La conversazione interiore -...

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Introduzione all’edizione italiana (Pierpaolo Donati) 9 Prefazione dell’Autrice all’edizione italiana 45 Introduzione: in che modo la struttura influenza la agency? 53 PRIMA PARTE – SOLITUDINE E SOCIETÀ Capitolo primo La vita interiore del soggetto sociale 77 Estrarre dall’introspezione il nostro «occhio interiore» L’esistenza, l’inestirpabilità e l’efficacia causale della conversazione interiore Conclusioni Capitolo secondo Dall’introspezione alla conversazione interiore: un percorso incompiuto in tre tappe 123 Tappa numero uno. William James e la lotta contro l’introspezione: dallo «sguardo» all’ «ascolto» Tappa numero due. Charles Sanders Peirce: emerge la conversazione interiore Tappa numero tre. George Herbert Mead: la «ipersocializzazione» della conversazione interiore Conclusioni Capitolo terzo Il recupero della conversazione interiore 177 Com’è possibile che il Sé sia soggetto e oggetto al medesimo tempo? Chi parla a chi? Indice

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Introduzione all’edizione italiana (Pierpaolo Donati) 9

Prefazione dell’Autrice all’edizione italiana 45

Introduzione: in che modo la struttura influenza la agency? 53

PRIMA PARTE – SOLITUDINE E SOCIETÀ

Capitolo primo

La vita interiore del soggetto sociale 77Estrarre dall’introspezione il nostro «occhio interiore»L’esistenza, l’inestirpabilità e l’efficacia causale della conversazione interioreConclusioni

Capitolo secondo

Dall’introspezione alla conversazione interiore:un percorso incompiuto in tre tappe 123

Tappa numero uno. William James e la lotta contro l’introspezione: dallo «sguardo» all’ «ascolto»Tappa numero due. Charles Sanders Peirce: emerge la conversazione interioreTappa numero tre. George Herbert Mead: la «ipersocializzazione»della conversazione interioreConclusioni

Capitolo terzo

Il recupero della conversazione interiore 177Com’è possibile che il Sé sia soggetto e oggetto al medesimo tempo?Chi parla a chi?

Indice

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Parlare alla società o della societàConclusioni

Capitolo quarto

Il processo di mediazione tra struttura e agency 229RiepilogandoLe tre fasi del processo di mediazioneIl modus vivendi: una questione di pratiche da consolidare

SECONDA PARTE – MODI DI RIFLESSIVITÀ E POSIZIONI RISPETTO ALLA SOCIETÀ

Capitolo quinto

Un approfondimento sulle forme della conversazione interiore 259Il progettoI soggetti intervistatiLe intervisteL’analisiI limiti dell’esplorazione

Capitolo sesto

I riflessivi comunicativi 279Angie Fletcher: il ritratto di una «riflessiva comunicativa»I «riflessivi comunicativi» sulla scala dell’etàI «riflessivi comunicativi» e la mediazione della struttura socialeCollocazione sociale involontaria e continuità contestualeComposizione degli interessi e riduzione attiva degli orizzonti socialiAppagamento ed «elusione» dei vincoli e delle facilitazioniConclusioni

Capitolo settimo

I riflessivi autonomi 339Eliot Wilson: il ritratto di un «riflessivo autonomo»I «riflessivi autonomi» sulla scala dell’etàI «riflessivi autonomi» e la mediazione della struttura socialeCollocazione sociale involontaria e discontinuità contestualeComposizione degli interessi e realizzazione dei progetti individuali«Riflessività autonoma» ed esposizione ai vincoli e alle facilitazioniConclusioni

Capitolo ottavo

I metariflessivi 399Cass Ballantine: il ritratto di una «metariflessiva»I «metariflessivi» sulla scala dell’età

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I «metariflessivi» e la mediazione della struttura socialeDislocazione contestuale e traiettorie biograficheLe difficoltà a comporre gli interessiLa «metariflessività» in relazione ai vincoli e alle facilitazioniConclusioni

Capitolo nono

I riflessivi fratturati 457Riflessività «impedita» e passività degli agenti Lara: una «riflessiva comunicativa impedita»Lawrence: un «riflessivo autonomo impedito»Riflessivi «fuori posto» e agenti irrealisticiGwen: una «riflessiva comunicativa fuori posto»Nei pressi della non-riflessività: il caso di Jason

Conclusione: poteri personali e poteri sociali 517

Le «posizioni» rispetto alla società: origini, orientamenti, risultati

Bibliografia 543

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Introduzione all’edizione italiana 9

Capitolo sesto

La conversazione interiore: un nuovo paradigma (personalizzante)

della socializzazioneIntroduzione all’edizione italiana

di Pierpaolo Donati(Università di Bologna)

Il tema e le tesi di fondo del libro

Il tema di fondo che Margaret Archer affronta in questo volume ri-guarda la vexata quaestio dei rapporti fra individuo e società. Per esprimerla in modo molto sintetico: è la società che fa l’individuo o è l’individuo che fa la società?

Questo problema ha attraversato e attanagliato tutta la teoria sociale moderna. La sua formulazione più recente è quella che, a livello interna-zionale, è nota come questione dei rapporti fra structure and agency, ossia la questione di come si combinano fra loro la struttura sociale e l’agire libero della persona.

È importante rendere edotto il lettore che il presente volume risponde a tale questione avendo come sfondo una teoria generale elaborata dall’Autrice in una trilogia precedente.

In Culture and Agency (1988) ha analizzato il nesso fra cultura e azione, mostrando i complicati sentieri attraverso cui la cultura influenza l’azione umana senza pregiudicarne l’intima libertà. In Realist Social Theory: The Morphogenetic Approach (1995, trad. it. 1997) ha allargato l’orizzonte all’in-fluenza della struttura sociale — oltreché della cultura — sull’agire umano, elaborando più compiutamente (dopo vari saggi specialistici preparatori) il paradigma generale della morfostasi/morfogenesi. In Being Human. The Problem of Agency (2000) ha affrontato il problema dell’agire umano come

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tale, cioè cercando di comprenderne le qualità specifiche, sempre dal punto di vista delle scienze sociali. In quel libro, Archer rivendica il concetto di umanità contro quelle teorie sociali che cercano di sminuire le proprietà e i poteri dell’umano. Il fatto di «essere umani» — questa è la sua argomentazione — dipende dalla interazione che la persona ha con il mondo reale, in cui la pratica (l’esperienza derivata dalle attività pratiche messe in atto) ha una priorità sul linguaggio nel far emergere l’auto-coscienza umana, il pensiero, l’emozionalità e l’identità personale, tutte cose che precedono l’acquisizione di un’identità sociale da parte della persona. Il discorso è condotto nell’ottica di un serrato confronto con il postmodernismo e con la tesi della dissoluzione dell’umano che pervade gran parte delle scienze sociali contemporanee.

Nel presente volume Archer riprende il tema che considera centrale: che cosa vuol dire essere umani oggi, cioè in un’epoca di profondi diso-rientamenti, incertezze, relativismi e, in ultima analisi, in una società che — strutturalmente e culturalmente — sembra sempre più indebolire, se non proprio eliminare, il soggetto umano?

La risposta è nella citazione, presa da Vincent Colapietro, che apre il volume: «Essere umani significa esistere nella tensione tra la solitudine e la società» («To be human is to exist in the tension between solitude and society»). Con un linguaggio consono alla sociologia relazionale, potrei tradurlo così: «essere umani significa esistere nella relazione sociale». Ossia, l’umano, che è generato dalle persone, si rivela nella relazione sociale tra la persona e il suo mondo sociale. L’umano emerge bensì all’interno di strutture sociali e di un ambiente culturale, ma non coincide con essi. È la relazione sociale che fa uscire l’essere umano dalla solitudine. Ma l’incontro con la società non è meno drammatico della solitudine. Nello spazio-tempo della relazione si gioca il destino delle persone. Questo destino, per quanto influenzato dalla società circostante, dipende in modo essenziale da ciò che avviene dentro le persone, cioè in quella che l’Autrice chiama la «conversazione interiore» o «conversazione interna» (di cui si dirà).1

Con questo volume, dunque, Archer riprende e approfondisce quanto elaborato nella trilogia sopra citata per rispondere — con un’ulteriore elabo-

1 I termini interiore e interna sono praticamente intercambiabili; anche se, a mio avviso, volendo fare un’analisi semantica, il termine «interiore» connota l’attività riflessiva dal punto di vista della coscienza, mentre il termine «interna» marca la distinzione con l’esterno della persona.

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Introduzione all’edizione italiana 11

razione di strumenti concettuali ed empirici — alla domanda fondamentale: «come la struttura sociale influenza l’agire e viceversa?» (introduzione a questo volume). Lo scopo viene perseguito attraverso due grandi trattazioni, una teorica e una empirica.

La prima parte presenta una critica alle teorie correnti della socializzazione (soprattutto sociologiche e psicologiche) che, in grandissi-ma parte, intendono la socializzazione come un processo di determinismo strutturale o culturale o di puro condizionamento dall’esterno (quelli che io chiamo sociologismi). Di fronte alla domanda: «come i connotati oggettivi della società influenzano gli agenti umani?», Archer rifiuta sia la soluzione del determinismo (secondo cui la società precede gli individui e ne determina le azioni), sia la soluzione del condizionamento (secondo cui la società, pur non determinando completamente le azioni degli individui, li condiziona in mille modi e con effetti decisivi: dando loro una certa rappresentazione culturale di ciò che sono e fanno e alla quale essi non possono sottrarsi, ricevendo certe opportunità e non altre, venendo vincolati a certi ruoli da cui non possono uscire, ecc.).

L’Autrice non si sofferma tanto sulla critica al determinismo, che ha già ampiamente svolto nella trilogia sopra citata. Piuttosto, il compito che si assume in quest’opera è quello di far uscire le teorie sociologiche e psico-sociali del condizionamento (conditioning) dalla vaghezza in cui si trovano ancor oggi (accanto ad esse possono essere collocate anche le teorie psico-fisiologiche classiche, quelle pavloviane, o le teorie comportamentistiche, quelle del condizionamento skinneriano, che sono pure deterministiche).

In effetti, se criticare il determinismo è relativamente semplice (quando si osservi che le persone non sono automi), assai più difficile è prendere le distanze dalle teorie del condizionamento, che, a prima vista, sembrano ragionevoli e, in fondo, veritiere, nella misura in cui queste teorie danno importanza al modo in cui i fattori strutturali e culturali forgiano il contesto in cui gli individui agiscono. Tipiche, a questo proposito, sono quelle che potremmo chiamare le «teorie weberiane moderate», le quali assumono la priorità della agency (ossia, con Max Weber, assumono una prospettiva individualista della persona che agisce con libertà intenzionale dotata di senso), ma «moderano» l’agire con i vincoli della socializzazione acquisita in passato dall’individuo o del contesto attuale, con la conseguenza di trattare le persone come se fossero degli individui liberi di muoversi in un labirinto da cui non possono uscire.

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Il punto che Archer sottolinea è che tutte queste teorie (del determinismo e del condizionamento) trascurano la capacità delle persone di definire ciò che a loro interessa di più e di stabilire un modus vivendi che esprima i loro interessi e impegni «ultimi» (gli ultimate concerns, che, nei volumi precedenti, sono chiamati anche ultimate commitments). Come possiamo e dobbiamo intendere «il condizionamento» delle strutture socioculturali sull’agire umano?

La soluzione proposta da Archer non consiste in una particolare defi-nizione del condizionamento (dall’esterno verso l’interiorità della persona umana), ma nel fornire un nuovo quadro concettuale che rivede in radice i termini della questione. Le strutture socioculturali non condizionano gli individui nel senso di riuscire a far loro accettare una qualche conformità, e neppure, a ben vedere, in quanto offrono loro certe opportunità e certi vincoli anziché altri (un ventaglio di scelte situate). Le strutture socioculturali influenzano l’agire umano solo attraverso la riflessività interna della persona, la quale deve introdurre i dati del contesto esterno nelle sue strategie e fare i conti con esse. Ma non si tratta di un condizionamento dall’esterno che causi direttamente l’agire umano.

La proposta dell’Autrice è quella di analizzare il problema dal punto di vista di come la persona non viene socializzata dall’esterno, ma si socializza nel corso della sua vita. Introduce, quindi, lo schema della morfogenesi della persona, arrivando a ipotizzare che sia la riflessività interna della persona ciò che costituisce la soluzione del problema, cioè il missing link che opera la mediazione fra la struttura e l’agire.

Nella seconda parte, l’Autrice presenta una ricerca empirica da lei stessa condotta per verificare sul campo, attraverso interviste in profondità, la tesi teorica centrale. Si tratta di una indagine del tutto originale per impianto concettuale e metodologia, che rimane aperta a ulteriori perfezionamenti. Tale indagine conduce alla identificazione di una tipologia di «conversazioni interiori», che consiste in tre tipi peculiari e in un quarto tipo — ampio e indefinito, residuale rispetto agli altri tre — che necessita di ulteriori spe-cificazioni analitiche. In breve, il volume mostra come siano le differenti forme di conversazione interiore a spiegare i modi in cui gli agenti/attori sociali governano le loro risposte ai condizionamenti sociali (strutturali e culturali), per esempio come perseguono i loro modelli individuali di vita familiare, di ricerca del lavoro o di mobilità sociale, e in ultima analisi se e come si produca stabilità o cambiamento sociale.

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Introduzione all’edizione italiana 13

Il filo rosso delle argomentazioni e i principali risultati

L’Autrice parte dall’idea che i fondatori della sociologia moderna (i cosiddetti «classici», come Marx, Durkheim, Weber) ci hanno lasciato delle domande a cui non hanno saputo o potuto dare risposte convincenti. Le due maggiori questioni, a suo avviso, riguardano (a) il rapporto fra agency e struttura e (b) il rapporto fra soggettività e oggettività (ovvero i fattori soggettivi e oggettivi che forgiano i processi sociali). Le due questioni sono con tutta evidenza connesse fra loro (l’agire richiama i fattori soggettivi e le strutture i fattori oggettivi).

A partire dalla teoria classica, si è sviluppato un modello a due gradini (two step model) che è fondamentalmente «oggettivista», nel senso che, nello spiegare i fatti sociali, privilegia i fattori oggettivi. Archer lo sintetizza così (figura 1) (lo si può chiamare anche modello a due fasi o passaggi, two stage model).

1° step: Le proprietà strutturali e culturali forgiano in modo oggettivo le situazioni che gli agenti involontariamente devono affrontare ed esercitano poteri di costrizione (constraint) e capacitazione (enablement) in relazione a:

2° step: le proprietà imputate agli agenti, che l’osservatore ritiene (assume) governino le loro azioni, cioè:• gli interessi oggettivi (critical relism)• la razionalità strumentale (rational choice theory)• l’habitus (P. Bourdieu)

Fig. 1 Il modello a due gradini (two step model).

In tale modello, i fattori che giocano il ruolo di protagonisti, cioè che spiegano i comportamenti e i fatti sociali, sono le proprietà strutturali e culturali di un contesto (primo gradino). Sono essi che guidano gli attori, nel senso che definiscono le costrizioni e le risorse a cui gli individui sono sottoposti e rispetto ai quali gli attori agiscono vuoi in base a interessi oggettivi, vuoi in base alla razionalità strumentale, ma anche in base alle abitudini (habitus).

Secondo Archer questo modello classico presenta due errori (così lei li chiama). Il primo è che la soggettività degli attori viene fortemente

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sminuita (subjectivity is played down). Il secondo errore è che, in tale mo-dello, non si vede ciò che viene sottoposto a costrizioni o sostegni; i vincoli e le capacitazioni richiedono qualcosa che abbia la potenzialità di essere costretto o capacitato (constraints and enablements require something able to be constrained and enabled).

In breve, il modello a due gradini lascia fuori la riflessività umana. Mette fuori gioco la riflessività umana che gli attori esercitano in relazione alle circo-stanze in cui sono coinvolti. Fra gli autori contemporanei che adottano questo modo di spiegare le azioni sociali, Margaret Archer colloca Pierre Bourdieu e Anthony Giddens, i quali omologano fra loro l’azione e la struttura sociale.

Chi adotta il modello a due gradini perde il fatto (vero, reale) che ciò che muove l’agente/attore sociale è la sua riflessività interna. Il modello contrasta con l’evidenza empirica, per la quale ogni essere umano «normale» agisce in base alla sua riflessività interna, e non opera come un’estrinseca-zione di strutture sociali, né tantomeno come un automa. La riflessività — o conversazione interiore — non è unica, ma può avere tante e svariate forme. In via generale implica fattori cognitivi, decisioni, emozioni, desi-deri di beni apprezzati (concerns). Gli agenti valutano la situazione alla luce dei loro «interessi», oltre che delle circostanze, e hanno dei progetti sulla realtà. La nozione di «interesse» deve essere intesa in senso lato, non certo in senso utilitaristico, materiale o ideale: in poche parole, concern è ciò che una persona ritiene possa rendere felice la propria vita.

Ma che cos’è la riflessività umana? Il presente volume è un’accurata e complessa analisi di come possiamo cogliere il suo modo di essere e di operare. Per dare al lettore una definizione semplice e immediata, possiamo dire che la riflessività umana è l’attività interiore (coscienziale) del soggetto umano circa la vita buona. La «vita buona» (good life) non è predefinita, né dall’attore né dall’osservatore. Essa consiste in quelli che, in ogni circostanza, sono gli «interessi ultimi» (ultimate concerns) della persona, ossia che la persona sente essere i suoi «interessi ultimi». Le persone sono gli agenti/attori sociali che prendono delle decisioni circa le singole e concrete scelte che potranno condurli a realizzare le deliberazioni interiori in merito a che cosa fare per raggiungere le proprie finalità o aspirazioni ultime.

Il modello a due gradini deve allora essere modificato per includere questa realtà. Ne deriva un modello a tre gradini (three step model) che incorpora la riflessività umana (figura 2).

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1° step: Le proprietà strutturali e culturali forgiano in modo oggettivo le situazioni che gli agenti involontariamente devono affrontare e possiedono dei poteri generativi di costrizione e capacitazione in relazione a:

2° step: le configurazioni degli interessi degli attori (agents’ own configurations of concerns), così come soggettivamente definiti da loro stessi in base alle loro identità personali (l’identità personale è una costellazione di ultimate concerns), cosicché

3° step: i corsi di azione vengono prodotti attraverso le deliberazioni degli agenti, i quali soggettivamente determinano i loro progetti in relazione alle loro circostanze oggettive.

Fig. 2 Il modello a tre gradini (three step model).

Il modello a tre gradini proposto da Archer presenta il vantaggio, rispetto al modello classico, di andare oltre (di «trascendere») le divisioni (differenze, distinzioni) fra agency e struttura, tra fattori oggettivi e soggettivi. Il processo di trascendenza non deve essere visto come una sorta di fusione o di interpenetrazione dei termini che collega, perché agency e struttura sono ordini di realtà ontologicamente diversi e analiticamente separati. È qui dove la teoria del condizionamento (che il primo modello a due gradini intende a senso unico dalle strutture verso l’agire) viene sostituita da una teoria più precisa, analitica, che consente di distinguere meglio il ruolo autonomo giocato dai vari fattori oggettivi e soggettivi.

Il concetto di «trascendenza» non è qui inteso in senso filosofico, ma viene utilizzato ed elaborato nel quadro del paradigma morfogenetico ed emergentista. Secondo il paradigma morfogenetico, le strutture sociali condizionano bensì gli agenti, ma gli agenti, interagendo fra loro e con le strutture, possono modificarle (in virtù non di dinamiche oggettivistiche, ma riconducibili alla riflessività interna degli agenti/attori), generando così nuove forme sociali. In base al paradigma emergentista, ogni proprietà o potere (sia degli agenti sia delle strutture) deve essere visto come un fatto (?) emergente dai fattori (elementi e relazioni) che lo generano.

Le proprietà e i poteri che appartengono agli agenti/attori sono del tutto differenti da quelli delle strutture. È per questa ragione che le forme sociali non sono determinate o puramente condizionate dalle strutture, come pensano coloro che adottano il primo modello (figura 1). Il punto cruciale del secondo modello (figura 2) sta dunque nell’introdurre una me-diazione fra le strutture e le azioni, mediazione che è svolta da (si chiama)

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riflessività umana nel determinare l’agire, pur nel mezzo dei vincoli e dei condizionamenti delle strutture.

Archer si rifà al pensiero di Roy Bhaskar e in particolare a un’affer-mazione di quest’ultimo che l’ha molto colpita: «il potere causale delle forme sociali è mediato attraverso l’agire sociale» (1989, p. 26). L’idea secondo la quale (in una formula più ridotta) «the social form is mediated through agency» diventa la stella polare della sua ricerca. L’obiettivo, che costituisce il nocciolo del presente volume, diventa quello di analizzare questo «through», che deve essere tirato fuori (unpacked) e compreso come un processo di riflessività, laddove per riflessività umana si deve intendere la conversazione interiore che ciascun soggetto (come «Io») ha con se stesso, il parlare con se stessi della situazione e dei propri sentimenti, visioni e progetti su di essa.

Archer propone di guardare alle forme sociali attraverso la sequenza (logica ed empirica) che inerisce alle azioni degli agenti/attori sociali, sequenza che va dai beni che i soggetti cercano di realizzare avendoli prima definiti interiormente (nella loro conversazione interiore), alle micro-strategie che progettano, alle pratiche che mettono in atto (figura 3).

Definizione e Sviluppo di Creazione e Dimensionamento concreti corsi soddisfacimento dei propri di azione come di adeguate interessi: progetti: pratiche: concerns projects practices (internal goods) (micro-politics) (modus vivendi)

Fig. 3 La sequenza con cui osservare gli attori sociali.

Osservata dal punto di vista di come le persone sono incorporate (embodied) nelle strutture sociali che le condizionano, la realtà ci offre vari modi di riflessività intesa come conversazione interiore. Archer riscontra empiricamente tre tipi per così dire ben definiti, e un quarto tipo nel quale colloca i tipi rimanenti («residuali») rispetto ai primi tre (residuali non perché siano poco diffusi, anzi probabilmente lo sono più degli altri, ma nel senso che devono ancora trovare una loro più precisa identificazione).

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Introduzione all’edizione italiana 17

Per sintetizzare brevemente questa tipologia (figura 4), ecco come vengono definiti i tipi o modi di riflessività, e quindi i tipi di persone (agenti/attori sociali).

I. Il tipo del riflessivo comunicativo (communicative reflexive) corrisponde a quelle persone la cui conversazione interiore necessita di essere completata e confermata da altri prima che queste persone agiscano. In altri termini, la loro riflessività dipende dalla conferma di altri significativi, in particolare da coloro che fanno parte della rete primaria di appartenenza (familiari, parenti, amici). La riflessività interna ha un modo di porsi e un modus vi-vendi che privilegia l’integrazione sociale nelle reti dei rapporti tradizionali, e in questo senso è espressiva (il termine inglese evasive indica il fatto che si rimette a questi rapporti).

II. Il tipo del riflessivo autonomo (autonomous reflexive) corrisponde a quelle persone che sostengono una conversazione interiore autoconsistente (self-contained) che li porta direttamente all’azione. Sono i cosiddetti auto-diretti, quelli la cui riflessività dipende principalmente da se stessa, e che quindi dipendono meno di tutti gli altri dal contesto esterno. Il modus vivendi è strategico, nel senso che privilegia l’integrazione sistemica (che consiste nelle relazioni strutturali impersonali fra parti della società), la quale, diversamente dall’integrazione sociale (che consiste in quelle relazioni interpersonali di mondo vitale che «legano» gli individui), consente una maggiore individualizzazione degli individui.

III. Il tipo del metariflessivo (metareflexive) corrisponde a quelle persone che sono critiche con la loro stessa conversazione interiore e con gli effetti della loro azione nella società. Sono quelli che producono una critica sia di se stessi sia della società e, soprattutto, delle relazioni fra sé e la società, e quindi non sono radicati in nessun contesto. Qui la riflessività interna del soggetto dipende dalla relazione con l’esterno, relazione che è vista sempre in modo problematico, critico-consapevole, nel senso che il tipo metariflessivo è uno che sperimenta continuamente il bisogno di una mutua e parallela critica di sé e della società. Il modus vivendi è detto subversive in quanto esprime una continua insoddisfazione per quanto avviene, è sempre alla ricerca di una nuova sinergia fra integrazione sociale e integrazione sistemica dal momento che nessun progetto concreto, e tantomeno le azioni messe in atto, realizzano gli ideali del soggetto.

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IV. Il tipo del riflessivo fratturato (fractured reflexive) corrisponde a quelle persone che non possono condurre una conversazione interiore fina-lizzata, cioè capace di porsi delle finalità (purposeful), perché sperimentano internamente grandi tensioni e disorientamento (distress and disorientation). Il loro modus vivendi si caratterizza per una mancanza di integrazione, sia sociale sia sistemica.

La figura 4, che qui propongo per semplificare la lettura del testo, sintetizza i suddetti quattro tipi mettendone in rilievo, per così dire, le parole-chiave.

Tipo di riflessività Carattere basilare Modo di porsi (stance) e modus vivendi

Comunicativo Dipendente Espressivo (evasive) (privilegia l’inte-grazione sociale nelle reti di rappor ti tradizionali)

Autonomo Indipendente Strategico (strategic) (privilegia l’integra-zione sistemica che consente il massimo di individualizzazione)

Metariflessivo Critico sia verso di sé sia verso la società

Insoddisfatto-innovativo (subversive) (sem-pre alla ricerca di una nuova sinergia fra integrazione sociale e sistemica che realizzi i propri ideali, dato che nessun progetto concreto riesce a soddisfarli)

Fratturato Impedito (impeded) o fuori posto (displa-ced)

Fortemente stressato (distressed) o diso-rientato (disoriented) (privo di integrazione sia sociale sia sistemica)

Fig. 4 I tipi di riflessività o conversazione interiore.

L’ipotesi che io qui avanzo, come pista per ulteriori ricerche, è che questi tipi di riflessività siano correlati a precise e differenti forme di reti sociali aventi differenti tipi di capitale sociale: il tipo «riflessivo comunicativo» mi sembra che possa essere correlato al capitale sociale bonding (che lega le persone in una comunità stretta, come la famiglia, la parentela, il vicinato, i gruppi amicali), il tipo «riflessivo autonomo» al capitale sociale bridging (che connette gli individui al di là e oltre le comunità di appartenenza: lo sono per esempio i broker che gestiscono i buchi strutturali nelle reti), il

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Introduzione all’edizione italiana 19

tipo «metariflessivo» a forme critiche, innovative, creative di capitale sociale (forme di cui le ricerche non hanno ancora parlato, ma che possiamo ipo-tizzare si configurino come stelle mobili di reti altrettanto mobili), e il tipo «riflessivo fratturato» a forme lacunose, stressate, disorientate di capitale sociale (di cui anche non si parla).

Sottostanti a ciascuno di questi tipi o modi di riflessività, vi sono gli interessi ultimi che l’individuo ritiene siano gli ideali della vita buona per lui stesso.

La tipologia, in sintesi, è costruita a partire dall’idea che sia l’Io (I) della persona che, attraverso la sua conversazione interiore, rende più attivo e finalistico (oppure più passivo e privo di scopi) l’individuo come agente/attore sociale.

L’Io dialoga con se stesso attraverso la rappresentazione che ha di sé, rispettivamente in quattro ambiti: al proprio interno (individuale privato) come self; in quanto agente primario come Me (Me) — ossia per come gli altri intorno lo identificano (sono il figlio di -, sono il fratello di -, ecc.) —; in quanto membro di un gruppo come Noi (We) — per es. nelle identità territoriali, religiose, associative —; in quanto attore in un ruolo sociale (You) — per esempio come operaio o imprenditore, o come cittadino di uno stato nazionale — (analizzerò più in dettaglio questo schema nella figura 6).

Questi ambiti di identità personale e sociale attraverso cui l’individuo passa, formano una sequenza che è non solo logica, ma anche temporale per ogni individuo, il quale, attraverso il dialogo con se stesso sulle varie identità che assume nel corso della sua vita, fa la sua storia. Ma non solo la sua storia. Fa anche la società, nel senso che è la conversazione interiore, secondo Archer, che spiega perché le forme sociali vengono trasformate o modificate in qualche modo.

Ciò che genera nuove forme sociali, a suo avviso, non è né una logica interna alle strutture (come la divisione del lavoro sociale secondo Durkheim o la differenziazione funzionale secondo Luhmann), né una logica interna agli individui in quanto «socializzati» dall’esterno (cioè visti come attori che aderiscono a determinati ruoli sociali o a certi sistemi culturali — si pensi ad es. alla sociologia di Parsons e Alexander —); quest’ultima logica non vale nemmeno quando si rilevi che le azioni conseguenti all’assunzione di certi orientamenti di valore producono in modo più o meno non inten-

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20 La conversazione interiore

zionale determinati effetti (come sostengono i seguaci di Max Weber e gli individualisti metodologici in genere).

Davvero la nozione di «conversazione interiore» risulta un’assoluta novità se è vista — secondo gli intenti di questo volume — come un con-cetto rilevante e pertinente per la sociologia, non già come una vaga nozione psicologica o morale, o addirittura «religiosa». Il concetto di conversazione interiore è formulato in un complesso quadro teoretico che ammette verifica empirica.

Un aspetto che merita di essere approfondito riguarda la formula adottata da Archer secondo cui «la forma sociale è mediata dalla agency» in netta contrapposizione (e qui sta il suo carattere «provocatorio») all’as-sioma della sociologia classica, secondo cui, viceversa, «la agency è mediata attraverso le forme sociali».

Per la sociologia classica (figura 1), le azioni delle persone sono un modo di esprimere, attuare, rispondere alle strutture socioculturali date. Archer rivendica il fatto che, senza riflessività interna delle persone, non esisterebbe la società («Se gli esseri umani non fossero riflessivi non po-trebbe esistere una cosa come la società. Questo succede perché qualunque forma di interazione, dalla diade al sistema globale, richiede che i soggetti siano consapevoli di se stessi [...] Senza questo, nessuna interazione fra due persone potrebbe iniziare, tantomeno diventare una relazione stabile»). In altri termini: la società esiste non già perché ci siano delle strutture là fuori, pronte per essere azionate in un modo o nell’altro, ma perché esiste e opera la riflessività interna degli esseri umani.

Ma ci si può chiedere: il fatto di ritenere che l’identità personale si formi prima dell’apprendimento del linguaggio e delle interazioni nella società, e nello stesso tempo assumere la formula «la forma sociale è mediata dalla agen-cy», non comporta forse l’aderire a una visione de-socializzata dell’individuo e del sociale (dalla diade al sistema globale)? La risposta deve essere negativa. La teoria di Archer, anzi, deve essere intesa come un modo per valorizzare, in una maniera sino a oggi disconosciuta, le dinamiche socializzative. Proprio il fatto che il sociale non venga all’esistenza se non attraverso la riflessività umana (la conversazione interiore della persona) indica quante e quali forme potrebbero emergere, al di là delle possibilità sinora attuate.

Archer vuole semplicemente rivendicare il ruolo attivo e riflessivo dell’agente/attore, laddove la sociologia classica (e molta parte di quella

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Introduzione all’edizione italiana 21

contemporanea) osserva la riflessività interna della persona umana come un’attività che può avvenire solo (pre)assumendo la mediazione delle strut-ture e delle condizioni sociali esterne, cosicché l’attività riflessiva interna alla coscienza diventa una sorta di alter-ego di quelle (cioè un’altra forma sociale, interna all’individuo anziché esterna a lui).

In realtà, non si deve incorrere nell’errore di pensare che la proposta di Archer sia, volutamente o meno, una sorta di «ribaltamento» del paradigma classico nel senso semplicistico di rovesciare la teoria classica da capo a piedi (secondo la immagine di Marx che «ribalta» Hegel). Non si tratta di mettere la coscienza al posto delle strutture. Il secondo modello non rovescia il primo da capo a piedi, né cancella il primo, ma lo ripropone ad un altro livello, che io chiamerei relazionale, nel senso che, nel modello a tre gradini (figura 2), la struttura non agisce in modo diretto e a senso unico sulla agency, bensì «struttura» e «agire» interagiscono relazionalmente e generano nuove forme sociali attraverso processi morfogenetici.

Per comprendere questo punto, occorre avere cognizione dello schema che Archer utlizza per criticare le confusioni (conflazioni) fra struttura e agency, che sono moneta corrente in gran parte della sociologia. Secondo Archer esistono tre tipi di conflazioni. (a) La conflazione dall’alto è quella delle teorie secondo cui le strutture determinano le azioni individuali (comprende il modello a due gradini già esposto ed è diffusa nelle sociologie olistiche, quelle in cui il tutto — l’Essere della Società — determina le parti). (b) La conflazione dal basso, viceversa, è quella secondo cui sono gli individui a fare le strutture sociali (le quali sono pertanto delle proiezioni degli individui o degli effetti cumulativi delle loro azioni); questo modello, che è l’esatto ribaltamento del primo, non è di Archer, ma di quelle scienze sociali (in gran parte di derivazione economica) che adottano una prospettiva di in-dividualismo metodologico, ossia partono dall’idea che la persona sia un individuo autosufficiente che crea le forme sociali attraverso l’agire (soprat-tutto l’agire razionale: si veda la rational choice theory), idea che sta alla base del razionalismo illuministico e connota quello che Archer chiama l’Uomo della Modernità (individualista e utilitarista). (c) La conflazione centrale è quella secondo cui struttura e agency si co-determinano perché sono «fatti» l’una dell’altro; la loro relazione è un’interazione «orizzontale» nel tempo in cui gli elementi oggettivi e soggettivi si mescolano e si fondono (non c’è una sequenza temporale che permetta di distinguere gli apporti causali

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22 La conversazione interiore

dell’uno e dell’altro termine); il tipico rappresentante di questa conflazione è Anthony Giddens (sul confronto con questo autore si veda Bortolini e Donati, 1999).

Archer critica le teorie sociologiche sulla base del fatto che, a suo avviso, commettono uno di questi errori, e propone al loro posto lo figura della morfostasi/morfogenesi (figura 5) in cui è possibile analizzare l’apporto delle strutture iniziali (al tempo T1), l’interazione delle azioni nella fase temporale T2-T3, la genesi di nuove strutture sociali al tempo T4.

Fig. 5 Il processo di morfostasi/morfogenesi.

Strutture date che condizionano le azioni

Inter-azioni socioculturali

Elaborazione di nuove strutture (morfogenesi)

T1

T2 T3

T4Riproduzione delle strutture iniziali (morfostasi)

Esso trova applicazione anche alla persona umana (morfogenesi della persona), nel senso che l’individuo parte dal Me, come definizione che l’Io trova di se stesso nel sociale e che lo condiziona — in base alle esperienze del passato — per poi passare attraverso l’Io conversazionale (l’Io che con-versa con se stesso) e generare infine un Tu «elaborato» (elaborated you) che rappresenta il nuovo modo di essere dell’Io come suo progetto futuro (si veda il fondamentale capitolo terzo di questo testo).

Per ritornare al quesito posto all’inizio (è la società che fa l’individuo o è viceversa?), vediamo allora che il problema non può essere posto, come spesso si fa, come se si trattasse di dire se viene prima l’uovo (la riflessività umana, quindi la agency) o la gallina (la struttura). Infatti, la questione dell’uovo e della gallina non è qui applicabile: mentre l’uovo e la gallina hanno una relazione di reciproca determinazione, nel caso dell’agire umano e delle strutture sociali non è così. Si tratta infatti di realtà disomogenee,

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Introduzione all’edizione italiana 23

che non hanno una relazione di causa-effetto reciproco diretto e imme-diato, perché la loro causalità è di ordine diverso. Structure e agency sono ontologicamente separabili: sono «due poteri» (Archer definisce il libro come «a tale of two powers», «un racconto su due poteri»). Struttura e azione si influenzano attraverso ciò che viene modificato dentro di esse tramite le relazioni che hanno fra di loro. Struttura e agire non sono «intrecciati» (intertwined) in modo inestricabile, così come sostengono Giddens e con lui tutti coloro che esprimono una teoria della conflazione centrale fra struttura e azione (Archer 1991; 1995; Bortolini e Donati, 1999), ma «giocano» fra loro (interplay), nel senso che esercitano un’azione libera reciproca.

Questa relazione — in cui consiste la mediazione fra struttura sociale e agire umano — non è un fatto «trascendente» alla maniera della dialettica idealistica, ma è un fatto «emergente». Si può capire come il condizionamento (conditioning) delle strutture non sia né un determinismo, né un vago pro-cesso di influenza, se lo si osserva come una concreta inter-azione (interplay) fra strutture e agenti. La conversazione interiore è precisamente il luogo in cui questa interazione diventa un fenomeno emergente (cioè acquista la proprietà di un potere emergente) e fa sì che riflessività possa prendere il posto del vecchio concetto di «condizionamento». In altre parole, l’agire (che richiede intelligenza, deliberazione, riflessività, interessi ultimi) e la struttura socio-culturale sono due ordini di realtà, di proprietà e di poteri, che hanno un nesso: questo nesso è la nostra conversazione interiore, che — come Archer sottolinea — non ha una natura psicologica, ma relazionale. E tale relazione si chiama riflessività.

Da questo punto di vista, gli individui umani sono persone perché in essi non soltanto vi è la differenza interna fra l’essere (l’esistere) e l’essere-tale (l’esistere in un certo modo), ma anche perché è possibile stabilire una distanza interna in rapporto a questo fatto, vale a dire in rapporto alla nostra non identità essenziale (ciò che non è il vero «io» del mio «Io») in quanto esseri viventi. La persona consiste precisamente in questo, nel fatto di possedere la sua natura (quella che sta nell’ambiente della latenza del so-ciale, figura 1). La persona non è semplicemente già fatta «così», non porta sic et simpliciter la sua natura interna nel sociale, ma opera riflessivamente: «se, riflessivamente, l’uomo può rientrare in se stesso, egli può anche uscire fuori di sé. La persona possiede la propria natura, in una forma per cui

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24 La conversazione interiore

essa può disporne in qualsiasi modo. Questa distanza da se stesso — in cui consiste la libertà caratteristica dell’uomo — sembra riportare l’uomo al di là di se stesso».2

Dal punto di vista sociologico, se mi è concesso un volo pindarico, la persona può essere definita come quell’essere vivente che, unico fra gli esseri viventi, ha la capacità (= riflessività) di trasformare l’interno in esterno e l’esterno in interno. Ciò avviene perché la persona (la sua natura interna) è connessa al sociale attraverso una sorta di anello di Möbius: la relazione fra struttura socio-culturale e agency è come la superficie di un anello che può essere percorso in modo tale da consentire al Self di uscire verso l’esterno e rientrare verso l’interno rimanendo sempre se stesso. La struttura sociale influenza la persona attraverso la superficie esterna della persona, mentre l’interno (l’interiorità) della persona le rimane nascosta.

Si tratta di concettualizzare la persona umana come «soggetto vi-vente» che ha un’esistenza nel senso di ex-sistere («stare fuori»), non solo in quanto è gettato nel mondo, ma anche fuori di se stesso. La persona umana differisce dagli altri enti proprio perché, al di là del fatto di condi-videre con essi l’essere gettata fuori da chi la genera/crea, è anche capace di mettersi da sé fuori di se stessa, in una modalità di cui gli altri esseri viventi non dispongono.

Per comprendere la natura relazionale del processo di influenza delle strutture sull’agire umano e viceversa, occorre capire come un termine si generi attraverso l’altro (non direttamente dall’altro, secondo un processo one-way), dal momento che essi hanno proprietà e poteri differenti. Archer enfatizza il fatto che la riflessività umana ha un ruolo autonomo (benché variabile) perché nasce in modo pre-sociale ed eccede il sociale. In tal senso ha una posizione privilegiata rispetto ai fattori strutturali esaltati dalle sociologie olistiche. Resta, tuttavia, che i processi che avvengono in senso inverso, e cioè come le strutture sociali incidono sulla conversazione interiore (come influenzano la riflessività della coscienza, pensiamo ad esempio alle reti strutturali — familiari, amicali, di lavoro — di relazioni in cui la persona è inserita) è un tema che rimane sullo sfondo di questo libro, e costituisce un terreno in buona misura ancora da esplorare.

2 Citazione da P. Sabuy (2003), a commento del pensiero di R. Spaemann, riportata nell’introduzione di Leonardo Allodi (Spaemann, 2005, p. xiv).

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Introduzione 53

Capitolo sesto

Introduzione: in che modola struttura influenza la agency?

In che modo la struttura sociale influenza gli agenti? Davanti a una domanda di questo tipo, chi si occupa di teoria sociale tende a suggerire un processo, ossia un meccanismo causale che colleghi i due livelli. Nell’insieme, gli scienziati sociali sono oggi d’accordo nel dire ciò che quel processo non è. Non è, in primo luogo, un processo improntato dal determinismo sociale. Le influenze strutturali e culturali non si possono ricondurre alla forma delle pres-sioni idrauliche. Se questo non è possibile, significa che quel processo richiede qualcosa di più. Un «qualche cosa» che potrebbe corrispondere alle proprietà e ai poteri degli stessi agenti sociali. È questa la tesi del presente volume.

Il modo in cui le strutture sociali possono influenzare gli agenti dipende dal modo in cui si definiscono i concetti di struttura e di agency. Non esiste alcuna posizione condivisa, nella teoria sociale, a tale riguardo. L’unico motivo di consenso, peraltro esile, rimanda all’idea che in un certo senso la «struttura» sia oggettiva, e in un certo senso la «agency» comporti la soggettività. Questo motivo di consenso rappresenta l’unico aspetto di compatibilità tra visioni del processo di influenza tra struttura e agenti che sono, per ogni altro verso, del tutto incompatibili. Tradizionalmente, queste visioni hanno sempre sancito l’egemonia della struttura o degli agenti, e la corrispettiva debolezza dell’altra parte. La debolezza della controparte si spingeva a tal punto che questa si vedeva privata di ogni potere di causazione: la struttura si riduceva così ai «costrutti», e gli agenti assumevano i contorni sbiaditi di semplici Träger («portatori»).

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54 La conversazione interiore

Più di recente si è affermata l’opinione di chi sostiene che dovremmo abbandonare la ricerca di un qualche meccanismo causale tra struttura e agency, optando per un totale «trascendimento» della separazione tra oggettività e soggettività. La convinzione alla base di questa prospettiva è che «strutture» e «agenti» siano ontologicamente inseparabili, giacché ciascuna delle due parti contribuisce alla costituzione dell’altra (Archer, 1995). Chi invece si dice «contrario al trascendimento» (Mouzelis, 2000) ribatte che ogni tentativo di trascendere la differenza tra strutture e agenti è destinato a impedire l’interazione tra l’oggettivo e il soggettivo. D’altra parte, chi si pronuncia «a favore del trascendimento» nega l’ipotesi che og-gettività e soggettività si riferiscano a poteri causali irriducibilmente diversi l’uno dall’altro, e contribuiscano a dare forma alla realtà sociale in modi relativamente autonomi. L’ipotesi della «dualità» di struttura e agency (o l’argomento di chi sostiene l’omologia tra ciò che è posizionale e ciò che è predisposizionale), che sostiene l’esistenza di un intreccio irriducibile tra i due elementi, si rivela inoltre ostile alla stessa differenziazione tra soggetto e oggetto che è il prerequisito della riflessività degli agenti nei confronti della società. Si perde, in tal modo, il potenziale contributo di tale riflessività nel mediare l’influenza della struttura rispetto agli agenti sociali.

La teoria sociale realista si pone, naturalmente, «contro il trascendimento» della barriera tra i due livelli, essendo a favore del suo «emergere». Dal punto di vista ontologico, «struttura» e «agency» rappresentano due strati della realtà distinti, ai quali corrispondono poteri e proprietà altrettanto distinte. Dall’irriducibilità tra questi due livelli discende la necessità di esaminare l’interazione che si crea tra di essi. Si ripresenta, così, la domanda iniziale: in che modo le strutture influenzano gli agenti sociali? Posta diversamente, in che modo l’oggettività condiziona la soggettività, e viceversa? I teorici del realismo sociale non hanno ancora trovato una risposta che soddisfi appieno. Non ci siamo spinti oltre la proposta di un processo di «condizionamento» (Archer, 1995, p. 157; Bhaskar, 1989a, p. 74) dai vaghi contorni; un mo-dello ancora troppo impreciso, per poter essere assunto come meccanismo causale (si vedano le figure 1.1. e 1.2).

L’affermazione fondante della teoria sociale realista è che «il potere causale delle forme sociali è mediato attraverso la agency sociale» (Bhaskar, 1989a, p. 26). Tale affermazione è senza dubbio corretta, giacché, se non si accetta che i fattori strutturali e culturali, in ultima istanza, emergono

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Introduzione 55

dalle persone e acquistano efficacia per loro tramite, si arriva alla reificazione delle forme sociali. Qual è, tuttavia, l’effettiva portata esplicativa di questa affermazione, e quali i suoi limiti?

In prima battuta, la frase citata rappresenta un condensato dell’ontologia del realismo sociale. Si riferisce a proprietà strutturali e culturali emergenti, a cui attribuisce priorità temporale, relativa autonomia ed efficacia causale nei confronti dei membri della società. È solo perché le forme sociali pos-siedono queste tre caratteristiche che, in questa prospettiva, esse esercitano

Fig. 1 La collocazione del condizionamento nel modello trasformativo dell’azione sociale di Bhaskar (fonte: Roy Bhaskar, Reclaiming reality, London, Verso, 1989, p. 94).

Riproduzione Condizione

Produzione

Riproduzione/trasformazione

1 2 1’

3 4

Risultato

Fig. 2 La collocazione del condizionamento sociale nell’approccio morfogenetico di Archer (fonte: Margaret S. Archer, Realist social theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 157).

Condizionamento strutturale

Interazione socioculturale

Elaborazione strutturale (morfogenesi)

T1

T2 T3

T4

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56 La conversazione interiore

un’influenza irriducibile su qualche cosa che ha natura diversa da esse, e appartiene a un livello distinto della realtà stratificata: le persone. Gli agenti dispongono di proprietà e di poteri distinti da quelli che sono propri delle forme sociali: basti pensare a tutte quelle caratteristiche — la capacità di pensare, di decidere, di credere, di comprendere, di amare, e così via — che si applicano alle persone, ma non alle strutture sociali o ai sistemi culturali. Oltre a questo, l’affermazione citata ci ricorda che il potere causale delle forme sociali è «mediato attraverso la agency», ma non ci dice nulla delle caratteristiche di questo processo di mediazione. Ed è chiaro che, prima di entrare nel merito di tale processo, è necessario svelare il senso dell’avverbio «attraverso».

Il senso di quell’«attraverso», per la verità, è ancora da chiarire. Si tende per lo più a ridurlo a un sinonimo del processo di «condizionamento sociale». Giacché il «condizionare» presuppone l’esistenza di qualche cosa che viene condizionato, e visto che il condizionamento non è deterministico, ne deriva che il processo di condizionamento sociale richiede l’interazione tra due diversi tipi di poteri causali: quelli relativi alle strutture sociali, e quelli che sono propri degli agenti. Se si vuole definire il condizionamento in termini adeguati, pertanto, non si può non fare i conti con l’interazione tra questi due poteri distinti. Ciò richiede, in primo luogo, di specificare in che modo i poteri strutturali e culturali si ripercuotano sugli agenti; in secondo luogo, di stabilire come gli agenti facciano uso delle proprie risorse personali per agire «in un modo piuttosto che in un altro», data la situazione in cui si trovano.

La teoria del realismo sociale, come molte delle teorie sociali, si è dedi-cata in modo pressoché esclusivo al primo problema. È per questo che essa ci appare ancora incompleta. Il realismo sociale si è concentrato sulla questione della trasmissione, o di come le proprietà strutturali si possano ripercuotere sugli agenti, fino a poterne condizionare le azioni. La loro influenza è stata perlopiù riletta alla luce di categorie come «vincoli» e «facilitazioni». Tale influenza si trasmette a ciascuno di noi, modellando la situazione (strutturale o culturale) in cui ci troviamo; con il risultato che certi corsi d’azione ne verranno ostacolati, e certi altri ne risulteranno facilitati.

Vale la pena notare, peraltro, che questi due utilissimi concetti impli-cano anch’essi l’esercizio delle facoltà di agency. I vincoli presuppongono che esista qualcosa da vincolare, e le facilitazioni qualcosa da facilitare. Se,

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Introduzione 57

per assurdo, nessun agente si mettesse ad agire, non ci sarebbero né vincoli né facilitazioni. È solo perché le persone si figurano un determinato corso d’azione, che è possibile parlare dei vincoli o delle facilitazioni con cui esse si confrontano; è solo perché possono optare per lo stesso corso d’azione, in contesti sociali differenti, che si possono studiare i diversi tipi di vincoli e di facilitazioni a cui sono sottoposte.

Per dirla diversamente, questa prima accezione dell’avverbio «attra-verso» riconosce il fatto che i due distinti poteri causali dell’oggettività strutturale e della soggettività dell’agire umano sono resi entrambi necessari dai concetti di «vincoli» e di «facilitazioni». Altrettanto si può dire di tutti gli altri modi in cui le strutture ci possono influenzare, come agenti sociali. Si potrebbe obiettare, semmai, che si tende talvolta a enfatizzare la portata dei fattori strutturali che ci condizionano, come se questi agissero senza alcuna consapevolezza da parte nostra; è questo il caso delle «condizioni non riconosciute dell’azione». Ora, se si tratta di condizioni che influenzano effettivamente l’azione, senza però che se ne abbia consapevolezza, si potrebbe ricavarne la conclusione che anche i loro effetti debbano essere indipendenti dall’esperienza soggettiva degli agenti. Allo stesso modo, si può teorizzare l’influenza dei fattori strutturali e culturali oggettivi nel facilitare i nostri interessi personali, per poi motivarci a difenderli; o nel limitare le nostre aspirazioni, circoscrivendo il nostro orizzonte sociale di riferimento. Si po-trebbe addirittura pensare che, se l’oggettività può modellare la soggettività fino a tal punto, quest’ultima non potrà incidere più di tanto sul risultato finale di ogni corso d’azione. Sarebbe tuttavia erroneo, in ciascuno dei casi descritti, ritenere che i processi di condizionamento sociale abbiano messo al bando la soggettività degli agenti.

Per quanto riguarda le condizioni non riconosciute dell’azione, ad esempio, possiamo pensare al caso di una persona di madrelingua inglese che potrebbe progredire nella carriera accademica grazie all’egemonia del-l’inglese nelle università di tutto il mondo, senza per questo riconoscere che le condizioni che permettono questa sua azione sono la diretta eredità del colonialismo britannico. Tale influenza è del tutto evidente, ma è comunque slegata dai fattori che modellano il corso d’azione del nostro accademico in carriera: la relativa facilità di questa carriera e la gratificazione che egli ne trae. Sono soltanto queste, e non altre, le cose che quella persona avrà biso-gno di sapere: le sarà sufficiente la consapevolezza che, tanto per dire, «non

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58 La conversazione interiore

dovrò aspettare tanto, prima che traducano quel libro»; o magari l’idea che, in giro per il mondo, l’inglese continuerà a essere la lingua franca di tutti i convegni scientifici. La sua risposta soggettiva, ossia l’esercizio delle proprie capacità professionali (e quindi la stesura di ulteriori articoli e volumi), non dipende da una sua comprensione dei meccanismi generativi che hanno strutturato la situazione in cui si imbatte. Gli basterà essere consapevole di com’è, oggi, quella situazione.

Allo stesso modo, un interesse acquisito è qualche cosa che ha a che vedere con una determinata posizione sociale, che può motivare una persona all’azione nel momento in cui questi la giudica buona o conveniente, secondo i propri parametri di riferimento. Non per questo, però, si elimina la soggettività umana di quella persona, come mostrano tutti i casi in cui qualcuno decide liberamente di andare contro i propri interessi personali. Anche in questo caso, influiscono senz’altro le diverse opportunità di vita di cui si dispone, a seconda della propria collocazione sociale, giacché ne derivano diversi livelli di costo-opportunità rispetto al medesimo corso d’azione (come la scelta di acquistare la casa in cui si abita). Eppure, è la decisione degli agenti che stabilisce se, nell’esempio fatto, valga la pena pagare un determinato prezzo per quella casa; e questo nonostante tale operazione comporti costi più elevati (in quanto a dispendio di denaro e di tempo) per alcuni agenti che per altri. Di conseguenza non ci potremo mai spiegare chi siano i nuovi proprietari immobiliari se non facciamo riferimento alla soggettività di ciascuno di loro. In assenza di questo passaggio cruciale, ci limiteremmo a generalizzazioni empiriche, del tipo «quanto più un progetto è costoso, tanto meno è probabile che qualcuno se ne faccia carico». Anche in casi di questo tipo, peraltro, la soggettività degli agenti potrebbe scompaginare le carte.

Va da sé che, se tutti noi ci rapportassimo con le forme sociali allo stesso modo, riferirsi ai «poteri personali» di ciascuno sarebbe un’operazione di scarso interesse, se non superflua. Per spiegare le azioni di ogni individuo, come nei casi citati poc’anzi, è invece necessario riferirsi alla formulazione soggettiva e riflessiva che dà ciascun individuo dei propri progetti perso-nali; alla luce, beninteso, della situazione oggettiva in cui si trova. Se le cose stanno così, la duplice influenza dei vincoli e delle facilitazioni appare paradigmatica dei processi di condizionamento sociale degli agenti da parte delle strutture; processi che assumono ripercussioni oggettive, ma che sono anche mediati dalle ricezioni soggettive.

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SECONDA PARTE

Modi di riflessivitàe posizioni rispettoalla società

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Un approfondimento sulle forme della conversazione interiore 259

Capitolo quinto

Un approfondimento sulle formedella conversazione interiore

Sappiamo molto poco, nella sostanza, della conversazione interiore. I teorici del pragmatismo americano, come si è visto, sono gli unici che se ne sono occupati in una certa misura, pur senza scendere quasi mai sul terreno degli esempi concreti. Giacché ritenevano che la conversazione interiore fosse un fenomeno universale, corrispondente — in ultima istanza — al pensiero stesso, ne traevano la conseguenza che ogni lettore potesse trovare qualche esempio da sé. Il loro assunto, in altri termini, era che la conversazione interiore di ciascuno di noi fosse della stessa natura di quella di tutti gli altri. Non c’è alcuna valida ragione, tuttavia, per presupporre questo stato di cose. Benché l’esercizio della riflessività dialogica sia essenziale per il normale funzionamento degli esseri umani, e benché si tratti di una condizione trascendente necessaria per l’esistenza della società — ed entrambe le proposizioni si inscrivono tra le ipotesi del presente volume — questo non significa che il modo in cui dialoghiamo con noi stessi sia identico per ciascuno di noi.

Allo stesso modo, la psicologia sperimentale, nella sua ricerca dei princìpi generali del pensiero, è partita dall’implicito presupposto che la riflessività umana assumesse la stessa forma per ogni individuo. Giacché le principali fonti di potenziale variazione nel pensiero umano, approfondite in questo campo di ricerca, sono quelle che hanno a che fare o con i diversi tipi di danno cerebrale, o con le tappe dello sviluppo mentale, in entrambi i casi ci si è rifatti a norme di valenza generale, e quindi — una volta di più — a processi (presunti) universali. Oltretutto, il disegno di ricerca sperimentale,

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260 La conversazione interiore

caratteristico della psicologia del pensiero, si basa tipicamente su presupposti universalistici: tale procedura prevede infatti che tutti i soggetti dell’esperi-mento siano sottoposti allo stesso compito di laboratorio, per poi registrare gli effetti dell’imposizione di compiti secondari, introducendo stimoli controllati e altre variazioni a livello ambientale. Al cuore delle ricerche di psicologia sperimentale, pertanto, c’è sempre un interrogativo del tenore seguente: le nostre conversazioni interiori, che certo si assomigliano tra loro, sono «simili» a tal punto da rendere irrilevanti le differenze interpersonali?

In questa sede, peraltro, ci interessa la conversazione interiore nella sua forma «naturale», cosa che solleva altri interrogativi di fondo. Persone diverse rivolgono le proprie «autoconversazioni» a questioni altrettanto di-verse? O forse ci dedichiamo tutti allo stesso tipo di attività mentali, come vorrebbe il nostro senso comune? E poi: ogni soggetto gestisce la propria conversazione interiore allo stesso modo, o è lecito parlare di più «modi di riflessività», distinti l’uno dall’altro? La vita privata della nostra mente rispecchia forse, in una qualche misura, la nostra posizione (o la nostra «estrazione») sociale? Gli strutturalisti prima, i neostrutturalisti poi, hanno cercato di aggirare il problema, postulando l’esistenza, in ciascuno di noi, di una «griglia mentale» — la stessa per tutti — che governerebbe la nostra vita mentale. Si tratta, nondimeno, di un approccio riduzionistico, che svilisce l’efficacia personale causale delle nostre deliberazioni interiori, ipotizzando che queste siano soggette al controllo della «mano invisibile» dei processi inconsci; i quali avrebbero, a loro volta, valenza universale.

Nel mio tentativo di sostenere — in primo luogo — l’esistenza di una sfera di vita privata all’interno di ogni soggetto sociale, e di difendere — in secondo luogo — il potere causale personale della riflessività soggettiva, mi avvarrò soltanto di un’indagine concreta, al fine di verificare l’effettiva «tenuta» di questi due assunti chiave. Se questa indagine risulterà fattibile, sarà possibile testare in termini empirici sia il presupposto dell’universalismo, sia l’eventualità del riduzionismo.

Il progetto

Ho intrapreso un’indagine empirica di dimensioni ridotte, in pro-fondità, a valenza eminentemente esplorativa. L’unico presupposto da cui

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Un approfondimento sulle forme della conversazione interiore 261

sono partita era il seguente: poiché tutti i partecipanti erano dei normali membri della società (ciascuno con i suoi problemi, grandi o piccoli), do-vevano disporre tutti di una propria vita mentale. Ho assunto, inoltre, che ciascuno di loro mi potesse dire qualche cosa circa la natura della propria conversazione interiore; una speranza, questa, legata alla convinzione che la coscienza equivalga alla coscienza di sé.1 Nel chiedere agli intervistati di trovare le parole con cui discutere delle proprie conversazioni interiori, nell’intraprendere con loro la discussione sull’argomento, e nello scrivere, sulla base di queste conversazioni, i capitoli che seguiranno, mi sono im-battuta in tutti i problemi della «doppia ermeneutica». L’intero percorso della ricerca ha richiesto, inevitabilmente, di interpretare dei soggetti inter-pretanti. E poiché la conoscenza assume sempre una forma concettuale, il modo in cui gli intervistati interpretano le proprie conversazioni interiori, a partire dalla descrizione che ne danno, non può non rispecchiare una data impostazione teorica. Parimenti, il modo in cui interpreto le loro interpretazioni, basandomi sulle mie descrizioni concettuali, risulta inevi-tabilmente intriso di teoria.

La doppia ermeneutica è inevitabile, ma non può rappresentare una barriera invalicabile per l’indagine. Ritenere che lo sia, dopo tutto, è impos-sibile, poiché comporterebbe una drastica contraddizione performativa. Per quanto siano grandi le difficoltà incontrate da una persona per trasmettere un dato significato soggettivo, e da un’altra persona per comprenderlo (al-meno in minima parte), deve comunque trattarsi di un processo che può riuscire, anche se in modo imperfetto; non si spiegherebbe, diversamente, il normale funzionamento di una conversazione, o di un insegnamento. Quali che siano le differenze, ogni proponente dell’ermeneutica, verstehen, o comprensione interpretativa, deve partire da quest’unico «dato»: quello di una comunicazione riuscita, sebbene imperfetta. Che si tratti di un «dato», naturalmente, vale per qualsiasi tipo di ricerca sociale. Nelle scienze sociali, l’assunzione della comunicazione, imperfetta ma riuscita, come «dato», sta necessariamente alla base di qualsiasi tipo di ricerca fatta di «domande e risposte». Lo stesso, del resto, si può dire — benché non sia altrettanto ovvio — per la costruzione di un indice apparentemente oggettivo, come il Prodotto nazionale lordo.

1 In accordo con Harry G. Frankfurt, autore già citato nel corso del capitolo primo.

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Senza entrare nel merito di questo dibattito metodologico, il punto che vale la pena ribadire è che i problemi insiti nelle indagini sulla conver-sazione interiore, pur innegabili, non sono diversi da quelli che si incon-trano in qualsiasi tipo di ricerca sociale, qualitativa o quantitativa che sia. Un’affermazione di questo tipo potrebbe senz’altro apparire controintuitiva. Dopo tutto, la conversazione interiore è un fenomeno eminentemente personale, e il soggetto pensante può ritenere, a buon diritto, di conoscere meglio di chiunque altro il significato di ciò che pensa, e di quel che dice al riguardo (una tesi già sostenuta nel capitolo primo). È quindi probabile che il ricercatore, che è anche un interprete, arrivi a conclusioni scorrette, nella sua ricostruzione «in terza persona» dei significati delle conversazioni altrui. La stessa cosa, peraltro, può avvenire nelle risposte individuali a un questionario a domande chiuse, relativo — poniamo — alle intenzioni di voto. A ciascuna delle risposte previste, infatti, possono corrispondere significati soggettivi ben diversi; che si tratti di indicare un certo partito, o che si scelga la categoria residuale («nessuno dei partiti indicati»).

Il mio sospetto è che questa resistenza alla possibilità di indagare, nella sfera pubblica, la conversazione interiore personale, affondi le radici più in profondità. Molte persone, in altri termini, hanno questa reazione istintiva per il semplice fatto che faticano moltissimo a presentare la propria conversazione interiore a se stesse; per non parlare, evidentemente, degli altri. Si potrebbe infatti sostenere, con qualche buona ragione, che nessuno sia in grado di riprodurre gli scambi dialogici che avvengono nella sua sfera personale, anche solo nel corso di un’ora (e nella forma di «intralocuzioni», come si è visto nel capitolo terzo). Non disponiamo, infatti, delle capacità necessarie a condurre un automonitoraggio sistematico e prolungato; è per questo che dubitiamo, in buona fede, della possibilità di ricostruire la conver-sazione interiore in modo relativamente affidabile. L’obiezione è certamente fondata, ma non incontreremmo forse le stesse difficoltà, nel ricostruire tutte le cose che abbiamo detto in un’ora, in una lunga e faticosa conversazione interpersonale? In entrambi i casi, in effetti, ci ricordiamo soltanto gli aspetti essenziali della conversazione, o la riassumiamo a partire dalla situazione presente, facendo sempre uso — per ambedue le operazioni — delle nostre interpretazioni. Che altro sono, del resto, le idee o gli atteggiamenti che ricaviamo da qualsiasi intervista, se non un «condensato» di un lungo (e imperfetto) processo di «autoanalisi» della loro formazione?

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Un approfondimento sulle forme della conversazione interiore 263

In altre parole, il rapporto tra la conversazione interiore e le modalità di investigarla non si discosta, nella sostanza, dal rapporto tra i nostri «at-teggiamenti» e la cosiddetta «ricerca sugli atteggiamenti». Poniamo il caso di una ricerca interessata a cogliere la nostra «visione politica» anziché le nostre «intenzioni di voto», dato che i ricercatori ritengono che la semplice «intenzione» (dichiarata) di «votare X» possa racchiudere le informazioni più disparate: dall’adesione convinta al partito X, a una scelta di voto «strategica», «clientelare» o «di protesta». Qualsiasi onesto tentativo di ripercorrere davanti a noi stessi — per non dire al cospetto del ricercatore — l’esatta sequenza di eventi, discussioni, letture e meditazioni che ci ha portati alla «visione politica» attuale, non potrebbe certo pervenire a una precisa riproduzione mentale di tali eventi. Potremmo produrne un «sunto», semmai, che an-drebbe bene sia per il nostro «consumo interiore», sia per renderne conto agli altri (anche se il primo sunto risulterebbe, con ogni probabilità, diverso dal secondo). Detto altrimenti, dobbiamo pervenire a un’interpretazione sintetica di noi stessi, prima di poter fare delle affermazioni che si prestino a essere interpretate dall’esterno. Tutto questo è innegabile, se è vero che ciascuno di noi è «un animale che si interpreta da sé» (Taylor, 1985, p. 65 ss.); questa autointerpretazione, però, avviene attraverso le sintesi che produciamo nel presente, più che attingendo — in modo inevitabilmente imperfetto — ai ricordi del passato.

Non c’è alcuna differenza sostanziale, quindi, tra un’indagine condotta sulla nostra conversazione interiore e una condotta sulla nostra visione poli-tica. Ambedue i tipi di indagine comportano una «sintesi interpretativa», da parte del soggetto, dei suoi atti riflessivi di conoscenza di sé; nell’uno come nell’altro caso, queste affermazioni riassuntive non equivalgono all’esercizio della memoria. In altre parole, questo studio esplorativo non nega la natura interpretativa e «abbreviata» della ricostruzione operata dai soggetti, rispetto alle loro attività dialogiche interiori; né attribuisce un peso eccessivo alle difficoltà insite in questa operazione, come se si trattasse di qualche cosa di radicalmente diverso da un’indagine «normale». Qualsiasi ricerca che si misuri con «atteggiamenti», «convinzioni», «visioni» o «intenzioni» deve attingere a una qualche sintesi delle nostre attività mentali; un’operazione analoga, e di analoga difficoltà, a quella che si deve compiere per esplorare la conversazione interiore. Si tratta senz’altro di un’operazione difficile, ma non meno praticabile di qualsiasi attività di ricerca sui temi citati poc’anzi.

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Il parallelismo rimane valido anche per l’altro versante della «doppia ermeneutica»: quello che riguarda il ricercatore. Come ricercatori, infatti, ci troviamo sistematicamente e inevitabilmente coinvolti in attività di tipo interpretativo. Si tratta di un dato di fatto innegabile, sia nel lavoro di ricerca ex ante — ad esempio nell’impostazione delle categorie di risposta alle do-mande chiuse — sia nel lavoro ex post (come nell’analisi di contenuto delle interviste non strutturate). È semplicemente impossibile non fare i conti con questo stato di cose. Nel caso del piccolo studio esplorativo che mi ac-cingo a presentare, quindi, non posso certo negare i miei (inevitabili) spunti interpretativi dicendo, ad esempio, che si trattava di una «esplorazione pura», svolta prima ancora di aver predisposto un mio «repertorio interpretativo». È vero, in effetti, che non disponevo di alcun «repertorio» esplicito, ma questo non significa che la mia analisi abbia assunto una patina di «neutralità», sle-gata dall’influenza della mia impostazione concettuale. In quanto ricercatori, infatti, non possiamo contare su alcun «osservatorio epistemico» privilegiato, in virtù del quale potremmo agire da «puri visitatori». L’unica operazione ragionevole che possiamo compiere, per difendere le nostre scelte, è quella di motivarle in modo esplicito, come ora mi accingo a fare.

In primo luogo, il tentativo di esplorare la natura delle forme di con-versazione interiore degli altri — a partire da come essi se le rappresentano — ha richiesto un atteggiamento aperto alla possibilità di imbattersi in una certa diversità di tali forme. Un approccio di questo tipo, come ho già sostenuto all’inizio dell’introduzione, è preferibile a quello che muove dal presupposto che la conversazione interiore sia un fenomeno uguale per tutti; e questo nonostante il fatto che l’unico modo per conoscere i punti di vista altrui sia quello di filtrarli entro i propri schemi predefiniti. Questa prospettiva di ricerca, inoltre, non deve essere confusa con il senso comune, o con la psicologia ingenua: grazie ad essa, infatti, ho potuto scoprire che ogni intervistato condivideva la stessa fallacia induttiva, quella secondo cui il modo in cui egli esercitava la propria riflessività era sostanzialmente lo stesso di tutti gli altri. Ciò che ho scoperto, viceversa, è che i «modi di riflessività» sono ben diversi; una scoperta che, natural-mente, si è basata sulle mie descrizioni degli intervistati, che risentivano della mia impostazione concettuale. Accanto a questo, però, ho potuto operare anche dei riscontri empirici «incrociati». La mia interpretazione delle parole degli intervistati, infatti, è stata nuovamente sottoposta a otto

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Un approfondimento sulle forme della conversazione interiore 265

di loro, per ricevere commenti. Che essi non si siano detti in disaccordo con le mie interpretazioni, in realtà, è un fatto che testimonia soltanto l’esistenza di consenso tra persone diverse, ma non «prova» alcunché, dato che non tiene conto del possibile bias legato alla selezione dei soggetti. Questi, in altre parole, potrebbero avere avallato la mia interpretazione per una banale questione di buona educazione. D’altro canto, si potreb-be anche sostenere che non c’è alcun buon motivo per cui otto persone, che dissentivano da me su tante cose, siano scivolate, tutto d’un tratto, in un eccesso di deferenza; tanto più se si considera che c’era di mezzo una descrizione della loro vita interiore. Se ciascuno di loro, individual-mente, ha detto di riconoscere la propria conversazione interiore nella descrizione che ne avevo fatto, questa è una ragione in più per guardarsi dalla «fallacia intuitiva dell’uniformità»: la mia rappresentazione delle loro conversazioni interiori, infatti, era sfociata nella descrizione di tanti modi di riflessività diversi, quanti erano i soggetti intervistati. In ultima analisi, i risultati che presenterò vanno sottoposti al «tribunale» della critica della comunità scientifica, ovvero — come direbbero i realisti — all’esercizio della «razionalità del giudizio»; quanto ho scoperto, inoltre, si rivelerà valido nella misura in cui risulterà replicabile. Si tratta, come è evidente, di osservazioni metodologiche del tutto «normali». È proprio questo, però, il punto che tengo a sottolineare: non c’è nulla di veramente «anormale», nell’intraprendere una ricerca di questo tipo.

La decisione di indagare in profondità un gruppo di individui limitato è scaturita, da un lato, dalla natura dell’oggetto di ricerca dall’altro, dalla fattibilità del progetto. Avendo l’obiettivo di condurre un’indagine esplorati-va, attraverso strumenti di tipo dialogico, mi risultava impossibile preparare una griglia di intervista strutturata, da somministrare ai miei interlocutori. I temi che essi stessi proponevano nel corso delle interviste, infatti, si sareb-bero rivelati molto più significativi di quelli immaginati da me a tavolino; altrettanto si può dire per la loro elaborazione discorsiva di tutta una serie di aspetti che non sarebbe stato possibile, in ogni modo, prevedere ex ante. E poiché, come si è visto ben presto, si trattava di interviste (registrate) lunghe anche più di tre ore l’una, corrispondenti a trascrizioni che potevano oltrepassare le trenta cartelle, ecco che venti intervistati — ossia circa 500 pagine di trascrizione — erano il massimo che, come singola ricercatrice, fossi in grado di gestire.