioni emotivamente cariche.

In altri termini, in queste consulenze spesso tutti appaiono troppo coinvolti; non è raro, infatti, che il CTP instauri ad esempio un rapporto eccessivamente informale con il proprio assistito, facendosi dare del tu e ricambiando; molto più raro assistere a questo tipo di rapporto informale in altri tipi di perizie o consulenze e questo, evidentemente, avrà un suo significato.

Anche in questo caso le Linee Guida Deontologiche per lo Psicologo Forense possono esserci d’aiuto; infatti, riferendoci all’art. 6(8), nel 2° comma si fa diretto riferimento alla tecnica peritale inerente le consulen-ze sull’affidamento dei figli.

Viene specificata l’importanza di rilevare elementi provenienti sia dai soggetti individualmente, sia dalla relazione fra di loro. In altri termini, so-prattutto per questo tipo di consulenza si cerca di ottenere elementi utili per lo scopo peritale sia attraverso l’esame di personalità classico individuale, sia attraverso valutazioni dedotte dalle dinamiche di relazione, confrontando ed integrando i risultati ottenuti dalle due tecniche d’osservazione.

Ciò, per la evidente necessità di privilegiare l’interesse esclusivo dei minori (art. 155 c.c.), attraverso lo svolgimento di una consulenza che ri-spetti le metodologie più accreditate; l’interesse verso il minore dovrebbe

(8) “Nei processi per la custodia dei figli la tecnica peritale è improntata quanto più possibile al rilevamento di elementi provenienti sia dai soggetti stessi sia dall’osservazione dell’interazione dei soggetti tra di loro”.

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essere il vero ed unico scopo del consulente e il raggiungimento di un accordo fra le parti - sempre che il caso specifico lo consenta - andrebbe sempre auspicato, anche come obiettivo dei consulenti tecnici di parte, in un tipo di consulenza dove la collaborazione fra gli operatori peritali appare ancora più importante e necessaria che in altri tipi di perizie.

Questo tipo di procedimento giudiziario, con le sue implicazioni sulla capacità genitoriale e sulla idoneità ad avere l’affidamento esclu-sivo dei figli, tende a definire già all’inizio della causa un “vincente” e un “perdente” fra i genitori, ruolo nel quale tendono a calarsi incon-sciamente anche i consulenti di parte, alimentando alle volte la già elevata conflittualità di coppia, non aiutando i propri assistiti, rispetto ad esempio le loro problematiche di comunicazione e di interazione, né agevolando un rapporto di collaborazione fra operatori peritali.

In conclusione, l’argomento trattato è a nostro avviso particolar-

mente delicato e difficile, in quanto i consulenti e i periti assumono sulle loro spalle enormi responsabilità, poiché entrano direttamente - anche se questo non sempre può apparire - nei destini delle persone, contribuendo in parte alla costruzione del loro futuro.

Un primo e sostanziale passo verso una chiarificazione dei ruoli, all’interno di confini finora solo delineati, può essere l’utilizzo e l’ap-plicazione delle Linee Guida per lo psicologo giuridico dell’AIPG - di cui abbiamo accennato e commentato solo alcuni articoli - e delle Linee Guida per le perizie in caso di abuso sui minori dell’Ordine degli Psicologi del Lazio (protocollo specifico per l’esame del minore in caso di abuso sessuale) che presentano una serie di linee guida relative ai comportamenti dei consulenti, che, quantomeno a livello formale li può orientare ad offrire pareri e valutazioni psicologiche.

Dunque, per concludere, appare necessario che gli esperti che par-tecipano alla consulenza abbiano lealtà alla propria etica e alla propria disciplina e consapevolezza che alla base di ogni rapporto professionale in campo psicologico deve esserci la giusta distanza dall’altro, evitando

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contaminazioni senza confini in cui i ruoli di ognuno non sono più rintracciabili nel percorso peritale.

Solo in questo modo sarà possibile un reale confronto fra consulenti e un costruttivo rapporto di colleganza.

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L’analisi funzionale nelle discipline psico forensi

Ugo Fornari, Neuro Psichiatra e Medico Legale; già Professore Ordina-rio di Psicopatologia Forense, Università degli Studi di Torino.

È da premettere che anche in ambito forense, la premessa indispen-sabile a ogni valutazione diagnostica è che sia stata prioritariamente co-struita una relazione significativa che rappresenta l’essenziale categoria conoscitiva in cui collocare i dati clinici e quelli ricavati dai protocolli o dalle indagini strumentali, confermandone o disconfermandone validità e significato(9).

La raccolta dei segni e dei sintomi attraverso i quali si costruisce una diagnosi già in ambito clinico, in ambito forense rappresenta la premessa indispensabile per valutare uno stato di mente relativo a un comporta-mento agito o subìto, penalmente o civilmente rilevante, stabilendo una correlazione significativa tra funzionamento mentale particolare o pato-logico e l’evento in esame, civilmente o penalmente rilevante (il c.d. nesso eziologico e il significato di infermità di un atto agito o subìto che abbia avuto rilevanza in ambito civile o penale).

La valutazione del vizio di mente in ambito penale o di qualsiasi altra condizione di “incapacità” o di “capacità” in ambito civilistico deve passa-re attraverso una rigorosa analisi clinica che vada oltre al semplice inqua-dramento diagnostico di tipo nosografico per confluire nella ricostruzione del funzionamento mentale del periziando sia in generale, sia nel contesto specifico del crimine o dell’agito. Pertanto è centrale la valutazione della

(9) Per una più ampia trattazione dell’argomento di cui al presente articolo, si rinvia a FORNARI U., Trattato di psichiatria forense, Utet, Torino, 2015, VI edizione.

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personalità per la comprensione dei disturbi psichici e del funzionamento complessivo di una persona, al fine di assumere una decisione o un’altra in punto valutazione forense, cura, controllo e riabilitazione.

Il semplicistico e riduttivo ricorso ai dati statistici, alle ricerche di genetica molecolare, ai profili ricavati da protocolli e questionari, se di-vengono i cavalli di battaglia non solo e non tanto per la ricerca, doverosa e indispensabile, ma soprattutto per scardinare i principi fondamentali della clinica, fanno sì che i comportamenti umani, conformi o difformi che siano, appartengano non più a persone bensì a cervelli e a corredi cromosomici, che nell’assumere dignità di “serio” e “convincente” fattore unicausale, sono del tutto insufficienti e fuorvianti.

Pertanto occorre sostituire tutti gli approcci unifattoriali con un nuo-vo modello clinico forense, risultato dell’integrazione de:

1. il modello categoriale. Questo tipo di approccio suddivide le ma-lattie mentali in strane e talvolta grottesche categorie diagnosti-che, in linea con la tradizione della medicina e della psichiatria classica. Nel celebrare il primato del riduttivismo biologico, se isolato da altri modelli di conoscenza, tende a costituirsi come il luogo dell’oggettivizzazione e della reificazione e ad appartenere alle scienze naturali che tutto pretendono di spiegare e misurare.

2. Quello psicopatologico, che, nel riempire di contenuti la diagnosi categoriale, individua i disturbi psicopatologici aventi negativa incidenza sul normale funzionamento dell’Io, allo scopo di co-struire il contenuto dinamico della diagnosi psichiatrica. Ovvia-mente i disturbi patologici psichici (deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, disturbi del pensiero e dell’affettività e così via) assumono un loro senso (= il conferimento di significato), se po-sti in rapporto con il funzionamento dell’Io in quel contesto e in quella relazione.

3. Quello funzionale. Nell’integrarsi con quello psicopatologico stu-dia come si è organizzata stabilmente l’identità personale e at-

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L’analisi funzionale nelle discipline psico forensi

traverso quali modalità le tematiche psicopatologiche individua-te hanno inciso in maniera significativa sul funzionamento dei meccanismi intellettivi e volitivi (mentali in genere) del soggetto in osservazione, modellandone il comportamento agito o subito. Concetto centrale di questo tipo di approccio è la nozione di Io, infrastruttura della personalità che si definisce attraverso le sue funzioni (= percettivo-memorizzative, organizzative, previsionali, decisionali, esecutive).

Il tutto consente una lettura integrata del comportamento umano, co-munque esso si declini nella realtà (normale, patologica, criminale). In particolare, esami di laboratorio, interviste, questionari, indagini neu-roscientifiche, neuropsicologiche e genetiche(10), ricorso a strumenti psicodiagnostici e via dicendo devono essere valutati a integrazione, mai sostituzione di un discorso clinico che prenda in considerazione l’intera persona, nella sua storia di vita irripetibile e non riproduci-bile in laboratorio(11).

Dei tre modelli di cui sopra, nel discorso odierno assume una par-ticolare rilevanza il modello funzionale, che consiste nel comprendere attraverso quali modalità le tematiche psicologiche e/o psicopatologiche individuate possono aver inciso in maniera significativa sul funziona-

(10) In particolare, le prove neuroscientifiche devono essere utilizzate in maniera molto oculata, perché esse forniscono solo una parte di una verità clinica per sua natura molto complessa. Questa verifica riguarda fondamentalmente i mezzi e i metodi di indagine propri delle scienze naturali che «descrivono» e «spiegano», e non quelli delle scienze umane (a parte gli strumenti psico-diagnostici e altri mezzi di indagine), che «interpretano» e «valutano».

(11) A parte deve considerarsi la diagnosi psichiatrica dimensionale, da intendersi come un approfondimento integrato alla diagnosi categoriale. Nel suo significato più ampio, essa consiste in un approccio diagnostico che privilegia le dimensioni psicopatologiche (= insieme di segni e sintomi correlati tra loro e a uno specifico meccanismo patofisiologico), individuate in base all’osservazione clinica, vengono confermate anche con metodi statistici (analisi fattoriale). Fondamentale è misurare la gravità dei disturbi oltre che la presenza degli stessi e valutare quei segni che indicano una disfunzione di determinati circuiti neuronali, specifici e interconnessi. Questo tipo di approccio è utilizzato soprattutto nell’ambito di una psichiatria biologica che non ha nulla a che fare con l’uso della psicopatologia in ambito forense.

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mento dei meccanismi intellettivi e volitivi del soggetto in osservazione, modellandone il comportamento agito o subito e i processi decisionali.

Eccone alcuni ambiti applicativi:

In ambito penale

• la valutazione del vizio di mente al momento del fatto e in riferimento allo stesso, ex artt. 88 e 89 c.p.;

• la criminogenesi e la criminodinamica del reato per cui si procede;• la maturità o meno dell’autore tra i 14 e i 18 anni, ex art. 98 c.p. e art.

9, d.p.r. 448/1988; • l’analisi relazionale e sistemica, quale richiesta in ambiti specifici (es.:

delitti sessuali, circonvenzione di persona incapace);• l’idoneità a rendere testimonianza.

In sede civile

• amministrazione di sostegno; interdizione; inabilitazione;• impugnazione di un atto (contratto, testamento, donazione);• affidamento di minori nei casi di separazione giudiziale;• affidamento e adozione di minori in stato di abbandono;• danno biologico di natura psichica, diretto e indiretto;• invalidità civile, pensionabile, ecc.;• i problemi del consenso/dissenso.

UNA QUESTIONE DI METODO

Nessuno degli approcci descritti, di per sé solo considerato e partita-mente utilizzato, compreso quello funzionale, è adeguato per procedere a una corretta costruzione clinica, propedeutica a ogni valutazione forense.

È infatti destituito di fondamento ogni tentativo di identificare la psi-chiatria e la psicologia cliniche con la psichiatria e la psicologia forensi e giudiziarie.

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L’analisi funzionale nelle discipline psico forensi

Pertanto, nel procedimento conoscitivo, la clinica che utilizza un mo-dello integrato di conoscenza, di intervento e di valutazione resta sovrana con un’attrezzatura mentale sua propria, come restano sovrani i vincoli deontologici e procedurali (codici deontologici e artt. 226 c.p.p. e 193 c.p.c.) e privilegia il significato funzionale di infermità, di incapacità e il nesso di causalità, nel senso che vizio di mente, incapacità decisionale e altri stati di incapacità esistono solo in quei casi in cui:

1. l’agito può essere iscritto in documentate alterazioni psicopatologi-che proprie di disturbi mentali specifici che, per l’intervento di fat-tori stressanti di natura situazionale o relazionale, vanno incontro a uno scompenso sul piano funzionale;

2. o in un significativo malfunzionamento psicologico che si epifeno-menizza nel comportamento oggetto di indagine.

In tutti i casi è sull’integrità e sulla forza dell’identità personale e dell’Io in relazione con gli oggetti che occorre svolgere i ragionamenti in ambito psicologico e psicopatologico, perché i difetti progressivi fino al fallimento del sentimento di identità personale e del funzionamento interpersonale (empatia, intimità, cooperazione, introiezione e integra-zione dell’Altro da Sé come oggetto totale) caratterizzano le disarmonie e gli alterati funzionamenti individuali e relazionali, fino a quelli più gravi (le dimensioni degli stati limite e psicotici).

ANALISI FUNZIONALE DELL’IO E IMPUTABILITÀ

• Capacità di intendere = funzioni percettivo-memorizzative, organiz-zative e previsionali. Esse riguardano fondamentalmente le funzioni co-gnitive e riflessive del soggetto;

• capacità di volere = funzioni decisionali ed esecutive. Esse riguardano fondamentalmente i processi affettivo emotivi e decisionali.

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ANALISI FUNZIONALE DELL’IO E CAPACITÀ DECISIONALE

• Capacità/possibilità di ricevere le informazioni;• capacità/possibilità di comprenderle;• capacità/possibilità di ragionare su di esse;• capacità/possibilità di valutare il loro significato ;• capacità/possibilità di esprimere una scelta.

IDONEITÀ GENITORIALE

L’adulto competente (e responsabile) è colui che dovrebbe essere do-tato di alcune capacità funzionali e relazionali quali:

• riflessive;• empatico-identificatorie;• di contenimento e di controllo degli agiti;• di stabilità affettiva;• d’integrazione sociale;• di trasmissione normativa;• di bassa emotività espressa;• di coerenza e costanza relazionali.

IN AMBITO VITTIMOLOGICO

Il lavoro dello psicologo forense è mirato ad accertare se il soggetto pas-sivo si trovava nel rapporto con l’autore in condizioni funzionali e rela-zionali di inferiorità o di deficienza psichica, dal momento che, se tali erano le condizioni della vittima (= accertamento che compete al perito) e si può dimostrare l’abuso doloso delle stesse (= compito che compete al magistrato), si concretizza il reato di violenza sessuale o di circonvenzione di persona incapace.

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L’analisi funzionale nelle discipline psico forensi

I PROBLEMI DELLA FORMAZIONE

In tutti i settori tratteggiati è fondamentale che il perito/consulente sia fornito di una buona formazione clinica di base.

Ma non basta: il lavoro peritale comporta un’attività di formazione continue che va oltre la preparazione fornita dalle scuole di psichiatria e di psicologia clinica, che è solo propedeutica al «forense».

Abbiamo pertanto bisogno di docenti clinico forensi accreditati e in grado di fornire ai discenti training formativi teorici, ma anche e soprattutto pratici nelle loro diverse articolazioni del sapere, del saper fare e del saper essere.

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L’assessment testologico in ambito forense: sintetiche considerazioni metodologiche e integrazioni cliniche

Franco Freilone - M.D., Ph.D., Professore Associato Confermato di Psicologia Clinica e Direttore della Scuola di Specializzazione in Psico-logia Clinica, Dipartimento di Psicologia, Università di Torino.

La valutazione testologica in ambito forense richiede sostanzialmente una buona e coerente scelta clinica del materiale, supportata da validi riferimenti in termini di affidabilità e validità (Heilbrun, 1992, tab. 1).

Tab. 1 Linee guida per i test (Heilbrun, 1992)

Per quanto riguarda la selezione dello strumento:1. il test deve essere commercialmente disponibile e

adeguatamente documentato. 2. L’affidabilità di un test psicologico deve essere considerata

prima di selezionare lo stesso per un assessment forense. 3. Il test deve essere pertinente per l’ambito legale o il costrutto

sottostante all’esito legale.

Inoltre è metodologicamente necessario o quantomeno opportuno, nel contesto forense, somministrare test che soddisfino da un lato il prin-cipio di oggettività, dall’altro il principio di competenza (Ackerman, 1999, tab. 2).

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La costruzione della ‘verità clinica’ nel processo: lo psicologo forense al lavoro

Tab. 2 Linee guida generali (Ackerman, 1999)

• Usare il metodo migliore (quello che promuove maggiormente il principio dell’oggettività e delle competenze scientifiche e fornisce dati che sono rilevanti per gli ambiti giudiziari).

• Essere sicuri che i test e gli altri strumenti utilizzati siano correttamente somministrati.

• Riportare fedelmente tutti i dati.• Evitare creazioni speculative riguardo i dati. • Le note “personali” non esistono.

In altre parole, la sola preferibilità astratta dello strumento, teorica-mente adatta alla situazione clinica, senza un adeguato training e un’ade-guata esperienza valutativa, sembra rappresentare un punto di debolezza nell’ambito giuridico di applicazione.

Non bisogna dimenticare che potrebbe essere richiesto dalle parti un profilo di garanzia dello psicodiagnosta, come formazione personale.

Meglio affidarsi a figure terze, nel momento in cui si ritiene necessario uno specifico accertamento testologico e non si ha un adeguato profilo di competenza. Ciò si armonizza al fatto che, implicitamente, la tecnica di somministrazione dovrebbe essere ben conosciuta (e sperimentata) in riferimento al modello teorico applicativo scelto. Eventuali ibridazioni implicite potrebbero non solo inficiare la raccolta dei dati, ma anche es-sere oggetto di riserva da parte degli interlocutori (consulenti tecnici e non solo).

È un principio applicativo che il setting forense non sia contaminato da presenze terze. Tale aspetto può risultare di non facile applicazione, se le parti esercitino il diritto-dovere di assistere ad ogni operazione. Meglio a questo punto che sia il Magistrato a dirimere, se non si riesce ad avere un accordo rispettoso.

Purtroppo è esperienza comune che talvolta vi siano CTU o Periti

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L’assessment testologico in ambito forense: sintetiche considerazioni metodologiche

che esercitano il loro ruolo con un principio d’autorità, poco flessibile, rispetto alle legittime richieste dei CTP.

Al contrario vi potrebbero essere CTP, se non genericamente sprov-veduti o artificiosamente preconcetti, che utilizzano un possibile bias del setting per “forzare” la raccolta dei dati e in qualche modo influenzare la lettura dei risultati.

Bene sarebbe richiamarsi a linee di riferimento condivise (Freilone, 2016).

Sulla raccolta dei dati occorre ribadire sempre l’importanza e la ne-cessità che siano riportati in modo integrale (Ackerman 1999; Fornari, Freilone, 2015), permettendo al consulente di parte che (correttamente) ha rinunciato ad assistere alla somministrazione possa sviluppare le sue considerazioni in modo autonomo.

Interpretazioni personali sono da considerarsi fuorvianti (inaccettabi-li), quando non siano suffragate dai dati intrinseci rilevati e dai riferimen-ti teorici, possibilmente aggiornati in modo ragionevole.

Ovviamente le note personali (idiosincratiche) dello psicodiagnosta e le creazioni fantasiose (per esempio relative alla psicopatogenesi incon-scia) hanno poca o nulla consistenza nel sistema forense, dove i dati de-vono essere obiettivi e confrontabili.

Un altro aspetto su cui sembra opportuno insistere è che i riferimenti interpretativi possono essere mirati e selettivi (quindi sintetici) in relazio-ne all’obiettivo forense.

Ad esempio se ci interessa valutare al Rorschach il livello di psicopatia di un soggetto che presenti clinicamente un esame di realtà intatto ed abbia commesso un grave reato, pianificato ed intenzionale, valuteremo le variabili (presenti o meno) relative alla psicopatia e ci interesseremo ai dati relativi a questo aspetto, non tanto all’esame di realtà, pur essendo una caratteristica abitualmente centrale nella valutazione Rorschach in ambito forense.

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La costruzione della ‘verità clinica’ nel processo: lo psicologo forense al lavoro

Per esempio per il Rorschach (Gacono, Evans, 2008; tab. 3) una serie di criteri forensi dovrebbe essere presa in considerazione per la sommi-nistrazione.

Tab. 3 Rorschach Testimony (Gacono, Evans, 2008)

• The training of the examiner• Ensuring accurate scoring and administration• Having a thorough knowledge of the validity data• Not overinterpreting the data• Avoiding the use of psychological jargon• Use of the Rorschach data in court

Negli Stati Uniti sono inoltre ben noti i riferimenti applicativi forensi legati al c.d. “Frye test” (tab. 4) e al parametro “Daubert” (tab. 5), che possono essere intesi come orientativi e di senso, in riferimento ad un contesto giuridico pur diverso, consentendo così allo psicodiagnosta fo-rense di strutturare un discorso fondato su presupposti consolidati e non arbitrariamente interpretato in modo “personale”.

Tab. 4 Frye v. United States (1923)

Il Frye test: la testimonianza del perito è ammissibile se basata su una metodologia che ha dimostrato di aver guadagnato la “general acceptance” del campo a cui appartiene.

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L’assessment testologico in ambito forense: sintetiche considerazioni metodologiche

Tab. 5 Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals (1993)

Il parametro Daubert4 fattori:

• la tecnica scientifica è stata validata• la tecnica è stata sottoposta a riviste specializzate• esiste un potenziale indice d’errore• vi è una generale accettazione del campo

I test in ambito forense dovrebbero richiedere inoltre una sorta di “consenso informato” (Simon, Gold et al, tab.6.) del periziando, da in-tendersi come presupposto clinico ad una buona relazione che consenta di avere dati effettivamente utilizzabili e analizzabili.

È esperienza non infrequente per esempio di Rorschach “poveri” pro-prio in virtù di una difficoltà d’approccio o di “MMPI” invalidati perché la cornice relazionale alla somministrazione è stata inadeguata.

Tab. 6 Ethical Practice (Simon, Gold, 2004, modif.)

• QUALIFICATIONS: Forensic (“Psycologists/Psychiatrists”) should provide forensic services only in areas in which they have expertise

• CONFIDENTIALITY: (…) are ethically obligated to maintain an evaluee’s confidentiality, although the parameters of this obligation differ from those of clinical practice

• CONSENT: Obtaining informed consent is another ethical principle that applies in both clinical and forensic contexts but differs (…)

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La costruzione della ‘verità clinica’ nel processo: lo psicologo forense al lavoro

È legittimo che il periziando scelga o meno di aderire alla sommi-nistrazione di un test, debitamente informato sul significato generale. Ovviamente qualora vi sia un rifiuto esplicito, questo sarà valutato nella ricostruzione relazionale e psicopatologica del profilo forense del sogget-to, come dato indiretto di funzionamento.

Un ultimo aspetto metodologico da sottolineare sembra essere rela-tivo alla integrazione delle risultanze di più test (ad esempio MMPI-2 e Rorschach; Rorschach e WAIS-IV ecc.).

Il profilo psicodiagnostico globale, auspicabilmente appunto integra-to, dovrebbe contenere l’analisi critica delle concordanze e delle discor-danze dei risultati.

Scorretta è invece la procedura selettiva dei dati, distinguendo tra quelli buoni (utilizzati al servizio della propria ipotesi) e cattivi (da scar-tare e “complicati” di solito rispetto all’ipotesi di fondo).

Per concludere, sono raccomandabili in ambito forense:

• la scelta di test di cui si abbia specifica competenza e che siano comune-mente accettati dalla comunità scientifica ovvero che abbiano una lette-ratura qualificata di supporto all’uso forense e non solo clinico.

• L’attenzione al setting forense e alle sue peculiarità, mediando tra qualità cliniche di correttezza e giuridiche di necessità.

• La coerenza del modello diagnostico di riferimento con la teoria del test applicato, esplicitando le integrazioni concettuali qualora non vi sia line-arità manifesta.

• La presentazione di tutti i dati ottenuti e la sintesi interpretativa ai fini dell’obiettivo clinico-forense per cui si sta procedendo alla valutazione.

Qualora vi sia la somministrazione di una batteria di test, dovrebbe esse-re considerata l’analisi critica di concordanze e discordanze fra i vari test

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L’assessment testologico in ambito forense: sintetiche considerazioni metodologiche

somministrati e soprattutto fra i risultati ottenuti dai test e quelli ottenuti attraverso il colloquio, con la ricostruzione della storia di vita, della biografia psicopatologica e di personalità ecc., prioritari ai fini forensi e non secondari rispetto agli “utili complementi testologici”.

Bibliografia

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Freilone F., Fratianni B., Lezioni di psicodiagnostica proiettiva, Fratelli Frilli Editori, Genova, 2008.

Freilone, F (2016). La psicodiagnostica forense: questioni deontologiche e questioni di metodo. G. Zara, M. Presutti, & E. Calvi (Eds.). Lo psicologo tra l'essere e il fare. Problemi di deontologia applicata alla professione psico-logica. Italia: PubliEdit, Cuneo, 2016.

Freilone F., Fornari U. Cap. 14 I test mentali in ambito forense, in “Trattato di Psichiatria Forense. Quinta Edizione”, U. Fornari, UTET Giuridica, Torino, 2013, pp. 186-210.

Gacono C., Evans B., The Handbook of Forensic Rorschach Assessment, Routledge, New York, 2008.

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Heilbrun K., The role of Psychological Testing in Forensic Assessment, in Law and Human Behavior, Vol. 16, No. 3, 1992.

Simon, Gold, Textbook of forensic psychiatry, The American Psychiatric Publishing, Arlington, 2004.

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Tra il ‘probabile, il possibile, il certo’: il metodo professionale strutturato del risk assessment nella giustizia penale

Georgia Zara - Professore Associato di Psicologia Criminologica e Risk Assessment, Presidente Corso di Laurea Interdipartimentale in Psicolo-gia Criminologica e Forense, Università di Torino; Giudice Onorario, Tribunale di Sorveglianza di Torino.

Un dato interessante pubblicato, a giugno 2016, sulla rivista The Lancet, riporta che circa 30 milioni di persone vengono ogni anno, nel mon-do, rimesse in libertà dal carcere (DeLisi, 2016; Fazel, Chang, Fanshaw, Långström, Lichtenstein, Larsson, et al., 2016). Una proporzione di que-ste persone comprende anche individui ad alto rischio di ricaduta crimi-nale e violenta (Zara & Farrington, 2016b). Di fronte alla tragica realtà di coloro che ogni giorno commettono un nuovo reato, e che frequente-mente vengono ricondannati, e alla realtà di coloro che dopo l’espiazione della pena verranno rimessi in libertà, saper identificare ‘precocemente e correttamente’ (fase trattamentale) coloro che sono a rischio di ricadu-ta criminale è fondamentale. Inoltre, essere in grado di fare valutazioni accurate, precise, differenziate, distinguendo per esempio chi è ad alto rischio di ricaduta criminale e violenta da chi non lo è, è un modo per poter contribuire significativamente al recupero dell’autore di reato, e quindi favorire, attraverso un intervento personalizzato, la promozione del benessere di queste persone e la tutela della società.

Focus del lavoro

Il focus di questo lavoro è l’intervento clinico e psicocriminologico sull’autore di reato durante la fase esecutiva della pena, quando la sen-tenza di condanna è definitiva e passata in giudicato. Quest’area della

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giustizia penale esecutiva è particolarmente rilevante in quanto, come l’esecuzione della pena viene gestita, organizzata, applicata, ha profonde e dirette conseguenze sulla vita della persona e sulla comunità. Si pensi alle conseguenze che possono scaturire dalla rimessa in libertà di un au-tore di reato che non è completamente riabilitato oppure al rientro nella società di una persona che non è stata coinvolta in un programma mira-to e adeguato alla riduzione dei bisogni criminogenici (fattori di rischio individuali e dinamici) che hanno condotto alla commissione del reato.

Cosa diversa è invece l’intervento clinico sulla persona che ha com-messo reato e che, pur non essendo imputabile, viene riconosciuta peri-colosa socialmente e psichiatricamente (Douglas & Skeem, 2005; Forna-ri, 2015; Freilone & Dotta, 2014; Monahan, 1992, 2006; Monahan & Skeem, 2014). In questi casi, la psichiatria forense si avvale di altrettanti strumenti specifici per la valutazione della pericolosità psichiatrica di questi pazienti, che può essere distinta in elevata e attenuata, con i conse-guenti provvedimenti adeguati e personalizzati per organizzare non solo la terapia più opportuna ma anche l’intervento più idoneo e sostenibile nel medio e lungo termine. Si rimanda alla letteratura specialistica per un approfondimento su questi aspetti, particolarmente complessi e che non si sono semplificati neanche alla luce della legge(12) in materia di supera-mento degli ospedali psichiatrici giudiziari e dell’apertura delle REMS(13).

Da questa premessa è evidente che, così come in ogni altro ambito professionale e scientifico, anche quello forense e quello psicocrimino-

(12) A questo proposito cfr. d.l. 31 marzo 2014, n. 52, conv. in L. 30 maggio 2014, n. 81 - Disposizioni urgenti in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. La legge n. 81/2014 (ex art. 1, comma 1, lettera b) prevede che: «Il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (ora REMS) o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale».

(13) Le REMS sono le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di sicurezza Sanitaria. Il percorso di attivazione delle REMS, con il superamento degli OPG, al di là della sua teorica portata innovativa ha evidenziato difficoltà strutturali, tecnologiche ed organizzative, incluse quelle della realizzazione, entro i tempi previsti, le nuove strutture destinate ad accogliere le persone alle quali vengono applicate le misure di sicurezza (Cimino, 2014). Per un’analisi approfondita sul tema delle REMS si rimanda alla letteratura specialistica (Mangiaracina, 2015; Miravalle, 2015; Piccione, 2013; Zara, 2016c).

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logico richiedono al professionista di operare non solo con responsabilità, ma soprattutto con metodo e con competenza. È pertanto fondamentale riconoscere il contesto forense e psicocriminologico come notevolmente dif-ferente da quello clinico e terapeutico (Freilone, 2016). Nel contesto forense e psicocriminologico si opera sul piano della valutazione a partire dal fatto che una persona ha commesso un reato o un atto di violenza; i risultati della valutazione devono essere utili e appropriati ai fini forensi e psicocrimino-logici. L’intervento trattamentale proposto nasce da questa valutazione che deve rispondere a specifici criteri giuridici, deontologici e metodologici.

Inquadramento esecutivo della giustizia penale

La fase esecutiva rappresenta quell’ambito dove la psicologia clinica e cri-minologica diventano ancora più rilevanti, non solo perché esiste una legge, seppur datata (26 luglio 1975), n. 354 sulle Norme sull’ordina-mento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative della libertà, che prevede questo, ma anche perché l’orientamento giurisprudenziale si sta muovendo sempre più verso una condizione che renda effettivo un det-tato costituzionale rimasto tiepido per molto anni: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il richiamo al senso di umanità a cui la condanna deve ispirarsi e al come deve essere attualizzata non significa venir meno ad un dovere dello Stato di tutela nei confronti della società, ma significa fare in modo che il tentativo di rieducazione del condan-nato possa avere un senso sul lungo termine e che non sia solo rilevante durante il periodo dell’esecuzione della condanna. Da qui il conseguente principio di individualizzazione e personalizzazione del trattamento che dovrebbe essere realmente differenziato e rispondente alla riduzione e ge-stione dei bisogni criminogenici della persona e del suo livello di rischio di ricaduta criminale. Una pena disancorata dal dettato costituzionale del recupero della persona e sganciata dall’applicazione del principio del trat-tamento individualizzato rischia di essere una sterile pronuncia giuridica.

L’esecuzione penale, disciplinata dagli artt. 648 c.p.p. e ss., riguarda il momento della attuazione delle determinazioni del giudice penale: un

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atto di volontà o comando; il suo fondamento è il titolo esecutivo costitu-ito, usualmente, dal provvedimento irrevocabile. Oggetto dell’esecuzione penale sono la pena (pecuniaria, detentiva, sostitutiva) e la misura di si-curezza contemplate nel titolo (sentenza, ordinanza, decreto) (Caprioli e Vicoli, 2011).

Se nel giudizio di cognizione è vietato in Italia disporre di un’inda-gine peritale scientifica avente per oggetto le caratteristiche personologi-che, psicologiche, relazionali, emozionali e criminologiche dell’imputato adulto, che siano svincolate da cause di ordine patologico e considerate idonee ad incidere direttamente sulla capacità di intendere e di volere e sulla determinazione della responsabilità (cfr. ex art. 220 c.p.p.(14)), que-sto divieto non è confermato in sede esecutiva. A questa sede viene riser-vata non solo l’intera esecuzione della sanzione, la vigilanza sulla pena de-tentiva, quanto la possibilità di disporre una graduale e adeguata modifica o attenuazione delle limitazioni imposte al detenuto in relazione alla sua effettiva e progressiva rieducazione (Canepa & Merlo, 2010).

A livello normativo, l’art. 678 c. 2 c.p.p. recita:“Quando si procede nei confronti di persona sottoposta a osservazio-

ne scientifica della personalità, il giudice acquisisce la relativa documenta-zione e si avvale, se occorre, della consulenza dei tecnici del trattamento”.

Il dato normativo testuale prevede tre passaggi sequenziali e che, in modo esemplificativo, possono essere descritti: (1) nell’acquisizione da parte del giudice della sorveglianza della documentazione e delle prove documentali (il fascicolo del detenuto); (2) nella richiesta alle autorità competenti dei documenti e delle informazioni di cui abbia bisogno, con possibilità di richiedere l’audizione dei tecnici del trattamento (ex art. 678 c.p.p.), ovvero degli operatori penitenziari direttamente e con-cretamente coinvolti nel progetto rieducativo della persona e che hanno particolare competenze e specifiche professionalità (e.g. psicologi, esperti

(14) (1) La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche. (2) Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche.

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ex art. 80 O.P., educatori, assistenti sociali); (3) nella disposizione di una perizia psicocriminologica ex art. 220 c. 2 c.p.p., ai fini della valutazione scientifica della personalità del condannato e che viene richiesta per sta-bilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità del condannato e per valutare in genere tutte le caratteristiche psichiche indipendenti da cause patologiche.

La peculiarità del procedimento di sorveglianza risiede pertanto nel suo oggetto che non è diretto all’accertamento di un fatto (così come infatti avviene nel procedimento di cognizione), ma alla valutazione della persona. Nel caso in cui il condannato abbia chiesto l’applicazione di una misura alternativa, l’oggetto è costituito dall’accertamento della fonda-tezza della pretesa dedotta dal reo a veder modificato in melius il rapporto penale esecutivo.

L’ispirazione di fondo della giurisdizione rieducativa è l’essere un mo-dello processuale di giudizio sulla persona in esecuzione di pena, dove, per la prima volta nell’ordinamento italiano, si pone al centro del pro-cedimento penale la persona (Giostra, 1983, p. 153, cit. in Caprioli & Vicoli, 2011, p. 12). La persona diventa cioè la dimensione fondante su cui definire qualunque riflessione, giudizio, modifica esecutiva, interven-to. È per questo che Della Casa (2006, p. 962), rivolgendo l’attenzione sull’arricchimento dei compiti della fase esecutiva, la definisce la stagione dell’esecuzione flessibile, scandita dall’accoglimento del principio di riedu-cazione del reo che implica una necessaria flessibilità e dinamicità nell’at-tuazione del contenuto del comando e una costante rivalutazione dell’u-tilità e dell’efficacia dell’esecuzione della pena in chiave rieducativa(15).

Se oggetto del processo penale è la colpevolezza che deve essere prova-ta, in quanto la condanna richiede tale prova, è altrettanto necessario che nella fase esecutiva della pena vengano utilizzate conoscenze e strumenti in grado di favorire una riduzione del rischio di ricaduta criminale e la promozione del reinserimento sociale dell’autore di reato. Il non utilizzo di questi elementi implicherebbe la rinuncia all’esercizio del dovere di responsabilizzazione di cui il sistema della giustizia si fa portatore, con

(15) Cfr. Sentenza Corte Costituzionale n. 204/1974.

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conseguenti implicazioni etiche. Solo in questo modo si potrà garantire un ritorno nella società di individui svincolati dalle ombre giuridiche del-la loro storia criminale e distanziati da ancoraggi criminogenici irrisolti o comunque non specificatamente trattati.

In questa dualità di prospettive considerare chi è la persona e come la persona funziona, per poi capire cosa la persona ha e perché la persona ha commesso quell’atto per il quale sta scontando la pena o la misura di si-curezza, sono dimensioni importanti in relazione all’intervento sull’indi-viduo violento e pericoloso. Il congegno sospensivo o trasformativo della pena, in ottemperanza agli obblighi consentiti dalla legge, richiede per-tanto sempre più una valutazione ‘del più probabile che non’ che quella persona possa rispondere in modo appropriato alla decisione trasformati-va, esecutiva, confermativa o deflativa della pena (Zara, 2016c).

È indiscutibile quindi che la valutazione del rischio è principalmente una valutazione integrata della persona. Si verifica all’interno di un pro-cesso fondamentale che in psicologia è definito dalla relazione, di cui il colloquio ne diventa il momento fondante e il presupposto imprescindibile (Merzagora & Travaini, 2015). Questo necessita di un’attività psicodiagno-stica che precede e condiziona l’intervento (Freilone, 2005). Lo svolgimen-to del trattamento o dell’intervento riabilitativo richiederanno pertanto una verifica delle condizioni mentali e psichiche della persona, un’analisi dei risultati, un’osservazione scientifica per stabilire le opportune modifica-zioni o integrazioni o interruzioni degli interventi trattamentali.

Il modello del Risk-Need-Responsivity (RNR)

Il modello del Risk-Need-Responsivity (RNR), risponde ai princìpi della valutazione e dell’intervento individualizzato, mirato, reintegrativo sulla persona autore di reato (Andrews & Bonta, 2010; Zara, 2010). Il model-lo del RNR integra tre dimensioni fondamentali.

Il Rischio (R), ovvero individuare chi trattare e adeguare il livello di intervento e trattamento al livello di rischio. Il rischio viene valutato come alto, medio o basso a seconda della probabilità attentamente valu-tata dall’équipe di esperti che l’individuo possa ricadere nel reato e nella

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violenza, date certe condizioni di partenza, considerate le specifiche con-dizioni di vita e i possibili triggers scatenanti il passaggio all’atto.

I Bisogni criminogenici (N), ovvero capire cosa trattare dal momento che i targets del trattamento devono essere i bisogni criminogenici e che questi sono poi differenziati nei singoli individui criminali. I bisogni cri-minogenici sono fattori di rischio individuale e dinamico che possono essere modificati attraverso il trattamento e che sono significativamente associati al comportamento criminale. Questi bisogni coinvolgono alme-no 8 dimensioni di vita dell’individuo che vanno direttamente ad in-fluenzare e compromettere il suo funzionamento psicologico, relazionale e sociale: 1. Storia antisociale e carriera criminale. 2. Disturbi di personalità, emozionalità negativa, mancanza di autocon-

trollo. 3. Pensiero distorto, atteggiamenti e cognizioni pro-criminali.4. Network pro-criminale e antisociale.5. Condizioni familiari inadeguate e disagiate e/o situazione matrimo-

niale conflittuale e problematica. 6. Dipendenza da sostanze.7. Problemi ricorrenti nel contesto scolastico o lavorativo. 8. Mancanza di attività ricreative prosociali.

La Rispondenza (R), ovvero sapere come trattare al fine di realizzare un programma di intervento che sia rispondente, aderente alla persona, ai suoi tempi e alla sua motivazione, eticamente integro e clinicamente spe-cifico. Il principio di rispondenza o responsività delinea, in sintonia con la valutazione accurata e individualizzata dei rischi e dei bisogni criminoge-nici, il modo in cui i programmi rieducativi e di reinserimento sociale do-vrebbero essere organizzati per convergere con le caratteristiche cognitive, di personalità, emozionali e socio-culturali dell’individuo, e con le risorse protettive di cui dispone. La rispondenza implica motivazione da parte della persona a perseguire un programma trattamentale, partecipazione attiva allo stesso, interesse al cambiamento e al mantenimento della ‘scel-ta’, una condizione di readiness (ovvero l’essere pronti a …) al trattamento.

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Essendo un processo duale, la rispondenza necessita anche del rispetto dei tempi della persona e della creazione di un clima di accoglienza da parte del setting di intervento che avviene anche attraverso la formazione specialistica dei professionisti chiamati ad operare in questo ambito (psi-cologi, psichiatri, assistenti sociali, educatori) con ruoli e responsabilità diverse. È questo il modello su cui poggia la ratio del risk assessment.

Il modello RNR, che sta iniziando ad essere riconosciuto anche nel contesto penale italiano (Zara, 2016c), si ispira ad una giustizia esecutiva rieducativa e trattamentale che ponga in equilibrio il piano giudiziario e quello del recupero della persona, senza perdere di vista il senso di una sostenibile prevenzione criminale. Secondo Latessa e colleghi (2002) ef-fettive pratiche di trattamento richiedono una valutazione sia del rischio sia dei bisogni criminogenici dell’autore di reato. Quando questa valuta-zione diagnostica è assente, e nessuna valutazione dei bisogni è stata fatta, gli individui criminali entrano nella (così definita) ‘lotteria del trattamen-to’, in cui l’accesso a programmi efficaci, mirati, specifici, personalizzati, è determinato solo dal ‘caso’.

Il risk assessment

In linea con questo quadro normativo, ed entrando negli aspetti applica-tivi, emerge chiaramente come anche in questa fase della giustizia penale la questione del metodo e la tipologia degli strumenti utilizzati diventano oggetto di una riflessione scientifica fondamentale. In situazioni come queste non deve essere ignorato il fatto che “il sistema della giustizia e quello delle scienze devono collaborare nella costruzione di una verità (il processo prima, la sentenza poi) che non solo comporti l’applicazione dei codici e di princìpi dottrinali e giurisprudenziali, ma che rispetti “crite-ri scientifici”, riducendo così al minimo la percentuale di errore dovuta all’umano operare in questo campo, mai dimenticando che le attività di periti/consulenti e giudici si svolgono nel mondo relativo della storia, in cui i valori, le istituzioni e le norme, ma anche la scienza mutano conti-nuamente” (Fornari, 2015, p. 235).

Il risk assessment (o valutazione del rischio) è quella pratica scientifi-

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ca anticipatoria e preparatoria dell’intervento preventivo, riabilitativo, di sostegno, che non è sganciata dalla “trattabilità” della persona antisociale e violenta, ma ne permette la sua pianificazione. Certamente il risk asses-sment non è una panacea per la risoluzione dei problemi legati alla crimi-nalità, al recidivismo criminale, al recupero dell’individuo autore di reato e al suo adeguato reinserimento sociale. Non è una ‘scienza’ esatta ma è una ‘scienza’ concreta in grado di aiutare l’esperto a capire con chi, quan-do, come, e su cosa intervenire, per ridurre il rischio di ricaduta criminale e di violenza. Tuttavia, in mancanza di una precisa valutazione del rischio, ogni risposta di responsabilizzazione, trattamentale, rieducativa e riabili-tativa risulterà approssimata, discrezionale e inaccurata (Shapiro & Noe, 2015). Di questo il mondo giuridico deve poterne tenere conto; deve poter accedere con semplicità ai risultati della ricerca scientifica; deve po-terne capire il senso e la loro utilizzabilità nel contesto giuridico-forense.

Il risk assessment si muove all’interno di una cornice scientifica e di un metodo: è questo che crea i presupposti per la sua falsificazione, per un controllo critico, con la consapevolezza della sua fallibilità. La questione di cosa renda ‘scientifico’ un metodo non è, ovviamente, recente. Un metodo è scientifico non in quanto infallibile, ma in quanto modificabile e influenzabile dalle nuove conoscenze raggiunte. Già Feyerabend (1978, 2011) indicava che non esisteva metodo che, anche se seguito scrupolo-samente, potesse condurre ad una conoscenza certa e sicura. In genere il parlare di ‘metodo scientifico’ rimanda all’idea di un procedimento volto alla costituzione di un sapere certo e giustificato; ma la ricerca scientifica ci ha insegnato che nonostante quello che raggiungiamo con gli studi sia giustificabile, non potrà però mai essere definitivo (Putman, 1987, 1988) o immune dall’errore. Popper (1935) ha infatti insegnato che lo stesso progresso scientifico si costituisce nella falsificazione.

Pertanto il marchio scientifico risiede nell’approccio critico e nel con-trollo intersoggettivo; propriamente scientifico è quello che distrugge la scienza precedente (Ferrua, 2015). In altre parole il risultato di un proce-dimento per essere scientifico deve avere guadagnato la general acceptance dell’ambito di appartenenza (Frye v. United States, 1923) e deve essere in linea con i Criteri Daubert (Daubert v. Merrell Dow Pharmaceuticals, 1993).

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D’altra parte, si ritiene coerente esplicitare l’ethos che guida anche il lavoro di valutazione del rischio, e cioè “[…] scientifico è non esprime-re opinioni che derivano dalla sola esperienza di quel perito; scientifico è poter fornire un parere motivato e valido che tenga conto di tutto quello che – allo stato – costituisce patrimonio comune e condiviso della nostra conoscenza e del nostro operare come periti e/o consulenti […]” (Fornari & Pennati, 2011, p. 2).

Gli strumenti del risk assessment

Nel mondo anglosassone il 58% di esperti nel contesto forense utilizzano diversi strumenti di valutazione del rischio per rispondere a quesiti del giu-dice rispetto al rischio che un particolare individuo possa agire con violenza e mettere in atto comportamenti criminali (Jung, Pham, & Ennis, 2013). Attualmente sono disponibili numerosi strumenti di valutazione del rischio specifici (Zara & Farrington, 2016a). Si tratta di strumenti costruiti e va-lidati in questi contesti e che possono orientare le valutazioni dell’esperto rispetto all’intervento riabilitativo e al trattamento.

Uno strumento di valutazione, per essere funzionale, deve quindi es-sere in grado di cogliere la rappresentazione della realtà sotto osservazione nella sua forma dinamica. Il focus non è la predizione della ‘pericolosi-tà criminale e sociale(16)’, ma la valutazione dei bisogni criminogenici e del rischio di ricaduta nel comportamento criminale e violento. Questi strumenti pertanto non sono questionari di auto-somministrazione; non sono strumenti sostitutivi del giudizio professionale dell’esperto; non sono strumenti «a esclusione» per cui l’esperto risulterebbe relegato in un ruolo di semplice calcolatore di un punteggio. Gli strumenti infatti non devono essere utilizzati con lo scopo di rendere la valutazione un calcolo algoritmico: lungi dal pensarlo e lontani dall’auspicarlo. Sono bensì strumenti che, al di là della loro struttura (attuariale o professio-

(16) Concetto questo che rimanda a quello giuridico di pericolosità sociale (ex art. 203 c.p.) oramai in disuso nel panorama scientifico internazionale e sostituito con quello di risk assessment.

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nale integrata), contribuiscono al valore incrementale di ogni valutazione clinica e professionale, in quanto integrano i diversi saperi scientifici e professionali (psicodiagnostici, educativi, comportamentali, giuridici), strutturano la valutazione, permettendo di ridurre la discrezionalità sog-gettiva. In questo senso il discorso sul metodo diventa il presupposto del loro utilizzo.

Una meta-analisi, condotta da Singh e colleghi (2011), sugli stru-menti di valutazione del rischio di violenza, in cui sono stati revisionati 68 studi e 25.980 partecipanti, ha evidenziato come la validità predittiva di uno strumento sia direttamente proporzionale alla corrispondenza tra caratteristiche psicologiche, psicopatologiche, familiari e socio-demogra-fiche delle persone esaminate e quelle caratteristiche presenti nel cam-pione usato per originariamente testare e validare lo strumento. Quanto più specifici sono gli strumenti, rispetto al contesto di somministrazione degli stessi e all’oggetto valutato, maggiore il loro grado di rilevazione del rischio specifico e quindi la loro validità predittiva. La validità ecologica è essenziale al fine di rendere il processo di valutazione aderente ai criteri di coerenza esterna con il contesto.

Gli strumenti di risk assessment hanno un duplice fine: consentire all’esperto di lavorare secondo parametri metodologici integrati, rigoro-si, verificabili, validi e, quando possibili, ripetibili; utilizzare strumenti costruiti specificatamente per valutare il rischio di violenza e recidivismo in contesti come quello forense e penitenziario. Gli strumenti prescelti sono strumenti con una robusta validità e affidabilità, che hanno una storia scientifica e applicativa significativa: la logica con la quale sono stati costruiti esclude un utilizzo meccanicistico; il loro contributo sia in am-bito clinico-forense, che criminologico e di ricerca, è quello di guidare la valutazione del professionista che osserva, raccoglie, confronta, falsifica, conferma, analizza i dati e le informazioni sulla persona che incontra e con la quale stabilisce una relazione professionale attraverso un colloquio. Il fine di questo lavoro deve condurre alla valutazione e alla successiva programmazione del trattamento.

In accordo con il pensiero più accreditato in campo clinico (Del Corno, 2009; Del Corno & Lang, 2009; Fornari, 2015; Freilone, 2011,

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2016), gli strumenti non devono sostituirsi al clinico o all’esperto, ma hanno solo il compito di supportare il loro lavoro e di ridurre quanto più possibile l’errore casuale e la discrezionalità individuale. Si tratta, infatti, di strumenti che non possono essere utilizzati in isolamento e deconte-stualizzati dalla realtà della persona e dalla cornice scientifica e clinica di riferimento; non sostituiscono il ruolo professionista; richiedono un lavoro di équipe; contribuiscono alla validità incrementale del giudizio professionale strutturato e integrato (Zara, 2013).

Molte dimensioni di rischio utilizzate nei diversi strumenti sono so-vrapponibili, essendo quelle riconosciute come le più rilevanti aree crimi-nogeniche per la ricaduta criminale (Blackburn, 1993; Hart, 2009; Gris-so, 2010; Gulotta, 2005, 2009; Gulotta e coll., 2002); diversi strumenti prevedono la valutazione anche dei fattori protettivi e delle risorse della persona e del suo contesto di vita, rendendo il risk assessment una pratica rivolta non tanto alla quantificazione del rischio, ma soprattutto una pra-tica preventiva e di pianificazione del trattamento. È utile precisare che l’analisi dei fattori di rischio e dei bisogni criminogenici alla base delle problematicità della persona, e il peso loro assegnato, non esaurisce la va-lutazione del rischio (Maden, 2005, 2007), così come la natura attuariale della valutazione del rischio, non devono sostituire il ruolo che l’esperto può svolgere nell’osservazione clinica, nel colloquio con la persona, nella formulazione di un giudizio integrato e nella pianificazione di una stra-tegia inter-professionale e inter-istituzionale, aderente agli scopi del suo mandato e soprattutto coerente ai bisogni della persona.

Il peso e lo spazio attribuito ad ognuno di questi strumenti all’interno del processo di valutazione del rischio dipenderà dall’esperto; quanto più il professionista è competente maggiore sarà la sua capacità di utilizza-re questi strumenti con rigorosità e precisione, sapendo che quello che valutano è una parte della complessità della persona, esattamente come succede per le ‘scienze esatte’ che «misurano il misurabile, ma ciò che può essere misurato è ben lontano dall’essere il tutto» (Augias & Mancuso, 2009, p. 150, cit. in Fornari, 2015, p. 238).

Se dalla valutazione non ne consegue un trattamento in grado di ri-spondere adeguatamente ai segnali criminogenici dinamici, tale valuta-

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zione risulterà inutilizzabile, un puro esercizio statistico. È per questo che la ricostruzione dello state risk (Douglas & Skeem, 2005) dell’individuo diventa centrale nella valutazione del rischio professionale strutturato e nella costruzione dei possibili scenari di futuri di comportamenti crimi-nali e violenti (risk formulation) (Doyle & Dolan, 2002; Sturmey & Mc-Murran, 2011), in cui quello specifico autore di reato è più probabile che si (ri)comporti, reagisca, funzioni in modo violento e criminale. È sul caso specifico che il Tribunale di Sorveglianza si avvale dell’esperto per decidere quale misura continuare a concedere oppure quali modifiche, nel regime esecutivo della pena, sono più consone in base al suo livello di rischio e di trattabilità.

Gli strumenti di valutazione del rischio di violenza e di recidivismo generale, violento e sessuale, di cui si dispone(17), si differenziano per la popolazione (adulti o minori; maschi e/o femmine; pazienti psichiatri-co-forensi e popolazione detenuta) su cui possono venire utilizzati, ma soprattutto per la tipologia di reati implicati (violenti e/o sessuali, e/o criminalità generale), per il livello di rischio valutabile (alto, medio o basso; stabile o dinamico o acuto), per la temporalizzazione del rischio (immediato, a medio o lungo termine), per le caratteristiche psicopato-logiche rilevanti (personalità antisociale o psicopatica), e per il contesto applicativo (comunità civile, istituti di pena, centri di salute mentale, comunità terapeutiche, REMS).

Ci sono strumenti attuariali il cui scopo applicativo è una valutazione predittiva che combina i fattori di rischio identificati e che viene ricon-dotta ad un punteggio generato attraverso un procedimento di calcolo statistico. Per esempio lo STATIC-99 (Hanson & Thornton, 2000) e lo STABLE-2007 (Hanson, Harris, Scott, & Helmus, 2007) sono due stru-menti attuariali, utilizzati dalla comunità scientifica, in ambito clinico e forense, per esaminare i bisogni criminogenici e la probabilità di persi-stere nel reato violento e sessuali. Si tratta di due strumenti che in genere vengono utilizzati insieme e che permettono di esplorare i margini di rischio storico e dinamico negli individui coinvolti in comportamenti

(17) Per un’analisi dettagliata di questi strumenti si rimanda alla letteratura specialistica (cfr. Zara & Farrington, 2016 a; Zara, 2016 c).

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sessuali abusanti. La Psychopathy Checklist Revised (PCL-R) (Hare, 2003) è lo strumento di valutazione della psicopatia maggiormente conosciuto e utilizzato nel contesto clinico-forense, detentivo, criminologico e nella comunità. Lo strumento è stato anche adattato nel contesto italiano (Ca-retti, Manzi, Schimmenti, & Seragusa, 2011).

Per quanto riguarda gli strumenti di giudizio professionale strutturato si fa riferimento ad una valutazione integrata che rimanda a dimensio-ni di rischio basso/medio/alto, i cui margini valutativi sono organizza-ti in modo tale da direzionare l’attenzione solo a quei fattori e bisogni criminogenici prescelti e rilevanti, ma che il giudizio dell’esperto risulta essenziale nel dare significato e specificità degli stessi al caso esaminato. L’Historical-Clinical-Risk Managemente-20 (HCR20-V3) (Douglas, Hart, Webster, Belfrage, Guy, & Wilson, 2014) è uno strumento di giudizio professionale strutturato che è ora alla sua terza versione e che permette all’esperto di valutare il rischio di violenza anche in persone con distur-bo mentale. Lo START(18) (Desmarais, Nicholls,Wilson, & Brink, 2012; Webster, Martin, Brink, Nicholls, & Desmarais, 2004) è uno strumento di particolare importanza per misurare il livello di rischio generale e vio-lento nel breve termine negli individui psichiatrico-forensi.

Con l’unica eccezione degli strumenti clinici non strutturati che non vengono quasi più usati in nessuna pratica scientifica, soprattutto nel contesto forense e psicocriminologico, sia l’approccio attuariale sia quello professionale strutturato sembrano riportare una rassicurante accuratezza valutativa (Shapiro & Noe, 2015), anche se non equivalente: gli strumen-ti attuariali continuano a superare in accuratezza predittiva quelli pro-fessionali strutturati. I primi puntano sull’accuratezza della predizione, volendo identificare gli individui ad “alto rischio” dal resto della popola-zione criminale generale, al fine di prioritarizzare l’intervento su di loro. I secondi puntano l’attenzione sulla dinamicità e sulla modificabilità del rischio che è condizionata dalla trattabilità dell’individuo attraverso un

(18) I Proff. Franco Freilone e Georgia Zara stanno lavorando per l’adattamento italiano dello START. Nell’ottobre 2015 hanno firmato un contratto con il British Columbia Mental Health and Addiction Services - Forensic Psychiatric Services Commission - per portare in Italia lo strumento. Il lavoro di traduzione è stato affidato alla Dr.ssa Alessandra Damiani.

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trattamento mirato. La differenziazione tra le due generazioni di rischio consiste nel fatto che per i primi i compiti di misurazione, valutazione del rischio e intervento trattamentale devono essere deputati a momen-ti distinti dell’intervento professionale, mentre per i secondi l’interesse è l’integrazione tra valutazione, riduzione e gestione del rischio. È su questi ultimi che anche Heilbrun (2001, 2009) ritiene importante in-vestire in quanto gli strumenti di giudizio professionale permettono di incrementare la valutazione attuariale arricchendola e completandola con l’individualizzazione applicativa. Questo aspetto non è da trascurare dal momento che la valutazione del rischio non deve equivalere ad un calcolo numerico di collocamento della persona in una gerarchia di livelli diffe-renziati di rischio di ricaduta criminale e di violenza, ma deve accompa-gnare l’intervento trattamentale e promuovere la prevenzione.

Osservazioni conclusive

Si è consapevoli che anche in Italia ci si sta avvicinando sempre di più al riconoscimento che ogni valutazione clinica, forense, peritale, consulen-ziale, criminologica, trattamentale debba essere inquadrata in una solida cornice teorica, guidata da una valida metodologia, coadiuvata da stru-menti idonei e specifici che contribuiscono alla sua accuratezza progno-stica e predittiva. Non si è più nella situazione in cui ci si deve chiedere “se mai” la valutazione del rischio e i suoi strumenti saranno utilizzati nel contesto forense e psicocriminologico italiano, ma ci si trova di fronte alla questione del “quando” questo avverrà, in modo sistematizzato e formal-mente riconosciuto. La responsabilità scientifica ed etica del professioni-sta risiede nel suo essere pronto ad utilizzarli con competenza, sapendo che esistono margini di fallibilità non eliminabili, ma anche riconoscen-do il loro essenziale apporto di validità incrementale ai risultati di ogni valutazione clinico-forense e psicocriminologica.

Intervenire sugli individui autori di reato (sia che essi siano internati o condannati, oppure ospitati nelle REMS), in modo scientificamente appropriato e psicologicamente rilevante, significa per lo psicologo ri-spondere ad un mandato etico e deontologico preciso: intervenire per

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promuovere il benessere psicosociale della persona e per tutelare la società dal rischio che queste persone, una volta uscite dal carcere, dalla comuni-tà o dalle REMS, possano nuovamente ricadere in un percorso antisociale o nella violenza. Continuare a perseverare in forme di intervento che non sono scientificamente valide e clinicamente differenziate, che non risultano efficaci, che non costituiscono i prerequisiti per attivare un pro-cesso di responsabilizzazione attiva, significa non aderire ad un impegno etico (Calvi & Gulotta, 1999, 2012) e ad una responsabilità professionale (Specialty Guidelines for Forensic Psychology - APA, 2011, 2013).

Questo significherebbe inoltre non allinearsi al mandato clinico e scientifico di intervenire per evitare, da un lato, che la condizione di vita di queste persone continui ad essere compromessa o che addirittura possa peggiorare, ritrovandosi nella condizione di ricadere nuovamente nel re-ato e nella violenza, creando così, dall’altro lato, nuove opportunità di vit-timizzazione e danni alle persone e alla comunità (Gulotta, 1980; Gulotta & Vagaggini, 1981). Sullo stesso piano però si deve mettere in campo la concreta possibilità che queste persone prima o poi usciranno dal carcere o dalla comunità terapeutica perché hanno scontato la pena o perché non più “a rischio di ricaduta criminale” e rientreranno in società. Ed è pensando a queste situazioni che bisogna lavorare affinché queste persone possano essere in grado di non ricadere nel crimine: la prevenzione della ricaduta criminale e violenta (prevenzione terziaria) è la sfida più grande che la so-cietà contemporanea deve imparare ad affrontare e gestire.

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Dichiarazione sull’assenza di conflitto di interessi

L’autrice dichiara l’assenza di conflitto d’interessi nell’utilizzo e nell’ana-lisi del materiale riportato nel lavoro.

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Lo psicologo forense e l’atto diagnostico: il contributo della verità clinica nel processo

Loredana Palaziol - Psicologa, Psicoanalista SPI; Professore a contratto di Psicologia Clinica in Ambito Forense, Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, Dipartimento di Psicologia,Università degli Studi di Torino; già dirigente del Servizio di Psicologia della Casa di Cura Neuropsichiatrica “Ville Turina e Amione” (S. Maurizio Canavese); Consulente e Perito del Tribunale; Membro della Consulta Psicoforense dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte.

Il Consiglio dell‘Ordine degli Psicologi del Piemonte ha recentemen-te approvato il documento “Lo psicologo e l’atto diagnostico: conte-sto clinico e contesto forense”, realizzato dalla Consulta Psicoforense dell‘Ordine.

Si tratta di un documento (distribuito oggi ai partecipanti al Conve-gno) il cui obiettivo è quello di dare una corretta informazione e facilitare la comunicazione tra i colleghi e con i nostri interlocutori del mondo sanitario e del mondo giudiziario.

L’esigenza di esplicitare e definire le competenze dello psicologo clini-co e dello psicologo forense in ambito diagnostico nasce dall’esperienza. Ancora oggi, a quasi trent’anni dalla approvazione della legge istitutiva del nostro Ordine, si constata una mancanza di chiarezza al riguardo, che si esprime su fronti diversi: tra professionisti dell’ambiente giudiziario e tra gli stessi consulenti forensi, in particolare tra psicologi e psichiatri, ma dovremmo forse dire, anche tra gli stessi psicologi, a volte non pienamen-te consapevoli del proprio ruolo e delle proprie competenze e, per questo, non sempre in grado di contestare luoghi comuni tanto infondati quanto diffusi e radicati.

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La costruzione della ‘verità clinica’ nel processo: lo psicologo forense al lavoro

Alcuni esempi:Il primo e più radicale afferma che gli psicologi non possono fare dia-gnosi. A seguire: gli psicologi non possono fare diagnosi psichiatrica, gli psicologi non possono diagnosticare la psicopatologia, gli psicologi non possono diagnosticare disturbi di personalità, gli psicologi possono fare diagnosi “solo fino ai disturbi di personalità”, gli psicologi possono dia-gnosticare la psicopatologia, ma non utilizzare la nosografia psichiatrica ovvero la diagnosi categoriale, ecc.

Nel contesto forense l’auspicio è di poter chiarire le competenze de-gli psicologi e ridurre le incertezze sulla nomina dei consulenti tecnici da parte dei Giudici(19); di ridurre le incertezze, speculari, degli avvocati, sulla nomina dei consulenti di parte; e altresì di evitare inutili ed anacro-nistici conflitti tra colleghi impegnati all’interno delle consulenze.

La mancanza di chiarezza sulla competenza professionale, infatti, non può non ripercuotersi anche nei rapporti interni alle consulenze tra CTU e CTP, ove ancora oggi si assiste a contestazioni sulla legittimità dell’atto di quel CTU o di quel CTP, allontanando la discussione dal terreno più appropriato del confronto tra differenti posizioni cliniche.

(19) Pensiamo alla scelta del consulente tecnico da parte del magistrato in sede civile:se un periziando ha avuto un ricovero in SPDC, chi potrà fare la valutazione delle competenze genitoriali? Si dovrà nominare uno psichiatra? Si dovrà disporre una CTU collegiale psicologico - psichiatrica o psichiatrico - psicologica? Si potrà incaricare uno psicologo?Se in un procedimento di adottabilità di un minore un genitore con diagnosi di PTSD è seguito con terapia farmacologica da uno psichiatra, si dovrà nominare un CTU psichiatra per valutare la genitorialità e decidere sulla adottabilità del minore?Se nel corso di una CTU psicologica emergono trascorsi psichiatrici a carico di una delle parti (o entrambe) o, nel corso della CTU una delle parti subisceun ricovero psichiatrico, si dovrà di necessità ricorrere all’ausilio dello psichiatra per completare la valutazione?Se nel corso di una CTU un periziando manifesta un disturbo psichiatrico che non risulta agli atti, il CTU psicologo forense e tenuto a nominare un ausiliare psichiatra per completare la diagnosi? Oppure: potrà fare diagnosi, ma dovrà usare perifrasi più o meno articolate per evitare una sintesi diagnostica categoriale? E così via. A partire quindi dalle informazioni, più o meno corrette, sulle competenze professionali degli specialisti suoi ausiliari, il magistrato procederà alla nomina del consulente. Lo stesso accadrà agli avvocati, i quali, di conseguenza, si attrezzeranno per nominare i propri consulenti, specularmente, rispetto al consulente o ai consulenti del giudice

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Lo psicologo forense e l’atto diagnostico

Il documento a firma della Consulta Psicoforense dell’Ordine illu-stra le competenze diagnostiche dello psicologo in riferimento alla legge istitutiva dell‘Ordine (L. 56/89), alle normative seguenti ed ai percorsi accademici degli psicologi. Afferma, all’interno del processo diagnostico, la possibilità per lo psicologo di utilizzare la nosografia descrittiva della psicopatologia utilizzata nei manuali diagnostici in uso nella comunità scientifica in un determinato momento storico (DSM, ICD), senza che questo configuri un “abuso di professione” altrui.

Sinteticamente, ricordiamo qui che lo psicologo ha per legge (L.56/89), tra le sue competenze, l’attività diagnostica quale atto preli-minare, indispensabile, alla corretta pratica dell'attività psicoterapeuti-ca. L’atto diagnostico dello psicologo, come illustrato nel documento, comprende al suo interno anche la valutazione della psicopatologia e comprende certamente la possibilità di utilizzare la nosografia accreditata presso la comunità scientifica in un dato momento storico e culturale. Quindi, ad esempio: un disturbo sarà tale per lo psichiatra e per lo psi-cologo clinico.

L’uso delle categorie nosografiche appartiene all’atto diagnostico, anche se certamente non lo esaurisce.

Esso rappresenta un atto di sintesi ed ha la finalità di facilitare la comu-nicazione tra professionisti e con il soggetto direttamente interessato.

L’atto diagnostico realizzato dallo psicologo, nella sua qualità di clini-co, è certamente qualche cosa di più complesso e più ampio di una riduttiva identificazione o esclusione di patologia psichica, essendo rivolto anche allo studio e alla comprensione del funzionamento normale dell’individuo e delle dinamiche relazionali, normali e patologiche: di coppia, familiari, gruppali.

Si pensi ad esempio alla valutazione della capacità genitoriale in ambi-to civile. Si tratta di un atto diagnostico complesso, volto a comprendere e descrivere dinamiche relazionali che coinvolgono nuclei familiari spesso fortemente conflittuali, in cui prioritario, per chi è chiamato a valutare, è porre attenzione ai bisogni dei minori e alla qualità delle relazioni coi

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caregiver e con il contesto familiare allargato, oltre che con l’ambiente in cui sono inseriti.

In tale valutazione accade di incontrare quadri francamente psicopa-tologici, la cui diagnosi non può essere omessa, ma neppure posta a fon-damento di una valutazione negativa della genitorialità, che se si fondasse esclusivamente sulla presenza di un disturbo psichiatrico del periziando sarebbe censurabile sul piano scientifico, metodologico e deontologico.

Possiamo quindi affermare che la diagnosi che lo psicologo clinico forense realizza nella sua qualità di consulente tecnico è una “mappatura” del funzionamento psichico interno e relazionale di adulti e minori, in cui gli aspetti psicopatologici devono trovare il giusto riconoscimento e adeguata valutazione nel rispondere ai quesiti del magistrato. Un ricono-scimento e una valutazione che, quando ciò è possibile, vanno tradotti in termini categoriali ovvero in una sintesi finalizzata alla comunicazione.

Nel contesto forense, l’atto diagnostico del clinico forense, inteso nel senso etimologico del termine (processo di conoscenza), rappresenta la costruzione della ‘verità clinica’ all’interno del Processo e costituisce il fondamento su cui si basa la risposta ai quesiti del magistrato.

La ‘verità clinica’ che il clinico forense porta nel processo deve essere attendibile: • fondata scientificamente (sulla base di una riconosciuta teoria di rife-

rimento del consulente); • costruita secondo un percorso peritale valido metodologicamente, ri-

spettoso della deontologia professionale e delle più accreditate Linee Guida in materia.In assenza di questi requisiti la ‘verità clinica’ proposta al magistrato

e agli avvocati non avrà requisiti di attendibilità, affidabilità e validità Questo nel contesto penale come in quello civile.

La presenza o l’assenza di rigorose caratteristiche metodologiche del lavoro peritale si traduce in diversa qualità della ‘verità clinica’: la meto-dologia, in quanto percorso che dà forma al lavoro peritale, si traduce quindi in contenuto.

Questo significa interrogarsi su ‘come’ costruiamo la verità clinica che offriamo al magistrato (e agli avvocati), poiché è da come affronteremo

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il percorso peritale (metodologia: meta-hodos, la strada che si percorre) che dipenderà la qualità della nostra valutazione (sul piano clinico), l’atten-dibilità delle risposte ai quesiti (sul versante clinico -processuale) ed anche, ultima, ma non meno importante, dalla metodologia dipenderà l’esistenza o meno di un percorso peritale realmente condiviso e condivisibile tra le parti (CTU e CTP), che si serva di “procedure di garanzia”, nel rispetto di un sostanziale e non solo formale principio del contraddittorio, che tengano conto delle peculiari caratteristiche dell’oggetto di indagine della valutazio-ne peritale clinico-forense : persone e non oggetti inanimati.

Non si tratta, infatti, di valutare oggetti le cui caratteristiche sono fissate nel fascicolo processuale, ma soggetti che prendono forma e si rivelano nel procedere delle operazioni peritali, all’interno di una relazione che si instaura tra l’osservatore e la persona osservata, consentendo in tal modo di acquisire dei dati di conoscenza a tutti gli effetti nuovi e non presenti nel fascicolo.

I periziandi sono soggetti in divenire, le cui caratteristiche di funzio-namento psicologico (normale e patologico) si esprimono nell’incontro peritale, dentro una relazione significativa col consulente/perito, portan-do sempre nuovi dati di conoscenza (evidenze cliniche); dati, che, nel contesto giudiziario, devono essere condivisi integralmente tra consulenti perché ciascuno possa svolgere adeguatamente il proprio ruolo nel pro-cesso.

Esigenze cliniche ed esigenze processuali devono quindi trovare risposta nella metodologia peritale. Perché ciò avvenga non possiamo immaginare di trasporre la metodologia clinica nel contesto forense, ignorando le pe-culiarità di quest’ultimo.

In particolare dobbiamo porre attenzione al concetto di setting, quale parte integrante della metodologia, ed essere consapevoli del fatto che il setting clinico non è il setting peritale e con questo non deve essere confuso.

Occorre allora sottolineare come una semplice trasposizione del set-ting clinico nel contesto forense (di qualsiasi modello teorico si tratti!) non sia né praticabile, né sostenibile scientificamente, oltre che in taluni casi, in aperto contrasto con le esigenze del processo che, come consulen-ti, siamo tenuti a rispettare.

Non è sostenibile ad esempio (eppure la sentiamo troppo frequen-

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temente riproporsi), l’affermazione secondo la quale, se il CTU è uno psicoanalista oppure dichiara una formazione psicoanalitica, questi non videoregistra gli incontri col minore (assenti i CTP) perché “il setting psi-coanalitico non lo prevede” e la video registrazione sarebbe un “disturbo” alla relazione osservata.

È questo un esempio di confusione tra ruolo clinico terapeutico e ruolo peritale, valutativo.

Una confusione che trasforma in “disturbo” ciò che all’interno del processo rappresenta una garanzia del rispetto del contraddittorio tra le parti e, insieme, una garanzia clinica che rende le evidenze cliniche ac-quisite fruibili da tutti i soggetti rappresentati nel processo. In assenza di tali procedure di garanzia, va detto chiaramente che i consulenti di parte, ad esempio, non potranno fare altro che esprimere delle opinioni (e non valutazioni!) sulla valutazione del CTU, prive di fondamento clinico.

D’altro canto, che la psicoanalisi non preveda la presenza di stru-menti di registrazione nel setting clinico dipende semplicemente dal fatto che questa nasce e si declina secondo teorie e tecniche nell’ambito della cura ovvero in un ambito, al contrario di ciò che viene richiesto in tribunale, in cui siamo tenuti a sospendere ogni tentazione valutativa e di giudizio, al fine di comprendere empaticamente il nostro paziente per accompagnarlo nel suo (e nostro) percorso di cambiamento.

È anche evidente, qualunque sia il modello teorico clinico di ri-ferimento che applichiamo, che nel percorso di cura, all’interno del contesto contesto clinico, non dobbiamo “valutare”, non dobbiamo rispondere ai quesiti di un committente “terzo”, non dobbiamo argo-mentare le nostre diagnosi o i nostri interventi e non dobbiamo esporci al confronto clinico con colleghi che rappresentano le parti in causa (ed in conflitto) dentro al processo.

Un contesto, quello clinico terapeutico, in cui, diversamente da ciò che accade nel forense, non abbiamo il dovere di rendere disponibili le nostre valutazioni a professionisti con competenze diverse, che le utilizzeranno per decidere sulla sorte di adulti e minori all’interno di vicende giudiziarie.

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È dunque indispensabile saper adattare le competenze cliniche al con-testo specifico che richiede il nostro contributo in quanto specialisti: un adattamento che si realizza in primo luogo a partire dalla consapevolezza che valutare nel contesto giudiziario non è curare; dalla consapevolezza che nessun modello teorico clinico nasce nel contesto giudiziario e per-tanto la pretesa di una semplice trasposizione da un ambito all’altro è priva di fondamento scientifico.

Infine, come psicoanalista, mi permetto di suggerire l’importanza di non confondere il “setting”, inteso nel suo insieme di regole di condotta e di caratteristiche ambientali di accoglienza del paziente, con il “setting mentale” ovvero con il setting interno dell’analista, unico vero strumento che si presta ad una trasposizione in contesti diversi dalla stanza di analisi: al reparto di diagnosi e cura di un ospedale, al servizio di salute mentale territoriale, al servizio di psicologia, al servizio di neuropsichiatria infan-tile, al Tribunale, in tutti quei contesti, cioè, nei quali lo psicoanalista, come scrive Racamier, si trova ad operare “senza divano”.

È allora necessario pensare in modo specifico alla metodologia peri-tale come metodologia clinico forense: cioè come metodologia che sappia integrare e rispettare contemporaneamente le esigenze cliniche e quelle forensi.

In tal senso, i punti qualificanti sono:• le “procedure” (ciò che il perito/consulente fa e con quali strumenti )

che debbono costituire atti di “ garanzia” e connotano il setting peri-tale;

• la metodologia in senso stretto.

1) Le “procedure di garanzia”: servono a garantire la validità dei dati clinici acquisiti, a consentirne la condivisione tra consulenti e a costituire una documentazione di valore storico e processuale, anche in successivi gradi di giudizio. Questo, in un contesto, quale quello forense, in cui la clinica deve necessariamente poter mantenere una propria autonomia scientifica e metodologica, ma deve sapersi altresì declinare in comporta-menti di garanzia che tutelino tutte le parti in gioco (soprattutto i mino-ri) e rispettino il “processo” nei suoi diversi gradi di giudizio, nella con-

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sapevolezza che esistono gradi di giudizio successivi in cui le risultanze peritali potranno essere riconsiderate e rivalutate: a patto che siano state raccolte correttamente e documentate in modo completo, fatto questo tutt’altro che scontato.

In questa ottica diventano indispensabili, sul piano clinico, il rispet-to delle Linee Guida accreditate nella comunità scientifica, insieme al rispetto rigoroso delle procedure qualificanti le diverse fasi del lavoro peritale (corretta conduzione dei colloqui clinici, corretta applicazione dei test secondo i manuali di riferimento, ecc.); sul piano forense, l’au-dioregistrazione degli incontri peritali con gli adulti e la audiovideoregi-strazione degli incontri col minore.

Le procedure indicate consentono, dal punto di vista clinico, a tutte le parti implicate nella consulenza tecnica o nella perizia di esprimersi su evidenze cliniche condivise e attendibili sul piano scientifico, ovvero su dati grezzi realmente utilizzabili ai fini della valutazione clinica: dal CTU e dai CTP, nello stesso modo.

Per quanto riguarda in particolare i CTP: è importante ribadire che una valutazione clinica che si esprima in assenza di tali dati ovvero, ad esempio, su di una relazione genitore-minore non osservata ma acqui-sita in forma di riassunto verbale della stessa, non avrà alcuna validità clinico scientifica. Nè sarà possibile, in assenza di una diretta (seppure differita) osservazione della relazione stessa, esprimere commenti sulla metodologia utilizzata dal CTU nell’osservazione della relazione ogget-to di valutazione.

2) La metodologia in senso stretto: propongo di riservare questa definizione al “come” le procedure peritali sono state applicate; al per-corso mentale e logico argomentativo che il consulente utilizza per dare significato, attraverso la valutazione, alle evidenze cliniche raccolte e rispondere ai quesiti del magistrato.

Su questo secondo aspetto della metodologia peritale le parti posso-no esprimersi, in accordo o in disaccordo, solo dopo il deposito della relazione peritale. Gli aspetti procedurali, al contrario, possono essere oggetto di condivisione e di accordo tra le parti all’inizio e nel corso delle operazioni peritali.

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La metodologia in senso stretto potrà essere oggetto di osservazioni rispetto:• alla corretta applicazione delle procedure del percorso di valutazione;• alla coerenza tra modello teorico scientifico del consulente e processo

di valutazione clinico forense;• alla solidità logico argomentativa dell’impianto peritale;• alla acquisizione, integrazione od omissione, nel percorso di valuta-

zione, di dati utili e significativi dal vertice clinico forense. Ad esem-pio sull’integrazione o meno dei dati contenuti nel fascicolo processuale e sul significato clinico ad essi attribuito.Avremo allora due aspetti della metodologia: uno relativo a “che cosa

facciamo” e “con quali strumenti”, che attribuirei alla “procedura”, ed un secondo aspetto, metodologico in senso stretto, che si riferisce al “come facciamo”, cioè al processo mentale del consulente, al percorso logico ar-gomentativo, che segue nell’integrare tra di loro i dati rilevanti ai fini del-la valutazione. Un percorso mentale che deve fondarsi su di una teoria cli-nica di riferimento, che a sua volta va esplicitata nella relazione peritale.

Il confronto clinico tra le parti attiene a questo secondo aspetto, men-tre il primo (la procedura) rappresenta il terreno su cui costruire l’accordo preliminare tra consulenti, rispetto a come procedere nella valutazione.

Desidero sottolineare questi due diversi momenti, per evidenziare come l’accordo tra consulenti sulla metodologia del lavoro peritale possa esprimersi solo a posteriori, ovvero nel momento in cui le parti acquisi-scono la relazione peritale e, a quel punto, hanno la possibilità di valutare la sostenibilità del percorso clinico forense svolto dal Consulente del Giu-dice sul piano scientifico e metodologico, a partire dall’impianto logico argomentativo del lavoro peritale.

Il tema relativo al ruolo ricoperto dal fascicolo processuale nella valuta-zione clinico forense è forse quello che meglio di altri si presta, soprattutto nelle consulenze in ambito civile, ad illustrare il fatto che la metodologia, non solo rappresenta la forma che il consulente dà al percorso peritale, ma ne connota in modo sostanziale i contenuti, ovvero la qualità della Verità Clinica che attraverso la consulenza tecnica viene introdotta nel processo.

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È fondamentale, infatti, il ruolo che viene attribuito al fascicolo pro-cessuale nella valutazione clinica: a seconda della posizione assunta dal CTU, si potrà avere la costruzione di “verità cliniche” diverse. Anche molto diverse tra di loro se non addirittura contrapposte, in alcuni casi.

La sorte del fascicolo processuale nella CTU psicologica in ambito civile ha subìto nel tempo alterne vicende. Tuttoggi esistono posizioni molto diverse tra gli stessi consulenti.

Vi è chi lo ignora perché lo considera un “disturbo” nella relazione con il periziando, una fonte indebita di influenzamento; chi lo definisce “espressione dell’opinione delle parti”; chi lo reputa una “cornice”, di cui peraltro resta da definire il ruolo nella valutazione; chi lo ritiene un con-tenitore di “fatti” di esclusiva competenza del magistrato e dell’avvocato; chi lo considera una fonte ineliminabile di informazioni da integrare nel-la valutazione clinica e dunque da conoscere a fondo nei suoi contenuti anche per orientare il percorso peritale.

Non è questa certamente la sede per analizzare nel dettaglio le im-plicazioni delle diverse posizioni nei riguardi del fascicolo processuale e dunque della “ verità processuale”.

Desidero tuttavia sottolineare come ognuna di queste posizioni deter-mini la scelta di un percorso metodologico diverso e di conseguenza la costruzione di verità cliniche che possono essere sostanzialmente diverse.

Vignetta clinico-forenseApprendiamo dal fascicolo processuale che i genitori di Monica (nome di fantasia) provengono da un paese extracomunitario, entrambi da famiglie di umili origini e scarsamente acculturate. La madre si trasferisce in Italia col marito, dopo il matrimonio. Dopo un anno nasce M.

Il giorno del primo compleanno di M., la madre viene “convinta” dal marito a partire per il paese d’origine, senza la figlia. Egli glielo comunica il giorno prima, mentre le acquista i biglietti.

Nonostante la sua contrarietà, la signora obbedisce alla volontà del ma-rito e parte, convinta che si tratterà di una brevissima separazione da M.

Giunta a destinazione, i famigliari del marito le sottraggono i docu-menti di identità e il permesso di soggiorno italiano. Dopo 20 mesi di

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traversie burocratiche, la signora farà rientro in Italia. Nel frattempo ha perso i contatti con la figlia e col marito: egli, poco dopo la sua partenza, le ha comunicato telefonicamente che la loro relazione era terminata e della figlia si sarebbe occupato lui, rendendosi in seguito irreperibile.

La lettura degli atti processuali dà delle informazioni sulle condotte pater-ne: due giorni dopo la partenza della moglie, egli la denuncia per “abban-dono della casa coniugale”, dichiarando che sarebbe irreperibile e ignota la sua destinazione; un mese dopo presenta istanza di scioglimento di matrimonio e un anno dopo si risposa con una connazionale.

Nel frattempo il Tribunale estero, in primo grado, affida la bimba alla madre (che non può ricongiungersi con la figlia), ma, in secondo grado, ribalta l’affidamento perché nel frattempo la bimba è cresciuta col padre ed egli è divenuto “figura stabile di riferimento”.

Le sentenze a carico del padre di M. contenute nel fascicolo processuale: condanna di primo grado a tre anni di reclusione per “sottrazione di per-sona incapace e calunnia”, per avere sottratto la figlia alla madre “con un disegno criminoso” e averla falsamente incolpata di abbandono del do-micilio coniugale; due condanne per “dolosa inosservanza del provvedi-mento del giudice”(ostacolo agli incontri madre-figlia, rifiuto di condurla in Luogo Neutro; rifiuto di abbandonare fisicamente il Luogo Neutro).

Mentre la CTU era in corso, il GIP emetteva una nuova imputazione a carico del padre per lo stesso reato: “dolosa inosservanza del provvedi-mento del giudice”.

Al suo rientro in Italia, la signora non sa dove si trovi la figlia. L’in-tervento dei Servizi Sociali e dell’Autorità Giudiziaria consentirà il loro riavvicinamento, ma il padre vi si opporrà con tenacia e costanza negli anni, rifiutando sempre di sottostare ai provvedimenti del TM: per quat-tro anni egli impone la sua presenza in Luogo Neutro, con atteggiamenti ostili e minacciosi verso la madre di M.; rifiuta di osservare successiva-mente l’ampliamento delle visite madre-figlia; impedisce la presa in cari-co psicologica ed educativa della figlia da parte dei Servizi (ampie e detta-gliate relazioni dei Servizi documentano le condotte paterne e materne).

Il Pubblico Ministero presso il TM, preso atto degli ostacoli paterni agli incontri madre-figlia e constatata l’influenza negativa sulla bambina

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di tali condotte, propone di dichiarare la decadenza della potestà genito-riale paterna. Il TM si dichiara incompetente e rinvia al Tribunale Ordi-nario, che dispone CTU per la valutazione delle capacità genitoriali: nel frattempo M. ha compiuto 9 anni e rifiuta attivamente e aggressivamente la madre, con l’accusa di averla abbandonata quando aveva un anno.

Quella che segue è, sinteticamente, la valutazione clinica dei genitori e della minore proposta dal CTU e la risposta al magistrato in merito alla collocazione. Si tratta di una valutazione che esclude, scientemente, la considerazione dei dati processuali prima citati:

“Si è evidenziato un quadro relazionale tra i due contesti familiari, paterno e materno, complesso (…) La situazione è bloccata su posizioni irrigidite che penalizzano in modo importante Monica (…) La signora non si è integrata,(…) Il fallimento dell’unione ha determinato agiti riven-dicativi e la conflittualità si è accresciuta (…) Questo quadro carico di ambivalenze, aggressività, rivalse ha prodotto pesanti ricadute sulla bam-bina e ha distanziato sempre di più i genitori dalle proprie responsabilità (…) Come spesso accade nelle vicende ad alta conflittualità le due versioni divergono (…)”

Su Monica: “M. ha sicuramente costruito con il padre e la sua nuova famiglia un legame affettivo importante (…) Appare comprensibile la sua maggiore sensibilità verso il sentire paterno, genitore che l’ha accom-pagnata nei suoi anni di crescita, prefigurandosi quale legame affettivo costante affidabile. (…) Diversamente il rapporto con la madre è stato segnato fin dalla tenera età da vissuti di abbandono (…) la conflittualità insistita tra i genitori non l’ha sostenuta verso un accesso più libero alla madre (…)”.

In conclusione: “si conferma la collocazione della minore Monica presso il padre”, “figura che negli anni ha saputo darle una presenza stabile e costante.”

Concludo queste brevi considerazioni, proponendo alcuni spunti di riflessione: la ‘verità clinica’ offerta dal CTU al magistrato avrebbe potuto essere la stessa se i contenuti del fascicolo processuale fossero stati consi-

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Lo psicologo forense e l’atto diagnostico

derati (dal vertice clinico) e integrati nella valutazione clinico-forense? Quale fondamento metodologico (e deontologico) si può attribuire

all’esclusione del fascicolo processuale dalla valutazione clinico-forense? È sostenibile, scientificamente e metodologicamente, che “i fatti” con-

tenuti nel fascicolo processuale interessino esclusivamente i magistrati e gli avvocati e non abbiano rilevanza nella costruzione della ‘verità clinica’?

Bibliografia

Ackerman, M., Essentials of Forensic Psychological Assessment, John Wiley & Sons, NY, 1999, in Freilone, F., 2016, cit.

AIPG, Linee guida deontologiche per lo psicologo forense, Torino, 1999.

AIPG, Aggiornamento delle Linee guida per lo psicologo giuridico in ambito civile e penale, Roma, 2009.

Calvi, E., Gulotta, G., Il Codice Deontologico degli Psicologi, Giuffrè, Mi-lano, 1999.

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Consulta Psicoforense dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte, Lo psico-logo e l’atto diagnostico: contesto clinico e contesto forense, OPP – Consiglio Regionale del Piemonte, Torino, 2016.

Fornari, U., Trattato di Psichiatria Forense, VI edizione, Utet, Torino, 2015.

Freilone, F., La psicodiagnostica forense: questioni deontologiche e questioni di metodo, in Zara, G., Presutti, M., Calvi, E., Lo psicologo tra l’essere e il fare: deontologia psicologica in ambito psico-criminologico, forense e della ricerca, Publiedit, Cuneo, 2016.

Palaziol, L., La valutazione psico-forense della ‘capacità genitoriale: incontro o scontro metodologico? , Convegno Nazionale “Legal-mente: al di là della

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La costruzione della ‘verità clinica’ nel processo: lo psicologo forense al lavoro

psichiatria forense”, Palermo, 7-8-9 ottobre 2014.

Palaziol, L., Lo psicologo in ambito forense. La valutazione della capacità genitoriale nelle separazioni e nei divorzi tra metodologia e deontologia pro-fessionale, in Zara, G., Presutti, M., Calvi, E., Lo psicologo tra l’essere e il fare: deontologia psicologica in ambito psico-criminologico, forense e della ricerca, Publiedit, Cuneo, 2016.

Racamier , P.C., Lo psicoanalista senza divano. La psicoanalisi e le strutture psichiatriche, Raffaello Cortina, Milano, 1982.

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Qualche riflessione deontologica sull’attività dello psicologo in ambito forense

Eugenio Calvi - Avvocato, Psicologo, Psicoterapeuta; primo Presidente dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte; Coordinatore prima Commis-sione Nazionale per il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani.

Vorrei condividere con voi qualche riflessione di natura deontologi-ca (e, marginalmente, metodologica) sull’attività dello psicologo in am-bito forense, ambito che presenta alcune particolarità ben note, dal mo-mento che in esso si coniugano conoscenze in discipline diverse, e perché qui lo psicologo si confronta con colleghi, ma anche con opera-tori di differenti professioni, in particolare con giudici e avvocati, a vol-te con psichiatri, assistenti sociali e operatori dei Servizi.

Comincio col fare riferimento a quanto richiede il nostro Codi-ce Deontologico, che prescrive alcuni obblighi allo psicologo: innanzi-tutto, è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione profes-sionale e ad aggiornarsi, specificamente nel settore in cui opera, e in secondo luogo deve avere piena consapevolezza dei limiti delle pro-prie competenze e una soddisfacente conoscenza degli strumenti teori-co-pratici utilizzati (art. 5).

Ora questa norma, che ha un carattere generale, deve essere at-tentamente meditata, ovviamente da tutti, ma in particolare da chi si af-faccia a questo ambito privo ancora di un adeguato addestramento ed anche da chi è sul campo da lungo tempo, e non può e non deve confon-dere l’esperienza con una idonea preparazione. La cosiddetta “formazio-ne permanente”, che è stata qui richiamata, ha pure un valore!

E qui mi rivolgo all’Ordine perché, d’intesa con l’Università, inter-

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venga incisivamente nel settore formativo non meno che in quello di-sciplinare, per dare da un lato gli strumenti teorici e pratici adegua-ti ad esercitare con decoro la professione, e dall’altro per impedire che di tale professione venga data una pubblica immagine negativa e morti-ficante.

Ciò assume una particolare importanza se si conside-ra che la nostra professione è in progresso, molte novità si affacciano sul-la scena e chiedono di essere considerate: il che è senza dubbio un fat-to positivo, testimone di una positiva vitalità, purché tali novità siano scientificamente fondate e deontologicamente corrette.

A proposito delle competenze vorrei accennare a un aspet-to - non certamente il solo - che riguarda la formulazione e la va-lutazione dei quesiti. È questo un caso in cui si incontrano competenze diverse, per cui il medesimo contenuto deve essere ca-librato sia sulle necessità processuali (e queste sono note al giudi-ce e agli avvocati), sia sulle competenze del consulente, al quale devo-no essere poste delle richieste che siano satisfattibili.

E poiché, come accennavo, è questa una situazio-ne in cui convergono professionalità diverse, va sottolineato che ciò im-plica un rapporto mai di subordinazione, quanto invece di “collaborazione competente”, che deve estrinsecarsi, quando occor-re, anche nella discussione e nella definizione comune dei quesi-ti, che devono di necessità essere compatibili con le competenze del consu-lente. Il quale è tenuto a rifiutare, in casi limite, il mandato ove questo non possa essere scientificamente e deontologicamente adempiu-to. Il che – ovviamente – richiede una identità professionale perfetta-mente definita ed una precisa conoscenza dei limiti del proprio sape-re e delle proprie abilità.

Un esempio di impropria collaborazione, che a volte può diveni-re una vera sudditanza, ovvero un esempio di mancata conoscen-

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Qualche riflessione deontologica sull’attività dello psicologo in ambito forense

za delle proprie competenze, sta nel caso della cosiddetta “consulen-za trasformativa”, di cui si sente parlare da qualche tempo nelle CTU di valutazione delle competenze genitoriali.

Qui occorre innanzi tutto intendersi sul significato dei termini.

Sul piano letterale, tale definizione rappresenta un “ossimo-ro”, e cioè l’unione di due termini aventi significati opposti. In effetti, “con-sulenza” significa produzione di pareri, di indicazioni basate su un par-ticolare bagaglio tecnico-scientifico, su specifiche conoscenze, avente ad oggetto un elemento di realtà come si presenta; l’aggettivo “tra-sformativo” richiama il compito di cambiare, di modificare, di incide-re sulla realtà per mutarla. Ma poco male sarebbe se il problema rimanes-se confinato in una dimensione linguistica.

Il fatto è che, sul piano deontologico, il concetto di “consu-lenza trasformativa” è assolutamente improprio. Abbiate la pazienza di se-guirmi per qualche minuto. Che rapporto esiste fra periziando e con-sulente d’ufficio? Non c’è sicuramente un mandato, un incarico, un affidamento, una scelta fiduciaria: c’è, soltanto, la sottomissio-ne alla legge, legge che si concretizza in un ordine del giudice che sta-bilisce l’esistenza, i tempi e le modalità della consulenza, con un in-sieme correlato di obblighi per tutti i soggetti coinvolti, e fra questi anche per il periziando: il quale, certamente, a questi obblighi può sot-trarsi, ma pagandone un prezzo a volte assai salato.

Ora è profondamente e irrimediabilmente illecito, sul pia-no deontologico, trasformare d’imperio la qualità di un rap-porto, facendolo diventare qualcosa di assai diverso: dove l’obbiettivo del “conoscere” si trasforma in quello di “modifica-re”, e dove, per il periziando, la condizione di “essere conosciuto” diven-ta quella di “essere trasformato”. E ciò, si badi, non accadrebbe per un ac-cordo fra le parti – accordo che, non essendo libero, non sarebbe comunque valido - ma per un mandato che proviene dall’ester-

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no, a sfondo vagamente psicoterapeutico. Possiamo pensare che quan-do l’avvocato spiega al cliente che richiederà una CTU al fine di de-finire l’affidamento e la collocazione della prole, chiarisca che si aspetta anche una “trasformazione” dei rapporti fra i coniu-gi e fra questi e i figli? E che il cliente acconsenta al riguardo, sen-za neppur conoscere chi sarà il soggetto agente questa trasformazio-ne? Sono domande puramente retoriche, già conosciamo le risposte.

Ancor più grave e deontologicamente ancor meno lecito sa-rebbe se tale mutamento, inizialmente non previsto, fosse propo-sto in corso d’opera, e dunque nella condizione di debolezza della par-te, non libera e non spontanea nella sue decisione quanto, piuttosto, incline a sottomettersi e a compiacere chi, in quel frangente, è percepi-to come colui che ha nelle sue mani la sua sorte e il suo destino, e quel-lo dei figli.

Sul versante metodologico, infine, questo tipo di consulen-za è inaccettabile. Essa trova le sue radici anche – ma non solo – nei vis-suti di onnipotenza dello psicologo (in questo caso del CTU): il qua-le può fantasticare di risolvere i problemi dei suoi periziandi con pochi e concisi interventi, perfettamente mirati, che seguono necessa-riamente a una esatta comprensione dei vissuti degli utenti medesi-mi, vissuti che, ovviamente, devono poter essere colti con immediatezza.

Ma la consulenza, per sua ineludibile natura e perché così chie-de la legge, è schiettamente “valutativa”: se vogliamo, in sen-so assai ampio, diagnostica. Lo dicono esplicitamente, e senza possibilità di equivoci, sia l’art. 220 del codice di procedura pe-nale, sia una consolidata giurisprudenza. È posta come un’ope-razione di conoscenza tecnica, nella quale ad un soggetto competen-te in uno specifico campo viene richiesto di compiere le opportune indagini onde fornire al giudice dei pareri motivati e dei suggerimen-ti, in risposta ai quesiti dal giudice stesso posti. Ma “valutare” e “inda-gare” nulla hanno a che fare con “trasformare”: anzi, metodologicamen-

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Qualche riflessione deontologica sull’attività dello psicologo in ambito forense

te vi è una incompatibilità assoluta fra i due concetti, come ben sa o dovrebbe sapere chi pratica la psicoterapia sotto qualsiasi forma.

In effetti, in campo psicologico, “trasformare” significa con-sentire al paziente di vivere una esperienza relazionale nuo-va, che gli permetta di sperimentare nuove modalità di rapporto con i suoi oggetti interni ed esterni: il che implica fornire, innanzitut-to, un amplissimo spazio di libertà. Questa libertà rimanda alla qua-lità del “setting”: in quale setting la libertà è una condizione irrinun-ciabile? Evidentemente, nel setting clinico, al quale è del tutto estranea ogni forma di giudizio. Ma qui, nella consulenza, si tratta di un set-ting clinico-forense, che è ben altra cosa. Di quale libertà gode mai il pe-riziando? Domanda, anche questa, puramente retorica, dal momen-to che il periziando è sotto la lente della valutazione, e cercherà in ogni modo di presentare una immagine di sé favorevole.

E poi, notazione marginale, se volete: ma quanto tempo dovreb-be durare una CTU per ottenere una qualche trasformazione del pe-riziando e magari della sua costellazione familiare? Sono tempi com-patibili con quelli del “giusto processo”?

Si obbietta: più che trasformare, conta “gettare i semi” per una trasfor-mazione. Ma che cosa significa? Certamente, l’esperienza di una consu-lenza può ben avere, indirettamente, un effetto maturativo, come d’altra parte ogni occasione relazionale: può ben consentire di mettere a fuo-co certi problemi, di coppia o di genitorialità, può agevolare la riflessione sulle relazioni che intercorrono all’interno del contesto familiare, può di-venire occasione di definizione e di comprensione dei problemi ir-risolti. Per contro, può anche essere un’esperienza traumatica e negati-va. Ma quello che mi sembra di poter affermare è che tutto ciò può essere considerato solo una conseguenza “indiretta” ed “eventuale” del vive-re l’esperienza della consulenza: non già frutto di un proposito. La “inten-zionalità trasformativa” mi sembra, per le ragioni che ho esposto, del tut-to fuorviante, e deontologicamente e metodologicamente non accettabile.

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E allora, onestà intellettuale e corretto uso dei termini voglio-no che non si parli di “trasformazione”, quanto, piuttosto, di at-teggiamento attento, accogliente e comprensivo del CTU, stimolan-te empateticamente una riflessione sugli eventi e sui vissuti; se poi tale riflessione, in futuro e in una sede differente, possa condur-re a prendere consapevolezza della utilità di farsi aiutare psicologicamen-te, è un’auspicabile conseguenza, ma certamente non l’obbiettivo del-la consulenza.

Ancora: qualcuno obbietta che la tradizionale consulenza si limi-terebbe ad essere una semplice “fotografia” dell’esistente.

Lo contesto: la consulenza certamente fotografa la realtà, o alme-no ci prova, ma va ben al di là, poiché tenta di darne spiegazione, utiliz-zando quelle competenze specifiche, che per noi psicologi sono le com-petenze cliniche, la conoscenza dei processi psichici, che permettono di “dare un senso” a ciò che appare. Se davvero lo scopo della consulen-za fosse solo quello di “fotografare” la realtà, ben potrebbe farlo il giudi-ce, senza bisogno di esperti.

Tornando all’esempio della “CTU trasformativa”, non vor-rei che pensaste che queste argomentazioni appartengano sol-tanto a chi vi parla, perché trovano il conforto anche nella giurisprudenza, oltre che nei codici. Sul tema che ci riguarda, la Cassa-zione, con la sentenza del 1° luglio 2015, n. 13506, ha in modo as-sai esplicito affermato che i giudici non possono prescrivere psicote-rapie o percorsi di sostegno alla genitorialità alle coppie che si separano (e ciò vale per le sentenze, ma non meno per le consulenze), violan-do simili prescrizioni il “diritto alla libertà personale garantito dal-la Costituzione”, anche perché, pur se non costituisce un vero ob-bligo a carico delle parti, comunque le condiziona ad effettuare un percorso che confligge con l’art . 32 della Carta costituzionale (“Nessu-no può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per di-sposizione di legge”); tra l’altro, questo tipo di precetto esula dai po-

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teri del giudice. Altro, evidentemente, è il monitoraggio dei Servizi sociali, giustificato in quanto collegato all’osservazione dei mi-nori. Perché - aggiunge la Corte e questo ci interessa – la finali-tà di superamento della condizione di immaturità della coppia geni-toriale esula dai poteri del giudice e non può che essere affidata al loro diritto di autodeterminazione.

Ciò per dire: ciascuno faccia il suo mestiere. Il CTU valuti e suggeri-sca, il giudice giudichi e dia le prescrizioni che gli competono per leg-ge sulla responsabilità nella separazione personale fra coniugi e sull’af-fidamento e collocazione dei minori; altri assumano il ruolo di psicoterapeuti o di mediatori: e questi ultimi solo e unicamente per ini-ziativa e con il libero consenso degli interessati.

BibliografiaCalvi, E., Gulotta, G., Il Codice Deontologico degli Psicologi, Giuffrè, Mi-lano, 1999.

Calvi, E., Gulotta, G., Il Codice Deontologico degli Psicologi (aggiornamen-to), Giuffrè, Milano, 2012.

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La C.T.U. nei procedimenti di separazione e divorzio: la metodologia del consulente

Cesare Castellani - Presidente della Sez. VII civile presso il Tribunale di Torino.

1 – Vorrei iniziare osservando come su un piano generale – a livello con-cettuale – si debba riconoscere che la C.T.U. psicologica nei procedi-menti relativi alla crisi familiare e all’affidamento dei figli costituisce un accertamento che assume una portata di tipo essenzialmente decisorio, in ausilio al giudice, piuttosto che, rifacendosi a una bipartizione tradi-zionale, di carattere istruttorio. Il consulente d’ufficio – detto con parole semplici da tempo evocate dalla dottrina – in questi casi “consiglia” e non solo “constata”.

Si è infatti in presenza di un’indagine ad ampio raggio che, andando al di là degli incarichi tradizionali volti ad approfondire le personalità individuali dei genitori e dei figli minori, si è evoluta con l’obiettivo di ricostruire le dinamiche della famiglia su un piano sistemico-relazionale e le modalità di funzionamento del gruppo, non solo per evidenziare carenze o vere e proprie patologie di questo o quel componente, ma – so-prattutto – per individuare e suggerire quelle modificazioni che possano favorire nuovi assetti più equilibrati e compatibili con il benessere dei figli a seguito della disgregazione del nucleo familiare (20) .

Il “peso specifico” della consulenza nel complesso del materiale de-cisorio appare ancor più rilevante per la possibilità data al consulente d’ufficio:

(20) Filippo Danovi, Il processo di separazione e divorzio, Giuffrè Editore, Milano, 2015, p. 449.

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a) di avvalersi di test proiettivi (intellettivi o sulla personalità), sulla base di un proprio apprezzamento delle esigenze del caso;

b) di considerare e utilizzare le risultanze delle relazioni sociali e psi-cologiche a cura dei Servizi del territorio acquisite agli atti, potendo in tal modo disporre di uno “spettro temporale di indagine” più ampio di quello corrispondente ai tempi per lo svolgimento dell’incarico.

La rilevanza dell’accertamento peritale ai fini del decidere è ulterior-mente amplificata da alcuni aspetti che connotano i saperi che entrano in campo: la psichiatria ma soprattutto la psicologia e la psicoanalisi, settori in cui sono attive varie scuole e metodologie cliniche.

Può accadere, pertanto, che di fronte a un insieme molto articolato di informazioni e deduzioni anche complesse nel processo si sviluppi una dialettica che difficilmente può essere “gestita” dal magistrato sulla base dei suoi abituali strumenti di conoscenza di tipo giuridico o anche cul-turale, sicché la questione se in questi casi si realizzi una vera e propria delega della decisione in ordine agli assetti familiari che la sentenza potrà recepire e realizzare pare tutt’altro che teorica o fuori luogo.

A mio parere gli unici rimedi contro possibili degenerazioni e deleghe “in bianco” sono rappresentati da una specializzazione del giudice che deve occuparsi della materia della Famiglia e dei Minori, in modo da con-dividere, almeno in parte, grazie all’esperienza, il linguaggio e le nozioni scientifiche di cui si discute, e un percorso decisionale e argomentativo del provvedimento decisorio in cui la valutazioni psicodiagnostiche siano impiegate con molta cautela e attenzione e sempre in stretta correlazione ai fatti storici e ai comportamenti attraverso cui la vicenda familiare si è sviluppata.

Non meno importante sarà verificare la competenza e completezza dell’indagine e la coerenza logica tra i dati di partenza e le soluzioni pro-spettate (in analogia a quanto il giudice d’appello fa nei confronti della pronuncia di primo grado).

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La C.T.U. nei procedimenti di separazione e divorzio: la metodologia del consulente

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2 – Altra questione su cui soffermarsi è quella della scelta se disporre o meno la C.T.U. nel procedimento di separazione e i suoi presupposti, stante la possibile alternativa tra C.T.U. e approfondimenti dei Servizi sociali e di NPI / Psicologia infantile, laddove ciascun percorso ha proprie prerogative e limiti.

Lasciando da parte, perché superato, il dibattito circa la validità e la portata delle informazioni dei Servizi locali come mezzo di convincimen-to del giudice, mi pare si debba osservare che , pur essendo le relazioni in-formative a cura dei Servizi sociosanitari molto diffuse nelle cause relative alla crisi familiare, lo strumento della C.T.U. si rivela insostituibile lad-dove siano da verificare la personalità e la capacità educativa dei genitori e vi sia motivo per ritenere, o quanto meno per supporre ragionevolmente, che i soggetti presentino un disagio o vera e propria psicopatologia che possa compromettere la funzione genitoriale; in questi casi lo specialista potrà procedere anche attraverso la somministrazione di test e colloqui clinici, che per gli operatori sarebbe difficile utilizzare, vuoi per eventuale rifiuto o mancanza di collaborazione dei periziandi, vuoi perché un iter di questo tipo potrebbe compromettere la relazione di aiuto ai componenti del nucleo familiare che di regola caratterizza il lavoro dei servizi.

Nei procedimenti di separazione e divorzio la consulenza d’ufficio è inoltre suggerita in presenza di situazioni descritte dalle parti (dai co-niugi) in termini fortemente divergenti, allegando l’altrui inadeguatezza educativa o in presenza di conflittualità gravi e strutturate.

È bene precisare, peraltro, che a volte la C.T.U. non è esperibile per mancanza di mezzi economici in capo alle parti per far fronte al compen-so del perito (si pensi alle situazioni di ammissione al gratuito patrocinio).

L’approfondimento a cura dei Servizi sanitari può risultare preferibile se il Tribunale ipotizza un affiancamento nel tempo del nucleo familiare, con interventi plurimi e soggetti a monitoraggio periodico (es. incontri genitore – figli in luogo neutro, percorsi di riabilitazione dall’abuso di

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sostanze). Ciò vale soprattutto per l’Autorità Giudiziaria minorile (vedi procedure di affidamento familiare o adottabilità).

Detto questo, mi pare si possa proporre, in prospettiva, un supera-mento della separatezza tra le due tipologie di approfondimento e un’e-voluzione verso l’integrazione dei diversi mezzi di indagine, da attuare:

a) attraverso una considerazione da parte dello stesso consulente delle informazioni pervenute al fascicolo processuale dal territorio (come già contemplato dal § 2.2 del Protocollo di Milano del 17 marzo 2012);

b) tramite una consultazione diretta o un confronto tra C.T.U. e operatori dei Servizi sociosanitari nel corso dei colloqui peritali.

Si tratta di andare oltre quel diffuso atteggiamento consistente nel percepire gli operatori dei Servizi come figure essenzialmente intrusive rispetto alla famiglia e alla sua autonomia, impostazione che è già stata prospettata nel corso di un recente seminario al Palagiustizia di Torino organizzato lo scorso anno dalle associazioni “Camera Minorile” e “Sin-tonie”.

Del resto la giurisprudenza formatasi sull’art.194 c.p.c. è nel senso che il consulente d’ufficio è autorizzato ad assumere informazioni anche presso terzi, purché si tratti di fatti collegati allo svolgimento dell’incari-co e vi sia stata autorizzazione del giudice (che, infatti, di regola provvede in tal senso con il quesito).

Per tale via si possono inoltre scongiurare alcune situazioni in cui ac-cade talora di imbattersi, quali la proposta di attuare progetti di sostegno sociale o terapeutico a tutela del minore o dei componenti del nucleo fa-miliare del tutto irrealizzabili in una determinata realtà socioassistenziale del territorio.

3 – Per quanto concerne il quesito peritale, esso deve essere formulato in termini di correttezza dal punto di vista tecnico-scientifico e deve evi-tare ogni espressione suggestiva e comunque atta a influenzare l’operato del consulente, orientandolo in un senso o nell’altro.

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La C.T.U. nei procedimenti di separazione e divorzio: la metodologia del consulente

Il C.T.U. dovrebbe partecipare maggiormente alla predisposizione di un valido quesito, mentre di regola si attiene alla proposta dell’istruttore che, oltretutto, viene formulata in un momento in cui il consulente non ha ancora letto gli atti e quindi non ha una conoscenza del caso oggetto della perizia.

I quesiti in materia di separazione e divorzio sono peraltro ormai am-piamente collaudati e segnalo come essi suggeriscano l’indicazione dei punti di forza e di debolezza delle varie soluzioni, così da evitare valuta-zioni e risposte troppo nette e schematiche.

4 – In merito alla posizione del Consulente Tecnico di Parte (C.T.P.), principio base è quello secondo cui nel corso delle operazioni peritali deve essere rispettato il contraddittorio tra le parti: art. 194 comma 2 c.p.c.

Ciò significa, anzitutto, che il C.T.P. deve essere informato e messo in condizione di prendere parte a tutte le attività che il perito svolge, soprat-tutto se avvengono al di fuori dell’udienza.

È abbastanza condivisa l’opinione secondo cui le operazioni debbano iniziare con una riunione per mettere a punto il calendario delle attività e le regole metodologiche da seguire.

La dottrina auspica che gli esperti si attengano a Linee Guida con-solidate, che sono per lo più documenti che raccolgono il consenso di una certa area professionale attorno a quelle che costituiscono “buone prassi” o “lo stato dell’arte”. Talora alla redazione delle LG prende parte lo stesso Ordine professionale – dei Medici, degli Psicologi – e in tal caso le modalità previste risultano dotate di un valore più cogente, per la pos-sibilità di applicare sanzioni disciplinari in caso di inosservanza da parte del professionista.

Attenzione però a porre un’enfasi eccessiva ai profili metodologici ri-spetto ai contenuti della specifica vicenda sottoposta ad esame. In questi senso mi pare di notare , soprattutto in cause altamente conflittuali, una

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tendenza a svolgere gli accertamenti peritali in sede civile mutuando le modalità – molto più dettagliate e vincolanti – del processo penale, ciò che pare incompatibile con le diverse tempistiche e finalità processuali dei due ambiti, basti pensare al numero di cause per udienza o alle con-seguenze delle diverse decisioni per il singolo, laddove il penale incide di-rettamente sulla libertà personale del genitore/coniuge, imputato di abusi sessuali, lesioni o maltrattamenti in famiglia e quindi esposto al rischio di condanna e carcerazione.

In letteratura è stato approfondito il tema dell’ascolto del minore da parte del consulente e si è affermato che, sulla base del diritto vigente, è consentito al perito di procedere al colloquio diagnostico da solo, ossia senza la compresenza dei C.T.P.

Si è detto che se una simile facoltà è certamente riconosciuta al giu-dice, la stessa va estesa al C.T.U., che ne è ausiliario, una sorta di “longa manus” dal punto di vista tecnico scientifico” (Danovi, cit.).

Affinché il principio del contraddittorio sia rispettato è tuttavia neces-sario che i consulenti di parte siano resi edotti di tutte le indagini svolte e dei loro esiti, documentando gli atti attraverso strumenti tecnologici (videoregistrazione) o mettendo a disposizione i test effettuati.

In ogni caso se nel corso delle operazioni peritali sorgono contrasti sui poteri e le attività del C.T.U. è il giudice a risolverli, sentite le parti nell’udienza fissata ex art. 92 disp. att. c.p.c.

L’ampiezza dei colloqui dovrebbe estendersi a coinvolgere eventuali nuovi partners dei genitori, quantomeno se già in contatto diretto con il minore, ed altresì i parenti più prossimi (es. nonni) qualora i parenti assumano un ruolo nella cura e assistenza della prole.

Mi pare utile fare poi un cenno alla “Sindrome di alienazione ge-nitoriale” (“PAS”), sulla quale si sofferma ampiamente il documento 18 febbraio 2016 dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte sull’ “Atto Dia-gnostico”: penso, infatti, che, al di là dell’acceso dibattito circa la validità

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scientifica di tale approccio (21), questo sia uno dei problemi più difficili che si possono porre in ambito peritale e rappresenti un terreno in cui le valenze trasformative della consulenza possono trovare fertile applicazio-ne .

Non a caso il punto 2 del Protocollo di Milano del marzo 2012 prevede che il C.T.P. cerchi di aiutare il cliente “ad uscire dalla spirale del conflitto”.

Si tratta di una questione nella quale non solo maggiori sono, come l’Ordine ben ha avvertito, le difficoltà della diagnosi ma – ritengo di do-ver sottolineare – è tutt’altro che semplice individuare soluzioni e rime-di, in particolare identificare quali presupposti possano giustificare una diversa collocazione del minore (ad esempio in comunità di accoglienza, con o senza il genitore c.d. alienante, di regola la madre, o , al limite, come suggerito in alcuni elaborati dalle associazioni dei padri separati, con trasferimento presso il genitore “alienato”).

La videoregistrazione delle sedute dà luogo sovente a contrasti: rilevo come la prassi più diffusa sia nel senso che il materiale viene condiviso solo a livello di collegio peritale e non esteso ai legali e ciò per una tutela del minore e della relazione con i periziandi, le cui relazioni alla cono-scenza del materiale potrebbero essere pregiudizievoli.

La redazione del verbale delle operazioni peritali può aiutare a risolve-re successive contestazioni.

5 - Quanto all’impostazione peritale, il dott. Marco Lagazzi, noto speciali-sta di Genova, in alcuni articoli recenti ha parlato di varie tipologie di C.T.U.: “fotografica, decisionista, para-terapeutica, mediatoria, sperimentale” (22).

Quale metodo è preferibile dal punto di vista del Tribunale Ordina-

(21) Si veda, in termini critici, sul presupposto della mancata adesione della comunità scientifica alla diagnosi di Sindrome di alienazione genitoriale, Cass. 20 marzo 2013, n. 7041, ma, più di recente e con un approccio funzionale alla realizzazione del principio di bi-genitorialità, Cass. 8 aprile 2016, n. 6919.

(22) Il contraddittorio tecnico - metodologico nella CTU minorile, Sito Internet www.ilfamiliarista.it, , giugno 2015; CTU: Linee Guida scientifico – deontologiche in ambito minorile, ivi, settembre 2015.

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rio? A me pare quello che persegue il risultato di un miglioramento della situazione, un approccio che attraverso un onesto confronto tra le parti e i diversi professionisti sia in qualche modo trasformativo, partendo da quelle che sono le risorse umane in campo.

Ritengo sia da evitare che la C.T.U., stante la professionalità degli attori e i doveri deontologici che li accumunano nella professione di psi-chiatra o psicoterapeuta, finisca per ridursi a mera trasposizione del con-flitto tra le parti sul terreno degli ausiliari del giudice, tutti impegnati a far prevalere le ragioni dell’uno o dell’altro.

Per meglio realizzare queste finalità si può ricorrere, se del caso, alla concessione di tempi più lunghi per il completamento dell’indagine (ad esempio 90 o, al limite, 120 giorni) e uno degli scopi apprezzabili della C.T.U. può consistere nel rendere i coniugi/genitori consapevoli della necessità di avvalersi di un sostegno specialistico.

Verosimilmente sarebbe utile, su un altro piano, praticare con mag-gior ampiezza l’esame del C.T.U. in udienza, consentito dall’art. 197 c.p.c. per il Collegio ma applicabile anche ai giudizi monocratici, quindi nella fase avanti al G.I. delle cause di separazione/divorzio.

In qualche caso le delucidazioni successive sarebbero indubbiamente opportune, ma i carichi di lavoro sovente spingono il giudice a non di-sporre tale incombente.

Val la pena, ancora, di fare un cenno al rapporto personale giudice – consulente: il C.T.U. può vedere il giudice come un proprio “commit-tente” e sentirsi a sua volta come un “cliente” del giudice?

Qui intravedo un rischio: che il perito concluda l’indagine formulan-do le proposte che ritiene siano più in linea con le aspettative del giudice o con l’ impostazione da questi seguita nel trattare casi analoghi.

Una conferma di ciò si trae dalle richieste, che non di rado il magi-strato riceve, di colloqui e di mantenere un “filo diretto” con il perito, dal

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quale, tuttavia, le altre parti e i loro C.T.P. sarebbero ovviamente esclusi. Ciò sarebbe comunque in contrasto con il principio di autonomia che

ispira gli accertamenti del C.T.U. e il giudice si trova molto in imbarazzo perché in qualche misura si è in presenza di tentativi di sondare il terreno, di giungere a conclusioni peritali che possano essere “ben accette” dal Tribunale, mentre il responso deve sempre rispondere a requisiti di verità, nel rispetto delle risultanze processuali, e competenza professionale.

6 – Può accadere che la relazione peritale contenga aspetti proble-matici quanto a coerenza tra parte espositiva e conclusioni (risposte ai quesiti), tanto più che non può certo escludersi in assoluto che l’Autorità Giudiziaria finisca per concentrarsi proprio su queste ultime, trascurando l’analisi della parte argomentativa della relazione: coerenza esige – per fare qualche esempio concreto – che le conclusioni non risultino “addol-cite” o “attenuate” rispetto alla parte espositiva dell’elaborato o , addirit-tura, in contraddizione con la stessa.

Una questione a parte è quella del rapporto tra conclusioni peritali e ascolto del minore da parte del giudice, molto più diffuso a seguito della ri-forma 2014 degli artt. 316 e 337 octies c.c. : può accadere, infatti, che le due attività processuali, anche a breve distanza di tempo l’una dall’altra, portino ad esiti non coincidenti e che il Tribunale si trovi nell’ impasse di non poter “gestire” le conclusioni peritali ai fini di una motivata decisione.

Quindi sarebbe bene che nell’esporre le deduzioni del caso a proposi-to delle esigenze del minore il consulente si faccia carico anche di ipotiz-zare gli esiti di un eventuale intervista processuale del minore.

Come si vede le questioni che possono porsi sono numerose e talora complesse.

Vorrei però concludere ricordando che l’apporto della Psicologia al processo civile in materia di Famiglia e Minori non rappresenta un fatto puramente “tecnico”, per fornire conoscenze scientifiche che il magistrato non possiede.

È bene ricordare che attraverso questa collaborazione di saperi si pone

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al contempo in essere – con un canale certamente privilegiato – la prote-zione del minore, posto che le convenzioni internazionali cui l’Italia ha aderito e la riforma dell’affidamento condiviso (cito per tutti l’art. 337 ter , comma 2, c.c.) impongono che ogni decisione sull’affidamento sia assunta avendo di mira il miglior interesse , cioè a dire il benessere, del minore.

È questo, pertanto, l’obiettivo ultimo che il professionista chiamato a svolgere un accertamento peritale, così come il Tribunale, non deve mai perdere di vista.

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L’ascolto del minore nel processo e la tutela affettiva nell’accoglimento della verità clinica

Claudia Ricco - Ph.D., Specialista in Psicologia Clinica; Professore a Contratto di Psicologia Clinica, Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Torino; Giudice Onorario del Tribunale per i Minorenni del Piemonte e Valle d’Aosta; Membro della Consulta Psicoforense dell'Ordine degli Psicologi del Piemonte

L’ascolto della persona minorenne, nel contesto del procedimento civile o penale, con tutte le sue molteplici sfaccettature processuali e con i diffe-renti significati che gli si possono attribuire, ha senza dubbio incentivato una sempre più stretta collaborazione tra giurista e psicologo.

Tutto ciò anche in virtù del cambiamento culturale avvenuto con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 154 del 28 dicembre 2013, secondo il quale in tutte le procedure giudiziarie civili inerenti la filiazio-ne vi è l’obbligo di ascolto del minore che abbia compiuto i 12 anni o anche di età inferiore se capace di discernimento. In adesione all’art. 12 della Convenzione ONU di New York del 1989 sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, con questa legge è stato quindi riconosciuto all’ascolto, anche da un punto di vista giuridico, uno dei diritti fondamentali dell’es-sere umano, diritto su cui – seguendo il pensiero di Kant (1797) – si basa la dignità della persona, che ha un valore intrinseco assoluto e che, in quanto persona, è degna di esistere e di esprimere le proprie opinioni su questioni che la riguardano (Ricco, 2016).

Senza ovviamente voler tralasciare le considerevoli responsabilità eti-co-morali e professionali che vincolano lo psicologo al rispetto rigoroso dei diritti umani e del proprio codice deontologico, valori diretti, tra l’altro, all’integrazione del paradigma psicologico con quello giudiziario,

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oggi intendo orientare la riflessione del mio contributo su una partico-lare funzione dell’ascolto, ovverosia sulla funzione di tutela affettiva cui siamo obbligati ogniqualvolta accogliamo la verità clinica del minore, per approssimarci il più possibile, come cita l’art. 3 della Convenzione ONU 1989, a quel migliore e superiore interesse del fanciullo.

Nonostante debba essere chiaro che ascoltare un minore in sede giudi-ziaria è compito ben diverso da quello terapeutico, il tempo dell’ascolto è un tempo che potenzialmente contiene in sé i semi di un processo di ripa-razione, poiché il minore non è solo portatore di narrazioni verbalizzate in modo più o meno accurate, ma è soprattutto messaggero di emozioni e di sentimenti estremamente utili per leggere e interpretare il suo mon-do interno, ove l’ascolto, se ‘qualitativamente buono’ può rappresentare il ponte tra mondo interno e mondo esterno, in grado di trasformare in parola il vissuto del minore, affinché gli possa essere restituita coerenza e significato all’esperienza che sta vivendo (Ricco, 2014).

Tenterò di avvicinarmi al concetto di tutela affettiva ricorrendo alla storia di una giovane che chiamerò Angela, riportando alcuni brevi e si-gnificativi scambi relazionali che tra lei e me sono avvenuti nel corso di un’audizione.

Angela è un’adolescente di sedici anni che a seguito delle sue trau-matiche vicissitudini si è trovata coinvolta in estenuanti procedimenti giudiziari, tra cui l’ultimo presso il Tribunale per i Minorenni dove è stata da me ascoltata in qualità di Giudice onorario.

La sua storia ha avuto inizio più di quattro anni fa con una sentenza in cui il Tribunale per i Minorenni disponeva la decadenza della responsabilità genitoriale per entrambi i genitori e l’immediato inserimento presso una comunità specializzata per minori gravemente deprivati e traumatizzati.

A quel tempo, le motivazioni di un provvedimento così severo risie-devano nei ripetuti abusi sessuali perpetrati ai danni della bambina dal nuovo compagno della madre, compagno con cui Angela, dopo che i suoi genitori si erano precedentemente separati, conviveva da anni.

Accanto alla già deturpata infanzia di Angela, e a seguito della scoper-ta del comportamento pedofilo agito sulla minore, ebbe così inizio anche quel difficile calvario tra luoghi protetti e aule di tribunale per essere

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ascoltata sui fatti che culminarono nella condanna penale e nella successi-va carcerazione dell’uomo abusante (ricordiamo che la fanciulla in questo caso è stata vittima e testimone del reato al tempo stesso).

Venendo a periodi più recenti, la situazione di Angela approda ancora una volta al Tribunale per i Minorenni per la richiesta del Pubblico mi-nistero di un ulteriore nuovo provvedimento, con lo scopo di continuare a mantenere la minore all’interno della comunità, prevedendone però sia un ampliamento dei rientri presso l’abitazione del padre – riabilitato nel frattempo alla sua funzione genitoriale – sia la prosecuzione degli interventi di sostegno da parte della neuropsichiatria infantile, indirizzati alla minore e al rinforzo delle competenze genitoriali paterne, al fine di sostenere la relazione padre-figlia.

Ma veniamo all’incontro tra Angela e me. L’incontro, seppur con qualche iniziale e comprensibile resistenza da

parte di Angela, e facilmente riconoscibile dalla sua comunicazione ge-stuale e verbale, ben presto si rivela essere per la minore oltre che un momento atteso e carico di aspettative, un’occasione emotivamente in-tensa per entrambe, ricca di correnti affettive a ‘doppio senso’ (Heimann, 1975). Angela riferisce, infatti, di aver già dovuto parlare diverse volte con persone del tribunale per raccontare «quella cosa che è successa anni fa con il fidanzato di mia mamma, solo che questa volta mi sembra un po’ diverso perché, se ho capito bene, devo parlare di me, dire come mi trovo in comunità, come vanno gli incontri con mio padre […] Beh! stavolta sono molto contenta di essere qui…».

Le parole di Angela paiono dunque trasmettere una certa consolazio-ne e sollievo rispetto al significato da lei percepito del nostro incontro, come se ella si fosse finalmente scrollata di dosso quel vissuto di essere “solo” un veicolo di informazioni preziose per l’accertamento dei fatti di accusa nei confronti del suo abusante (condizione verosimilmente da lei avvertita nelle passate audizioni penali e rischio da cui purtroppo non si è completamente esenti, nonostante la buona qualità professionale di coloro che svolgono il delicato compito di ascoltare il minore in siffatte circostanze).

La percezione di un’empatia e di una sintonizzazione reciproca ci ha

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fatte entrare in una zona di comfort emotivo dove Angela ha potuto sen-tirsi partecipe del suo destino, ovvero una persona degna di essere ascol-tata e presa in considerazione su aspetti della sua vita che la coinvolgono direttamente.

Tra Angela e me prosegue così un dialogo che la porta a riferire – dapprima su un piano più cognitivo e successivamente su un piano emo-tivamente più profondo – il disappunto rispetto alla sua permanenza in comunità e il suo desiderio di convivere con il padre sin da subito, riuscendo tuttavia anche a riconoscere delle difficoltà tali per cui non sarebbe in fin dei conti sbagliato se il tribunale dovesse posticipare tale decisione, in attesa che il padre riesca a gestirsi in modo più idoneo.

Le sue parole delineano meglio la dimensione di quanto appena espo-sto: «…In comunità mi trovo bene per carità, ma avrei altri desideri, vorrei vivere in un altro modo se possibile, non più in comunità, se poi non si può fare diverso io mi adeguo […] in effetti però se ci penso mio padre è una persona che si agita molto perché è ansioso e succederebbe che se ho delle cose da dirgli e lui si agita, io poi alla fine non gliele dico più, solo che poi se non gliele dico mi viene mal di stomaco e non mi sento tranquilla…».

Questo passaggio testimonia quanto Angela sia stata in grado di at-tivare quella fondamentale ‘funzione riflessiva’ (Fonagy & Target, 2001) capace di farle accettare e interiorizzare consapevolmente anche un even-tuale punto di vista diverso dal suo o una decisione da parte del Tribunale che nell’immediatezza lei avrebbe respinto; un momento in cui, nella psiche della fanciulla, ha preso inoltre forma il ‘limite’, altra principa-le funzione protettiva intrinseca alla giustizia, i cui risvolti giuridici e psicologici non possono essere qui ampliati, ma di cui è assolutamente necessario tenerne conto (Kaes, 2008). Se ciò non fosse avvenuto e in caso di un totale rifiuto da parte di Angela, in lei si sarebbe ulteriormente minato quel lento e faticoso percorso di riorganizzazione di sé e di fiducia nell’altro di cui la ragazza ha assoluto bisogno.

Il colloquio prosegue ancora con profonde dinamiche relazionali, di-namiche che evidentemente hanno fatto intuire ad Angela che poteva fidarsi di me, poiché ero in grado di accogliere, contenere e pensare senza alcun pre-giudizio i suoi intensi e contraddittori stati affettivi, tanto da

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condurla a riferirmi vissuti di sé che prima non era mai riuscita a dire a nessuno e che riguardavano la relazione che aveva instaurato con il com-pagno di sua madre: «…Sai in comunità ho parlato molte volte delle botte che mia mamma mi dava, ma non sono mai riuscita a dire che io voglio bene a Nicola e che mi sento tanto in colpa perché se lui è in galera è lì per causa mia […]. Lui mi voleva tanto bene, è bravo, vorrei andare a trovarlo in carcere; forse quando lui esce ci potremmo anche mettere insieme […]. In comunità tutte le volte che parlo di Nicola sembra che io debba per forza dire che è stato cattivo con me, ma non lo penso davvero, solo che non lo dico che è bravo perché mi vergogno di dirlo […] e così quando le persone che mi seguo-no in comunità ne vogliono parlare cerco sempre di sorvolare l’argomento».

Non è certamente mia intenzione concentrarmi in questa sede sui motivi, che possono essere davvero molteplici, per cui rivelazioni così toccanti non abbiano avuto modo di emergere nel percorso comunitario di Angela.

Osservare clinicamente come il bambino crea la propria realtà e per-cepire il reale stato emotivo di bambini deprivati e danneggiati non solo è difficile ma richiede un gran lavoro su noi stessi, poiché le potenti e sofferenti proiezioni che investono chi ascolta sono particolarmente do-lorose: istintivamente la tendenza è di rimuoverle rapidamente con sva-riate modalità. A titolo di esempio, uno tra i tanti motivi, che non deve affatto sorprenderci, consiste nella disposizione controtransferale di dife-sa psichica che un osservatore non sufficientemente attrezzato sul piano emotivo può mettere in atto di fronte ai contenuti mentali del bambi-no. Solitamente, queste difese, che gli studi psicoanalitici definiscono di “evitamento fobico”, tendono a rafforzarsi di intensità, secondo criteri direttamente proporzionali a episodi ritenuti collettivamente disprezza-bili, indegni e pertanto incoerenti e irrazionali, difese che reattivamente, nella relazione con l’altro, mettono in moto tutta una serie di sentimenti, tra cui quello di sentirsi impotenti, che possono tradursi in condotte che allontanano le persone anziché avvicinarle alla condivisione, condotte simili a quelle che Angela riferisce, ovvero di voler «…sorvolare l’argo-mento».

Un altro motivo può risiedere nel fatto che l’infante abusato spesso

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vive la presenza degli operatori che di lui/lei si occupano in termini per-secutori anziché di aiuto. Non è difficile immaginare come in circostanze di deprivazione affettiva e di pregiudizio la fragile e bisognosa mente del bambino subisca forti elementi di fascino dal comportamento lusinghie-ro e seduttivo di un pedofilo. È dunque facilmente comprensibile come la percezione di colpa e vergogna provenienti da feedback esterni su di una persona con cui si ha avuto una relazione intima possa influenzare, sulla stessa scia negativa, anche la percezione di se stessi. Potremmo quindi desumere che Angela non era mai riuscita a rivelare i suoi veri sentimenti poiché, così come lei ha avvertito dall’ambiente esterno la condanna e la colpevolezza dell’uomo abusante che di lei ha approfittato ma da cui paradossalmente subiva l’attrazione, allo stesso modo Angela si è sentita colpevole e colma di vergogna per aver accettato quelle lusinghe e quelle apparenti “dolci attenzioni”.

Solo quando Angela ha potuto narrare il suo amore per Nicola, ri-conoscendo nel mio sguardo la possibilità di tollerare, contenere e con-dividere una tale verità, per quanto difficile da accettare sia, Angela si è liberata di quell’inconfessabile segreto di cui tanto si vergognava e a cui siamo riuscite assieme a dare un senso.

Allan Schore (2003), studiando i modelli neurobiologici e della re-golazione emotiva nell’attaccamento del bambino, ha scoperto non solo che il sentimento di vergogna è correlato alla mancata sintonizzazione affettiva tra bambino e caregiver, ma anche che il permanere di uno stato di vergogna spinge verso atteggiamenti di dissociazione, di umiliazione, di chiusura e ritiro, con effetti nocivi sulla maturazione e sulla plasticità del cervello sia a livello neurobiologico che a livello psicologico, con esiti dannosi sullo sviluppo del senso di sé e sulla capacità di autodeterminarsi.

Come già chiaramente individuato dalle teorie psicoanalitiche di Sàndor Ferenczi (Borgogno, 1999), i cui studi risultano quanto mai con-temporanei, poiché convalidati dalle attuali ricerche, la vera sofferenza psichica e la reale condizione post-traumatica non sta solo nell’evento traumatico in sé ma soprattutto nell’incongrua risposta dell’ambiente all’atteggiamento, alle emozioni e agli interrogativi del bambino. Difatti, anche gli studi sulle neuroscienze affettive e sulla sintonizzazione inter-

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personale sottolineano come la capacità di riflettere sulla storia della no-stra vita assieme ad un’altra persona che ci accoglie e con cui si instaura una risonanza affettiva pare avere un impatto notevole su come possiamo superare le ripetizioni delle passate esperienze traumatiche (Stern, 1998; Siegel, 2013).

Il dolore e il danno emotivo rimangono spesso invisibili e sono per-tanto qualcosa che non possiamo vedere concretamente: ciò che possiamo osservare sono soltanto le modalità relazionali e i tentativi di adattamento più o meno riusciti con i quali l’individuo cerca di affrontare la propria sofferenza. L’unica risorsa disponibile che abbiamo per sintonizzarci con il vissuto emotivo di chi ascoltiamo è rappresentata dalla nostra abilità relazionale di rispondere in modo emotivamente adeguato. Nessuno è in grado di annullare una ferita o un trauma, ma se nell’incontro riusciamo a conservare quella difficile ma equilibrata sensibilità che ci consente di non farci travolgere o di provare il bisogno di scappare o di dare la colpa a qualcuno, diventiamo capaci di trasmettere l’unica risposta in grado di procurare sollievo, e cioè l’esperienza di un rapporto con qualcuno di cui ci si può fidare perché preparato a recepire la sofferenza con fermezza, ri-manendo forte pur in presenza di un evento potenzialmente catastrofico.

La portata delle rivelazioni di Angela è stata indubbiamente ragguar-devole poiché le ha consentito di porre le basi per una più corretta evo-luzione di sé. Angela, riuscendo a condividere con me l’esperienza che le procurava vergogna, integrandola di conseguenza in una realtà venuta alla luce e che sino a quel momento era rimasta segreta e nascosta nella sua mente, ha dato inizio a quelle connessioni psico-cognitive che le con-sentiranno, anche in momenti successivi al nostro, assieme alle persone che di lei si prederanno cura, di attribuire un senso e un significato a quanto accaduto, aumentando la probabilità di un’evoluzione verso la resilienza psicologica.

In conclusione, la giustizia può rappresentare e contenere in sé ele-menti riparativi: l’accoglimento della verità clinica del minore può quindi coincidere con il riconoscimento e la tutela affettiva, e non ha effetti ri-traumatizzanti, se l’ascolto diventa anello di congiunzione tra il non detto e il consapevole. Per raggiungere questo obiettivo, nel rispetto della

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dignità umana e delle storie di vita spesso particolarmente compromesse che giungono nei tribunali, è però necessario agire con estrema delicatezza e soprattutto competenza professionale.

BibliografiaBorgogno, F. (1999). Psicoanalisi come percorso. Torino: Bollati Borin-ghieri.

Fonagy, P. & Target, M. (2001). Attaccamento e funzione riflessiva. Trad. it. Milano: Raffaello Cortina, 2001.

Heimann, P. (1975): From “cumulative trauma” to the privacy of the self. Int. J. Psycho-Anal., 56, 465-76.

Kaes, R. (2008). Le identificazione e i garanti metapsichici del riconosci-mento del soggetto. In Rivista di psicoanalisi, vol. 4/2008.

Kant. I. (1797). Die Metaphysik der Sitten. Tr. It. La metafisica dei costu-mi, a cura di Vidari, G. Bari: Laterza, 1970, parte II, Principi metafisici della Dottrina della virtù.

Ricco, C. (2014). Il diritto del figlio e di ogni minore di ascolto nelle procedure e la funzione riparativa del buon ascolto. In Rivista Minorigiu-stizia, vol. 2. Milano: FrancoAngeli Ed.

Ricco C., (2016). L’ascolto della persona minore di età nelle procedure giudiziarie – principi etici e deontologici. In AA.VV. (in press), Lo psi-cologo tra l'essere e il fare. Problemi di deontologia applicata alla professione psicologica. Publiedit, Cuneo-Roma.

Schore, A. N., (2003). La regolazione degli affetti e la riparazione del Sé. Roma: Astrolabio, 2008.

Siegel, D.J. (2013). La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale (seconda edizione). Milano: RaffaelloCortina.

Stern, D.N., Hofer, L., Haft, W. & Dore J. (1998). La sintonizzazione affettiva. In: Stern, D.N. (1998), Le interazioni madre-bambino. Nello sviluppo e nella clinica. Milano: Cortina, 1998.

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Realtà processuale e realtà fattuale a confronto

Anna Maria Baldelli - Procuratore della Repubblica per i Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta.

Il processo penale

1 – Le prove diventano rappresentazione della realtà fattuale.

Il processo penale è un contenitore nel quale il pubblico ministero, in- sieme alla polizia giudiziaria, riversa le prove (o gli indizi) di un fatto di reato e della responsabilità di un (o più) soggetto (i) individuato (i) come autore (i) di quel fatto/reato. La realtà, quindi, rileva non in quanto tale, ma in quanto “provata” nel processo.Processo e realtà, quindi, spesso non coincidono, e ciò accade quan-do la realtà è in-provabile, cioè non se ne può dare la prova, in modo univoco.Lo sforzo degli inquirenti è quello di fare in modo che qualsiasi ac-certamento riproduca nel processo una realtà esistente e che la realtà processuale si avvicini, sino alla coincidenza, alla verità processuale, ma sappiamo che così non è sempre.Pensiamo, ad esempio, a quelle vicende, purtroppo così frequenti nelle colonne della cronaca, di maltrattamento che generano magari una o più denunce, ma che poi finiscono in archiviazione perché la vittima ritratta anche fatti realmente accaduti.Cosa accade in questi casi? Succede che la prova viene meno, in quan-to è la donna l’unica fonte a sostegno dell’accusa, non essendo i fatti avvenuti in presenza di testimoni, cosicché quando la vittima ritratta, affermando di aver esagerato, inventato, ecc., viene meno la possibilità di sostenere l’accusa in giudizio e la verità processuale, che porta all’ar-chiviazione, può non corrispondere alla verità fattuale.

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La costruzione della ‘verità clinica’ nel processo: lo psicologo forense al lavoro

2 – Le prove diventano rappresentazione di una realtà soggettiva.

Nel processo il pubblico ministero deve anche occuparsi di provare la re-altà soggettiva del reato, cioè la volontarietà della condotta (ovvero la col-pa nei reati colposi), ed anche su questo versante la difficoltà della prova, in alcune situazioni, determina un divaricamento fra la realtà e la verità processuale (in difetto o in eccesso), ad esempio non riuscendo a provare un dolo esistente, ovvero provando una colpa che nella realtà non c’è.Nel processo, infatti, il pubblico ministero deve provare al giudice, contro ogni ragionevole dubbio, che è stato commesso un reato, deve provare che l’autore si identifica in un certo soggetto, che quel soggetto, al momento del fatto, non soltanto non agiva in presenza di una giu-stificazione (ad esempio per legittima difesa, o per stato di necessità), ma anche che agiva con la volontà di commettere quel reato, ovvero commetteva quel reato per colpa. Inoltre, il tipo di volontà a sostegno dell’azione criminosa può modificare la prova sul tipo di reato. Ad esempio, se di fronte ad un ferimento, che ha messo in pericolo di vita la parte offesa, la prova sul dolo può portare alla contestazione del reato di tentato omicidio volontario, ovvero di lesioni aggravate, a se-conda del tipo di volontà che verrà accertata e, quindi, provata.Anche nell’ambito minorile il rigore della prova è il medesimo; inol-tre, nei confronti dell’autore di reato minorenne il pubblico ministero dovrà provare anche, in modo positivo, non essendovi presunzioni, la capacità di intendere e di volere in relazione al singolo fatto.

3 – Le prove offrono la rappresentazione di una possibile evoluzione per-sonale.

Come si è detto, nel processo minorile il pubblico ministero deve occu-parsi anche di qualcosa in più rispetto al pubblico ministero ordinario, e cioè deve indagare la consapevolezza, o maturità, dell’autore di reato minorenne, intesa come capacità di comprendere il peso e le conseguen-ze delle proprie azioni e di autodeterminarsi rispetto alle sollecitazioni esterne.

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Realtà processuale e realtà fattuale a confronto

Al di sotto dei 14 anni vi è la presunzione assoluta di immaturità, che cioè non può essere vinta da alcuna prova contraria. Nel caso l’autore di reato infraquattordicenne versasse in una situazione di particolare disagio e/o si rivelasse pericoloso, il pubblico ministero potrebbe assumere un’i-niziativa nell’ambito civilistico, nel quale, ancora una volta rileverebbe la prova della situazione di vita del minore al fine dell’individuazione della strategia di sostegno nei suoi confronti.Dopo i 18 anni vi è la presunzione relativa di capacità di intendere e di vole-re, che cioè può essere vinta dalla prova dell’esistenza di una patologia men-tale, totale o parziale. Anche su questo fronte, quindi, la realtà processuale potrebbe essere difficile da costruire in sovrapposizione con la realtà fattuale.Ma questo è soltanto il punto di partenza, perché il pubblico ministe-ro minorile si deve occupare anche della possibile evoluzione personale dell’autore del reato (ed a volte anche della vittima, soprattutto se mino-renne), anche attraverso iniziative civili di protezione.Pure su questi due fronti, cioè della maturità e della evoluzione, esiste un problema di prova (predittiva per la seconda categoria), che parti- colarmente interessa la dimensione della psicologia, che è “scienza del comportamento e dei processi mentali”.

4 – La capacità di intendere e di volere

Come si è visto l'imputabilità dell'autore di reato minorenne richiede di essere provata ed anche su questo fronte, quindi, potrebbe esservi uno scarto fra la realtà delle condizioni effettive di maturazione dell'autore di reato mi-norenne e la realtà processuale derivante dalla prova di detta maturità. Ma ciò che rileva in modo altrettanto significativo è il concetto di maturazione, che può avvenire nel corso del processo, autonomamente; ovvero, in conse-guenza di misure ed interventi dell’autorità giudiziaria. Si pensi ad esempio alla messa alla prova, che può produrre, ed anzi è prevista proprio a questo fine, una maturazione dell’autore di reato, nel senso di più piena capaci-tà di assumersi responsabilità, anche riparatorie verso la vittima, rispetto al momento della commissione del reato. Poter provare questo cambiamento significa provare l’esistenza dei presupposti per la piena estinzione del reato.

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5 - L’esame psicologico

L'approfondimento psicologico nei confronti dell'autore di reato mino-renne, che è vietata nei confronti dell'autore di reato maggiorenne (verso il quale è legittimo soltanto l'accertamento di una eventuale patologia psichiatrica) è quanto di più delicato si possa immaginare nel processo minorile ed è suscettibile di produrre valutazioni divergenti sia in rela-zione alla specifica formazione dell'osservatore, sia in relazione al tipo di analisi del contesto nel quale l'autore di reato minorenne vive e si muove. Quanto alla prima variabile merita evidenziare come occorra una espe-rienza professionale specifica, che permetta di distinguere l'eventuale im-maturità da una precoce insorgenza di patologia che potrebbe giustificare un giudizio di incapacità derivante da vizio parziale di mente. Rispetto alla seconda variabile va detto che la ricostruzione del contesto e l’analisi della sua influenza sul singolo rappresentano, ancora un volta, un percor-so molto delicato, nel quale si mescolano fatti e giudizi, rispetto ai quali la possibilità di uno scarto fra la realtà rappresentata e quella del mondo reale può essere anche molto rilevante.

6 - La diagnosi di patologia di mente in età evolutiva

L'accertamento della maturità dell'autore di reato minorenne, come si è visto, è l'aspetto più delicato, importante e qualificante del processo minorile. Infatti, se per l'accertamento del fatto (comprendente la rico-struzione della condotta materiale e la prova dell'elemento soggettivo del reato) devono essere rigorosamente applicate tutte le norme processuali che valgono nei confronti degli autori di reato maggiorenni, rispetto alla maturità ci si muove in un ambito psicologico, emozionale e relazionale. Ma vi sono casi nei quali sorge il sospetto che vi sia qualcosa di più e di diverso dalla semplice immaturità ed allora in questi casi assume ancor maggiore delicatezza, se possibile, l'approfondimento volto ad accertare se vi sia una patologia di mente, perché il confine fra l'immaturità ed un esordio precoce di patologia è tutt'altro che semplice da delineare e si presta, ancora una volta, a realizzare situazioni di discrepanza fra realtà fattuale e realtà processuale, tenuto anche conto del fatto che da alcuni si

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Realtà processuale e realtà fattuale a confronto

sostiene l'impossibilità di formulare una diagnosi di franca patologia in età adolescenziale.

7- La pericolosità e la valutazione del trattamento

L'accertamento della pericolosità segue all'accertamento della immatu-rità, o del vizio parziale o totale di mente (come avviene per gli autori di reato maggiorenni in presenza di una patologia di mente), dell'autore di reato minorenne ed ha una funzione predittiva del comportamento deviante del giovane imputato.Infatti, la valutazione della pericolosità, intesa nel senso giuridico del termine come probabilità che commetta altri reati della stessa specie, di-scenderà da molteplici fattori, tutti da provare, fra i quali la gravità del reato, il grado di partecipazione alla condotta criminosa, l’esistenza di altre denunce da cui desumere la non unicità della condotta deviante, il grado di contenimento offerto dalla famiglia, le opportunità di soste-gno offerte dai servizi, ecc. Anche in questo ambito, come è evidente, l'approfondimento presenta aspetti di grande delicatezza poiché calare nella vita di un adolescente il concetto di prevedibilità dei suoi compor-tamenti futuri può portare a risultati assolutamente paradossali, tenuto conto dei possibili fattori interferenti nella normale evoluzione della vita di un adolescente (es. innamoramento, l’avvio di un percorso educativo, la sperimentazione di relazioni amicali soddisfacenti, ecc.).

Il processo civile

1 - Le prove diventano rappresentazione della realtà fattuale

Il processo civile è un contenitore nel quale il pubblico ministero fa con- fluire un ricorso con cui intende promuovere la tutela di una persona di minore età attraverso la limitazione della responsabilità genitoriale.Il sistema probatorio non è quello del processo penale, tuttavia anche le regole processuali civili rimandano all’esistenza di indizi gravi (ragione- vole certezza probabilistica), precisi (i fatti da cui muove il ragionamento probabilistico non sono vaghi ma ben determinati nella loro realtà sto-

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rica) e concordanti (la prova è fondata su una pluralità di fatti noti con- vergenti nella dimostrazione del fatto ignoto) secondo il criterio del ‘più probabile che non’. A differenza del processo civile ordinario, nel quale vi è sempre una parte vincitrice ed una parte soccombente, nel processo civile minorile, a tu-tela, non ci sono vinti né vincitori. Ci può essere una parte privata che agisce (genitori o parenti), ovvero una parte pubblica (pubblico ministero minorile), ma la richiesta, comunque sia formulata, deve corrispondere ad una domanda di giustizia, che ha come obiettivo garantire al mino-renne coinvolto la necessaria protezione, ed il sostegno ad una crescita al riparo da interferenze distruttive, attraverso la limitazione della responsa-bilità genitoriale, di maggiore o minore intensità.Ci sono sofferenze da rappresentare, fragilità insuperabili da individua-re, equilibri da rispettare, profili da delineare ed interventi dei servizi da promuovere.

2 - Le prove diventano rappresentazione di una realtà soggettiva

L’udienza civile è sempre una rappresentazione nella quale ciascuno recita la sua parte. Il giudice che deve decidere ha bisogno di avere contezza di ciò che acca-de, ma la ricostruzione della verità, pur non rispondendo alle rigidità pro-batorie tipiche del processo penale, deve necessariamente avvenire attra-verso la narrazione, riscontrata o riscontrabile in qualche misura, da parte dei protagonisti (famiglia, servizi, scuola, forze di polizia ecc.) e non è spesso agevole orientarsi quando le ricostruzioni della medesima storia si discostano molto fra di loro sino a giungere a contrapporsi francamente.Gli approfondimenti che possono rivelare il massimo grado di utilità sono i riscontri oggettivi anche della soggettività. In altri termini, pare premiale la valutazione delle condotte delle persone per come si pon-gono, in coerenza o in dissonanza, con la valutazione che le connota. In altri termini, la valutazione, che sempre deve rimanere distinta dalla narrazione dei fatti, può essere riscontrata propri dai fatti narrati, ovvero, porsi in contrasto con essi , che, quindi, la smentiscono. L’esame dei “pro-

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cessi mentali” di un soggetto non possono, quindi, prescindere dalla con-dotta che questi assume, dal suo comportamento. La prova della realtà soggettiva passa anche attraverso la prova dei comportamenti. Pensiamo, ad esempio, a situazioni accadute nelle quali i genitori testimoniavano davanti al giudice il recupero di una normalità di vita e poi, nella realtà, si accertava che si dedicassero prevalentemente allo spaccio di sostanze stupefacenti, alla prostituzione o al gioco d’azzardo. Oppure, in altre si-tuazioni veniva espresso nei confronti di una coppia aspirante all’adozio-ne un giudizio di stabilità, salvo poi verificare che avevano cambiato due coniugi, venti case e trentaquattro lavori.

3 - Le prove offrono la rappresentazione di una possibile evoluzione per-sonale

Anche nel processo civile a tutela della persona di minore età ad una valu-tazione diagnostica dell’esistente, che non può mai mancare, qualunque forma essa assuma, si deve poi raggiungere la previsione di una possibile (o impossibile) evoluzione.Proprio perché la tutela si rivolge ad una persona che, per definizione, è in fase di crescita, e quindi di cambiamento, non può essere mai messo un punto fermo. Per questa ragione tutte le decisioni, ad eccezione della dichiarazione dello stato di adottabilità, per evidenti ragioni di certezza per il minore dichiarato adottabile, sono sempre modificabili qualora si dimostri che la situazione sulla base della quale era stato pronunciato un certo provvedi-mento sia mutata.Anche su questo fronte vi sono rilevanti criticità perché la possibilità pre- dittiva si àncora sulle caratteristiche della persona coinvolta, ma anche sulle opportunità concrete di sostegno che la realtà sociale in cui vive le offre ed offre alla sua famiglia; inoltre, molte variabili sono introdotte dalla capacità dei genitori e/o parenti di mettere in campo risorse per-sonali utili ad accogliere e trarre beneficio dagli aiuti offerti dai servizi. È evidente come una valutazione che prescinda da queste variabili non abbia valore.

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4 - La verità processuale

• Il Minore

Il bambino deve potersi rappresentare, nel processo che riguarda la sua tutela, come unità di rilievo pari a quello degli adulti coinvolti, non fra-zionabile. L’accertamento che lo riguarda non può che essere multidisci-plinare e deve riguardare, contestualmente, l’aspetto sanitario, l’aspetto psicologico, l’aspetto educativo, l’aspetto relazionale, l’aspetto affettivo. Inoltre, deve essere contestualizzato nel percorso evolutivo che, in quel momento egli sta compiendo, ma con un’attenzione particolare al futuro. Solitamente il bambino non ha voce, ed è quindi molto importante che nel processo ci sia attenzione ai segnali di disagio che comunica (ma che qualcuno deve necessariamente raccogliere, e che qualcuno deve saper valorizzare all’interno del processo), per permettere una corretta com-parazione con le altre risultanze processuali, quali le risorse dei genito-ri/parenti ed il tempi di recupero di eventuali disagi degli adulti ecc. Non è accettabile un’impostazione terapeutica dell’intervento del CTU, che invece, deve permettere al giudice di avere una fotografia, dal profilo il più netto possibile, della realtà esistente, così da poter fondare una pre-visione di intervento che tenga conto di tutti i fatti e di tutte le variabili previste e prevedibili.

• La Madre

La rappresentazione di questo genitore è particolarmente delicata e richiede un approfondimento non così semplice sulle competenze ge-nitoriali già messe in gioco e sulle capacità eventualmente ancora da esplorare e sollecitare affinché divengano nuove competenze.Poiché le esperienze di vita, le caratteristiche personali, l’esistenza di dipendenze o di patologie psichiche, oltre ai supporti esterni (della fa-miglia allargata e dei servizi), condizionano fortemente gli aspetti del-la genitorialità, non è sufficiente registrare questi fattori, ma occorre indagarne l’influenza sull’espressione concreta della genitorialità. Ad

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esempio nel caso di patologia di mente, non è tanto o soltanto rilevante accertare che la madre sia “compensata”, cioè in una situazione di equi-librio che la pone al riparo da scompensi psicotici; ma rileva come e con quale intensità la patologia influisca sulla capacità di accudimento e di cura, anche emotiva ed affettiva, verso il figlio.Anche l’aspetto relazionale deve essere oggetto di un puntuale appro-fondimento, non soltanto con riferimento ai pari, ma soprattutto ri-guardo a quel singolo figlio.

• Il padre

Le medesime considerazioni valgono con riferimento al padre. An-che la rappresentazione di questo genitore è particolarmente delicata per le medesime ragioni già indicate nei confronti della madre, ma vi sono ulteriori criticità di cui tenere conto. Infatti, ci possono essere situazioni nelle quali un certo contesto può, più di altri, condizio-nare la decisione. Si pensi alla situazione nella quale la madre risulti francamente ca-rente sotto il profilo delle competenze genitoriali, mentre il padre mostri una condizione di maggiore adeguatezza, pur se con qualche fragilità che meriterebbe di essere supportata (come avviene per mol-te mamme). Ebbene, in una situazione di questo tipo la mancanza di comunità per padri costituisce un limite esterno alla vicenda, ma in grado di vanificare possibili progettualità adeguate per quel minore che si fondavano su accertamenti riconosciuti come validi nell’ambi-to del processo di tutela.

• I parenti (nonni, zii, cugini)

Anche con riferimento a queste figure l’approfondimento deve poter offrire una verità processuale chiara sugli aspetti già indicati per i genitori, ma con una peculiarità: nei loro confronti si deve poter distinguere la competenza a supportare i genitori da quella di vicariarli nella loro funzione genitoriale. Spesso accade che vi sia

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una più o meno esplicita riserva mentale che cerca di orientare l’os-servatore nella direzione desiderata dall’osservato, ma che non cor-risponde a quella che la realtà propone. Così accade quando nonni e/o zii si dichiarano disponibili a sostenere i genitori, ma dentro di loro pensano di sostituirli, e viceversa. Smascherare questa riserva mentale, più o meno conscia, è assolutamente fondamentale. Allo stesso tempo rileva il tema della gestibilità dei rapporti con i geni-tori, che troppo spesso viene a mancare nel tempo, ma in situazioni nelle quali questa evoluzione era assolutamente prevedibile, e dove-va orientare verso diversi percorsi di sostegno. Si pensi ai purtroppo non infrequenti casi nei quali, dopo anni, i parenti, non reggendo più le interferenze dei genitori, restituiscono il minore per tutelare la loro tranquillità.

• La Scuola e i Servizi

Giungendo alla conclusione va osservato come certamente la pre-senza di legami sociali, all’interno della classe o nel contesto comu-nitario o di centri di aggregazione, come anche l’esistenza di una relazione con un terapeuta e/o un educatore, costituiscano elementi di grande rilievo ai fini della valutazione degli interventi a protezione e tutela nei confronti della persona minorenne. Tuttavia, occorre puntualizzare che, da un lato, i legami sociali diffi-cilmente possono essere sufficienti a supplire e compensare carenze parentali che presentino caratteristiche di particolare gravità; d’altro lato, di quegli stessi legami sociali si deve continuare a tenere conto anche nell’ipotesi di intervento radicale, come per esempio in caso di allontanamento, situazione in cui la cosiddetta continuità affettiva deve essere garantita, continuità che non riguarda soltanto i parenti o gli ex affidatari, ma tutte le figure che hanno avuto un ruolo si-gnificativo ed importante nella vita di quel minore. Anche con ri-ferimento a questi aspetti l’accertamento dovrebbe portare ad una conoscenza completa della verità, ma devo dire che purtroppo molto raramente nelle CTU vengono esplorati.

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L’ascolto psicoanalitico nel servizio pubblico come percorso di collegamento tra verità del paziente e verità processuale

Giuseppe D’Agostino - Psicologo, Psicoterapeuta, Psicoanalista SPI e IPA, S.C. NPI ASL TO2.

Quando mi è stato proposto di partecipare a questo seminario, mi è stato chiesto di farlo in una doppia veste: come psicoanalista e come psicologo che lavora in un servizio pubblico. Utilizzando la prospettiva psicoanali-tica, presenterò alcune riflessioni sul percorso di collegamento che dob-biamo fare quando passiamo dalla verità emotiva del nostro lavoro clinico alla verità del contesto processuale.

Prima di procedere, però, devo fare due premesse. La prima è questa: per semplificare, parlerò solo del bambino, tralasciando il lavoro con i genitori. La seconda è questa: parlerò del lavorare con la psicoanalisi, e non come psicoanalista. La psicoanalisi, in questo contesto, costituisce una cassetta degli attrezzi che, di volta in volta, utilizzo. Tali attrezzi mi sono d’aiuto nel modo in cui cerco di ascoltare e osservare il bambino ma, al tempo stesso, nel modo in cui cerco di riflettere su ciò che l’incontro con la sua sofferenza attiva dentro di me e nel gruppo degli operatori coinvolti.

Pensare psicoanaliticamente significa, fra le altre cose, lavorare con le contraddizioni, tollerare le incertezze, creare dei collegamenti. Con-traddizioni e incertezze, per la clinica psicoanalitica, sono ciò che ani-mano, arricchiscono o confondono il mondo interno del soggetto e, da questa prospettiva, la contraddittorietà di ciò che è inconscio è il punto di osservazione privilegiato per conoscere l’altro e aiutarlo a conoscersi. Con i casi seguiti in collaborazione con il Tribunale, però, abbiamo a

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che fare con un’altra contraddizione, generata dalla cornice istituzionale dentro la quale dobbiamo agire. Qual è questa contraddizione?

Quando incontriamo un bambino, seguito in collaborazione con il giudice, cerchiamo un contatto intimo, lo facciamo entrare nella stanza di consultazione, uno spazio speciale e protetto, dove potrà vivere l’e-sperienza di essere ascoltato e compreso. Questa stanza speciale, però, è collegata a un’altra stanza, quella del giudice, l’interlocutore con il quale dobbiamo condividere i contenuti del nostro lavoro, traducendo in pa-role chiare e concrete ciò che chiaro e concreto non può essere: il mondo interno del bambino.

Lo psicologo clinico ha a che fare con questa dicotomia: il bambino della stanza di consultazione, dentro la quale si parla la lingua degli affetti, delle cose incomunicabili e delle cose simbolizzabili; e il bambino della stanza del giudice, dentro la quale si parla il linguaggio della concretezza e delle decisioni importanti. Nella mente dello psicologo clinico questa di-cotomia si trasforma in una tensione, che è bene conoscere e lavorare con essa, per evitare confusione, facili semplificazioni, oppure, cosa molto dolorosa, per evitare uno dei rischi che più corriamo inconsapevolmente: un ascolto del bambino distorto e piegato alle sole esigenze processuali. Può accadere, per esempio, che la nostra valutazione si limiti a un elenco superficiale dei comportamenti e delle rappresentazioni espressi dal bam-bino, che si fermi, cioè, alla mera descrizione di ciò che appare. Quando ciò prevale, e il clinico non se ne rende conto, accade che il bambino della stanza della consultazione non sia visto nella sua realtà emotiva; e questo non sarà d’aiuto per il bambino della stanza del giudice.

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L’ascolto psicoanalitico nel servizio pubblico

Giorgia, una bambina tranquilla

Questo disegno lo ha fatto una bambina di sei anni, che chiamerò Gior-gia, inviata dal Tribunale dopo una segnalazione da parte del Servizio Sociale. Al nostro primo incontro, Giorgia entrò nella stanza sicura di sé, si sedette al tavolo e, mentre ci presentavamo, iniziò a disegnare. La ricchezza e la qualità del disegno erano in linea con l’idea di una bambi-na con uno sviluppo psicologico molto buono. Nel corso dell’incontro, però, il disegno cominciò a raccontare un’altra storia. «Questa sono io che faccio entrare mamma che torna a casa». La madre, nel racconto di Giorgia, tornava da un luogo «in cui stanno i matti»; la bambina accoglie-va una madre malata e incapace di occuparsi di lei. Nel corso dei nostri successivi incontri, fu per me chiaro quanto Giorgia fosse una bambina con un trauma evolutivo molto importante e che il trauma, come spesso accade in queste storie, avesse assunto il volto “colorato e allegro” raffigu-rato nel disegno.

A proposito di alcuni bambini con storie traumatiche, è frequente sentir dire da alcuni operatori: «Oh che bel bambino tranquillo!» ed è frequente che siano chiamati “bambini resilienti”. Molto spesso, invece,

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si tratta di bambini traumatizzati che presentano una facciata di indipen-denza con caratteristiche apparentemente positive. Ciò che è chiamata resilienza può avere alle spalle un ritiro dalle relazioni intime e ciò è pre-giudizievole per lo sviluppo futuro (Emanuel, 2002). In realtà, sono po-chissimi i bambini che, a dispetto della deprivazione e del trauma subiti, sono riusciti a non ammalarsi e hanno continuato un sano percorso di crescita, mantenendo un equilibrio fra l’auto-protezione e la capacità di chiedere e utilizzare le cure necessarie ai loro bisogni.

La maggioranza dei cosiddetti bambini resilienti sono, alla prova di una buona valutazione clinica, bambini che si stanno auto-proteggendo al co-sto di una distorsione molto seria del loro equilibrio psichico. Sono bam-bini che mostrano all’esterno le conseguenze di un adattamento forzato alle vicende della loro vita, ma nel loro funzionamento psichico tengono dissociata una parte fragile e sofferente, come se non appartenesse a loro. Winnicott (1960) ha utilizzato l’espressione Falso Sé per dire che si tratta di un soggetto che ha sacrificato la spontaneità e la vitalità per adattarsi, forzatamente, a ciò che un ambiente deprivante o traumatico ha imposto. Per Winnicott (1948) c’è un senso di sanità in un bambino che protesta e fa richieste. La dissociazione dovuta al trauma assume i tratti psicopatologici quando, nei periodi di cambiamento (come nell’adolescenza) si assiste a un crollo o alla comparsa di parti distruttive e immature.

Altre volte, questi bambini mostrano i segni del trauma quando ma-nifestano l’incapacità a utilizzare ciò che di “buono” l’ambiente esterno è pronto a offrire. Da questo fraintendimento derivano molti dei problemi che vediamo ogni giorno nell’affido familiare o nei rientri a casa. Il “bravo bambino”, alla prova di un nuovo ambiente buono e amorevole, si rivela un bambino ingrato, indifferente o, peggio ancora, distruttivo.

Fu importante, nel caso di Giorgia, portare nella stanza del giudice la bambina traumatizzata che avevo conosciuto nella stanza di consultazio-ne, la bambina che rischiava di restare nascosta, perché era nascosta, in primis, a se stessa. Da altri punti d’osservazione, invece, Giorgia era una bambina che stava bene, le insegnanti, per esempio, continuarono a scri-vere relazioni in cui sostenevano, implicitamente, che io stavo sbagliando tutto.

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L’ascolto psicoanalitico nel servizio pubblico

Un problema che spesso si presenta allo psicologo che deve procedere dalla stanza di consultazione alla stanza del giudice è quello che ha a che fare con i cosiddetti legami affettivi del bambino con i genitori. Come sappiamo, un bambino che ha subito delle deprivazioni da parte della propria madre può continuare a essere molto legato a lei. Soffre perché sta con lei e, al tempo stesso, soffre perché è stato allontanato da lei.

Flora e la sua mamma

Flora è una bambina rumena di sette anni. Nata da una relazione oc-casionale, fu allevata dai nonni materni perché la madre l’aveva lasciata per venire a lavorare in Italia, dove sposò un italiano con problemi di alcolismo. All’età di sei anni, Flora venne in Italia e andò a vivere nella nuova famiglia della madre. Dopo pochi mesi di convivenza, la bambina fu allontanata e messa in una comunità, perché le maestre avevano notato i segni di maltrattamenti fisici che, come poi raccontò la bambina, erano dovuti alle percosse del marito della madre. Flora, separata dai nonni frettolosamente, non aveva mai vissuto con la madre e non conosceva la sua nuova famiglia. Aveva reagito a questi cambiamenti con una serie di comportamenti oppositivi. Questi comportamenti avevano suscitato la reazione violenta del marito della madre e riattivato, in questa, un senso di fallimento e un senso di colpa che la spingevano a “non vedere” i mal-trattamenti subiti dalla figlia.

Avviato un progetto di affidamento familiare, il giudice dovette occu-parsi del rapporto di Flora con la madre. La bambina, dopo pochi incon-tri, aveva idealizzato “gli estranei” che sarebbero diventati la sua nuova famiglia, e spingeva perché l’affidamento si realizzasse in fretta. Anche gli operatori della comunità avevano fretta; per loro, il passaggio sarebbe sta-to indolore, soprattutto perché - scrivevano nelle relazioni - la bambina non aveva un legame forte nei confronti della propria madre. Cosa c’era dietro le idealizzazioni della bambina nei confronti della nuova famiglia?

In una seduta, avvenuta nel periodo di passaggio dalla comunità alla famiglia affidataria, Flora mi parlò con foga dei futuri genitori; un fiume di parole mi travolgeva e sentivo che dietro al giusto entusiasmo c’era

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anche una certa tensione, che però era tenuta nascosta. Dopo un po’ le dissi: «Oggi mi sembri molto tesa, nella tua testa ci devono essere tante cose». Lei cessò il racconto e, con un tono triste, mi disse che l’indomani avrebbe avuto l’incontro con la sua mamma presso il luogo neutro. Di colpo, il clima nella stanza mutò. Flora, molto agitata, tentò di fare un disegno, ma sempre più inquieta strappò il foglio. Si alzò, girovagò per la stanza e poi andò a distendersi sul lettino; iniziò a fissarmi. A un tratto, volse lo sguardo verso la finestra, che ha due vetri, e disse: «Un vetro è sporco, l’altro è più pulito… anche tu vedi questa cosa? Qual è secondo te quello più pulito?».

Le sue parole mi sorpresero e mi sembrarono una comunicazione per vedere assieme ciò che stava dietro al suo sorriso di facciata, ciò che la stava angosciando. Dopo un po’ le dissi: «Anche in questa stanza, oggi, ci sono delle cose più pulite e delle cose più sporche… delle cose che si vedono meglio e delle cose che non si vedono bene». Flora afferrò il senso della mia comunicazione e replicò: «Vuoi dire che un po’ sono contenta e un po’ no?». Risposi: «Si può essere contenti di andare in una famiglia affidataria, ma si può essere anche molto tristi… non si sa che cosa acca-drà e non si sa come la mamma prenderà tutto questo». «Sono contenta – disse Flora – ma anche triste… devo pure lasciare la scuola».

Nel frattempo aveva cambiato posizione, adesso non era più supina, ma stava con la pancia in giù. Dopo un po’, fissandomi, disse: «Se ti guar-do con la faccia girata (intendendo dire da una prospettiva capovolta) quando tu sorridi sembri triste, perché hai la bocca verso il basso, quando invece sei triste mi sembra che tu sorridi» «È proprio vero – le risposi - si può essere visti allegri o tristi, dipende da come si vedono le cose». «Mi sento tutte e due queste cose. Ci voglio andare e non ci voglio andare; lo so che ho bisogno di una famiglia ma voglio anche bene alla mia mamma, anche se sono successe tutte quelle cose brutte».

Fu molto importante che i suoi pensieri e i suoi affetti, così difficili e complicati, potessero essere accolti e compresi. Il desiderio di «fare in fretta» - che segnalava una idealizzazione - era il modo che la bambina aveva trovato per proteggersi da una situazione interna contraddittoria e molto dolorosa. Questa seduta mi aiutò nello scrivere al giudice sulla

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L’ascolto psicoanalitico nel servizio pubblico

necessità che la bambina aveva di mantenere un contatto costante con la madre, anche per salvaguardare il progetto di affidamento familiare.

Per concludere

Concluderò con una riflessione sulla psicoterapia. Molti provvedimenti del Tribunale terminano con questa prescrizione; ma si può prescrivere una psicoterapia? Chi la può decidere? Quando si deve fare?

La psicoterapia è un’esperienza molto specifica, complessa e faticosa, per entrambi i soggetti coinvolti; richiede, inoltre, una rete di sicurezza esterna che la protegga da intrusioni e interruzioni. Lo psicoterapeuta ha bisogno, per iniziare un trattamento, che gli adulti che si occupano del bambino siano affidabili, motivati e collaborativi. Non sempre questo è possibile, ed è meglio aspettare che ci siano le condizioni ambientali necessarie, che iniziare qualcosa che si interromperà dopo pochi mesi, lasciando il bambino con l’ennesima delusione e l’ennesimo fallimento della sua vita.

I bambini che seguiamo con il Tribunale, spesso, sono portatori di una doppia deprivazione, quella inflitta dall’ambiente esterno e quella causata dalle dinamiche interne, che li portano ad ammalarsi e a non fare un buon uso di ciò che gli è offerto. In alcuni casi, però, c’è il rischio che a questa doppia deprivazione se ne aggiunga un’altra, quella che deriva, implicitamente, dalle istituzioni che hanno in carico il caso. Questo acca-de quando l’angoscia blocca il pensiero di gruppo e prevale un agire fine a se stesso, senza un progetto, con il solo scopo di evacuare la confusione e le tensioni. In queste situazioni prevale il fare, e allora si ritiene “urgente” offrire al bambino “tutte le opportunità di cui ha bisogno”.

Le conseguenze saranno una nuova confusione e un successivo senso di fallimento. Un bambino, la cui crescita è stata distorta dal trauma, un trauma fatto di deprivazioni, abusi o violenze, non sempre è capace di utilizzare, immediatamente, le cose buone che gli sono offerte. E la psicoterapia è una di queste. Spesso c’è bisogno di un lungo periodo di preparazione, e di un lavoro con gli adulti che si stanno occupando del bambino. Una psicoterapia la si può fare subito, fra un anno o, forse,

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La costruzione della ‘verità clinica’ nel processo: lo psicologo forense al lavoro

mai. Dipende. A volte, inoltre, è più utile proporre interventi d’altro tipo. Infine, c’è da aggiungere che, a volte, è molto difficile condurre una psicoterapia nello stesso luogo in cui ha avuto inizio la segnalazione al Tribunale. Soprattutto quando si tratta di adolescenti.

Daria – il nome è di fantasia – era stata allontanata dalla famiglia, e inserita in comunità, dopo che una collega aveva valutato che la malattia psichica della madre e i comportamenti del padre la stavano portando ad ammalarsi. In comunità, Daria comunicava i segni di un disagio psichico importante e il fatto che fosse alle soglie dell’adolescenza aveva spinto la collega a chiedermi di iniziare una psicoterapia. La collega sapeva che non poteva essere lei ad occuparsene. La ragazza era consapevole delle difficoltà della sua famiglia e aveva compreso il valore positivo dell’inseri-mento in comunità ma, al tempo stesso, una sua parte più nascosta viveva l’allontanamento come un evento persecutorio e lo stesso servizio di NPI rappresentava, nel suo mondo interno, un persecutore odiato. Daria ve-niva da me volentieri, ma solo apparentemente.

Ogni tanto, si riferiva a me dicendo: «Voi avete detto… voi avete deci-so… voi avete pensato». Quel voi, che stava a indicare l’istituzione perse-cutoria che l’aveva allontanata da casa, invadeva la nostra relazione e non permetteva a me e a lei di pensare. Lo spazio terapeutico era occupato da contenuti persecutori potentissimi. Purtroppo, non riuscimmo a declina-re quel voi e a trasformarlo all’interno della nostra relazione, affinché la ragazza potesse sentire di aver trovato qualcuno che fosse lì solo per lei e solo per curarla. Dopo pochi mesi, Daria interruppe la terapia e si dovet-tero mettere in campo altri tipi di intervento.

Bibliografia

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