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La filantropia scientifica e le origini del lavoro sociale 19 Capitolo primo La filantropia scientifica e le origini del lavoro sociale Negli Stati Uniti il lavoro sociale professionale trae le sue origini da quattro istituzioni sorte nella seconda parte del diciannovesimo secolo. I Boards of Charities and Corrections (commissioni statali delle istituzioni assistenziali), pur senza precisi poteri formali, di fatto inventarono la politica sociale statunitense e accompagnarono il passaggio dal sistema tradizionale degli ospizi e delle prigioni ad un sistema assistenziale più efficace e specifico per i vari tipi di bisogni. L’annuale National Conference on Charities and Correction, fin dalle sue prime edizioni, rappresentò un luogo di dibattito e una vetrina che ben rappresentava il progressivo evolversi dell’ideologia e della metodologia assistenziale. La Charity Organization Society puntò sulla primaria responsabilità degli organismi privati rispetto al loro coordinarsi reciproco e con le istituzioni pubbliche. Infine, il movimento dei Settlement rappresentò la coscienza sociale e riformatrice dell’America. I protagonisti di questi movimenti che, a ragione, vengono assunti sotto la rubrica di social workers, potevano virtualmente contare sull’appoggio di vasti raggruppamenti sociali. Facendo appello ai massimi interessi della comunità, alla sua coscienza e ai suoi ideali religiosi e politici, essi entravano in sintonia con gli interessi di gruppi importanti e ben organizzati quali le chiese, i partiti e le associazioni professionali. Pur numericamente limitati, venivano notati per la loro capacità di perseguire in maniera genuina un obiettivo che andava oltre il tornaconto personale o gli interessi di parte. Portavano avanti i vecchi ideali umanitari di riforma e di giustizia e progresso

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La filantropia scientifica e le origini del lavoro sociale 19

Capitolo primo

La filantropia scientifica e le origini del lavoro sociale

Negli Stati Uniti il lavoro sociale professionale trae le sue origini da quattro istituzioni sorte nella seconda parte del diciannovesimo secolo. I Boards of Charities and Corrections (commissioni statali delle istituzioni assistenziali), pur senza precisi poteri formali, di fatto inventarono la politica sociale statunitense e accompagnarono il passaggio dal sistema tradizionale degli ospizi e delle prigioni ad un sistema assistenziale più efficace e specifico per i vari tipi di bisogni. L’annuale National Conference on Charities and Correction, fin dalle sue prime edizioni, rappresentò un luogo di dibattito e una vetrina che ben rappresentava il progressivo evolversi dell’ideologia e della metodologia assistenziale. La Charity Organization Society puntò sulla primaria responsabilità degli organismi privati rispetto al loro coordinarsi reciproco e con le istituzioni pubbliche. Infine, il movimento dei Settlement rappresentò la coscienza sociale e riformatrice dell’America.

I protagonisti di questi movimenti che, a ragione, vengono assunti sotto la rubrica di social workers, potevano virtualmente contare sull’appoggio di vasti raggruppamenti sociali. Facendo appello ai massimi interessi della comunità, alla sua coscienza e ai suoi ideali religiosi e politici, essi entravano in sintonia con gli interessi di gruppi importanti e ben organizzati quali le chiese, i partiti e le associazioni professionali. Pur numericamente limitati, venivano notati per la loro capacità di perseguire in maniera genuina un obiettivo che andava oltre il tornaconto personale o gli interessi di parte. Portavano avanti i vecchi ideali umanitari di riforma e di giustizia e progresso

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sociale, ma congiuntamente aspiravano ad agire in modo scientifico. Ciò significava essere laici, razionali e basarsi sui dati empirici, in opposizione ad atteggiamenti settari, sentimentali o dogmatici. Benché il loro modo di agire non fosse sempre condiviso, lo spirito che lo informava era sufficiente a farli assolvere: fino a quando gli americani erano disposti a riconoscere, almeno in astratto, che la filantropia (comune destino umano, benevolenza) era cosa buona e che si intendeva improntarla alla scientificità (basandola sui fatti, in modo razionale e oggettivo), la causa filantropica era salva (Leiby, 1978, p. 91). Poteva essere criticata qualche valutazione oppure qualche linea di ragionamento ma, perlomeno in teoria, lo spirito scientifico era garanzia di miglioramento e diventava così la base per trovare le necessarie mediazioni.

Una carità razionale ed efficiente

L’idea originale che raccoglieva e teneva insieme questi volontari era, seguendo l’idioma del tempo, la carità scientifica o filantropia scientifica. Le parole carità e filantropia avevano una forte connotazione religiosa: si riferivano all’antico precetto cristiano che imponeva una responsabilità individuale e collettiva verso i derelitti e gli esclusi. La maggior parte di questi filantropi era molto religiosa, molti di loro erano uomini di chiesa. Per scientifico essi intendevano qualcosa di razionale ed efficiente. Infatti, ritene-vano che alcune pratiche assistenziali fossero controproducenti. Criticavano la beneficenza individuale, elargita un po’ a caso sull’onda del sentimento — l’elemosina al mendicante, per esempio — e un’assistenza pubblica che era tutta routine e superficialità. Desideravano stabilire una relazione più chiara ed efficace tra i mezzi e i fini dell’assistenza. La razionalità auspicata dalla filantropia scientifica presentava tre principali connotazioni. In primo luogo, i filantropi condividevano la teoria liberale dell’economia politica, così come si era sviluppata in Gran Bretagna. Come gli economisti classici, ritenevano che un’amministrazione lassista dell’assistenza pubblica (Poor law1) fosse controproducente, perché favoriva il pauperismo. In secondo luogo, condividevano il pensiero dello scozzese Thomas Chalmers, pastore

1 Vedi capitolo terzo, p. 74.

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e riformatore dell’assistenza. Secondo Chalmers (Encyclopaedia Britannica, 1961, pp. 197-8), alcune risorse informali e naturali di aiuto si sviluppavano nell’ambito della famiglia, del vicinato e della comunità parrocchiale: una saggia amministrazione dell’assistenza avrebbe dovuto evidenziarle e valoriz-zarle, invece di indebolirle o sostituirle con aiuti istituzionali che, per loro natura, erano più impersonali e non sollecitavano il senso di responsabilità di chi aiutava e di chi riceveva aiuto. Infine, i filantropi erano strenui racco-glitori e classificatori di dati statistici, convinti che in questo modo avrebbero potuto analizzare le cause del bisogno e gli effetti degli aiuti erogati. Le loro osservazioni erano rivolte in maniera piuttosto ingenua e moralistica alle caratteristiche personali dei casi considerati, anche se prendevano talvolta in considerazione anche aspetti più impersonali o ambientali: carenze nella sanità pubblica, predisposizioni genetiche e le contemporanee ricerche di Charles Booth, (Labour and life o of the people, sedici volumi pubblicati a Londra, a sua cura, tra il 1889 e il 1903) sulla povertà e il pauperismo.

Studiare e trattare i problemi sociali: la fiducia nella scienza

Alla base di questo nuovo modo di sentire stava il passaggio, realizzatosi in quello scorcio di tempo nella filosofia morale, dal misticismo tipico della teoria medievale a una spiegazione del comportamento umano e delle sue motivazioni orientata alla scientificità.

Ne erano esempi le analisi storiografiche che usavano il metodo della correlazione statistica tra i dati economici e il cambiamento sociale per supportare la tesi che l’evoluzione storica può essere compresa scoprendo fattori variabili nella situazione economica del tempo. La filosofia sociale di Auguste Comte,2 che cominciava a diffondersi negli Stati Uniti grazie alle traduzioni delle sue opere, sviluppava idee analoghe: sarebbe stato possibile scoprire le cause del cambiamento sociale partendo da un ampio fronte come quello esplorato dagli storici.

Nello stesso periodo veniva pubblicato L’origine delle specie di Darwin (1859), che pur non concernendo primariamente questioni sociali, stabi-liva una fondazione solida alla teoria degli esseri viventi, ossia che tutti i

2 Il suo Cours de philosophie positive, pubblicato in cinque tomi a Parigi tra il 1830 e il 1842, è stato tra-dotto, e in parte sintetizzato, nel 1853 da Harriet Martineau, con il titolo The Positive Philosophy.

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cambiamenti hanno luogo in maniera comprensibile e in risposta a motivi che possono essere scoperti. Il fatto che la teoria evoluzionistica di Darwin fosse immediatamente raccolta dai suoi contemporanei Huxley e Spencer per applicarla ai fenomeni sociali ebbe il risultato di diffonderla come superamento sia delle antiche forme di filosofia morale sia delle idee più popolari concernenti le dinamiche del comportamento umano.

Ciò non significa che queste teorie raccogliessero un’accettazione immediata (Bruno, 1957), tuttavia furono accolte con grande favore da quegli esponenti del liberalismo intellettuale che si trovavano con-frontati con la ricerca di cause e di soluzioni a vasti problemi sociali. Alcuni membri della Social Science Association (vedi infra), ad esempio, hanno lasciato documenti da cui si evince il loro interessamento a questi temi ed è significativo che la maggior parte dei leader della Conferenza delle commissioni statali delle istituzioni assistenziali abbia accettato le implicazioni di un approccio scientifico ai problemi sociali (Bruno, 1957; Leiby, 1978). La loro azione si fondava sull’assunto che problemi sociali quali la malattia, la pazzia, il crimine e la povertà potevano venire studiati in modo da individuare adeguati metodi di trattamento e che, allo stesso tempo, era possibile formulare una teoria per la prevenzione. Questi problemi, dunque, non erano il frutto del peccato o del destino, da sopportare con pazienza. Non erano neppure problemi che esistevano per dare l’opportunità di esercitare la misericordia nei confronti dei propri simili. In sostanza, i problemi sociali vennero condotti fuori dal dominio del misticismo, per collocarli in quello della scienza.

Come esito dell’adozione di un atteggiamento scientifico, gli espo-nenti di questo movimento filantropico guardavano in avanti, credevano nel futuro, erano convinti che fossero possibili un paziente, attento studio e un’attenta sperimentazione per creare una società migliore di quella in cui vivevano (Bruno, 1957). Lo stimolo della speranza fornito dalle nuove scienze spronò i primi operatori a un grado di applicazione e di zelo che non si è più visto, in tali dimensioni, nelle epoche successive.

La «debolezza morale» dei poveri

Tuttavia, il progresso in cui credevano questi filantropi, perlopiù, era visto come eliminazione di eventi negativi: della malattia, del crimine, della

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malattia mentale, dell’indigenza. Non si preoccupavano di concepire una struttura sociale più armonica che avrebbe potuto portare al superamento di questi mali.

Qualcosa di simile si era già evidenziato all’epoca della «nuova» Poor law del 1834:3 la situazione del povero era la prova di una debolezza morale che poteva essere sradicata con una rigida amministrazione dei soccorsi (Bortoli, 1998). È significativo che nelle relazioni e nei dibattiti delle prime edizioni delle Conference ci si proponesse l’eliminazione non della povertà, ma della sua manifestazione, il pauperismo. Era la debolezza delle vittime della miseria a divenire oggetto di studio, di trattamento e di cura, ma non veniva dedicata altrettanta attenzione a quelle variabili, esterne alla singola persona in condizioni di povertà, che avrebbero permesso di gettare luce sulle cause della miseria.

Di tanto in tanto si accennava timidamente che i fattori morali po-tevano non essere gli unici responsabili della condizione di bisogno, spe-cialmente per quanto riguardava i bambini o le vedove. Ma questi accenni rimanevano una voce di minoranza assai poco influente nel panorama del diciannovesimo secolo.

Per altri temi sociali, come quello penitenziario (soprattutto in riferi-mento ai minori), quello dei malati di mente o, ancora, quello delle disabilità, c’era una certa tolleranza nel considerare l’utilità di un intervento anche da parte dello Stato, che avrebbe potuto introdurre anche delle innovazioni tecniche analoghe a quelle che in Europa avevano dimostrato la loro validità. Non così avveniva per il tema della povertà materiale. C’era come un’ossessio-ne che bloccava ogni possibile ricerca delle cause di questo ampio fenomeno sociale. Forse si trattava soprattutto di un grande pregiudizio di classe: l’idea che solo la paura della povertà avrebbe motivato gli appartenenti alla classe lavoratrice a svolgere in maniera diligente le proprie mansioni.

Josephine Shaw Lowell era una delle più intelligenti organizzatrici dei nuovi sistemi assistenziali. Tuttavia, condizionata dalla sua appartenenza di classe, si trovò ad affermare che nessun essere umano avrebbe lavorato per ga-

3 Vedi capitolo terzo. La riforma del 1834 avveniva sulla spinta della crescente insostenibilità finanziaria dell’assistenza, «liberalizzata» con lo Speenhamland System del 1796, e dietro all’impulso del rapporto conclusivo (non esente da manipolazioni) di un’inchiesta parlamentare sull’attuazione della Poor law (Fraser, 1984).

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rantirsi i mezzi per sopravvivere, qualora avesse avuto a disposizione strumenti più gradevoli. Dunque la collettività non doveva mettere a disposizione dei suoi membri abili al lavoro modalità diverse per procacciarsi il necessario per vivere. Il soccorso alla persona abile andava garantito all’interno di istituzioni strettamente regolate.4 In sostanza, questa analisi riproponeva pari pari i principi utilitaristi alla base della Poor law del 1834 (Bortoli, 1998).

L’idea che il disagio fosse qualcosa da imputare a deficienze morali individuali ritornava in auge e si rafforzava man mano che si rimarginavano le ferite della Guerra di Secessione e la nazione cresceva e prosperava. In una società acquisitiva, nella quale la ricchezza era divenuta un fine di per sé, non era difficile credere che la povertà fosse semplicemente la punizione ottenuta dall’imprevidente per la sua mancanza di laboriosità e moralità, la diretta conseguenza della pigrizia e di un animo corrotto.

Questa interpretazione era rafforzata dall’insegnamento pseudoscien-tifico di Herbert Spencer (1857) che applicava la teoria darwiniana del-l’evoluzione anche alle condizioni sociali. Il «darwinismo sociale», fortunata unione dell’economia liberista con la dottrina della lotta per l’esistenza e della sopravvivenza, divenne la filosofia prevalente dell’epoca.

Vi si sosteneva che lo Stato avrebbe dovuto limitarsi ad assicurare la libertà dei singoli cittadini, proteggendoli dall’attentato alle loro persone e alle loro proprietà. Quindi niente scuola pubblica, sanità pubblica, poste, regolazione del commercio e, meno che meno, pubblica assistenza. Se, come sostenevano gli spenceriani, la competizione era la legge della vita, non v’era altro rimedio per la povertà che l’aiutarsi da soli.

Chi rimaneva povero era «non adatto» e doveva pagare il prezzo pre-visto «dalle leggi di una provvidenza lungimirante». Ogni interferenza, sia per mano pubblica che per opera di «sciocchi» filantropi, era inopportuna e anche pericolosa. Proteggere i perdenti nella lotta per l’esistenza avrebbe avuto l’effetto di moltiplicarne il numero e di creare un disastroso inde-bolimento della specie, contrastando il progetto della natura verso più alte forme di vita sociale.

Queste tesi che giustificavano la disuguaglianza non furono mai ac-cettate nella loro integralità. L’America era una nazione cristiana con una

4 Queste considerazioni vennero espresse in un intervento della Lowell alla National Conference del 1890 (Bruno, 1957).

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tradizione di filantropia profondamente radicata. Lo stesso Herbert Spencer, a chi lo accusava di durezza di cuore, rispondeva che la beneficenza volontaria poteva essere tollerata, poiché incoraggiava lo sviluppo della virtù cristiana dell’altruismo. Tuttavia, il darwinismo sociale contribuì a rafforzare l’idea che la povertà fosse causata da limiti personali.

Una «scientificità» contrastata

Lo spirito scientifico, sviluppatosi all’interno dei ceti professionali e imprenditoriali contemporaneamente alla loro crescita, non aveva vita facile. Doveva confrontarsi con due soggetti importanti per le attività assistenziali: gli organismi religiosi e quelli politico-amministrativi.

Fra i primi, molti consideravano la scienza più una sfida alla religione che un aiuto alla carità. La discussione sulla filantropia scientifica era percepita, dal lato religioso, all’interno della più generale lotta di questi anni tra scienza e teologia. La religione tradizionale che aveva legittimato la beneficenza era stata pesantemente messa in discussione dall’emergere della scienza. I leader evangelici ed episcopaliani dicevano: prima la religione, poi la filantropia e la giustizia sociale; prima la salvezza dell’anima, poi le riforme secolari. Il dialogo non era agevolato dal fatto che, secondo gli scientismi, la Bibbia era piena di miti e di errori, inclusi alcuni fondamenti del cristianesimo, dalla creazione ai miracoli. Alcuni uomini di Chiesa riconoscevano la forza di questi argomenti e si rendevano conto del progressivo distacco dei ceti intellettuali dalla religione tradizionale. Cercavano dunque di reinterpretare le scritture e la fede enfatizzandone il carattere etico e rendendole più attente ai problemi sociali. Il loro seguito era principalmente composto da persone dei ceti medi, attivi negli affari e nelle professioni: erano spesso queste persone i leader del movimento del Vangelo sociale (social gospel) e i sostenitori di un’assistenza razionale. Si ebbe così un protestantesimo modernista (opposto a quello fondamentalista) e una dottrina sociale. In questa battaglia le co-munità religiose composte da agricoltori o da operai restavano ben attaccate alle dottrine tradizionali, anche se, incidentalmente, risentivano spesso dei vantaggi sociali e dell’atmosfera creata dai social gospelers.

Non andava meglio dal punto di vista politico-amministrativo. Qui l’idea di una filantropia scientifica veniva colta e inserita nel discorso più

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ampio dell’amministrazione e dell’economia politica. La pregiudiziale della scientificità significava preferenza per la competenza tecnica e per un ser-vizio pubblico non clientelare: voleva dire, quindi, opporsi allo spoil system applicato alle istituzioni assistenziali. Un sistema, questo, universalmente diffuso, basato sul fatto che ogni istituzione era guidata da un consiglio che era nominato dal governatore e rispondeva solo a quest’ultimo. Il fatto che l’amministrazione fosse buona o cattiva non importava granché: i fondi disponibili dipendevano dalla vicinanza politica al governatore e il personale delle istituzioni era assunto in forma clientelare.5

Ma neanche con i gruppi che, almeno teoricamente, concorrevano a perseguire gli stessi obiettivi della filantropia scientifica il rapporto riusciva facile. Costoro tendevano a imputare tutti i problemi sociali a un’unica causa, la cui soluzione avrebbe automaticamente risolto tutto. Solo che questa causa era per ognuno diversa: l’alcolismo, che si sarebbe risolto con la chiusura dei saloon; l’immigrazione, che imponeva di impedire l’inurba-mento o gli arrivi d’oltreoceano; o ancora l’orario di lavoro troppo lungo, la speculazione immobiliare, le politiche tariffarie o, all’opposto, il libero mercato, il capitalismo e così via. Ognuno aveva una sua ricetta semplicistica a fronte dei seri problemi che investivano la società.

Queste tensioni sicuramente non rendevano facile il progredire della filantropia scientifica verso le innovazioni assistenziali. Inoltre, i suoi paladini avevano una connotazione ideologica, politica e religiosa minoritaria, all’interno del ceto professionale e imprenditoriale cui ap-partenevano. Così si guadagnavano poca fiducia non solo tra le masse lavoratrici urbane e rurali, ma anche nella classe media, dove era facile sentir dire che i filantropi volavano troppo alto o, al contrario, che erano poco innovativi (Leiby, 1978).

Tali ostacoli non riuscirono tuttavia a far perdere d’animo i soste-nitori dell’approccio scientifico alla filantropia. Essi non rinunciavano al loro obiettivo di risolvere importanti problemi assistenziali con uno spirito rivolto alla razionalità e all’efficienza, enfatizzando la responsabilità morale che spingeva ad aiutare coloro che erano nel bisogno, agendo contempora-neamente secondo il pubblico interesse.

5 Secondo Edith Abbott, gli State Board vennero creati proprio per opporsi a «questa prostituzione dei servizi alle istituzioni statali» (Bruno, 1957, p. 32).

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Gli State Boards of Charities: il coordinamento pubblico dell’assistenza

Una prima esperienza nel Massachusetts

Il primo Stato americano a porsi il problema dell’efficacia e dell’efficienza delle strutture assistenziali fu il Massachusetts. Lo Stato della baia era il più industrializzato della nazione. La sua forza lavoro era andata aumentando con i flussi di immigrati sfuggiti alla carestia irlandese del 1846 e con una corrente continua di lavoratori inglesi, attratti dalle industrie tessili. La leadership dei «Bramini» bostoniani6 e dei politici Yankee risultava dotata di sorprendente coerenza e lungimiranza. È significativo che lo Stato maggiormente attento ad assicurare servizi sanitari e istruzione fosse anche quello in cui c’era più azione sindacale, in cui veniva data più importanza alle statistiche del lavoro e alla legislazione del lavoro. Franklin B. Sanborn,7 segretario del Board of Charity e guida autorevole nelle scienze sociali, era un discepolo di Emerson8 e fu a lungo editore dello Springfield Republican, il quotidiano più decisamente liberale del Paese, pubblicato in quella città del Massachusetts.

Nel 1859 in Massachusetts c’erano tre istituzioni per malati di mente; un riformatorio per ragazzi; una scuola industriale per ragazze; un ospedale; tre ospizi per i poveri, non solo locali ma anche di altri Stati, e quattro istituzioni basate sulla beneficenza privata: un istituto per ciechi, uno per sordomuti, uno per ritardati mentali e una clinica per sordi e ciechi. Ognuna di queste istituzioni riceveva sovvenzioni statali, ma era gestita autonomamente dal proprio consiglio di amministrazione. Non vi era alcuna comunicazione

6 Questa espressione si riferisce a quella élite di cittadini ricchi e istruiti, per la maggior parte discendenti dai Puritani, che avevano fatto fortuna nel commercio. Non si poteva certo definire di idee egualitarie, dato che era piuttosto simile a una vera e propria aristocrazia.

7 Franklin B. Sanborn (1831-1917), tipico intellettuale puritano della Nuova Inghilterrra, aderì al movimento antischiavista di John Brown e per questo fu inquisito personalmente quando il movi-mento di Brown fu sconfitto. Fino alla fine della sua vita si portò dietro la reputazione di sovversivo affibbiatagli dai suoi contemporanei conservatori. Nel suo ruolo di segretario della Conference (ma nel 1881 fu il suo diciottesimo presidente) curò l’edizione dei relativi atti fino al 1910.

8 Ralph Waldo Emerson (1803-1882), filosofo e poeta statunitense. Nel 1832 abbandonò la carriera ecclesiastica per rifiuto del dogmatismo. È il capofila del movimento intellettuale nordamericano, noto come trascendentalismo, in base al quale unica realtà considerata era quella trascendentale con la quale si perviene a un’esaltazione romantica dell’individuo nei suoi rapporti col mondo. Nel saggio «Natura» del 1836 espresse i principi fondati su una visione panteistico-romantica e idealistico-calvinista della natura dell’uomo, il quale, grazie all’intuizione, può partecipare della «mente universale».

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reciproca, cosicché eventuali migliorie restavano limitate alla singola isti-tuzione, senza venire trasmesse in alcun modo alle altre.

Il governatore pensava che una qualche forma di supervisione centrale fosse auspicabile e consultò il venerabile Samuel Gridley Howe.9

Si cominciava a intuire — dirà Howe qualche tempo dopo — che se qualche organismo avesse raccolto tutti i fatti valutabili, appresi tramite l’osservazione e l’esperienza di molti uomini abili e onesti, attivi di concerto nei vari ambiti, e se si fossero comparati i risultati ottenuti nelle diverse istituzioni e anche a domicilio, avremmo ottenuto delle conoscenze molto utili per favorire l’econo-mia, evitare gli errori, correggerli. In una parola, conoscenze con cui accrescere i buoni risultati di uno sforzo collettivo, indirizzato verso uno scopo comune. (cit. in Leiby, 1978, p. 94)

La risposta a questo problema fu la creazione, nel 1863, del Board of State Charities, più tardi chiamato State Board of Charities. Questo ufficio aveva il compito di indagare e supervisionare10 tutte le istituzioni correzionali e di beneficenza, nonché raccomandare l’adozione dei cambiamenti necessari per rendere le attività più efficaci ed efficienti. Sebbene la principale finalità fosse l’economia di amministrazione, la ricerca e la riforma giocavano un ruolo importante. Soprattutto, i promotori si aspettavano

[...] che questo organismo esaminasse attentamente le cause che avevano creato un così gran numero di bisognosi, accertando le condizioni sociali di queste persone. Se queste condizioni potevano venire modificate dalla legislazione, allora si sarebbe fatto appello alla legislazione; se invece le modifiche necessarie dipendevano dai cittadini, allora si sarebbe fatto appello all’intelligenza e al senso morale della gente. (cit. in Leiby, 1978, p. 94)

Le Conferenze nazionali sul welfare

Il 20 maggio 1874, undici anni dopo la costituzione del primo Board nel Massachusetts, i rappresentanti dello State Board of Charities del Massachusetts,

9 Samuel Gridley Howe (1801-1876), medico abolizionista e sostenitore dell’istruzione dei ciechi. Nel 1821 seguì Lord Byron combattendo in Grecia a sostegno della locale rivoluzione, mentre nel 1932 fu arrestato a Berlino per la sua azione di sostegno ai rivoltosi polacchi. Per il resto della sua vita si dedicò all’istituzione e allo sviluppo della Scuola per ciechi di Boston di cui fu direttore e anima, facendola diventare uno dei centri intellettuali della filantropia americana.

10 La supervisione non implicava il controllo. Infatti, dal punto di vista amministrativo, i Board non avevano alcun potere.

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del Connecticut, del Wisconsin e di New York si incontrarono a New York e organizzarono la prima Conference of Boards of Public Charities, un’iniziativa che sarebbe poi proseguita ininterrottamente fino ai giorni nostri,11 rappresen-tando l’evento principale dell’anno per coloro che erano impegnati nel sociale. La presidenza della Conference divenne un incarico di grande onore e prestigio: cambiava di anno in anno e veniva attribuita a una figura di spicco del movimento, che indicava anche simbolicamente la direzione e i temi al centro dell’interesse per l’intero movimento filantropico e assistenziale americano.

Dodici anni dopo, nel 1886, a quei primi quattro Stati se ne unirono altri sette che, seguendo l’esempio del Massachusetts, avevano cercato di porre le istituzioni sovvenzionate sotto l’egida dello Stato, per garantire uniformità amministrative e di trattamento.

La maggior parte dei Board aveva scarsi poteri operativi diretti (uno era quello di decidere il trasferimento di un ospite da un istituto a un altro). Le loro funzioni furono principalmente di indirizzo con un importante influsso sulla realizzazione dei programmi di welfare a livello statale. Risultarono particolarmente significativi i rapporti annuali redatti annualmente per il governo statale. Questi studi, che affrontavano ogni aspetto dell’assistenza generica e specialistica, servivano a informare non soltanto i funzionari ma anche l’opinione pubblica in merito alle condizioni che necessitavano l’adozione di provvedimenti di riforma.

Studiare la scienza sociale per promuovere il benessere umano: l’Ame-rican Social Science Association

Poco dopo aver costituito il Massachusetts Board, Samuel Howe e Franklin Sanborn lanciarono la proposta di istituire un’associazione america-na per lo studio delle tematiche sociali. Al primo incontro, tenuto a Boston il 5 ottobre 1865, convennero più di 300 persone. Nell’atto costitutivo di quella che venne denominata American Social Science Association furono indicati i seguenti obiettivi:

11 La denominazione delle Conference, tuttavia, cambiò nel tempo: National conference on charities and correction (1879-1916), National conference of social work (1917-1947), National conference on social welfare dal 1948 a oggi.

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[...] favorire lo sviluppo della scienza sociale; promuovere le riforme legislati-ve, il progresso dell’istruzione, la prevenzione e la repressione del crimine, la rieducazione dei criminali e il progresso della moralità pubblica. (cit. in Leiby, 1978, p. 95)

L’iniziale modello di riferimento era la National Association for the Promotion of Social Science of Great Britain, istituita nel 1857 per opera degli eredi degli utilitaristi ed economisti inglesi che avevano sostenuto la riforma della Poor law del 1834 e la legislazione in materia di istruzione e sanità pubblica. Anche i francesi avevano fondato un organismo analogo, mentre a Boston, fin dal 1862, esisteva un gruppo locale con i medesimi obiettivi.

Tanto l’associazione britannica quanto quella americana facevano diretto riferimento alla profonda convinzione che l’applicazione della scien-za ai problemi presenti nelle relazioni sociali avrebbe dato luogo a nuove scoperte e miglioramenti.

Per svolgere al meglio i loro compiti, i membri si divisero in quattro sezioni o dipartimenti: istruzione, sanità pubblica, economia sociale e giurisprudenza. I dipartimenti affrontavano le varie tematiche prendendo in considerazione le esigenze della società nel suo insieme, non soltanto quelle dei poveri e degli svantaggiati. Ad esempio, la sezione dell’istruzio-ne si occupava, tra l’altro, di scuole pubbliche e di riformatori, ma anche dell’università. La sezione della sanità pubblica prendeva in considerazione il problema delle epidemie, la gestione degli ospedali, l’adulterazione dei cibi e gli stupefacenti. La sezione dell’economia sociale studiava tutte le forme di pauperismo e

[...] le responsabilità delle classi fortunate e istruite nei confronti dei deboli, dei poco intelligenti e dei non istruiti. (Leiby, 1978, pp. 95)

Abbracciava altresì la legislazione del lavoro e questioni economiche più generali come quelle del debito pubblico, delle imposte e dei monopoli, considerandone gli effetti sulla vita sociale. Il dipartimento di giurispru-denza, infine, si dedicava alla criminologia, al diritto penale e, in maniera particolare, alle riforme legislative,

[...] cosicché quando le leggi dell’istruzione, della sanità pubblica e dell’economia sociale saranno pienamente realizzate, la legislazione dei singoli Stati potrà limitarsi a riconoscerle e a favorirne la piena applicazione. (Leiby, 1978, pp. 96)

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Primi sviluppi del lavoro sociale in Europa 51

Capitolo secondo

Primi sviluppi del lavoro sociale in Europa

Il servizio sociale igienistico-educativo

Sul finire dell’Ottocento i flussi tra Stati Uniti ed Europa riguarda-rono quasi esclusivamente, da parte europea, la Gran Bretagna:1 nei primi tre decenni del Novecento, invece, le esperienze originali di singoli Paesi furono oggetto di studio e, quando possibile, di importazione. I momenti di incontro, facilitati dalle grandi conferenze internazionali dove venivano illustrati i prototipi delle iniziative in campo assistenziale intrapresi da un Paese, favorivano frequentemente l’avvio immediato di analoghe iniziative negli altri.

Tra Stati Uniti e Gran Bretagna c’era ovviamente una grande affinità culturale e ideologica, ma ci fu un settore che rappresentò un fertile campo di scambio di pratiche e di ricerche tra molti — se non tutti — i Paesi coinvolti nell’evoluzione del lavoro sociale: il settore dell’igiene pubblica. È veramente difficile, in questo campo, precisare chi dava e chi riceveva, perché i flussi si sovrapponevano e le interazioni facevano da moltiplicatore di efficacia. L’esperienza delle infermiere visitatrici e la loro attività di dépistage e di educazione sanitaria é il più diffuso ma, immediatamente collegato, vi è

1 È nota l’imitazione della filantropia britannica negli Stati Uniti. Meno nota, invece, l’esperienza dei tribunali per i minorenni che, avviati oltreoceano, furono un modello per le successive applicazioni in Francia, Belgio e Germania.

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52 I giganti del lavoro sociale

quello del servizio medico-sociale, nel quale è difficile misurare la primazia e il contributo originale di singoli Paesi a un modello che si consolidò proprio attraverso l’interazione.

La corrente igienista mette in evidenza il notevole peso dei medici che propugnano la cura del corpo, la buona nutrizione del bambino, la prevenzione della malattia, la salubrità dei luoghi di vita: occuparsi di questo diventava un compito affidato a tutti. L’aspetto sanitario rimane prioritario, infatti vi è:

[...] la necessità di creare dei dispositivi rigeneranti, nei quali possano convergere filantropia e controllo sociale. (Vigarello, 1987, p. 230)

Per quanto concerne le applicazioni del lavoro sociale nel campo del-l’igiene, la più importante è forse il servizio sociale in ospedale e nei dispensari, che trasforma, a un tempo, sia il carattere dell’azione assistenziale sia quello dell’azione sanitaria, associandole strettamente l’una all’altra per una loro maggiore efficacia. È proprio attraverso il servizio sociale ospedaliero che la mentalità sanitaria si apre alle considerazioni sociali.

Il servizio sociale ospedaliero

Nell’ospedale si assiste all’interazione fra tre componenti sociali: gli ammalati, il personale sanitario, quello amministrativo e la collettività. Ognuna di queste realtà manifesta delle legittime aspettative: l’ammalato quella di essere oggetto di attenzione e di venire ben curato, il personale sanitario quella di vedere i propri sforzi coronati da risultati positivi, quello amministrativo di vedere una gestione efficiente e la collettività di vedere l’ospedale efficace nella sua funzione di ridurre l’incidenza sociale della malattia. Queste aspettative non trovavano una complementarietà poiché c’erano una sorta di fratture fra questi soggetti, delle incomprensioni che impedivano l’efficacia derivante dall’impegno congiunto contro la malattia.

Il servizio sociale ospedaliero nacque in risposta alle speranze dell’am-malato, del personale ospedaliero e del pubblico.

Il punto di partenza del movimento è datato dal primo inserimento di un’operatrice sociale, retribuita, in un ospedale nel quale doveva aiutare medici e infermiere a comprendere la malattia e la sua cura. È il 1 ottobre

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Primi sviluppi del lavoro sociale in Europa 53

1895 e al Royal Free Hospital di Londra, per iniziativa di Charles Loch della COS, si ha l’ingresso della prima lady almoner2 retribuita. Negli anni precedenti, altri ospedali avevano previsto di affidare a degli operatori il compito di indagare sulla situazione degli ammalati per evitare che persone non bisognose abusassero della carità ospedaliera.3 Tuttavia, solo con l’ini-ziativa di Loch si precisa l’intenzione di migliorare il servizio ospedaliero a vantaggio dell’ammalato.

Alla prima di queste operatrici, Mary Stewart, vennero affidati tre compiti: contrastare gli abusi suaccennati; rinviare alle istituzioni pubbliche quegli ammalati che avevano diritto a esserne presi in carico; rendere più efficace il trattamento dei poveri grazie alla cooperazione delle istituzioni sociali extraospedaliere.

Man mano che il servizio ospedaliero si sviluppò, l’ultima funzione finì per eclissare le prime due, benché, ancora nel 1919, una lady almoner di Londra confessasse a Richard Cabot quanto fosse difficile far compren-dere alla direzione dei nosocomi che il compito non era soltanto quello di impedire il ricovero «abusivo» negli ospedali (Cabot, 1929).

Tanto negli Stati Uniti che in Gran Bretagna l’azione delle assistenti sociali era esclusivamente concentrata sulle ammissioni o a fianco delle consultazioni ambulatoriali. Solo più tardi l’operatore sociale ebbe accesso ai reparti.4

Nel 1910 le almoner erano presenti in quindici ospedali di Londra. Negli Stati Uniti, nel 1924, il servizio sociale era diffuso in 420 ospedali; in Canada, in dieci (Cabot, 1929).

Il 1913 è l’anno più importante per lo sviluppo della professione in questo campo d’azione: è l’anno in cui viene pubblicato il libro di Ida M. Cannon, Social work in hospital e l’anno in cui, quasi simultaneamente, prende avvio il servizio ospedaliero in Francia, Germania (Berlino e Fran-coforte), Olanda (Amsterdam) e Austria (Vienna). L’esperienza francese è direttamente modellata su quella avviata da R. Cabot.

2 Così si chiamava, nel Medio Evo, la figura che sovrintendeva le ammissioni al St. Bartolomew’s Hospital di Londra (Loch Mowat, 1961).

3 Gli ospedali erano autonome istituzioni di beneficenza che prevedevano cure gratuite solo per poveri effettivamente tali (Beveridge, 1948).

4 L’intuizione di pionieri come R. Cabot incontrò, inizialmente, la forte opposizione dei medici e delle amministrazioni.

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54 I giganti del lavoro sociale

In una pubblicazione del 1914, curata da Joséphine Getting,5 si afferma che compito del servizio sociale è fare in modo che l’ammalato comprenda bene i consigli del medico, segua le sue prescrizioni, riceva ef-fettivamente le cure desiderate e viva in un ambiente adatto per l’efficacia del trattamento.

Obiettivo del servizio sociale ospedaliero è quello di comprendere con-sigliare e sostenere l’ammalato e di favorire e completare l’attività del medico e delle infermiere sia per quanto riguarda la comprensione della malattia sia per quanto riguarda il trattamento. Ne deriva che la funzione principale del-l’operatrice sociale è quella di comprendere l’ammalato e di spiegargli ciò di cui ha più bisogno di sapere per essere ben curato e per recuperare, se possibile, la salute. La materia prima del lavoro è fatta quindi principalmente di idee. L’assistente sociale deve raccogliere delle idee sull’ammalato e comunicargli delle idee; il suo ruolo è quello di comprendere l’individuo e di fargli capire ciò che contribuirà alla realizzazione delle aspettative che lo hanno condotto all’ospedale. Comprendere l’ammalato significa prestare attenzione al suo stato d’animo; alla sua situazione personale, finanziaria, e lavorativa; ai suoi rapporti sociali nell’ambito familiare, scolastico, lavorativo, religioso, del tempo libero. Consigliare e sostenere l’ammalato significa riuscire a fargli capire la natura e l’evoluzione ulteriore della sua malattia; ciò che si fa per attenuarla o guarirla; quali persone od organismi esterni all’ospedale potranno essergli utili per l’assistenza o il trattamento che gli metteranno a disposizione.

Per quanto l’aggettivo «sociale» sembri generico e possa sembrare in contraddizione con un servizio che, nei fatti, è personale o individuale, lo si ritiene l’espressione che meglio caratterizza queste funzioni: esse infatti con-sistono nello «stabilire un collegamento tra il paziente e tutte le fonti alle quali potrà attingere per avere aiuto»,6 dal momento che il significato originale del termine sociale è «ciò che mette in relazione o che collega» (Cabot, 1929, p. 534). Si tratta, quindi, di un’azione di collegamento, un intervento sociale di intermediazione o, come Cabot preferiva dire, di interpretazione.

5 Joséphine Rotschild Getting (1877-1943), più conosciuta come M.me Getting, partecipa alla creazione del servizio sociale ospedaliero francese, «modello Cabot», e ne diventerà la principale animatrice, grazie agli stretti rapporti intessuti con Richard Cabot stesso in occasione della sua presenza in Francia durante la prima Guerra mondiale (nei ranghi della Croce Rossa Americana).

6 È interessante notare che le fonti identificate sono tre: Dio, il malato stesso, l’ambiente circostante (Cabot, 1926).

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Primi sviluppi del lavoro sociale in Europa 55

Che cosa favorì la consapevolezza dell’utilità o del bisogno (come diceva R. Cabot) del servizio sociale ospedaliero?7

Sicuramente al primo posto va indicato un certo cambiamento nella concezione della diagnosi e della cura, non più esclusivamente concentrate, come in passato, sulle manifestazioni fisiche delle malattie, tanto da trascurare gli aspetti volitivi ed emotivi, nonché le condizioni personali e sociali del paziente. Una dimenticanza che caratterizza tuttora il mondo degli ospedali, dove l’ammalato è come sradicato dal suo ambiente di vita.

Un secondo elemento fu la campagna antitubercolosi. La tubercolosi dimostrò, prima di tutte le altre malattie, di non poter essere combattuta con successo a meno che l’ammalato stesso non comprendesse la sua malattia e partecipasse alla lotta. Questa malattia, inoltre, una volta diagnosticata, non richiede una cura complicata: i rimedi sono accessibili a chiunque, purché — e qui sta il punto — ne sia ben informato e collabori nel metterli in atto.

In terzo luogo, proprio l’importanza che tendeva ad assumere l’azione preventiva del servizio per l’igiene pubblica favorì l’incrinarsi del monopolio del sapere medico.

In passato il medico e l’infermiera avevano il compito di occuparsi di tutto, mentre l’ammalato non aveva che da «lasciar fare, obbedire, aprire la bocca e chiudere gli occhi» (Cabot, 1929, p. 536-7). Questo atteggiamento autoritario e dispotico, spesso adottato con ottime intenzioni, appariva a Cabot senza ingiustificato. Spesso — dice — il medico è rimasto il solo a «non accorgersi dell’assurdità dell’atteggiamento» di considerarsi l’unico capace di fare tutto il necessario e di pensare tutto ciò che occorre. La tra-sformazione dell’ospedale da luogo di ricovero del povero a servizio per la collettività rompe, secondo Cabot, l’autoreferenzialità che era stata favorita dal suo isolamento e mette in evidenza la necessità di ripensare l’ospedale nel contesto dei bisogni della collettività e in collegamento con tutte le altre istituzioni sanitarie e assistenziali.

7 Vale la pena osservare che per R. Cabot il «servizio sociale ospedaliero», benché analogo all’attività che è possibile esercitare in altre istituzioni, a causa della «specificità tradizionale degli ospedali, della complessità delle relazioni intrattenute e della competenza speciale necessaria, [assume] un carattere assolutamente particolare per l’apprendimento, per la motivazione e le disposizioni naturali che sono necessarie» (Cabot, 1929, p. 534). L’età, la maturità e l’esperienza pregressa erano tenute molto in considerazione, potendo in qualche modo supplire all’assenza di una formazione specializzata.

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I pionieri negli Stati Uniti (1) 185

Capitolo sesto

I pionieri negli Stati Uniti (1):al servizio di individui e famiglie

Mary Richmond (1861-1928), la fondatrice del social work profes-sionale

La democrazia non è una forma organizzativa; è un’abitudine quotidiana. Non è sufficiente che gli assistenti sociali parlino il linguaggio della democrazia; prima che essi si dimostrino adatti a una forma qualsiasi di lavoro sociale, bisogna che portino nel loro cuore l’intima convinzione del valore infinito rappresentato dalla nostra caratteristica comune, quella di essere uomini. (Mary Richmond)

Mary Richmond e Jane Addams: affinità e differenze

Nell’immaginario di molti che si accostano alla storia del lavoro so-ciale, Mary Ellen Richmond e Jane Addams formano un binomio quasi naturale. In effetti, le caratterizzano congiuntamente l’essere quasi coetanee, l’attività nello stesso contesto, l’avere assolto un ruolo di guida ideale per molti operatori sociali di ogni generazione. Ciò ha sollecitato riflessioni molto interessanti che permettono di capire meglio il ruolo complessivo svolto dal lavoro sociale nella cultura americana (Franklin, 1979). Tuttavia, dal punto di vista storico, sarebbe poco sensato procedere oltre con questi parallelismi, perché le differenze che caratterizzano le due figure sono più marcate delle affinità.

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186 I giganti del lavoro sociale

Fra loro ci sono differenze di estrazione sociale che si riverberano sulle possibilità di acquisizioni culturali. Per Jane Addams non vi è praticamente ostacolo nella fruizione di risorse formative e di altre opportunità, mentre Mary Richmond acquisirà un’importante cultura prevalentemente da au-todidatta, trovando gli spazi per un percorso di elevazione culturale fra gli impegni di solidarietà familiare e attività lavorative di vario tipo.

Unitamente alle diversità concernenti l’ambiente d’origine e le diverse vicende della vita, l’accostamento fra i due personaggi è reso difficile anche dai luoghi di attività: la Costa Atlantica per Mary Richmond e Chicago per Jane Addams, luoghi non solo distanti geograficamente ma soprattutto culturalmente.

Anche certe scelte di vita contribuiscono alla differenziazione: il perio-do bellico rappresenta il momento di «oscurità» per Jane Addams in virtù delle sue scelte pacifiste; Mary Richmond, invece, non è pacifista, anche se prova simpatia per gli obiettori di coscienza e condivide la politica di «non intervento» del presidente Wilson. Quando però la decisione di entrare in guerra viene presa, aderisce alle motivazioni che la giustificano e collabora con convinzione allo sforzo bellico ottenendo riconoscimenti e prestigio.

Infine, se in Jane Addams prevale l’anima radicale del liberalismo orientata alla riforma morale e sociale, in quella di Mary Richmond, pur altrettanto profondamente democratica, prevale l’etica della scelta indivi-duale come motore principale dello sviluppo anche collettivo.

I difficili anni giovanili

Anche Mary Ellen Richmond, come Jane Addams, nasce nell’Illinois, il 5 agosto 1861, durante la guerra di Secessione. Ben presto però si trasferisce con la famiglia a Baltimora, in Virginia, dove trascorre l’infanzia. Alla morte dei suoi genitori, deceduti, molto giovani, di tubercolosi, viene cresciuta dalla nonna e da una zia. Ambedue appartengono a un ambiente sociale economicamente modesto, ma molto aperto. Questa famiglia, piuttosto anticonvenzionale, non condivideva i metodi educativi del suo tempo e così Mary Ellen entrò a scuola soltanto a undici anni di età. Aveva tuttavia imparato a leggere molto precocemente e, lasciata libera di scegliere, aveva potuto accostarsi in maniera appassionata a tutti i testi scritti che le erano capitati per le mani. Queste letture rappresentarono la sua principale forma

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I pionieri negli Stati Uniti (1) 187

di istruzione, non molto elaborata, ovviamente, ma — come lei stessa avreb-be avuto modo di dire in seguito — caratterizzata dalla «continuità».

Come per tutta la sua educazione, anche quella religiosa avvenne quasi per caso. Rifiutò di accettare qualsiasi dogma e tutto ciò che non soddisfaceva la sua intelligenza o il suo senso estetico. In base a questi canoni, aderì alla Chiesa Unitaria, nella quale ebbe l’opportunità di stringere profonde amicizie.

Nel 1978, a diciassette anni, lasciò la scuola munita del suo diploma e partì per raggiungere la zia che lavorava in una casa editrice a New York. Vi venne assunta come segretaria, ma svolgeva molteplici altre funzioni, fra cui quella di grafica e correttrice di bozze. La sera, dopo giornate lavo-rative di 12-14 ore, era occupata a studiare stenografia. La vita era dura e l’alloggio non andava oltre una camera ammobiliata, condivisa con la zia. Ma la situazione era destinata ben presto a peggiorare ulteriormente: la zia cadde malata e ritornò a Baltimora, dove resterà fino alla morte, assistita finanziariamente dalla nipote. Sola, quasi senza amici (assistere a qualche conferenza era la sua unica distrazione), obbligata a far fronte con scarse risorse a questo gravoso impegno, Mary Ellen Richmond dirà che questo fu il periodo più amaro di tutta la sua esistenza.

Qualche tempo più tardi contrae la malaria. È costretta a lasciare il lavoro e New York per ritornare a vivere a Baltimora. Rimessasi in salute, prima trova lavoro in una piccola libreria, poi, nel 1888, come segretaria contabile in un modesto albergo.

Tutte queste traversie non modificano il suo itinerario da autodidatta. Questo periodo della sua vita è contrassegnato dall’apertura alla musica e alla filosofia. Insegna alla Sunday School,1 formando giovani della sua età allo studio dei testi di Shakespeare. Il suo ascendente e la sua fama prendono piede.

L’incontro con il social work e l’attività a Baltimora

Con l’allargamento dei suoi campi di interesse e lo sviluppo delle sue capacità, la Richmond avverte con sofferenza la monotonia del suo lavoro.

1 Questa istituzione, originariamente una sorta di «dottrina catechistica», nel corso dell’Ottocento si trasformò in un’iniziativa di istruzione per i bambini poveri degli slums cittadini, pur mantenendo la sua ispirazione religiosa. Successivamente, specie negli Stati Uniti, si caratterizzò per il suo contenuto di «formazione permanente» rivolto alle fasce disagiate della popolazione.

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188 I giganti del lavoro sociale

Dagli annunci economici di un giornale viene a sapere che la Charity Organisation Society di Baltimora cerca una segreta-ria-ragioniera. Per quanto conosca poco questo organismo vi si presenta, in una sera piovosa, per un colloquio con il pre-sidente. Costui dirà più tardi che Mary Ellen aveva l’aria pateticamente giovane, ma parlava come una saggia persona anziana. Nel corso di questo colloquio la Richmond comprende le possibilità che le si aprono. L’associazione è giovane, indebitata, ma si batte per promuovere le proprie idee. Incoraggiata dai suoi amici, la giovane accetta la sfida. Nel corso di uno stage introduttivo di una settimana, a Boston, entra per la prima volta in con-tatto con degli operatori sociali impegnati nell’elaborare i primi rudimenti del case work.2 In modo particolare, conosce Zilpha D. Smith3 che diventerà la sua ispiratrice e consigliera. Di ritorno a Baltimora, prende servizio come segretaria contabile e viene ben presto incaricata anche del reperimento dei fondi.

La COS di Baltimora era stata fondata nel 1881 da Daniel C. Gilman4 dell’Università Johns Hopkins. Aveva potuto contare sulla collaborazione di un giovane e brillante operatore sociale, Amos G. Warner, che aveva sviluppato l’assistenza a domicilio erogata in maniera «intelligente» ossia basata su di un’approfondita inchiesta finalizzata ad individuare le richieste fraudolente. In questo modo la COS intendeva perseguire l’obiettivo di puntare alle cause della povertà e della corruzione politica. Promuoveva la cooperazione tra gli organismi sociali e gli individui stabilendo una relazione

2 Inizialmente, l’espressione era formata da due parole distinte. In seguito, Mary Richmond vi pre-metterà l’aggettivo social. È soltanto nelle elaborazioni degli anni Trenta che l’espressione diventerà definitivamente casework.

3 Vedi infra, pag. 200. 4 Daniel Coit Gilman (1831-1908), uomo di cultura e filantropo; esercitò le sue competenze nell’am-

ministrazione dell’istruzione pubblica e universitaria.

Fig. 6.1 Mary Ellen Richmond (1862–1928). Il suo Social diagnosis costituì una pietra miliare nel-lo sviluppo del social work.

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I pionieri negli Stati Uniti (1) 189

democratica, un ponte tra i privilegiati e i diseredati, tra i ricchi e i poveri, in modo particolare con l’aiuto dei friendly visitors. È la cosiddetta «filan-tropia scientifica».5 Questa concezione viene accettata con entusiasmo dalla Richmond che, accogliendola in toto, vi consacrerà il resto della sua vita.

Nella primavera del 1890 a Baltimora si tiene la National Conference of Charities and Corrections che dà l’occasione a Mary Ellen Richmond di conoscere e incontrare i leader di questo movimento. È anche l’occasione per lei di presentare la sua prima importante comunicazione. Il riscontro è positivo, tanto che le viene proposto il posto vacante di segretario generale della sua COS, malgrado la sua giovane età, l’appartenenza di genere e la sua mancanza di titoli accademici.6 La Richmond, desiderosa di promuovere una maggior preparazione dei friendly visitor e dei volunteers social service, accetta e contribuisce attivamente alla loro professionalizzazione. Sviluppa numerosi corsi di formazione per gli operatori sociali del suo movimento, accogliendoli anche a casa sua per delle lunghe serate di lettura e di discus-sione e favorisce l’istituzione di biblioteche negli organismi locali. Alla con-ferenza di Toronto, nel 1897, pronuncia una brillante arringa a favore della formazione e la creazione di scuole di social work.7 Nel 1898 contribuisce alla creazione della prima scuola di New York.8 Col tempo predispone un piccolo ma importante manuale: Friendly Visiting Among the Poor (1899), in cui puntualizza gli aspetti più importanti dell’azione assistenziale a do-micilio: le condizioni di salute, i figli, la religiosità, le spese e il risparmio.

5 Ossia benevolenza animata da uno spirito oggettivo, basato sui fatti e razionale. Sul finire dell’Otto-cento, negli Stati Uniti, un gruppo di funzionari pubblici, studiosi di scienze sociali e ministri religiosi definivano con questa espressione l’obiettivo da conseguire per innalzare le condizioni di vita delle persone più povere, senza danneggiare l’economia ed evitando, nel contempo, che la beneficenza continuasse ad essere merce di scambio elettorale (Leiby, 1978, p. 75 e ss.).

6 Di solito, nelle Charity Organization Society statunitensi competevano agli uomini, di norma profes-sionisti affermati, le funzioni direttive e la gestione finanziaria, mentre alle donne, sposate o vedove di buona famiglia, l’attività di friendly visiting.

7 Nella sua comunicazione The need of a training school in applied philanthropy affermò: «non potremo mai acquisire uno standard professionale fino a quando non avremo una scuola» (cit. in Leiby, 1978, p. 122).

8 Sorta come scuola estiva, di quattro settimane, nel 1904 la New York school of philanthropy offriva già un corso annuale: Nel 1917 muta il suo nome in New York school of social work e in seguito, affiliatasi all’Università, diventa la Columbia University school of social work. Assieme alla Scuola di Chicago (sorta nel 1904) è unanimemente considerata la più importante scuola di social work degli Stati Uniti.