La Comunità di Capodarco dell'Umbria

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La più antica comunità di accoglienza dell'Umbria rivisitata e radiografata in tutti i suoi aspetti: la natura giuridica, la cultura, la politica, la spiritualità.

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Quaderni del volontariato

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La Comunità di Capodarcodell’Umbria

Don Angelo Maria Fanucci

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Coordinamento editorialeChiara Gagliano

© 2007 CESVOL2007 EFFE Fabrizio Fabbri Editore srl

ISBN: 978-88-89298-46-6

Progetto grafico e videoimpaginazioneStudio Fabbri, Perugia

StampaGraphic Masters, Perugia

Cesvol Centro Servizi Volontariato della Provincia di Perugia

Via Sandro Penna, 104/106Sant’Andrea delle Fratte06132 Perugiatel. 075/5271976 fax: 075/[email protected]@pgcesvol.net

Pubblicazione a cura di

Con il Patrocinio della Regione Umbria

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Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia, nell’am-bito delle proprie attività istituzionali, ha definito un piano specifico nell’a-rea della pubblicistica del volontariato.

L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto ai temi diinteresse e di competenza del settore, di valorizzare il patrimonio di espe-rienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del volontariato organizzatoed inoltre di favorire e promuovere la circolazione e diffusione di argomentie questioni che possono ritenersi coerenti rispetto a quelli presenti al cen-tro della riflessione regionale o nazionale sulle tematiche sociali.

La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di produzionipubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico rivolto alle asso-ciazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera e propria collana edito-riale dedicata alle tematiche sociali, ma anche ai contenuti ed alle azioniportate avanti dall’associazionismo provinciale.

I Quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile supporto perchiunque volesse approfondire i temi inerenti il sociale per motivi di studioed approfondimento.

I quaderni del volontariato:un viaggio attraverso un libro nel mondo del sociale

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Se lui decide si scendere,se lui decide di spingere...

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Parte PrimaChi siamo

Premessa

Capitolo PrimoLa storia

Capitolo SecondoLa struttura

Parte SecondaLa nostra Cultura

Premessa

Capitolo Primo“Solidali” cioè

Capitolo SecondoLa cultura del gratuito

Capitolo TerzoLa solidarietà nella visione cristiana della vita

Parte TerzaNoi e la Politica

Premessa

Capitolo PrimoLo Stato: le principali teorie politiche

Capitolo SecondoIspirazione cristiana e politica

Capitolo TerzoDietro la crisi dello Stato liberale la crisi della cultura liberale

Capitolo QuartoL’alternativa, culturale e politica

Capitolo QuintoIl Welfare State

Capitolo SestoIl Welfare State nel settore della disponibilità

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Indice

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Parte QuartaLa nostra Spiritualità

Premessa

Capitolo PrimoUna comunità “d’ispirazione cristiana”

Capitolo SecondoIl Cristianesimo di liberazione

Capitolo TerzoI “Sacri testi” del Cristianesimo di liberazione sul quale Capodarco è nata

Capitolo QuartoCarità e Solidarietà

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Parte Prima

hi siamoC

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Dal 1974 al 2000 la Comunità di Capodarco dell’Umbria(che si chiamava Centro Lavoro Cultura)

ha avuto la sua sede sul Monte Ansciano, nel Convento di S. Girolamo: e tutti la chiamavano “Comunità di S. Girolamo”...

dall’anno 2000 si è trasferita in Corso Garibaldi 111/113, nell’ex-Monastero della Trinità.

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La Comunità di Capodarco dell’Umbria è un’associazione con un suo spes-sore culturale, politico e spirituale.

La Comunità di Capodarco dell’Umbria non è una cooperativa sociale; inuna cooperativa sociale la presenza di uno scopo marcatamente sociale nonannulla il dato fondamentale: una cooperativa esiste pel bene dei suoi soci,la nostra comunità mira soprattutto al bene dei soggetti che accoglie, tantopiù quanto maggiormente sono emarginati.

La Comunità di Capodarco dell’Umbria, grazie al proprio retroterra diriflessione sulla vita, sull’uomo, sulla società, non è una generica aggrega-zione di praticoni intenti a “fare del bene”.

Per questo è di fondamentale importanza che il socio abbia ben presentequesto retroterra.

A partire dal percorso che la Comunità ha vissuto da 40 anni ad oggi, apri-le 2006.

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Premessa

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La vita è un puzzle.Loro, anche loro, vi si cimentano.Loro: i veri protagonisti della vita.

Perché la vita tanto più è autentica, quanto più costa fatica conquistarla.

Coinvolgersi con loro: un’avventura di alto profilo umano,un’esperienza molto gratificante.

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La storia

La comunità nazionale di Capodarco

La Comunità di Capodarco dell’Umbria ONLUS sul finire degli anni ’90 si èseparata, sul piano giuridico, dalla Comunità di Capodarco, che per facilitare lacomprensione chiameremo da qui in avanti “Comunità Nazionale di Capodarco”;la scelta non è stata condivisa da un gruppo di soci, che hanno dato vita adun’altra associazione, che alla Comunità Nazionale di Capodarco è rimasta lega-ta come una sua articolazione: la Comunità di Capodarco di Perugia.

Natale 1966. Stanchi del pietismo smaccato col quale la gente affronta le pro-blematiche dell’handicap, un gruppo di giovani invalidi, intelligenti ma fisica-mente anche molto gravi, decidono di uscire dagli istituti e dalle famiglie, rom-pendo con un passato che avvertono ormai insostenibile.Sono una quindicina, tutti invalidi fisici, decisi a gettarsi nell’avventura dellavita autogestita e condivisa.Rompono. Basta con gli istituti freddi, anonimi, spersonalizzanti. Basta con lecase dall’aria calda e viziata. Basta con i benefattori. Basta con le suorine pia-mente perfide. Basta con i direttori. Basta con la falsa teologia della sofferenzache deputa ad alcuni la “missione” di soffrire per tutti. Basta con i pellegrinaggiodorosi d’incenso, di cloroformio e di caramello. Basta!Lo gridano prima a se stessi, poi agli altri. L’hanno gridato alla Madonna diLourdes, in giugno.In ottobre si insediano nei pressi di Capodarco di Fermo, paesino al confine frala provincia di Macerata e quella di Ascoli Piceno, nell’ex Villa Piccolomini,fatiscente e sonnacchiosa sulla collina che guarda l’Adriatico verso Porto SanGiorgio. La ribattezzano “Casa Papa Giovanni”. Lì vogliono vivere. Cioè prendere in mano la propria vita. Cioè lavorare discute-re amare litigare gridare pregare decidere pagare di persona. E rischiare a testaalta di fare puttanate, come fanno tutti; col proposito di ricominciare tutti i gior-ni, come pochi sanno fare. Batterci il naso e asciugarsi il sangue da soli. Unmisto di rabbia e di coraggio, di fede e di ribellione.

Un prete come guida. Li guida un prete umanissimo e poderoso, capace diattenzioni delicate e di programmi stratosferici, di intuizioni geniali e di deva-stanti cantonate innocue. Non gode affatto della tradizionale autorità del prete,eppure è lui il perno di tutto. Si chiama Franco Monterubbianesi. Ha studiato alcollegio Capranica di Roma, sa di filosofia e di teologia, ma nonostante questoquel piccolo esercito d’incoscienti ha deciso di seguirlo. Dai suoi sarà bistrattato come pochi, amato come nessuno. Secondo lui l’alternativa radicale al disagio che quei giovani handicappatiavevano vissuto, nelle loro case o negli istituti che li avevano accolti, era La

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Capitolo Primo

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Comunità. Il nome comunità in quegli anni era molto diffuso e designava realtàanche molto diverse fra di loro; nell’accezione che a questo nome dava lanascente aggregazione di Capodarco, comunità era una realtà nella quale il vive-re con doveva soppiantare il vivere per; questa tensione al protagonismo di tuttiavrebbe gradualmente fatto nascere dal bisogno, affrontato e decifrato insieme,una scelta di vita e di liberazione decisiva per tutti coloro che, invalidi o sani,per qualsiasi motivo avessero deciso di viverla.

I referenti ideali. Don Franco e i suoi partono da un messaggio religioso forteed esigente, e sul suo metro si sono dati un nome: Centro Comunitario GesùRisorto. La Resurrezione, senza cessare d’essere un mistero, deve diventare sem-pre più storia concreta di ognuno. Il primo referente ideale è dunque di taglio religioso: il Concilio. La Chiesa che,per bocca di Papa Giovanni, un mese prima dell’inizio del Concilio, di se stessaha detto: Da oggi in avanti sarò la Chiesa di tutti e soprattutto la Chiesa dei poveri. Il secondo referente ideale è di taglio politico: il clima pieno di speranza chehanno creato sul piano internazionale, la Nuova Frontiera di Kennedy e il disge-lo voluta da Kruscev, sul piano nazionale il primo centro-sinistra, l’incontro tra iCattolici della DC e i Marxisti del PSI.

L’associazione. Lo spontaneismo segnò gli inizi della vita comunitaria. A CasaPapa Giovanni, a fianco dell’ingresso, campeggiava la scritta QUESTA È LACASA DI TUTTI, ENTRATE PURE!

Ma presto s’impose la necessità di avere un profilo giuridico preciso.L’associazione ecclesiale Centro Comunitario Gesù Risorto nel 1967 viene appro-vata dal Vescovo di Fermo a norma di Diritto Canonico; si dà come scopo socialeil recupero umano e cristiano dei giovani handicappati, uniti in vincoli di parità;infine, il 21.1.71, viene eretta in Ente Morale dal Presidente della Repubblica.Due le parole magiche che circolano con maggiore frequenza e intensità, paroledel tutto ignote negli ambienti dai quali provengono i nostri eroi: autogestione econdivisione.

La convenzione. 1969: la Comunità di Capodarco conta ormai circa 100 perso-ne; la sua vita è intensa; il flusso dei giovani volontari che vengono ad approfon-dire e a dare una mano è continuo; la riscoperta di valori alternativi anima lediscussioni e prefigura la fisionomia dei progetti. Si sopravvive con lavori a bassissimo reddito, con la solidarietà degli amici, conqualche sporadico finanziamento da parte di enti pubblici. Si mangiano uovasode giorno e sera. Il loro caratteristico tanfo è accentuato dal puzzo di gommabruciata: da mane a sera si perforano ciabatte da mare.Dallo scarto fra la grandezza dei progetti e la pochezza dei mezzi a disposizioneper realizzarli nasce l’interrogativo sull’opportunità di stipulare una convenzione

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con il Ministero della Sanità. Ma il nome stesso retta di degenza richiama allamente di molti comunitari il ricordo di oppressioni, frustrazioni, spersonalizza-zione vissute negli istituti. Il dibattito, vivacissimo, muove dalla comune decisione di non accettare mainessun direttore esterno, nessuna stanza dove sia scritto “Staff only”e si conclu-de con la decisione di accettare le rette da parte dello Stato solo a patto che lagestione della Comunità sia di esclusiva competenza della Comunità stessa: leregole le fissa l’assemblea comunitaria, le esegue il consiglio comunitario, lapresidenza garantisce la correttezza del tutto. Ciascun organo secondo le competenze previste dallo statuto.

1971 - Il decentramento. Se ne è parlato per anni, ora diventa realtà, ancheperché la struttura della vecchia villa non può più accogliere (oltre i 120 resi-denti!) i corsi professionali, i laboratori di elettronica, ceramica, maglieria. Nellazona sud di Roma si insedia il più consistente gruppo di Capodarchiani. Oltre laCapodarco di Roma, dove si trasferisce anche don Franco, nascono la Comunitàla Buona Novella a Fabriano, la Comunità Progetto Sud in Calabria (LameziaTerme), la Comunità Piergiorgio in Friuli (Udine). Il progetto iniziale rimane lostesso, ma le sue traduzioni pratiche si diversificano notevolmente, a secondadella natura del territorio in cui la Comunità s’è insediata e delle particolari sot-tolineature operate dai vari protagonisti.

1970 - Fabriano. Da diversi anni, molte centinaia di giovani durante tutta l’e-state lavorano gratuitamente (a turni di 15 giorni) a Capodarco, per stabilizzarel’edificio di Casa Papa Giovanni, la casa della Comunità, che sta lentamenteslittando verso il mare. Qualche decina di quei ragazzi provengono da Gubbio.Appartengono quasi tutti al Movimento Studenti Eugubino, associazione di ispi-razione cattolica aperta a tutti, che negli anni ’60 ha praticamente monopolizzatol’intensa vita del mondo scolastico eugubino. Hanno vent’anni e una gran vogliadi cambiare il mondo. L’incontro con 100 invalidi vivi, contestatori, arrabbiati, che reclamano anch’essiun mondo nuovo è folgorante. S’instaura un feeling che spiega quello che acca-drà negli anni successivi Tra l’altro proprio uno dei principali animatori del Movimento Studenti, DonAngelo M. Fanucci, rimane impigliato nella rete gettata da Don Franco, e nel1971 entra a far parte della Comunità di Capodarco.

1971. Grazie ancora all’impegno estivo del Movimento Studenti Eugubino, cheabbraccia anche quest’anno tutta l’estate e coinvolge anche adulti (muratori delquartiere di S. Martino, Movimento di Rinascita Cristiana, ecc.), in centro città(via Gentile 26), nasce la Comunità La Buona Novella di Fabriano. Fabriano ènelle Marche, Gubbio in Umbria, ma le due cittadine distano poco più di 30 kml’una dall’altra. Scopo specifico è quello di permettere a un gruppetto di giovani

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invalidi il recupero degli anni scolastici perduti e l’accesso all’università..Memori della risposta che Gesù dette a coloro che, a nome del Battista, gli chie-devano se era lui il Messia (Andate a raccontargli quello che avete constatato: iciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono risanati, i sordi odono, i mortirisorgono e la buona novella viene annunziata ai poveri, Mt. 11, 4-6), scelgonoper la propria convivenza il nome “La buona novella”. Ma da subito prende corpo il progetto di realizzare una Comunità di Capodarco aGubbio. Lo promuove il Centro Trasfusionale dell’Ospedale Civile, grazie soprat-tutto a Giulio Scarabotta, infermiere professionale e grande estimatore dellacomunità.

La comunità di Capodarco dell’Umbria ONLUS

1974 - Si parte anche a Gubbio. I Frati Minori sono stati disponibili ad uncomodato 25.ennale gratuito, che in un primo momento era lungo 99 anni, pois’è accorciato a 50, poi è calato a 25: … tanto, se farete quello che dite di volerfare, nessuno vi caccerà… e invece, puntualmente, alla scadenza dei 25 anni, nel2000, ci verrà chiesto di andarcene.Così un gruppo di Capodarchiani, forti della loro triennale esperienza di vitaautogestita e condivisa, si trasferisce da Fabriano a Gubbio. Incastonato in unavvallamento del Monte Ansciano, nasce il Centro Lavoro Cultura. Una ventinadi persone, invalidi gravi per i 2/3. Li guida don Angelo M. Fanucci che ha vis-suto con loro i tre anni di Fabriano. Ai leader che già avevano dato prova di sestessi a Fabriano, Silvana Panza (che alla costituzione del Centro Lavoro Culturaverrà eletta Presidente) e Clara Fazzi, si aggiungono il maestoso Aquino Doretto(180 kg sulla carrozzina) e Maurizio Pirani che presto diventerà popolarissimo aGubbio, soprattutto a S. Martino.Abbiamo accennato al nome che la nuova realtà assume, Centro Lavoro Cultura:scegliendo quel nome, don Franco Monterubbianesi, il Presidente dellaComunità Nazionale di Capodarco, voleva dire: al S. Girolamo di Gubbio riflette-remo su tutto quello che le Comunità di Capodarco avranno realizzato dovunquesi saranno impiantate, facendolo entrare in circolo nel vivo del dibattito cultura-le; un contributo alla rigenerazione degli schemi mentali e operativi di tutti. Un inizio esaltante e gasato. L’acquedotto viene realizzato entro l’estate, con unaspesa risibile. E cominciare la ristrutturazione del vecchio convento, ridotto adun mucchio d’ossa. Decine e decine, centinaia di giovani Eugubini prendono adalternarsi durante l’estate con altrettanti ragazzi che, a cura dei Soci Costruttoridi Pontenure o degli Universitari Costruttori di Padova, salgono sull’Ansciano datutta Italia, e dal Belgio, e dalla Germania, dal Giappone…; fanno i manovali aicinque muratori che le offerte della gente permettono di pagare; oppure (per gua-dagnare qualche soldino per la Comunità) partono all’alba per Citerna, a racco-gliere pomodori, o per Torgiano, a vendemmiare… A Ferragosto del 1975 qual-

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cuno li conta: sono 113. Tra giornate di lavoro gratuite (non solo di giovani),denaro e materiali, Gubbio contribuisce per non meno di 1 miliardo di lire.Con l’inizio della scuola i campi di lavoro finiscono. Riprenderanno la prossimaestate, fino al 1984. La Comunità ha bisogno di tutto. Non ci sono riscaldamenti.Si vive accampati. D’inverno fa un freddo cane. Ma ogni giorno un gruppo diragazze salgono a piedi a San Girolamo, subito dopo pranzo, a lavare i piatti conl’acqua fredda...La notte di Natale del 1974 la Comunità ha deciso di riservare a se stessa unmomento d’intimità e di preghiera. E invece a mezzanotte il futuro refettorio, coisuoi intonaci cadenti e i suoi infissi sconnessi, rigurgita di gente salita alla spic-ciolata, per gli auguri alla Comunità. La Messa. Il gelo pungente è presto vintodal calore umano della gente che canta alla luce di quattro pallide lampadineappese a fili volanti.La Comunità cresce a vista d’occhio, man mano che la casa si rende abitabile siaggregano altri soggetti, handicappati e sani. Fino a stabilizzarsi poco sopra le50 unità. Molti i giovani sani. Ma ad essi l’integralismo dei pionieri sbarra lastrada di possibili inserimenti vitali in comunità, che non possono essere garan-titi dalle 10.000 (diecimila) lire mensili che ciascuno percepisce. Gli eugubiniTonino Scavizzi, Gianni Cecchini, Leandro Galli. I piemontesi Roberto Chiodinidi Domodossola e “Pierone” di Verbania. I lombardi Marini e Zucchini. Il roma-no Claudio Fior: tutti senza orario di lavoro, generosissimi, si fermano anni, manon hanno futuro, a quelle condizioni.

1974 - Franchino. Arriva a S. Girolamo Franchino. Dei suoi dieci anni di vita,sei ne ha vissuti nell’Ospedale Pediatrico di Siena, perché qualcuno l’ha deposi-tato lì e non è più passato a ritirarlo. Tetraparetico e oligofrenico, verrà adottatoda don Angelo, con procedura normale, dietro consiglio del presidente delTribunale per i Minori di Perugia, dr. Giorgio Battistacci, che espleterà di perso-na le pratiche necessarie. Oggi ha 42 anni e risiede con suo padre a S. Marco,utilizza tutti i vari servizi che la comunità gli offre.

1975 - Il lavoro. Tutti a S. Girolamo hanno lavorato fin dall’inizio, invalidi esani. Chi studia lo fa dopo le ore dedicate al suo impegno lavorativo: o in casa, ocoi muratori, o in giro a raccogliere carta e stracci per il riciclaggio. Nasce laCooperativa S. Girolamo, settore meccanica; essa poi avrà un settore tipografia eun settore cartotecnica (articoli carnevaleschi). Un orgoglio smisurato: Clara Fazie Aquino Doretto, lavoratori come tutti gli altri. Ma la gestione del lavoro è dis-sennata: entra un ruscello di soldi, ne esce un fiume; ma oggi i disabili al 100%che lavorarono allora percepiscono la pensione di lavoro.

1976 - I servizi al territorio. 13 maggio 1976, 50 anni dalla prima apparizionedella Madonna a Fatima. L’immagine collocata sull’altare della Chiesa di S.Girolamo non solo riproduce la fattezze della Madre di Dio così come l’hanno

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vista i Tre Pastorelli, ma è scolpita in legno proveniente proprio dalla Cova daIrìa, dove avvennero le apparizioni. La Giunta della Regione Umbria non lo sa,ma proprio in quel giorno, con la delibera n. 1674, riconosce alla Comunità di S.Girolamo la qualifica di Centro di recupero medico-sociale (autogestito), a normadella legge 118/1972, e la abilita così a rendere servizi socio/sanitari al territo-rio.

1984 - La struttura. Il sogno ha finalmente una casa: i lavori di restauro sonofiniti. 7.000 quintali di cemento, equamente ripartiti tra Colacem e CementerieBarbetti, le due massime imprese del territorio. Il sogno ha finalmente una con-sistenza giuridica: viene costituita dal notaio l’Associazione Centro LavoroCultura. Ne è Presidente Silvana Panza. Le succederà nel 1985 Sauro Magara enel 1986 Francesca Bondì, che resterà in carica fino al 1997 quando, anche perla complessità dei compiti che si profilano davanti, la Presidenza verrà attribuitaa don Angelo M. Fanucci. Da notare che i primi tre presidenti erano tre disabili.

1986 - Il decentramento. Nascono i gruppi periferici: a Padule (alloggiato neilocali della parrocchia dove don Angelo sarà parroco fino al 1992), leader la dr.Antonia Botta, paraplegica e direttore medico della Comunità; a Via Gabriellicon Clara Fazi, poliomielitica e segretaria della Cooperativa S. Girolamo; in ViaPerugina con Silvana Panza, distrofica e studentessa di pedagogia, gruppo chepresto si staccherà dalla Comunità. Il sogno si articola. Nascono centri diurni; lecooperative si moltiplicano. Le 10 persone iniziali sono diventate più di 100,coinvolte a vario titolo e con varia intensità. Qualcuno se ne è andato, anchesbattendo la porta. Molto di più quelli che sono entrati.

1990 - Dal volontariato internazionale al volontariato nazionale. In siner-gia con tutte le altre Comunità di Capodarco, anche la nostra Comunità intervie-ne in Ecuador, al nord, nella città di Ibarra, provincia dell’Imbabura. Lo spuntoci viene offerto dai due Centenari Ubaldiani, quello della Canonizzazione (1992)e quello della traslazione del Corpo (1994). Ad Ibarra apre i battenti la CasacciaAngelofranco, che accoglie una ventina di disabili.Sulla scia della suggestione che viene dall’esperienza ecuadoreña, dove, aPenipe, nel Chimborazo, è nata la prima Comunità di Capodarco fuori d’Italia,nasce il CEAS (Centro per l’Educazione alla Socialità). In collegamento struttu-rale con la Comunità, il CEAS si propone di lottare contro l’emarginazione con-tribuendo ad elaborare, articolare e diffondere una cultura che parta dal mondodell’emarginazione e del disagio sociale.

1994 - Con il progetto/SUEOC diventa pienamente operativo il CentroLavoro Cultura. “Centro Lavoro Cultura” è il nome che si è data fin dal 1984,e che oggi ufficializza davanti al notaio, quella che tutti conoscono come“Comunità di S. Girolamo”. Il nome sta a dire che ci si propone di far sì che

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tutto il nostro lavoro, sempre orientato a battere l’emarginazione, diventi cultura,cioè auto/riflessione e ri/calibratura delle scelte (fini e strumenti) che fanno lavita. Da decenni operano a S. Girolamo diverse iniziative formative, due dellequali sistematiche: le “settimane estive” e gli stages per gli alunni degli IstitutiProfessionali per i Servizi Sociali di tutta Italia. Nel 1994, grazie soprattutto allapresenza di un nucleo di docenti dell’Università di Perugia (Federici, Cavazzoni,Bucci, Rosati), prende corpo la SUEOC (Scuola Universitaria Europea perOperatori di Condivisione), progetto Horizon, finanziato dalla UE. L’obiettivo èquello di formare “Operatori di condivisione”, cioè operatori sociali non soloprofessionalmente preparati, ma anche personalmente motivati a “vivere con”l’emarginato, prima che a “vivere per” lui. Una seconda tranche dell’iniziativaviene realizzata nel 1997/98.

1995 - In Ecuador il Centro Social San Ubaldo. A Ibarra - Ecuador, un foltogruppo di Eugubini inaugura il Centro Social San Ubaldo, un parco giochi dallacui gestione il gruppo di disabili che abbiamo sostenuto restaurando la loro casain Via Moncayo y Salinas ricaverà il necessario per vivere.

1997 - Si abbandona il progetto/SUEOC. A mano a mano che si precisa lafigura dell’Operatore di Condivisione, ci si convince che un’università statalenon ha gli strumenti ideali per dargli corpo. Si contatta la LUMSA, prestigiosauniversità cattolica di Roma che oltretutto ha avuto, negli anni ’20, la sua primaincubazione a Gubbio, con la nascita, ad opera della Ven. Luigia Tincani, delleMissionarie della Scuola (Pia Unione di S. Caterina da Siena).

1998 - Al Centro Lavoro Cultura subentra la Comunità di Capodarcodell’Umbria. Si tagliano così i rapporti con la Comunità Nazionale diCapodarco. Il Centro Lavoro Cultura ha intenzione di chiedere il riconoscimentocome ONLUS; in tal caso la legge vieta il mantenimento di rapporti di dipenden-za istituzionale. Il Centro Lavoro Cultura ne approfitta per cambiare il proprionome in quello di Comunità di Capodarco dell’Umbria ONLUS.

1999 - Nasce il Corso di Laurea per Educatore professionale. Dalla sinergiafra Comunità di Capodarco dell’Umbria e la LUMSA. Secondo la relativa con-venzione, la LUMSA assume la responsabilità scientifica e didattica delle attivitàe delle iniziative svolte in collaborazione con la Comunità di Capodarcodell’Umbria ONLUS, mentre la Comunità di Capodarco dell’Umbria ONLUSconsente lo svolgimento dell’attività di didattica decentrata nella sede di Gubbioal fine di offrire ai futuri laureati un’esperienza di tirocinio a contatto ed a van-taggio di soggetti disadattati, o in pericolo di disadattamento, e, quindi, bisognosidi vedersi accolti nel vivo della comunità ecclesiale e civile. A tale scopo laCapodarco, che nell’accoglienza dei disabili punta soprattutto all’autogestione ealla condivisione della vita, mette a disposizione le sue strutture di convivenza,

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di lavoro e di servizio. Successivamente è nato un Comitato Tecnico Permanente,che, al fine di articolare e potenziare la gestione del Corso, ha visto affiancarsialla LUMSA e alla Capodarco dell’Umbria la Diocesi di Gubbio, il Comune diGubbio e l’Associazione Fondazione Baldassini.

2000 - Via da S. Girolamo. Le Sorelle Clarisse del Monastero della SantissimaTrinità, situato al centro di Gubbio, non riescono a vivere il loro notevole rilancionel vecchio e rugginoso stabile di Corso Garibaldi. A nome loro la ProvinciaSerafica dei Frati Minori chiede che la Comunità lasci S. Girolamo e si trasferi-sca a Corso Garibaldi 110. La Comunità accetta, collocando le proprie residenzeprovvisoriamente a Padule, S. Marco e Via Gabrielli. A titolo di (parziale) risar-cimento per gli ingenti lavori realizzato in 10 anni (1974-1984) nel Convento diS. Girolamo, la Comunità avrà in proprietà tutta la parte di Monastero dellaTrinità che si affaccia su Corso Garibaldi.

2002-2003 - Si laureano (laurea triennale) i primi alunni del Corso perEducatore Professionale. Il primo in assoluto, Stefano Bocciolesi, entra nelSeminario Regionale di Assisi.

2003 Il primo Agriturismo per Disabili. Convocato nella sua sede fiorentinadalla Banca Nazionale del Lavoro, su richiesta dei suoi Dirigenti, don Angeloviene sollecitato ad illustrare un progetto che la Comunità ritiene particolarmen-te significativo. È il progetto di un agriturismo per disabili: “Perché mai i disabi-li dovrebbero essere tagliati fuori dalla fruizione di quei beni che oggi fanno laqualità della vita?”. Il Progetto viene fatto proprio dalla BNL.

2005 - Nello stabile del Monastero della Trinità s’insedia il CentroSocio/riabilitativo a ciclo diurno della Comunità. La Conferenza dei Servizipromossa dal Comune di Gubbio per verificare con tutti gli Enti interessati ilfuturo dell’ex Monastero della Trinità rivela che il restauro e l’adattamento del-l’edificio a sede residenziale della Comunità e della sede della LUMSA/Capodarco/Gubbio, nonostante il forte finanziamento della Fondazione Cassa diRisparmio di Perugia, sia sul piano edilizio che sul piano dell’impegno finanzia-rio s’è rivelato enormemente più impegnativo di quanto preventivato. Per questoè giocoforza decidere di trasferire in quello stabile solo il Centro diurno e nonanche la residenza.

2006 - L’“operatore di condivisione” diviene una figura ufficiale. Il relativotitolo verrà conferito dalla Scuola Diocesana di Teologia “S. Ubaldo” a chi dauna parte avrà percorso l’apposito curriculum e, dall’altra, avrà conseguito lalaurea triennale in Educatore Professionale presso la LUMSA/ Capodarco/Gubbio.

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Capitolo Secondo

La struttura

Le articolazioni della Comunità di Capodarco dell’Umbria

Articolazioni in senso stretto (senza propria personalità giuridica)Le convivenzeCentro socioriabilitativo ed educativo a ciclo residenziali di Padule Stazione,Via degli Artigiani 18, 06020 Padule, Perugia; 075 929.25.83.Centro socioriabilitativo ed educativo a ciclo residenziale (GruppoPierfrancesco) di S. Marco, Via Elba 47, 06024 S. Marco di Gubbio (PG); 075922 93 12 Centro socioriabilitativo a degenza residenziale di Prepo, Strada Comunale diPrepo 204, 06127 Perugia; 075 505.11.76Gruppo Famiglia di Via Gabrielli, Via Gabrielli 25, Gubbio (PG); 075927.63.18

I serviziCentro socioriabilitativo ed educativo a ciclo diurno di Gubbio centro, CorsoGaribaldi 111, 06024 Gubbio (PG).Centro socioriabilitativo ed educativo a ciclo diurno “Il Pavone”, ViaSettevalli 264, Perugia 204; 075 500.80.30 Centro riabilitativo di Via Perugina 79, 06024 Gubbio.

Articolazioni in senso lato (aventi propria personalità giuridica)Il lavoro Cooperativa sociale agricola Colfiorito Colonnata di Gubbio; 075 927.75.16Cooperativa sociale La Saonda a.r.l., Via Elba 49, S. Marco di Gubbio (PG);075 922.11.40Cooperativa sociale Il Pavone, Via Settevalli 264, Prepo, Perugia; 075 505 80 30Cooperativa sociale S. Girolamo a r.l., Zona industriale Fornacette, Padule,Perugia; 075 929.13.18Cooperativa sociale Sir.Coop., Zona industriale Padule Fornacette, Perugia;075 929.14.33.Cooperativa sociale I1 Girasole, Corso Garibaldi 111, Gubbio (PG);922.06.54.

Il volontariato Il CEAS (Cento di Educazione Alla Socialità)… si propone di affiancare, conun suo autonomo contributo, l’impegno di lotta contro l’emarginazione che,nella forma privilegiata della vita comunitaria autogestita e condivisa, carat-terizza la Comunità di Capodarco dell’Umbria.

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Lo statuto della Comunità di Capodarco dell’Umbria(ultima revisione: 24 ottobre 1998)

Costituzione (art. 1)È giuridicamente costituita l’Associazione denominata “Comunità di Capodarcodell’Umbria”, avente sede in Gubbio (PG), Corso Garibaldi 111.

Le Finalità (art. 2)La Comunità di Capodarco dell’Umbria persegue le seguenti finalità:

• lo sviluppo della persona, con particolare attenzione agli emarginati;• la rimozione di ogni ostacolo al pieno sviluppo della personalità dell’in-

dividuo, nel rispetto della cultura, dei valori e dello spazio creativo diciascuno;

• l’effettiva partecipazione democratica alla vita sociale di ogni persona,attraverso la lotta contro ogni forma di emarginazione.

Per la matrice cristiana di parte dei suoi membri e per l’esperienza di servizioall’uomo di tutti i suoi membri, la Comunità di Capodarco dell’Umbria è luogodi incontro e di confronto fra quanti, pur variamente ispirati sul piano ideologicoe culturale, ne condividono lo spirito e l’impegno vitale.

Modalità operative (art. 3)la Comunità di Capodarco dell’Umbria persegue i suoi fini attraverso le seguentimodalità:

a) promuove, attraverso processi di liberazione e di formazione, la crescitaumana, sociale e culturale dei suoi membri;

b) promuove la partecipazione dei suoi membri ad una sobria, libera e soli-dale vita familiare, di gruppo, relazionale e di lavoro, avendo particolareattenzione ai bisogni di ciascuno;

c) promuove, crea e gestisce, in Italia e all’estero, anche tramite convenzio-ni, realtà di lavoro, di servizio, di abitazione;

d) coordina e verificandone la rispondenza ai fini dell’Associazione, i grup-pi territoriali che operano con il nome di Comunità di Capodarcodell’Umbria;

e) favorisce l’adesione alla Comunità, nelle forme previste dalRegolamento, di quegli organismi che, per spirito e prassi, gli sono par-ticolarmente vicini;

f) favorisce la partecipazione alla Comunità di collaboratori e simpatizzan-ti, aggregandoli nelle forme previste dal Regolamento;

g) collabora con Associazioni, Enti Pubblici e privati, gruppi di base e divolontariato, e con gli stessi utenti dei servizi, al fine di individuarerisposte soddisfacenti ai bisogni della persona e della società, nonchémodalità capaci di vincere l’emarginazione;

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h) mantiene e approfondisce il rapporto con le realtà ecclesiali, sociali,politiche, culturali e religiose tese al servizio della persona umana,all’affermazione della sua piena dignità, all’approfondimento dei valoridi solidarietà;

i) promuove, sostiene, finanzia lo svolgimento di attività economiche (orga-nizzate anche in forma di Società cooperative) utili alla realizzazionedelle finalità di cui all’art. 2.

L’ispirazione Cristiana (art. 3, comma L)Per la particolare natura della proposta sulla quale la realtà associativa, che conil presente Statuto assume forma giuridica, si è formata ed ha aggregato consen-si, la Comunità di Capodarco dell’Umbria, pur condividendo lo spirito e la pras-si pluralista che caratterizza la Comunità di Capodarco, collabora, in modo tuttoparticolare, con la Chiesa locale, per incrementare, all’interno di essa, la dimen-sione di liberazione personale propria del Cristianesimo, nel pieno rispetto enella costante tensione a promuovere e a valorizzare le storie e il patrimonioideale e pratico di gruppi territoriali che si siano formati su altre dinamiche;coerentemente, nel pieno rispetto dei valori personali di ciascun Socio, cura alproprio interno che la proposta cristiana venga fatta a tutti i soci.

Gli organi (art. 4)La Comunità di Capodarco dell’Umbria si organizza al suo interno in:

• Assemblea dei Soci• Consiglio Direttivo• Presidente, Vice Presidente e Tesoriere• Collegio dei Revisori dei Conti.

I Soci (art. 5)Possono divenire Soci della Comunità di Capodarco dell’Umbria le persone chene condividono lo spirito e le prassi, e che si impegnano a perseguire attivamen-te i fini associativi stabiliti nel presente statuto.La comunione e la condivisione degli ideali e della vita pratica costituisconocaratteristica peculiare dei membri della Comunità di Capodarco dell’Umbria.Può appartenere all’associazione in qualità di socio chi, in maggiore età:

• accetta e sottoscrive lo statuto dell’associazione nelle forme previste;• mostra disponibilità concreta e continua ad accollarsi realisticamente

situazioni di bisogno; • partecipa alla vita dei gruppi;• collabora ai progetti di vita e di lavoro che i gruppi portano avanti, impe-

gnando, in ogni caso, un qualcosa della propria vita e del proprio quoti-diano.

Per i singoli e le famiglie saranno i gruppi stessi, da cui tali realtà hanno avuto

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Page 25: La Comunità di Capodarco dell'Umbria

inizio, che verificheranno tale impegno. Il giudizio di ammissione come Socio ècompito del Consiglio Direttivo.I Soci che aderiscono come singoli debbono, in ogni caso, far riferimento ad ungruppo territoriale. In nessun caso si può diventare Soci prima di un anno dipermanenza nel tipo di impegno sopra descritto.Ogni tre anni il Socio è chiamato a riconfermare la propria adesione allaComunità. Il socio che, a giudizio dei membri di un gruppo territoriale, non siapiù in grado di appartenere al centro perde la sua qualità di Socio dellaComunità. Avverso questa decisione, egli può ricorrere al Consiglio Direttivo.

Gli organismi associati (art. 6)Possono essere associate alla Comunità di Capodarco dell’Umbria associazioniche operino a favore degli emarginati, con finalità simili a quelle del Centro.Le modalità di adesione e di partecipazione sono stabilite dal Regolamento.Ogni tre anni gli organismi associati sono chiamati a riconfermare la propriaadesione.

L’Assemblea Generale (art. 7)L’assemblea della Comunità di Capodarco dell’Umbria è costituita da tutti i Socidel medesimo; viene convocata, per iscritto, con almeno quindici giorni di anti-cipo ed è valida, in prima convocazione, se sono presenti almeno 2/3 (due terzi)dei Soci, in seconda convocazione, qualunque sia il numero dei Soci presenti.L’Assemblea è presieduta dal Presidente della Comunità; in forma ordinaria,essa viene convocata dal Presidente due volte all’anno; in forma straordinaria,essa può essere convocata dal Presidente su richiesta scritta di 1/3 (un terzo) deiSoci o di 1/3 (un terzo) dei membri del consiglio Direttivo; in tale caso ilPresidente deve convocare l’Assemblea straordinaria, a meno che esistano indi-cazioni contrarie, che andranno, in ogni caso, motivate per iscritto; l’Assembleastraordinaria può altresì essere convocata dal Presidente ogni qualvolta lo riten-ga necessario.Le votazioni hanno luogo per alzata di mano, o a scrutinio segreto, quando ciòsia richiesto da almeno 1/5 dei votanti.L’Assemblea decide a maggioranza semplice.Per le modifiche al presente Statuto è richiesta la presenza di almeno la metàpiù uno degli aventi diritto al voto e la maggioranza qualificata di 2/3 (due terzi)dei presenti.Sono compiti dell’Assemblea Generale:

• approvare le relazioni del Presidente, del Tesoriere e del Collegio deiRevisori dei Conti;

• deliberare sugli argomenti posti all’Ordine del giorno;• stabilire le quote associative;• eleggere i membri del Consiglio Direttivo, che siano Soci da almeno due

anni;

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• approvare le proposte di modifica al presente Statuto;• fissare l’indirizzo generale dell’azione del Centro, ivi compresi i criteri

di gestione e la quantificazione dell’amministrazione sia ordinaria chestraordinaria; eventuali correzioni della linea scelta dall’Assemblea sonodi competenza del Consiglio Direttivo, le inversioni di rotta sono invecedi competenza dell’Assemblea medesima.

Il Consiglio Direttivo (art. 9)Il Consiglio Direttivo della Comunità di Capodarco dell’Umbria è composto daun minimo di 5 ad un massimo di 9 Soci, scelti con criteri di rappresentanza ditutte e singole le articolazioni territoriali del Centro.Il numero dei membri da eleggere, fatti salvi i suddetti limiti, è fissatodall’Assemblea preliminarmente alla seduta nella quale l’Assemblea stessadecide le modalità dell’elezione e procede ad eleggere il Consiglio.Il Consiglio Direttivo dura in carica un anno ed è rieleggibile.Il Consiglio Direttivo è convocato dal Presidente della Comunità di Capodarcodell’Umbria almeno ogni due mesi, ed ogni qualvolta sia richiesto da almeno 1/3(un terzo) dei suoi membri.Le sedute sono valide quando siano presenti almeno la metà più uno deiConsiglieri.Le votazioni hanno luogo per alzata di mano, o a scrutinio segreto, quando ciòsia richiesto da almeno 1/5 (un quinto) dei Consiglieri.Le delibere sono prese a maggioranza assoluta; in caso di parità prevale il votodel Presidente.Sono compiti del Consiglio Direttivo:

a) eleggere, al proprio interno, nella prima seduta successivaall’Assemblea Generale, il Presidente, il Vice Presidente, il Tesoriere edil Segretario;

b) nominare il Collegio dei Revisori dei Conti;c) approvare i bilanci consuntivo e preventivo disposti dal Tesoriere,

rispettivamente entro il 30 Marzo e il 30 Ottobre di ogni anno;d) stabilire l’ordine del giorno dell’Assemblea e proporre i criteri di rappre-

sentanza all’interno della medesima;e) provvedere allo sviluppo e all’indirizzo generale della Comunità secondo

le direttive dell’Assemblea, approfondendo lo studio dei problemi con-nessi, anche istituendo appositi gruppi di lavoro;

f) stimolare e promuovere la creazione di gruppi territoriali (Comunità,Gruppi-Famiglia, iniziative di lavoro, insediamenti vari), approvarne lacostituzione, regolarne il funzionamento;

g) mantenere l’unità della Comunità ed il corretto rapporto tra i gruppi,nonché intervenire e risolvere eventuali difficoltà di questi ultimi;

h) disporre il commissariamento o lo svolgimento dei gruppi territoriali ovesi registri l’impossibilità di risolverne le difficoltà;

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i) provvedere, in caso di scioglimento o distacco dall’Associazione di unodi essi, alla destinazione dei beni e attrezzature di cui esso disponeva;

j) dare ai Soci le indicazioni concernenti la loro appartenenza allaComunità nonché gli strumenti per assorbirne ed elaborarne il patrimo-nio di valori.

Il Presidente (art. 11)Il Presidente dell’Associazione Comunità di Capodarco dell’Umbria ha la rap-presentanza legale della stessa.Convoca l’Assemblea e il Consiglio Direttivo. Presiede le sedute del ConsiglioDirettivo. In sua assenza è sostituito dal Vice presidente. Propone la nomina delsegretario. In caso di urgenza e di necessità, assume i provvedimenti di compe-tenza del Consiglio Direttivo, sottoponendoli a ratifica nella successiva riunionedello stesso.Firma, insieme al Tesoriere, le autorizzazione di spesa e le erogazioni.

Il Vice Presidente (art. 12)Il Vice Presidente sostituisce il Presidente, su delega di quest’ultimo, o in casodi assenza del Presidente.

Il Tesoriere (art. 13)Il Tesoriere dispone, entro il 30 Marzo ed il 30 Ottobre di ogni anno, i bilanciconsuntivo e preventivo e li sottopone all’approvazione del Consiglio Direttivo edell’Assemblea Generale.Firma, insieme al Presidente o al Vice Presidente, le autorizzazioni di spesa e leerogazioni; ogni anno l’Assemblea decide il tetto di spesa alla quale il Tesoriereè autonomamente autorizzato.

Il Segretario (art. 14)Il Segretario esegue gli atti predisposti dal Consiglio Direttivo, redige i verbalidelle sue sedute e di quelle dell’Assemblea.

Il Collegio dei Revisori dei Conti (art. 15)Il Collegio dei Revisori dei Conti viene nominato dal Consiglio Direttivo ed ècomposto da tre membri effettivi e due supplenti.Esso effettua la vigilanza contabile sull’attività generale della Comunità e riferi-sce all’Assemblea Generale.

L’Assistente Ecclesiastico (art. 16)La direzione spirituale dei credenti della Comunità di Capodarco dell’Umbria ècurata da un Assistente Ecclesiastico designato dall’Ordinario di Gubbio.

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Parte Seconda

a nostraCultura

L

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Forza, Tatiana!Vedrai che, una volta che avrai riacquistato

tutta la residuale agibilità del tuo corpo,potrai ricominciare a produrre vita!

A vantaggio di tutti.Tutti debbono poter contare su di te.

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Nell’italiano parlato di oggi “cultura” è una parola dai molti significati.

A volte per “cultura” s’intende il “saper molte cose”; usano la parola“cultura” in questa accezione molte persone semplici, ma anche accla-mati divi della televisione; Mike Bongiorno, l’immortale Mike Bongior-no: i suoi campioni debbono dimostrare di sapere molte cose; che poiconoscano a fondo la filosofia platonica o l’epistemologia del circolo diVienna, oppure abbiano mandato a memoria l’orario ferroviario; per luinon conta molto, il monte premi rimane lo stesso.

Questa interpretazione minimalista oggi è del tutto perdente. Sul piano dellaquantità delle nozioni il più semplice dei computers strabatterà sempre il piùinformato degli “uomini di cultura”.

A volte per “cultura” s’intende l’insieme degli uomini emergenti, scrit-tori, artisti, cineasti: quelli che tutti riconosciamo immediatamentequando appaiono in TV. Si dice: “Ai funerali di Alberto Sordi era pre-sente tutta la cultura italiana”; Lorsignori magari chiacchieravano delpiù e del meno, ma erano presenti.

La parola “cultura” ha altrove il suo vero e interessante significato.La parola “cultura” assume senso su di un duplice sfondo:

sullo sfondo complessivo della condizione umana: l’uomo è l’unico essere chiamato ad autrorealizzarsi in libertà, a còlereseipsum (coltivare se stesso); e dunque la parola “cultura” indica l’in-sieme delle scelte che un uomo o un gruppo sociale operano per auto-coltivarsi: più esattamente, la parola “cultura” indica:

1. l’insieme dei fini che un uomo o un gruppo sociale scelgonocome propri, perché li sentono come valori autentici, cioèimportanti o addirittura determinanti per la propria crescita;

2. l’insieme dei mezzi che adottano come idonei a conseguire queifini;

sullo sfondo dell’attività della mente umana, che incessantemente organizza pensieri ed esperienze secondo determi-nati criteri ordinatori, conferendo loro una logica, un prima e un poi, unpiù importante e un meno importante.

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Premessa

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Il servizio di fisioterapia è indispensabile, sia come recupero, sia come mantenimento

di quanto si è recuperato.Il vero recupero della Persona

spesso comincia in questa seconda fase,ma gli ottusi culturi

della medicalizzazione selvaggia dell’handicapsi rifiutano di capirlo...

Page 32: La Comunità di Capodarco dell'Umbria

“Solidali” cioè

La nostra è una cultura solidarista: nel nostro “progetto di autocoltivazio-ne” la solidarietà occupa un posto assolutamente centrale: il capitolo cheabbiamo appena finito di proporre lo attesta ampiamente, sia sul piano sto-rico che sul piano statutario.Ma oggi la parola “solidarietà” è troppo diffusa, equivoca, mal ridotta dal-l’uso e dall’abuso. Nel nostro mondo moderno si è creata una specie di“solidarismo d’accatto”, dal quale, pur cogliendone alcuni risvolti positivi,per quanto minimi, ci sentiamo obbligati a prendere le distanze.

La “solidarietà” equivoca

Tra le forme equivoche di solidarietà citiamo quelle che ci sembrano le piùdiffuse.

1. La solidarietà emotiva La solidarietà emotiva consiste in un sussulto di reciproca appartenenza,forte ma momentaneo, che si propaga per una specie di contagio affettivo inpresenza di un caso clamoroso. Vi confluiscono il bisogno di comunicazio-ne emotivamente gratificante, una sincera anche se generica disponibilitàall’altro, il bisogno di sentirsi a posto e anche un po’ moderni; la solidarietàemotiva si nutre di conformismo (fare come fa il vicino): non si capiscebene dove finisce il consenso verso la buona azione proposta e dove comin-cia il consenso verso il media che l’ha amplificata.È tipica della massa, come l’intende la sociologia: un esteso raggruppamen-to sociale riconducibile ad un qualche comune denominatore. Un comunedenominatore che può anche non essere continuato, ma attivarsi in deter-minati tempi stabiliti (Natale, Quaresima, ecc.: tutti d’accordo, “bisognaessere più buoni”), o covare sotto la cenere, in attesa di una ventata che loravvivi. Caratteristiche della solidarietà emotiva sono:

• durata limitata: due giorni, poi la notizia dalla prima scivola nellepagine interne;

• episodicità: la generosità di un giorno è compatibile con il menefre-ghismo di tutta la vita;

• superficialità: il gregge si muove quasi per un riflesso condizionatodilagante e caduco.

La solidarietà emotiva impegna la libertà dell’individuo solo epidermica-mente; a volte può anche rappresentare il primo passo di un cammino che,proseguendo in avanti, potrà diventare anche molto serio, ma di per sé la

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Capitolo Primo

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sua funzione connaturata alla solidarietà emotiva è quella di gratificare abuon mercato la coscienza. Potremo dire, con buona approssimazione, unafunzione conservatrice, con un tocco di modernità.

2. La solidarietà meccanico-vitaleÈ quel senso di reciproca appartenenza che nasce d’istinto, attraverso unriconoscimento quasi... olfattivo, tra soggetti collegati da vincoli vitali tota-lizzanti, di taglio viscerale (parentale o religioso-sacrale). È tipica dellafamiglia, del clan, delle sette religiose, dei gruppi nazionalistici piùfanatici. Vitale perché legata ai processi psico-biologici di definizione del-l’io. Meccanica perché segnata da un automatismo acritico che porta sem-pre e comunque a far proprie le ragioni del gruppo, anche indipendente-mente dalla qualità delle relazioni interpersonali.

3. La solidarietà organico operativaCerte persone che sono state reciprocamente estranee, ad un certo punto,limitatamente a certe cose da fare (una crociera, una casa da costruire incooperativa, l’accoglienza di alcuni bambini di Chernobyl, ecc.), si scopro-no portatrici dello stesso, limitato progetto; e per realizzarlo instaurano unlegame organico (prevede dei ruoli) e operativo (è in funzione di una realiz-zazione).Essa si nutre della correttezza del “do ut des” messo a punto nell’atto distringere il patto iniziale. È la solidarietà tipica di tutte le cosiddettesocietà dette convenzionali (un gruppo sportivo, un partito politico, una fab-brica, ecc.). È la forma di solidarietà di gran lunga più diffusa, al puntoche a volte tende ad identificarsi tout-court con la solidarietà. La libertàdell’individuo è seriamente e sistematicamente impegnata, ma solo in unacerta direzione; tu non vieni interpellato come persona, ma come parte d’untutto che è in funzione di qualcosa.

La “solidarietà” autentica

Un’ottima definizione della solidarietà ce l’ha offerta Giovanni Paolo II,nella Sollicitudo rei socialis, al n. l38: la SOLIDARIETÀ è la ferma e perse-verante determinazione a impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno, perchétutti siamo responsabili di tutto (perché tutti siamo uguali come immaginedi Dio, riscattati dal sangue di Cristo, oggetto dell’azione perenne delloSpirito).La definizione che ci offre il Papa polacco si articola su due livelli: unlivello antropologico, proposto a tutti, ed un livello teologico, valido solo peri credenti. Per adesso mettiamo fra parentesi questo livello e limitiamoci alprimo.

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Gli elementi caratteristici della solidarietà autenticamente umana sonoquattro:

1. profondità di radicamento: la solidarietà abita le fondamenta dellapersona;

2. totale senso di appartenenza alla grande famiglia umana, che è ilsolidum che spinge la vita individuale a farsi responsabile versotutto;

3. perseveranza a tutta prova, cioè attitudine forte ad incarnarsi in unaserie di comportamenti omogenei;

4. impegno a 360° sia sul piano politico (“il bene di tutti”) che sulpiano interpersonale (“il bene di ciascuno”).

1. La radice della responsabilità autentica: tutti responsabili di tuttoA livello antropologico, la solidarietà muove da un senso di radicale appar-tenenza non solo alla grande famiglia umana, ma anche al proprio tempo eal luogo in cui si è nati e si vive.Siamo tutti parte essenziale d’un tutto vitale che ha il volto di tutti e di cia-scuno. Ogni persona è LA persona: centro di dignità totalizzante, non quan-tificabile, centrale solo per quello che è.Un’appartenenza che non ha nulla di settario, perché il suo livello univer-sale (l’appartenenza al mondo) e il suo livello particolare (l’appartenenzaad un determinato luogo e ad un determinato tempo) sono in rapporto dia-lettico, si illuminano e si completano reciprocamente.Solo da questo tipo di radicale senso di appartenenza nasce quella ferma eperseverante determinazione a impegnarsi per il bene di tutti e di ciascunoche è motivata dalla convinzione che tutti siamo responsabili di tutti.

2. L’intuizione fondanteLa solidarietà autentica nasce da un’intuizione fulminante, quella del PRI-MATO DELL’ALTRO.

È l’intuizione che ha maturato la coscienza umana di Gesù di Nazareth, quandoha detto che “Chi perde la vita la guadagna, chi l’accaparra solo per se stessola perde”. Come dire: la vita è un bene intrinsecamente paradossale, che pernatura sua chiede di essere messa a disposizione degli altri e solo a questopatto si mantiene e cresce.

L’altro è una ricchezza, e diventa Altro con la maiuscola, non benché siadiverso da me, ma proprio perché è diverso da me. In tutti i rapporti auten-ticamente umani la diversità non solo non fa problema, ma è conditio sinequa non della relazione interpersonale; in sua assenza anche la stessa soli-darietà affoga nell’omologazione.È la scoperta dell’altro come Altro quella che produce vita, generando inrapida successione rispetto, fedeltà, cura, gratuità.

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3. Gli strumenti per l’esercizio della solidarietà: libertà e dialogo Libertà. È all’interno di queste dinamiche che la libertà dell’individuo sirivela per quello che è: non fine a se stessa ma strumento principe e neces-sario per l’Incontro. È l’incontro il fine di tutto. La vera libertà è libertà per.Per l’Incontro, appunto.

Dialogo. Nell’uomo il bisogno di comunicare è essenziale. Di comunicazio-ne autentica e di dialogo vero hanno estremo bisogno le società democrati-che: solo il dibattito libero, profondo, partecipato, aperto all’altro garanti-sce la possibilità di individuare e di promuovere il bene comune. Dialogoautentico, non certo la chiacchiera gratuita. Esiste un abuso della parolache umilia e isola l’uomo. Oggi giustamente si dice che spesso “il mezzo èdiventato il contenuto”, tutti possiedono un telefonino, ma pochi hannoqualcosa di umano da dire.Il dialogo che fa crescere l’uomo è quello che ha come sfondo i “beni vita-li” dell’umanità, i suoi “valori essenziali”: la libertà, il bene, la verità, lagiustizia. Di dialogo su questi e simili temi abbiamo tutti enorme bisogno.

La “solidarietà” nelle comunità di accoglienza

Le forme che l’autentica solidarietà può assumere, rimanendo autentica,sono molte.La solidarietà della coppia degna di questo nome, delle forme forti di ami-cizia, di un certo tipo di militanza politica, dell’appartenenza non settariaad una chiesa. La solidarietà praticata nella comunità di accoglienza ha assunto una formaparticolare.

Comunità terapeutica e comunità di accoglienzaOccorre qui richiamare la differenza che esiste fra comunità terapeutiche ecomunità di accoglienza.Nelle comunità terapeutiche l’accoglienza (come dice l’aggettivo) è in fun-zione della “terapia”; nella cura del disagio psichico, della tossicodipen-denza, ecc., sentirsi accolto è di fondamentale importanza per chi è “rico-verato”. Il contesto socio/politico/culturale ha una sua importanza, ma solosullo sfondo. “Conta meno”. Fino a non contare nulla.Per la comunità di accoglienza invece questa parola magica (“accoglienza”,appunto) ha anche una valenza terapeutica, ma prima ancora e soprattuttola sua valenza è socio/culturale, configura una proposta di radicale innova-zione della società e della cultura, e di contestazione della società di oggi edella cultura che la genera e ne è generata.

Questo spiega l’“empatia” che si crea a S. Patrignano con Letizia Moratti, o i

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10 miliardi di £ che l’Omino consegna a don Pierino Gelmini, come fosserobruscolini (e lo sono davvero, di fronte ai 100mila miliardi di £ che l’Ineffabileha dichiarato): e don Pierino li accetta senza patemi d’animo. Li avesse offerti anoi...: Signore, non ci indurre in tentazione!

La solidarietà nella Comunità di Capodarco Nelle Comunità di Capodarco la solidarietà prende le mosse da quella…anomala scelta dell’art. 2 dello statuto (lo scopo della Comunità è la promo-zione della persona CON PARTICOLARE ATTENZIONE AGLI EMARGINATI).“Attenzione”, cioè? Nella protostoria di Capodarco questa “attenzione” si ètradotta nel primato del vivere con sul vivere per. Il primato della condivisio-ne. Abbiamo sempre detto, in tutte le sedi nelle quali abbiamo potuto parlare: ivalori che strutturano la nostra esperienza sono la condivisione, l’acco-glienza e la progettualità (sia individuale che di gruppo), ma il vero valorefondante è la condivisione.Non però la sola “condivisione del cuore”, bensì la condivisione del quoti-diano (“del cesso”), delle condizioni feriali, normali nell’esistenza di ognigiorno. L’esperienza della condivisione del cesso si è realizzata, fino in fondo, soloper una minoranza di soci della nostra Comunità.Tutti gli altri non hanno potuto (come chi ha una sua famiglia) o non hannovoluto. Abbiamo dovuto prendere coscienza di essere minoranza, e diesserlo diventati sempre di più da quando (Capodarco di Fermo, dal 1966;Capodarco dell’Umbria, dal 1974 come Centro Lavoro Cultura e dal 1997con il nome che ha oggi) muovemmo i primi passi. Ma il sogno rimane sempre lo stesso.Anche perché il fatto di non potere (o di non volere) più vivere tutti insie-me, appassionatamente, sotto lo stesso tetto, non vuol dire che l’esperienzadi chi ha fatto quest’altra scelta sia stata meno impregnata di gratuità.

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Firenze, anno 2003, nella sede della BNL:“Perché la parola vita, quando si parla di disabili,

equivale sempre a sopravvivenza?I cosiddetti beni immateriali non sono importanti

Anche per loro?

Questa è la sala da pranzo del nostroAgriturismo Capodarco Gubbio

interamente agibile anche per disabili.

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La cultura del gratuito

In ogni sua espressione la Comunità di Capodarco dell’Umbria va inquadrata inquella Cultura del gratuito che, minoritaria e claudicante, tenta di farsi largo inun’età come la nostra, dominata dalla cultura dell’utile e del potere.

Il cuore della Cultura del gratuito

Vivere significa soprattutto donare e accettare doni. Senza il dono la vita è insipi-da.Siamo agli antipodi rispetto alla cultura vincente oggi. La cultura vincente oggi

• è individualista: individuo e persona materialmente indicano la stessarealtà: l’uomo come centro di dignità e di valore; ma il personalismo sotto-linea che, tra le caratteristiche di questa realtà, c’è una totale aperturaall’altro come elemento indispensabile per definire se stesso, nell’indivi-dualismo invece l’altro è un nemico, o quanto meno un concorrente;

• è consumista: il consumismo * sul piano materiale, consiste nel consumare (cose, oggetti, denaro, ecc)

non in base ad un bisogno reale, ma in base ad un bisogno artificialmenteindotto, soprattutto dai cosiddetti “persuasori occulti”, quelli che (come lagran parte dei mass media) ti convincono senza farti percepire la loro pre-senza;

* sul piano culturale consiste in un drammatico stravolgimento della vita,grazie al quale uno si misura non su quello che è ma su quello che possie-de (“conosci quel signore di Perugia?...” – “Chi? Quello che ci ha quellaMercedes da 150 mila euro?”).

La gente s’intruppa nel gregge degli individualisti e dei consumisti.Noi diciamo: questa non è autocoltivazione, ma suicidio. Autocastrazione. E proponiamo a noi stessi e a chi vuole percorrere il nostro stesso cammino lasolidarietà autentica.La solidarietà autentica non è mai un piccolo correttivo, lo schizzo sul caffè, mainveste la vita e la ridefinisce, rivisitando a fondo almeno due categorie fondamen-tali:

• la categoria del bisogno; il bisogno non è un qualcosa di cui vergognarsi,perché è un elemento costitutivo della nostra umanità; ed è una dellemisure dell’autenticità della vita, poiché una vita è tanto più autenticaquanto maggiormente costa fatica conquistarsela;

• la categoria del dono; il dono non è una… “bella usanza”, per il com-pleanno di una persona cara, o sotto Natale, ma quell’atteggiamento diapertura che arricchisce più chi lo fa che chi lo riceve.

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Capitolo Secondo

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Attivando queste due categorie possono realizzare le loro aspirazioni più profondecoloro che, come noi, non riescono a vivere nella gabbia nella quale gli uomini dioggi si sono rinchiusi, non si rassegnano all’ipotesi che la vita possa ridursi allagabbia del do ut des (“io ti do affinché tu mi dia”), dell’io tiro solo se raccolgo, del-l’io investo e non regalo. Da queste persone sono nate le varie forme strutturateche la cultura del gratuito assume oggi.

Le forme della Cultura del gratuito

La cultura del gratuito assume nel nostro mondo forme diverse. Tutte le formedella cultura del gratuito rispondono a tratti fisionomici comuni, sottolineando divolta in volta più questo tratto che quello. Quattro i tratti fisionomici ricorrenti:

• Al primo posto il benessere di coloro dei cui problemi ci si fa carico. • Lì, accanto, il benessere del volontario stesso. Il primato del principio di

piacere. Alla lunga uno fa sempre e soltanto quello che lo gratifica. “C’èpiù gioia nel dare che nel ricevere”: l’ha detto Gesù, l’ha riferito S. Paolo.

• Il terzo tratto fisionomico che unifica le varie forme della cultura del gra-tuito è la sua rilevanza socio-politica: quelle forme sperimentano approccisempre nuovi al disagio.

• Il quarto tratto fisionomico è la loro rilevanza culturale: quella che stiamoelaborando in questo capitolo.

La Cooperazione socialeUna cooperativa è un’azienda, ma sui generis; la sua peculiarità consiste nel fattoche in essa il datore di lavoro (il “padrone”) e il prestatore d’opera (l’“operaio”) siidentificano; in altre parole

• sul versante del bisogno, i soci di una cooperativa di lavoro le hanno datovita e la tengono in vita per procurare a se stessi un reddito decoroso;

• sul versante del potere, in una cooperativa di lavoro chi decide è l’assem-blea dei soci, mentre il consiglio di amministrazione la governa, seguendole decisioni dell’assemblea.

Grazie a questa sua particolarità la cooperazione ha avuto uno specifico riconosci-mento da parte della nostra Costituzione Repubblicana.La cooperativa sociale è una cooperativa che, come scopo sociale, sceglie l’impe-gno ad operare a vantaggio delle fasce deboli della popolazione. In Italia la coope-rativa sociale si è articolata in due forme, che in gran parte oggi tendono aduniformarsi:

• cooperativa per l’inserimento lavorativo, che tende a personalizzare il lavo-ro a misura della persona che non riesce ad inserirsi in un lavoro normale;

• cooperativa di servizi, che in forma cooperativa organizza servizi a vantag-gio delle fasce deboli della popolazione.

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Il volontariato Volontariato, fenomeno di grande rilievo, ma dai contorni molto labili: associazio-ni formali, gruppi informali, associazioni registrate e non registrate, gruppi atempo, interventi a tema, ecc. Non sono possibili stime quantitative precise. 3, 4,6 milioni i volontari in Italia? In tempi recenti il numero delle associazioni è cre-sciuto, ma è diminuito il numero dei membri di ogni singola associazione.Nel suo insieme il “fenomeno volontariato” si è stabilizzato dal punto di vistadella quantità complessiva degli aderenti, ma la sua presenza nella società sem-bra piuttosto impallidita rispetto a quando, qualche anno fa, l’allora Presidentedella Repubblica Scalfaro ne tessé l’elogio in TV, per l’ultimo dell’anno, in toniepico/elegiaci che ci gratificarono, ma un po’ci fecero anche sorridere.

a) Il volontariato del tempo liberoLa forma più diffusa di volontariato è il volontariato del tempo libero. Il volontarioè un cittadino che (dopo aver assolto i doveri del proprio stato) dedica gratuitamen-te una significativa parte del proprio tempo, con continuità e competenza, ad inizia-tive di rilevanza sociale, umanitaria, culturale: così la FIVol (Federazione Italianadel Volontariato):

• dopo aver assolto i problemi del proprio stato: sarebbe risibile pretenderedi dedicarsi seriamente ad un’opera gratuita se uno non ha prima fattoquello che doveva nella ferialità della vita;

• una parte significativa del proprio tempo libero: non gli avanzi;• con continuità: gli interventi a singhiozzo suscitano solo attese destinate

ad essere disattese e quindi, in ultima analisi, a generare frustrazioni;• con competenza: non la competenza dello specialista, ma quella di colui

che conosce le regole essenziali del come muoversi in quel dato Campo;• gratuitamente: sono ammessi solo rimborsi spese, per esempio per il

telefono verde; il candidato al suicidio che telefona da Catania a Milanoper chiedere perché mai non dovrebbe farlo in genere ha l’avvertenza dichiedere “Richiamatemi voi”; e allora la bolletta del telefono sale…

b) Oltre il volontariato del tempo libero: il volontariato della cittadinanza“Volontariato della cittadinanza” è quel volontariato nel quale s’impegna un sog-getto che, nella sua interiorità, ha spostato nettamente in avanti, rispetto allacoscienza media del suo tempo, l’asse complessivo dei diritti di cui si sente titola-re e dei doveri ai quali si sente obbligato; in base a questa sua interiore disposi-zione, il suo senso della cittadinanza lo impegna in attività alle quali nessunalegge lo obbliga, in problemi per la cui soluzione non ha nessuna investitura pub-blica: lo fa solo perché la coscienza di un determinato problema ha dilatato in luila forza e il raggio d’azione della sua morale, cioè di quei suoi “devo” che si radi-cano nella sua coscienza individuale. Si pensi al WWF e ad Amnesty International, o al Tribunale per i Diritti delMalato, ai “Girotondini”, ai “No global”, ecc.

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c) Oltre il volontariato della cittadinanza: il volontariato della condivisio-neOltre il volontariato della cittadinanza, il volontariato della condivisione è quellodi colui per il quale il rapporto con i portatori di gravi bisogni non è un otpional dilusso, la bella abitudine della domenica pomeriggio, una parentesi, ma assume laforma della vita condivisa; il bisogno altrui non interessa solo la sua professiona-lità, ma investe l’intera sua esistenza privata, fa parte degli obiettivi che defini-scono la sua vita; da quello che fa il volontario di condivisione ricava ANCHE ilnecessario per il suo sostentamento, i suoi modesti hobbies, ma non è per lo sti-pendio che egli lavora.A volte il volontariato di condivisione è una scelta ascetica personale, si capiscecome ricerca di una perfezione che solo nella perfetta oblatività si può raggiunge-re. È il volontariato eroico di S. Massimiliano Kolbe, il frate francescano che, inun campo di concentramento nazista, si offrì di prendere il posto di un compagnodi prigionia che era stato condannato a morire di fame.Il volontariato di condivisione del quale parliamo noi non ha nulla di questo mira-bile eroismo, ma si gioca interamente nel quotidiano del rapporto feriale con lapersona in difficoltà che è stata accolta, per dare una risposta a quella sua diffi-coltà, e, attraverso quella risposta, dare pienezza di vita anche al servizio dell’o-peratore. I disabili, ad esempio, a volte non chiedono solo terapia fisica e inseri-mento lavorativo, ma aspirano a vivere in una famiglia vera, e non si accontentanodi un generico “clima familiare”. E non si può dare un sasso a chi chiede unpane, né un serpente a chi chiede un pesce. Non si può dare un servizio a ore achi chiede una famiglia. Gli spiritualisti, nel loro micidiale stravolgimento della spiritualità vera, diconoche la forma più alta di amore è la “condivisione del cuore”. No. Troppo facile,troppo volgare; il cuore è solo una pompa, la condivisione che si pratica in tutte lefamiglie è quella del cesso, degli elementi materiali della vita, in tutta la loroestensione. È IL PRIMATO DEL VIVERE CON sul VIVERE PER. Io non voglio vivere per loro,io voglio vivere con loro. Gli emarginati che il Signore mi ha fatto incontrare nonsono entrati solo nella mia professionalità, sono entrati nella mia vita, l’hannooccupata, non hanno nessuna intenzione di andarsene, grazie a Dio. Anche sedalla vita con loro devo pure tirar fuori quel tanto d’argent che permetta a me ealla mia famiglia una vita decorosa. Merce rara, il volontariato di condivisione. Merce rara. Doveva essere la formapiù ovvia di volontariato, è stata ed è la forma meno praticata.

Non la praticò a suo tempo il Marchese innominato che, subentrato a don Rodrigomorto di peste, a titolo di riparazione offrì a Renzo e a Lucia il pranzo di nozze proprioin quel tetro maniero che era stato l’emblema di tutti i loro terrori. Il Marchese curò dipersona l’allestimento del banchetto, sorrise a tutti, si profuse in inchini, volle addirit-tura servire a tavola, ma al momento di mangiare si ritirò con don Abbondio e altrinotabili locali in una saletta a parte: parola di don Lisander: “aveva abbastanza umiltà

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per mettersi al di sotto di Renzo e Lucia, non abbastanza per mettersi alla pari”. Manon l’hanno praticata, quella forma di volontariato, nemmeno le Suore della Carità diMadre Teresa: “Caro fratello sfortunato, io ti rendo tutti i servizi che la dignità dellatua persona esige, ma… sia ben chiaro: questa è la casa che ospita te, quella è la casadi noi suore”. Appena un passo più in là, per carità d’Iddio, ma “senza confusioni”.

Doveva essere la forma di volontariato tipico delle Comunità d’accoglienza, comela Capodarco dell’Umbria. Non lo è stato. Al comunitario è subentrato l’operatore.”Operatore sociale”, uno dei tanti. Accanto all’operatore ecologico (vulgo: lo sco-pino), all’operatrice domestica (vulgo: la donna di servizio), all’operatore funerario(vulgo: il beccamorto). Accanto all’operatore delle fosse biologiche, e a quellodelle macchine movimento terra. All’operatore che recapita gli avvisi di garanzia(vulgo: lo spiccacaldari).L’operatore di condivisione in gran parte è ancora un sogno. La Comunità diCapodarco è come su di un piano inclinato: scivola sempre più verso la realtà diuna cooperativa sociale. Buona cosa, una cooperativa sociale, certo, ma non nelcaso nostro: in una comunità di accoglienza tutto si struttura sulle persone cheaccoglie; in una cooperativa sociale quello che conta non sono tanto i soggettiaccolti, bensì i prestatori d’opera che li accolgono.

Il privato socialeE tuttavia, se non è stato in grado di generare né volontari di condivisione né ope-ratori di condivisione, il volontariato ha generato, su scala molto vasta, il PRIVA-TO SOCIALE.La gente conosce solo il “privato speculativo”. Lavoro per guadagnare. “E per chealtro, sennò?!”, dice la gente. Tre medici bravi e ingordi si mettono insieme, tra-sformano la struttura fatiscente del vecchio ospedale diventato inutile in una cli-nica di lusso, entrano nelle grazie dell’Assessore, forse (Dio non voglia!) gli allun-gano una bustarella sotto banco e ti buttano su un centro di riabilitazione che atti-ra clienti da tutta Italia. Bravi. Buone vacanze alle Seychelles. Nel socio/sanitario il nostro “privato sociale” è tutt’altra cosa:

• come tutte le forme di privato che esistono, non viene promosso dallo Stato,ma dalla società, non nasce dall’alto, ma dal basso;

• ma, contrariamente a tutte le forme di privato che esistono, si attiva senzascopo di lucro, ma solo perché il Bene Assoluto che uno ha scoperto, e daquesta scoperta si sprigiona la sua morale, è come una medaglia a duefacce: da una parte il bene dell’operatore, dall’altra il bene della personaaccolta.

Concettualmente è questa seconda la specificità del Privato Sociale.Storicamente il privato sociale è nato dal volontariato, per tappe successive. Primatappa: dimensioni ridotte, funzionamento informale ed estemporaneo, forte l’“ade-sione culturale” alla causa comune, fortissimo il coinvolgimento di tutti in tutte le

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attività; struttura organizzativa minima; quasi niente procedure, quasi niente rego-lamenti. Seconda tappa: l’ente cresce, più utenti, più servizi, più personale, lerisorse non bastano mai, nelle persone si attenua l’originario spirito “missiona-rio”, sempre più spesso si parla di soldi, magari solo a titolo di “rimborso spese”.Terza tappa: la struttura organizzativa si differenzia su più livelli, spazio crescenteviene riservato alla programmazione, alle verifiche e al controllo, si riduce lo spa-zio dell’improvvisazione, ci si dà un metodo, la suddivisione dei compiti avvienesempre di più in base alle competenze, alle attitudini ed alle esperienze; ai com-piti vengono fatte corrispondere precise responsabilità. Spazio crescente alla pro-fessionalità. Così gradualmente, l’organizzazione non profit si dà un suo manage-ment, diviene anche impresa, nel contesto (naturalmente) delle caratteristichepeculiari dell’ente, che rimane pur sempre un ente dalle finalità non lucrative,nato e strutturato su di una ragione non economica. Il cammino descritto è tutt’al-tro che lineare. La mortalità in itinere è altissima.Il “principio di sussidiarietà”, entrato nel 2005 anche nello Statuto della RegioneUmbria, dopo essersi inserito nel Titolo V della nostra Costituzione e nellalegge/quadro 328/1992, dovrebbe garantire lo spazio pubblico vitale a tutte leforme di volontariato. Dovrebbe.

La cultura del gratuito come Cultura antisistema

Da quello che abbiamo detto della differenza fra comunità terapeutica e comunitàdi accoglienza è chiaro che, in chi vive a fondo la comunità di accoglienza, nonpuò mancare una forte istanza antisistema, perché è il sistema socio/culturale chedell’handicappato fa un emarginato, e la scelta di Capodarco è stata a vantaggiodegli handicappati in quanto emarginati.Se quest’istanza anti/sistema ci manca, manca in noi qualcosa di vitale.

Non ha senso aderire la mattina a una manifestazione razzista e dedicare il pomeriggioai malati. Non ha senso sfruttare i propri dipendenti tutta la settimana per dedicare ilweek-end alle pesche di beneficenza.

O l’impegno volontario s’inserisce in una grande prospettiva di ripensamento eridefinizione globale dei rapporti che vigono tra gli uomini, o è solo un pannicellocaldo. Ieri, quando la gente comune faticava dall’alba al tramonto per mettere insieme ilpranzo con la cena, il volontariato più diffuso era quello delle signore della buonasocietà, che, soccorrendo i “poverelli” e a volte, disinnescando la loro sete di giu-stizia, davano una mano al marito (banchiere o uomo di governo) che perpetuavaquel certo sistema sociopolitico, procurando altri “poverelli” alla inesaustavolontà di bene della sua Signora. Il volontariato come cultura non può limitarsi alla denuncia, ma deve contribuiread invertire la rotta nel cuore di una cultura ormai insostenibile.

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Quando e come è nato questo sistema: grandi meriti…Questo sistema è nato con l’Illuminismo. Francia/Inghilterra/Germania (sec.XVII-XVIII). La “filosofia dei lumi”. Intorno al lume per eccellenza, la ragioneumana.L’Illuminismo ha grandissimi meriti. L’Enciclopedia di Didérot e D’Alambert,riassumendo le sue grandi conquiste, diventa come il sillabario degli intellettualieuropei, una base solida e condivisa per le loro indagini sull’uomo e sulla società.Montesquieu teorizza la necessità che in uno stato giusto il potere venga suddivi-so in legislativo, governativo e giudiziario. Voltaire svecchia il mondo accademico.Rousseau fonda la scienza politica e la pedagogia moderne...: ma al di là dellesingole proposte, l’Illuminismo nel suo insieme

1. contesta lo svuotamento del valore delle realtà terrene operato da un certo(malinteso) Cristianesimo, per il quale quello che conta è solo la vita eter-na, che invece nell’autentica visione cristiana è la sua vita terrena chediventa eterna; questa che viviamo – dicono giustamente gli Illuministi –è l’unica vita, non la sua prova generale; la felicità non va attesa, ma vacostruita qui e adesso;

2. contesta il principio d’autorità: l’“ipse dixit” (l’ha detto lui: “lui” era primaAristotele, poi S. Tommaso D’Aquino) non funziona più; il fatto che si siasempre stati convinti d’una certa tesi non ne è affatto garanzia di verità.Non accetteremo più nulla passivamente.

La RAGIONE è il vaglio di tutte le affermazioni. Durante la Grande Rivoluzionedel 1789 venne celebrato nella cattedrale di Notre Dame il Culto della DeaRagione, intronizzata sull’altare sotto forma di donna discinta.

Anche noi credenti adulti, ben lungi da pacchianate del genere, accettiamo il primatodella ragione. Solo che diciamo: tra i dati della ragione c’è anche la coscienza dei pro-pri limiti di fronte agli interrogativi fondamentali della vita, e quindi l’appello ad unQualcosa o ad un Qualcuno che ci aiuti là dove la ragione arranca, cioè nella rispostaai grandi e definitivi perché della vita, nel tentativo di sciogliere l’enigma del mondo(Turoldo).

Grandi conquiste del pensiero umano. Da esse non si torna indietro. Magari cel’avesse avuto l’Islam, nella sua storia, un suo Illuminismo! …e una pesante ipoteca

Ma, ad onta di questi grandissimi meriti, che fra l’altro oggi ci tengono al riparodai micidiali ritorni di fiamma dell’integralismo che altrove (ad esempionell’Islam) galoppa, con l’Illuminismo nella nostra cultura hanno trionfato duecategorie che, assolutizzate, si sono rivelate dirompenti:

• la categoria dell’utilità,• la categoria del potere.

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E tutti noi, anche quelli che non hanno idee su nulla di nulla, abbiamo “respira-to” questo mondo, imparando a rapportarci con la realtà dall’angolazione dell’uti-le e del potere. E questo perché gli Illuministi non parlano come filosofi puri, cheragionano nel limbo dei loro cieli intatti. Gli Illuministi sono il megafono dellaborghesia, parlano come membri attivi e propositivi di una classe, la borghesiaappunto, letteralmente scatenata, una classe che vuole in mano tutto il potere, ilpotere politico e il potere culturale, così come da tempo ha in mano quel potereeconomico che intende incrementare allo spasimo.Dietro il filosofo illuminista c’è il più nuovo di tutti i protagonisti culturali, l’im-prenditore/mercante che spinge il discorso filosofico in una direzione pragmatica.Lui finanzia la ricerca, riempie d’oro le tasche dei Philosophes, ma vuole vedererisultati concreti. Che cosa ce ne facciamo – chiede l’imprenditore/mercante alfilosofo – di questa vostra ragione così disinfettata e improduttiva? E la rispostase la dà da solo: “Ve lo dico io cosa ci facciamo, con la ragione! Con la ragione cidominiamo la vita, plasmiamo la vita come piace e conviene a noi!”.

La vita cambia e s’impoverisceCambia la vita di ogni giorno. Da quel momento le invenzioni si moltiplicano e lanostra vita ne esce, al tempo stesso, arricchita sul piano della funzionalità e impo-verita sul piano dell’umanità e della fantasia. Cambia la visione del mondo. Persecoli il termine “scienza” era stato abbinato a “filosofia”: due diversi punti divista per “conoscere come stanno veramente le cose”. Ora trionfa l’inedito bino-mio scienza-tecnica: non interessa più a nessuno sapere “come stanno veramentele cose”, quello che interessa è tradurre il prima possibile le scoperte scientifichein espedienti tecnici che agevolino la vita dell’uomo. Cambia la ragion d’esseredello stare insieme tra uomini. Si sta insieme non per il gusto di stare insieme, maper realizzare (“produrre”) qualcosa.

L’emarginazione dilagaTutto quello che non rientra in questo schema viene emarginato. Di norma l’emar-ginazione avviene per la tangente inferiore: emarginazione come spinta verso imargini, della società, della cultura.Ma a volte quello stesso risultato si ottiene per la tangente superiore. È il casodella “eroicizzazione” delle forme della cultura del gratuito che qui sopra abbia-mo illustrato. Oscar Luigi Scalfaro, da Presidente della Repubblica, in un famoso discorso difine anno, esclamò, commosso: “I volontari sono degli eroi!”. I volontari come“esseri superiori”. Come fosse un complimento. “Disgraziata la nazione che habisogno di eroi!” (Brecht)

“Madre Teresa è stata una donna eroica”. Già. Ma prima ancora Madre Teresa è stataun donna intelligente, che ha “letto dentro” (intus) la vita, mentre la gran parte deisuoi contemporanei si fermavano alla scorza, ne ha gustato il succo sapido, mentregran parte dei suoi contemporanei si limitavano a distillarne i veleni.

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Siamo seri. La vita è intollerabile solo quando è insensata. La vita più è vuota epiù è pesante.

Le istanze contro il sistema

Ben presto prende a serpeggiare in Europa la critica all’Illuminismo. Nel 1800 ilPositivismo lo esalta sul piano scientifico, ma lo snobba sul piano filosofico. Ainizio secolo Donatiene de Sade (niente di meno il… “titolare” del sadismo) accu-sa i Philosophes di ipocrisia: Avete affidato a Kant la formulazione d’un principiodi facciata, il famoso “Rappòrtati agli altri sempre come a dei fini, e mai come adei mezzi”, mentre in realtà voi usate gli altri sempre e soltanto come mezzi. Piùtardi Nietzsche denuncerà la follia di una ragione che presume di monopolizzarela vita, e con questo si autocondanna; vuole misurare le identità, che sono sempreribelli all’inquadramento; solo nella “disidentità” è possibile il vero sviluppo,aritmico, oscuro, “rizomatico” come nelle radici.Ma è un po’ tutto il pensiero successivo che prende le distanze dall’Illuminismo, echiede a gran voce una radicale ri/visitazione delle categorie interpretative dellavita.

La scuola di FrancoforteNegli anni 30 del XX secolo, nella Facoltà di Sociologia dell’Università diFrancoforte, insegnano Fromm ed Marcuse, ma soprattutto Horkheimer (La teoriacritica della società) e Adorno (La dialettica dell’Illuminismo); tramite questi cer-velloni, prende forma un’analisi socio/culturale di grandi proporzioni e profonditàche continua e s’intensifica anche dopo la seconda guerra mondiale.Cosa sta succedendo in Europa? C’è un qualcosa che collega la Repubblica diWeimar alla nascita della società opulenta, un minimo comune denominatore deltotalitarismo nazifascista e di quello stalinista, che di per sé sono tanto diversi?C’entra niente la guerra fredda con lo sviluppo delle scienze umane, l’arte d’avan-guardia con l’avanzata impetuosa della tecnologia, la nascita dell’industria cultu-rale con la complessità tipica della modernità, la crisi d’identità dell’individuocon la crisi di crescita della società?

L’Illuminismo come culto devastante del dominio, cioè del potere e dellaproduzione Il principale capo d’accusa formulato dalla Scuola di Francoforte contro gliIlluministi: avete divinizzato la sete di dominio, non riuscite a vedere altro che ilpotere come motore della vita sociale. Quella che da noi ha veramente funzionatoè stata la categoria della utilità. Dietro le più nobili coperture ideologiche, duesono i punti programmatici che veramente “tirano” in Occidente:

1. Dominare la natura, attraverso la scienza e la tecnica.2. Dominare la storia attraverso la politica.

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Una volta che il motore della convivenza civile è diventato l’utilità, entriamo tuttinel duplice ingranaggio di due sottosistemi:

• il sottosistema ECONOMICO, incentrato sul primato assoluto della PRO-DUZIONE;

• il sottosistema POLITICO, incentrato sul primato assoluto del POTERE.

La produzione illimitata fa nascere il consumismo: se i bisogni non ci sono, biso-gna crearli artificialmente, bisogna mettere in circolo l’idea dell’“automobile diprestigio”, come se un genio in Panda diventasse all’improvviso un imbecille, eun buzzurro alla guida di una Ferrari diventasse ipso facto un genio; bisogna met-tere in circolo la vergogna di “non essere alla moda”, ecc.Il potere come fine a se stesso uccide la politica, inaridisce l’uomo, perché lapolitica, quella dal profilo alto, è una delle attività più nobili e maggiormentedegne dell’uomo. Gli uomini, i giovani soprattutto, accettano di contare solamentenel momento in cui producono e nel momento in cui consumano; produrre il piùpossibile, a testa bassa, consumare il più possibile, a testa bassa, ingozzandosi disesso e di calcio. “Burattini ubbidienti”(don Milani).Devastante. Con l’Illuminismo è nato l’Uomo a una dimensione (Marcuse), inte-grato in tutto e per tutto nel sistema, bisognoso di riempirsi la bocca di parolecome libertà e dignità, esecutore docile di programmi preconfezionati altrove. Si attivano processi che, almeno tendenzialmente, sono tutti mirati a scatenare laguerra di tutti contro tutti. La nostra è ormai una civiltà eminentemente concor-renziale. Concepiamo tutto come se fossimo impegnati 24 ore su 24 in una garacon gli altri.

Qui tutta la portata culturale della Festa dei Ceri, che sono ANCHE (non soprattutto)una “gara”, ma una gara talmente particolare che i “concorrenti” non possono sorpas-sarsi!

Devastante. Con questo tipo di approccio con la vita si vive male, tutti. La nostraumanità viene umiliata quando l’imperativo categorico è quello di comandare sututti e produrre più di tutti. Da tutto questo, l’uomo ne esce logorato quando vabene, stritolato nei casi più gravi.I nostri grandi problemi di oggi hanno sempre una spiegazione patologica e unaspiegazione culturale, che tracimano l’una nell’altra. La droga, l’alcoolismo, ladepressione, l’autismo, le nuove dipendenze informatiche affondano sempre leloro radici nell’humus della nostra cultura.La letteratura moderna e il cinema sono pieni di personaggi alienati, sperduti,impauriti in un mondo che non sentono più come loro. Il potere incombe anche, esoprattutto, quando rimane occulto. L’autore che più di ogni altro ha colto ladrammaticità di questa nostra situazione è Kafka, sia ne Il castello che ne Il pro-cesso.

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La solidarietà nella visione cristiana della vita

Nella visione cristiana della vita la solidarietà occupa un posto di assolutorilievo. Il Vangelo ha inoculato nel nostro DNA la convinzione che noi uominisiamo un solidum, un tutt’uno.Su questa istanza fondamentale dovrebbe strutturarsi tutta la nostra vita. Einvece…Già a livello di linguaggio ci troviamo in una situazione fuorviante.

Un linguaggio fuorviante

È noto che i fenomeni linguistici non sono mai di natura esclusivamente tec-nica, ma rimandano sempre dei contenuti.

Una parola emarginata e recuperata nel linguaggio ecclesialeLa parola solidarietà è stata per secoli guardata con sospetto dai cristiani.Inventata dagli Illuministi del 1700, essa voleva porsi come vero amore del-l’uomo, alternativa alla carità cristiana, che non sarebbe amore di Dio trucca-to da amore dell’uomo. A questa analisi, cervellotica e ingiusta, i Cristianirisposero evitando anche solo di pronunciare la parola “solidarietà”. In tutti idocumenti pontifici antecedenti il magistero di Giovanni Paolo II “solida-rietà” ricorre poche decine di volte.

Ma nell’insegnamento di Papa Wojtyla quella parola ricorre circa 20.000volte. E così la parola tanto a lungo esorcizzata dalla Chiesa è oggi trionfalmenterientrata nel suo linguaggio. Secondo la coscienza autentica della Chiesa cat-tolica di oggi, così come essa viene autenticamente espressa in La verità vifarà liberi, il “Catechismo degli adulti” pubblicato dalla CEI nel 1995, gliuomini sono intimamente solidali fra loro perché formano un tutt’uno, a tutti ilivelli: ontologico, morale, sociale.

Una parola troppo spesso equivocataLa parola è “condivisione”: nel vocabolario che troneggia nella mia libreria laparola “condivisione” non esiste; esiste il verbo corrispondente, condividere,che significa avere unitamente ad altri (un’opinione, ad esempio), o, menocomunemente, spartire.Nella tradizione solidarista d’impianto laico l’aiuto a chi fa fatica richiamasempre la Professionalità nelle Prestazioni rivolte all’Utenza (una professiona-lità asettica e rigorosamente a tempo). Nella tradizione cristiana l’aiuto a chi fa fatica richiama sempre il Servizio aiPoveri, il vivere per loro. L’idea di andarci a vivere con è fuori orizzonte.

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Capitolo Terzo

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Per noi la parola condivisione indica la vita vissuta in comune con chi è nelbisogno.

• nei suoi elementi materiali, • accogliendosi reciprocamente, nel quotidiano, “così come si è”,• elaborando e verificando insieme ogni giorno il “come dovremmo

essere”, insieme.

Se è fattibile, sotto lo stesso tetto. Se non è fattibile (quando, ad esempio, unoha una sua famiglia alla quale non è possibile ritagliare un suo spazio dafamiglia all’interno/a fianco della Comunità, materialmente), spingendola ilpiù avanti che sia possibile.A forza di parlare di condivisione, a volte abbiamo indotto gente che vivevicino a noi ad adottare anch’essi questo termine: oggi non è raro che unDirettore Diocesano Caritas inviti i fedeli che celebrano la Quaresima a“compiere un bel gesto di condivisione” tirando fuori (ma che fatica!!) qual-che spicciolo per la raccolta indetta dalla Diocesi.

Una parola recuperata dalla teologia, da diverseangolazioni

Il recupero pieno della parola solidarietà consente alla Chiesa di oggi di dareuna pienezza di significato, da diverse angolazioni.

La Solidarietà ontologica“Ontologico” = che riguarda l’essere. Gli uomini, un corpo solo: Paolo lochiama “Corpo mistico”.

Tra gli uomini esiste innanzitutto una SOLIDARIETÀ NEL BENE, un qual-cosa di radicale che unisce tutti gli uomini, come un unico sangue che circolafra tutti e li compatta nel loro essere profondo: quel Dio che momento dopomomento li crea a sua immagine immette nel punto più intimo del loro essereuomini un quid che innesca al tempo stesso tensione all’infinito e “nostalgia”d’infinito, e li… accosta alla comunione trinitaria; e questo, attraverso percor-si che Dio solo conosce, li rende personalmente partecipi del dinamismo chegenera l’universo.

Ma le solidarietà che ci compattano sono due: oltre quella nel bene, anchequella nel male.

La SOLIDARIETÀ NEL MALE: il male c’investe e ci penetra da ogni parte.In mille forme: disgrazie, violenze, malattie, miseria, oppressione, ingiustizia,solitudine, morte. Gli Ebrei ne presero coscienza dopo la deportazione in

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Babilonia (586-538 a.C.) e, con la favola/trattatello teologico nota come “rac-conto del peccato originale”, la collocarono alle scaturigini stesse della storiaumana: il cuore dell’umanità intera è corrotto. Nessun vivente è giusto davan-ti a Dio. La solidarietà nel male, inducendo l’uomo al peccato personale,

• lo chiude nel proprio egoismo, • gli impedisce di condividere gli appelli alla salvezza che gli provengo-

no dagli altri uomini.

A sua volta il peccato personale incrementa la solidarietà nel male, indeboli-sce la possibilità di comunicarsi il bene da persona a persona, alimenta ilcontagio del male, deforma la coscienza, sia individuale che sociale, dà vita astrutture di peccato, cioè a forme di organizzazioni della vita (le istituzioni, l’e-conomia, ecc.) che funzionano solo in base all’odio di tutti contro tutti, e aloro volta gravano sulle decisioni personali.

La Solidarietà moraleLa morale di un uomo è l’insieme dei devo che nascono imperiosi dalla suacoscienza. Kant li ha chiamati imperativi categorici. “Uomo, sii quello chesei!”. L’uomo è, insieme, realtà e progetto: è quello che è, e al tempo è chia-mato a diventare quello che deve essere: e lo diventa secondo le indicazioniche emergono dalla sua coscienza.La morale cristiana, cioè l’insieme dei devo che nascono dalla coscienza illu-minata da Cristo, non è un correttivo della morale razionale, ma uno stile divita radicalmente nuovo. Cambia la pulsione di fondo. Amare diventa Amarecome Cristo ha amato. Se è vero che, sul piano della nostra natura umana,nessun uomo è un’isola, per cui (don Milani) essere liberi equivale a scegliereda chi lasciarsi condizionare, sul piano della grazia nessun uomo potrebbe dasolo, con le sue forze, uscire dal regno del peccato e della morte. INSIEME èla parola/chiave della morale cristiana. L’individualismo diventa insensatezza.

La Solidarietà sociale e politicaL’uomo per la sua intima natura è un essere sociale. La Comunione sulla qualesi regge l’universo va accolta non solo dalle singole coscienze, ma anche dallestrutture della vita degli uomini.Senza rapporti con gli altri non può vivere né esplicare le sue doti. Per cerchisempre più ampi, la società è sostegno e perfezione della persona: col proce-dere della storia si moltiplicano i rapporti, si intensifica lo scambio dei beni,cresce l’interdipendenza su tutta la terra.Si delinea così la vocazione del genere umano: diventare una sola famiglia. Da questa dimensione sociale, “nativa e strutturale”, derivano prima le comu-nità basate sui rapporti interpersonali diretti, come la famiglia, la parentela, ilvicinato, la cultura, la religione.

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In un secondo momento vengono le formazioni sociali più ampie e più pro-priamente “politiche”, basate sui rapporti mediati da strutture e legami postiin essere, tramite il dibattito democratico, per raggiungere il bene comune: ilsindacato, la città, la nazione, il sistema bancario, i trasporti, ecc. Secondo la dottrina sociale della Chiesa ognuno deve guardare al prossimocome a un altro se stesso, non solo nei rapporti interpersonali, ma anche nelcreare strutture giuste, cioè promotrici della persona nella comunità. Ilcomandamento cristiano della carità si rivela anche sul piano politico comelegge fondamentale dell’umana perfezione; la “tensione ad amare come Dioama” impegna a fare il possibile per edificare una convivenza solidale e plu-ralista, che consenta alle persone e ai popoli di svilupparsi liberamente, conla propria identità e originalità. Ciascuno deve assumersi impegni precisi,secondo le proprie possibilità, modificando, per quanto è necessario, anche ilproprio stile di vita. Cooperare allo sviluppo del popolo al quale si appartienee a quello di tutti i popoli è un imperativo per tutti e per ciascuno.

Qui è la radice prima• dell’impegno politico di un cristiano: le varie strutture di vita che

abbiamo posto in essere (lo Stato, la scuola, la finanza, il commerciointernazionale, ecc.) devono favorire la crescita delle persone e la pos-sibilità di incontrarsi fra di loro;

• del primato della sussidiarietà: il principio di sussidiarietà sostieneche, nei problemi che vedono in ballo l’umanità dell’uomo, alla lorosoluzione, tra le strutture esistenti, debbono provvedere le struttureche al problema sono più vicine: e questo

* vale in senso orizzontale, fra strutture statali (quello che può fare ilComune non deve farlo la Provincia, quello che può fare la Provincianon deve farlo la Regione, quello che può fare la Regione non devefarlo il Governo centrale);

* vale in senso verticale, fra strutture messe in piedi dallo Stato e strut-ture messe in piedi dalla società: quello che può fare la società con lesue invenzioni (un comitato di quartiere, un’associazione di utenti,ecc.) non deve farlo lo Stato che farà un passo indietro, pur riservan-dosi gelosamente il compito di vagliare l’efficacia dell’intervento.

Purtroppo l’individualismo ha contagiato anche soggetti e movimenti since-ramente religiosi, che pregano molto e fanno molta carità interpersonale, mahanno rimosso la politica dal loro orizzonte di vita, sembrano non avereconsapevolezza della interdipendenza degli uomini e delle nazioni e riduco-no la “potenza del Vangelo” a sostegno e nutrimento del proprio impegnopersonale.

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Parte Terza

oi e la Politica

N

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La vita come banchetto:è stata la Bibbia a incrementare questa immagine.

Non l’abbuffata di chi,esclusivamente a proprio vantaggio,ha messo le mani sui beni di tutti,

ma l’incontro di età diverse, di diverse condizioni di vita,di “validità” e “invalidità”.

“Ecco, busso...: se viene qualcuno,mangeremo insieme...”.

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Le comunità di accoglienza, contrariamente alle comunità terapeutiche, nel lorofarsi carico di soggetti emarginati non intendono confinarsi nel socio/riabilitativo,ma si pongono come un fatto culturale e intendono fare politica, perché gli emar-ginati dei quali si fanno carico non sono la parte malata della società, ma il sinto-mo più eclatante di una patologia che ha investito tutta la società.

Una prima premessa: politica, cioè

La politica è una cosa sporca: frase equivoca e fuorviante. Equivoca: non è veroche tutti i politici sono uccelli rapaci. Fuorviante: equivale a un invito a disinte-ressarsi di un quid di cui nessuno può disinteressarsi, pena la sua mutilazionecome uomo: l’arte di progettare, costruire e gestire il bene comune non è affatto unlusso, ma un diritto/dovere elementare. Nella politica l’individuo trova una dellesue realizzazioni più alte. L’uomo è un animale politico, che realizza il suo beneindividuale solo costruendo il bene comune. Concretamente poi la gran parte dei problemi che ci affliggono o hanno rispostapolitica o rimangono senza risposta; a titolo di esempio, solo un drappello di pri-vilegiati, potrebbe oggi provvedere da solo alla propria salute, all’educazione deifigli, alla garanzia per la propria vecchiaia.La Comunità di Capodarco dell’Umbria ONLUS deve sapere che tutto è politica,anche se la politica non è tutto. Non solo le politiche per l’handicap, o le politi-che sociali in genere; parlo dei fondamenti stessi della politica. A cominciaredalla definizione dello Stato.

Una seconda Premessa: conoscenza e struttura

La storia (individuale e collettiva) avanza sulla base di un rapporto dialettico tracoscienza e struttura, che si illuminano e si definiscono reciprocamente.La coscienza è la facoltà di valutare i fatti della vita sotto l’aspetto del bene o delmale. La struttura è un meccanismo oggettivo che l’uomo ha posto in essere per facilita-re la sviluppo delle proprie attività, ma che da un certo momento ha preso a fun-zionare indipendentemente dalla volontà di chi l’ha posta in essere. Le strutture più importanti sono quelle della produzione e del consumo e quellepolitiche, che organizzano il consenso popolare in vista della creazione di leggigiuste, di governi efficaci, di magistrature puntuali.L’impegno a cambiare le strutture sociali nella direzione che ognuno ritiene quel-la giusta è particolarmente gravoso, perché esige

• grande vigore morale, • capacità di scegliere le alleanze giuste, • chiarezza di un progetto globale entro il quale realizzare i singoli program-

mi.

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Premessa

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Fabrizio e Massimiliano:chi ha inventato lo Stato Sociale

l’ha fatto pensando a loro.Come personalità (autonoma capacità di individuare

e perseguire dei fini, e di scegliere gli strumenti giusti)siamo ognuno diverso dall’altro,

ma come persona siamo tutti uguali.Tutti. Assolutamente.

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Lo Stato: le principali teorie politiche

Nell’800 lo Stato venne quasi divinizzato; oggi il Magnifico Rettore dellaLUMSA, Prof. Giuseppe Dalla Torre1, lo definisce come la particolare e lapiù importante forma organizzativa che una certa comunità politica s’è dataper realizzare il bene comune.

Forma particolare, non l’unica: pur avendo una sua funzione insostituibile, loStato non è l’unica forma aggregativa preposta al bene comune. Come forma diaggregazione, lo Stato è la più importante, perché s’incarna in leggi e istituzio-ni, sancite da una legge fondamentale (la Costituzione), valide per tutti i suoisingoli componenti.

Un po’ di terminologia preliminare. Ogni popolo • è NAZIONE nella misura in cui i singoli componenti hanno tratti

fisionomico/culturali comuni: abitano lo stesso territorio, parlano lastessa lingua o magari lo stesso dialetto, hanno una stessa storia allespalle, hanno tradizioni comuni, praticano preferenzialmente unacerta religione, presentano caratteri sia fisici che temperamentalisimili, ecc.;

• è SOCIETÀ nella misura in cui forma come un corpo unico, dai com-portamenti suoi specifici, che non sono affatto la somma dei compor-tamenti individuali;

• è STATO nella misura in cui si è dato delle leggi che nòrmano la vitacomune delle persone e la vita delle istituzioni che, con l’apporto ditutti2, ad essa presiedono, tramite

• l’attività legislativa (che mette a punto le leggi giuste);• l’attività di governo (che realizza quanto quelle leggi hanno deciso); • l’attività giudiziaria (che sovrintende alla loro corretta applicazio-ne).

Un lungo camminoSiamo partiti dallo Stato assoluto, per arrivare allo Stato sociale (o WelfareState), passando attraverso lo Stato democratico e lo Stato liberale.Ripercorriamo questo cammino.

1 Cfr. G. DALLA TORRE, Declino dello stato moderno: autonomie nazionali e sovranazionalità, inQuaderni LUMSA 1, Studium 1996, 21-44.2 Anche a questo livello si ripropone la necessità di quello che, sul piano dell’ideologia comu-nitaria, abbiamo chiamato pluralismo in positivo: nella definizione del bene comune dell’Italia2007 non basta che AN e PRC rispettino le posizioni l’una dell’altra, ma bisogna che questadiversità confluisca a definire un unico progetto politico.

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Capitolo Primo

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Lo Stato AssolutoNello “Stato assoluto” l’autorità viene attribuita a questo o a quel soggetto,ma sempre in maniera svincolata da ogni condizione di esercizio. “Viene attribuita”: da chi? Da un non meglio precisato Essere superiore chemeno è precisato più riesce ad essere “superiore”.

“Viene attribuita”: a chi? • Ad un singolo uomo. Così nei grandi imperi della Mesopotamia (Ittiti,

Assiri, Babilonesi, Medi; Persiani), così nelle civiltà pre/colombianedell’America centro/meridionale; Carlo Magno governa la Res publicachristiana, giovandosi dei “conti”, personaggi emergenti che, pernascita o per meriti personali, collaboravano con lui come unico tito-lare del bene comune (Comes, comitis: colui che mangia insieme), atitolo quindi puramente consultivo; nell’esercizio della sua autoritàl’Imperatore (come d’altra parte Luigi XIV & C.) aveva alle spalle lalegge di Dio, che lo trascendeva e lo legittimava, ma unicamentecome riferimento morale/religioso, non certo giuridico. Con lo sbri-ciolarsi della compagine dell’impero, la sovranità assoluta passa aivari Principi che prendono a reggere i vari stati nazionali (come inFrancia e Inghilterra) o regionali (come in Italia).

• Oppure a tutto il popolo, come nella Repubblica Romana, anche se ilpopolo il più delle volge era un “popolino” disponibile alle più speri-colate strumentalizzazioni; un popolo che magari (come per Hitler inGermania) torna a delegare in toto la sua autorità ad un singolo, elet-to a propria guida (Führer).

Lo Stato DemocraticoPoi la sovranità, con la Rivoluzione Francese, passa al popolo. Democrazia =potere del popolo. Il reggitore politico è legittimato solo dall’investiturapopolare. Anche coloro che rimangono convinti che “l‘autorità viene daDio”, in quanto funzione assolutamente necessaria per l’ordinato svolgersidella vita civile, aggiungono: “Tramite il popolo”.Con la nascita dello Stato Democratico, i sudditi diventano cittadini. Tutti,teoricamente. In realtà è accaduto solo per una minoranza, che oggi poiregredisce come numero: la politica tenta di acquisire consensi con le stessetecniche con le quali i supermercati acquisiscono clienti. Certo è che, daquel momento, per ridefinire lo Stato l’istanza primaria è quella di calibraree ri/calibrare senza soste il concetto di cittadinanza3.

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3 Cfr. A. MONTICONE, Evoluzione del concetto di cittadinanza appartenenza, in Quaderni LUMSA15, Studium 1999, 33-46.

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Lo Stato LiberaleLo Stato liberale nasce quando alla compagine statale si pone un problemanuovo: come si può e si deve gestire l’economia? Nel contesto della filosofiailluminista nascono il liberalismo in politica e il liberismo in economia. Si èconvinti che la libertà dell’individuo garantirà automaticamente sia la corret-ta gestione dello Stato, sia l’equa ripartizione dei frutti del lavoro. Tesi riesu-mata ai giorni nostri dalla destra, con terrificante assenza di spirito critico. La dottrina economica del liberismo è frutto del filosofo inglese Adam Smith4.Quasi contemporaneamente, dall’elaborazione di diversi teorici inglesi, fran-cesi, tedeschi, nasce la teorica politica del liberalismo. Alla base di queste dottrine c’è un certo tipo di antropologia: per la mentalitàprevalente tra i cultori dei “lumi” l’uomo è fondamentalmente una “monadeautocentrata”, che tende a realizzarsi liberamente con le proprie forze vitali,senza doverne rendere conto ad altri, né doversene assumere la responsabilità5.E gli Altri? E i poveri? In questa tensione esasperata, la solidarietà, comeimpegno specifico assunto responsabilmente rispetto agli altri, diventa un falsoproblema: è del tutto superflua6. Non c’è in tutta la cultura illuminista unostraccio di motivo che spinga l’uomo a promuovere in campo politico/econo-mico la solidarietà. Poiché chi ricerca liberamente la propria felicità indivi-duale contribuisce anche al raggiungimento della felicità generale; esisteinfatti una specie di armonia che, programmata dalla natura, tende a com-porre spontaneamente le libere ricerche della propria felicità messe in atto daisingoli individui7.Sulla base di questa antropologia, la società tutta intera si organizza su di unsolo obiettivo: che il singolo imprenditorie possa produrre sempre di più,sempre meglio e a costi sempre più bassi.

Il 23 gennaio 2004, in occasione del decennale di Forza Italia, Silvio Berlusconiha presentato la “Carta dei Valori” del suo “partito”, in cui prima si afferma di“far proprie le parole con cui Paolo VI conclude la Populorum Progressio: lo svi-luppo è il nuovo nome della pace”, ma poi, con l’impudente candore del parvenudella politica, si afferma che non la redistribuzione della ricchezza, ma la sua cre-scita, è da sempre alla base del superamento delle soglie di povertà.

Il bene comune teoricamente è affidato alla libertà dei singoli cittadini, main realtà la sua definizione e la sua tutela sono in mano ai potentati indu-striali e commerciali. Lo stato sostanzialmente si riserva la funzione del carabiniere, che interviene

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4 Autore del famosissimo Saggio sulla ricchezza delle nazioni.5 G. FERRETTI, Solidarietà e senso dell’uomo, in AA.VV., Volontariato addio, Capodarco 1992,47.6 Ibid., 48.7 Ibid.

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quando nascono delle liti, ma per il resto lascia che tutto venga regolato dalsantissimo mercato.A denunciare i limiti del liberismo/liberalismo sopravvenne un fatto traumati-co: tra il 1770 e il 1820 l’aumento di disoccupati si fece vertiginoso e preseroa vagare senza una meta quelle torme di vagabondi che l’enorme incrementodella produzione, dovuto alla vertiginosa rapidità dell’utilizzo delle macchine,avrebbe dovuto confinare tra i tristi ricordi del passato. E questo perché

• lo Stato si faceva carico dei diritti civili (i diritti del civis, del cittadi-no, quelli che permettono a chi regge il passo di essere protagonista),cioè dei diritti che liberavano la borghesia imprenditoriale da lacci elaccioli (diritto di parola, di voto, di organizzazione del lavoro, ecc.) enon anche dei diritti sociali, quelli del socius, quelli che permettonoa tutti, anche a chi fa fatica, di essere realmente parte del corposociale nel quale vive: il diritto all’istruzione, alla salute, al lavoro;

• si parlava solo di diritti e non anche di esercizio dei diritti: avere deidiritti e non disporre degli strumenti per poterli esercitare alla finedei conti è come non averli.

Di fronte all’abnorme crescita della ricchezza di pochi e alla terribile miseriadi molti gradatamente presero corpo le accuse contro lo Stato liberale:

• accusa di amoralismo: nella soluzione dei problemi sociali la moralenon c’entra nulla;

• accusa di individualismo: il motore della storia è l’individuo (non lapersona) con i suoi appetiti e l’inventiva per esaudirli;

• accusa di enfatizzazione della concorrenza: non la solidarietà tra gliuomini e le classi, ma solo la concorrenza rigorosa assicura il pro-gresso umano;

• accusa di assenteismo statale: nelle dispute sociali lo Stato procurisoltanto che i contendenti non vengano alle mani.

La ricerca dell’Alternativa

Nella prima metà del sec XIX la cultura recupera8 innanzitutto l’utopiaugualitaria di Moro, Erasmo, Campanella. L’inglese Robert Owen (+1858)ipotizza una collaborazione strutturata tra borghesia9 e operai, realizza una

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8 J. C. SISMONDI, Nuovi principi di economia politica o della ricchezza nei suoi rapporti con ilpopolo, 1819.9 Nel linguaggio a volte sommario del socialismo, capitalista indica colui che vive di rendita,proletario indica colui che è ricco solo della propria prole, perché il lavoro (la merce-lavoro, diràMarx) lo vende giorno dopo giorno per sopravvivere, borghese indica la classe media, che vivedel proprio lavoro, ma del proprio lavoro e del relativo reddito è ampiamente padrona.

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fabbrica a misura d’uomo, fonda la prima Equa Banca di Scambio e la comu-nità agricola New Harmony basata sulla comunione dei beni. Il MovimentoCartista avanza nella sua Carta la richiesta del suffragio universale, delladurata annuale del parlamento, del voto a scrutinio segreto. Saint-Simon(+1825), in un clima di acritico ottimismo positivista, lega alla redistribuzio-ne della proprietà il miglioramento dell’esistenza morale e fisica dei poveri10.Fourier (+1837) punta tutto sui falanstèri (o libere comunità di lavoro auto-gestite). Proudhon (+1865), rimasto famoso per l’aforisma “La proprietà è unfurto”, propugna il primato dell’economia politica, definisce la democraziacome identità di libertà e solidarietà, eleva a base prima di ogni societàdegna di questo nome l’amore per i più deboli. La morale è la base anchedell’efficienza politica. Il metro della politica: la dignità umana, in qualun-que persona e in qualsivoglia circostanza venga compromessa e a qualunquerischio possa esporci la sua difesa.

Il socialismo cristiano (Cabet +1856, Buchez +1865, Leroux +1871, Blanc+1882) aggancia al Vangelo il progetto rivoluzionario di stato socialista. Gliodierni comunisti sono i veri discepoli di Gesù Cristo. La democrazia, che è ilsistema sociale e politico più favorevole alla dignità dell’uomo, all’ordine pub-blico, al rispetto delle leggi e alla felicità di tutti, si realizzerà attraverso l’u-guaglianza, la fraternità, l’educazione popolare, il suffragio universale, maraggiungerà la sua pienezza solo con la comunione dei beni. Blanqui (+1881)non disdegna la lotta violenta. I cattolici sociali di Francia (Lamennais,Ozanam, Lacordaire, Montalembert) e di Germania (Ketteler, +1877) abboz-zano la futura dottrina sociale cristiana.

L’alternativa: il Socialismo IdealeKarl Marx (+1883) e Friedrich Engels (+1895) sono stati fino al 1989 (abbat-timento del Muro di Berlino) i maestri incontrastati del cammino di una granparte dell’umanità11 verso una forma di stato radicalmente alternativa: loStato socialista.Nel 1700 per la borghesia il nemico da battere era l’assolutismo e la borghe-sia lo abbatté. Ma poi la borghesia non recepì le richieste dei soggetti emer-genti, e il suo potere s’indurì in dominio.Le libertà divennero sempre più formali, il numero degli esclusi crebbe inmaniera esponenziale. A questo punto Marx, ex-allievo di Hegel, così comeStrauss (+1874), Feuerbach (+1872) e Bauer (+1882), la cosiddetta sinistra

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10 Contro questa pretesa di scientificità sarà sferzante la critica di Karl Marx, che li definiscesocialisti utopisti11 Escono in Germania, fra il 1834 e il 1843, i quindici volumi dello Staatslexikon(Enciclopedia di scienze politiche).

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hegeliana, propone di verificare lo schema hegeliano di lettura della storia(tesi, antitesi, sintesi) non sul piano ideale, ma nell’evolversi concreto deirapporti tra gli uomini: nobiltà, borghesia, proletariato i tre protagonisti, intempi successivi.Premessa: cambiare l’obiettivo di fondo della cultura: I filosofi hanno inter-pretato il mondo: ciò che ora conta è trasformarlo. Nasce così la cultura mili-tante, basata sulla volontà di cambiare il mondo.Primo passo, abbattere i mostri che opprimono l’umanità:

• la religione,• l’individualismo.

Secondo passo: unirsi. Il Manifesto del partito comunista 1848, documentoprogrammatico del riscatto dei proletari, si apre con l’appello famoso:Proletari di tutto il mondo, unitevi!!

Nel 1863 Lassalle fonda il Partito Operaio Tedesco. 1864: la PrimaInternazionale (Associazione Internazionale dei Lavoratori), federazione ditutte le sinistre. La base la fornisce Marx12.

Per lui la rivoluzione è oggettivamente iscritta nella evoluzione storica dellecose. Occorre favorirla, non inventarla. Il capitalismo divorerà se stesso. Dipiù: la rivoluzione del proletariato non rivendicherà un diritto particolare inordine ad un torto particolare, ma rivendicherà IL diritto, in ordine al tortoassoluto che, sotto forma di oppressione, i proletari hanno subito sempre ecomunque.

E così, in un clima di ottimismo strepitoso che alimenterà lotte generose econquiste storiche, ma anche fenomeni come le Brigate Rosse e Gulag, Marxdetta i capisaldi del socialismo:

• Anche nelle sue forme rappresentative più nobili, il potere politicoborghese è democratico solo in apparenza, perché solo se e nella misu-ra in cui schiaccia la persona e sfrutta la società.

• L’anima della storia è la lotta di classe. Gli assoluti (lo stato immagi-nato da Hegel, l’assoluto religioso) sono coperture ideologiche, prete-sti tesi a giustificare sotto falso nome (pace, concordia, interclassi-smo, figliolanza di Dio, ecc.) il perpetuarsi dello sfruttamento.

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12 Imponente la sua produzione teorica: dagli articoli sugli Annali franco-tedeschi e sullaGazzetta renana alle tante opere monografiche (Critica della filosofia hegeliana del diritto pub-blico, Sulla questione ebraica, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Miseria della filosofia,L’ideologia tedesca, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Rivoluzione e controrivolu-zione in Germania) fino ad approdare all’opera sistematica: Il Capitale.

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• Lo Stato borghese s’abbatte, non si cambia. Qualunque forma assuma,lo stato capitalista non permette al popolo di intaccarne minimamen-te le caratteristiche essenziali.

• L’unica via per realizzare una società senza più né sfruttati né sfrutta-tori è la lotta di classe rivoluzionaria, cioè condotta su basi e perobbiettivi che non sono un correttivo dell’esistente, ma un qualcosadi completamente nuovo.

Le fasi del cammino verso una società finalmente fraterna ed ugualitaria:1. Prima fase: il capitalismo maturo. La borghesia monopolizza tutto, l’op-

pressione cresce, lo stato espropria la comunità del diritto di fare poli-tica; cresce la coscienza di classe e la volontà di ribellarsi. Esplodonole contraddizioni, e si creano le condizioni per un’azione rivoluzionaria;

2. Seconda fase: la dittatura del proletariato; con un’azione rivoluziona-ria rapida e incisiva, il popolo occupa in maniera totale e assolutal’apparato statale.

3. Terza fase: la società comunista. Lo stato cessa di esistere perché sisono esauriti i suoi compiti. Nasce l’uomo nuovo, su scala planetaria,con strategie planetarie. La storia si rigenera. L’uomo raggiunge la suapiena realizzazione. Tutti i bisogni vitali hanno risposta.

Due le previsioni di Marx smentite dai fatti:• la destra dei ricchi e dei potenti non si divise; la sinistra invece si

divise in molte sinistre;• il capitalismo non solo non si accartocciò su se stesso, ma si rafforzò

ovunque.

I proletari non andranno mai al potere automaticamente. Allora… come por-tarceli? Solo con la rivoluzione armata: è l’opzione dei socialisti rivoluzionari e deglianarchici di Bakunin (+1876). Ma la breve, eroica, tormentata, sanguinosa,contraddittoria esperienza della Comune di Parigi (nel 1871 il proletariatoconquistò con le armi il potere nel municipio e lo gestì direttamente per tremesi) dette torto all’ipotesi rivoluzionaria.

Il Socialismo realeIn Russia, dopo che tutti insieme i tanti piccoli partiti nati nei primi del ’900non riuscirono a scalfire l’insostenibile potere assoluto dello zar, all’internodel Partito Socialdemocratico l’ala bolscevica prevalse sull’ala menscevica econ Lenin e Trotzky contrappose la sua strategia rivoluzionaria alla strategiariformista. Nel 1917 i Bolscevichi conquistarono il Palazzo d’Inverno (il

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13 Quando il Segretario del PCI, Enrico Berlinguer, dichiarò esaurita la spinta propulsivadell’URSS.

Parlamento); salì al potere il Partito Comunista, partito unico fino al 1989(caduta del muro di Berlino): fino a quel momento la Russia condizionerà inmodo determinante non solo i governi dei paesi dell’Est europeo, ma l’interapolitica mondiale. Ma Lenin morì nel 1924, di tumore al cervello, e la lottaper la successione fu vinta da Stalin, che costrinse Trotzky all’esilio e riuscìa farlo assassinare da un sicario solo nel 1940, a Città del Messico. Nelle intenzioni di Lenin: il governo dei Soviet doveva essere senza la parte-cipazione della borghesia, pura e semplice espressione delle masse oppresse,che finalmente avevano frantumato il vecchio apparato statale. Lenin eTrotzky teorizzarono la rivoluzione mondiale a partire dai paesi agricoli, pro-tagonista il Partito, coordinato da rivoluzionari di professione.In realtà tutte e singole le identità vennero rovinosamente frantumate, e ilrisultato finale non fu affatto la vittoria del socialismo, ma la dittaturaocchiuta e sanguinaria di un partito/stato nel quale tutte le idealità annega-rono presto.

Il Socialismo nei Paesi CapitalistiNell’Italia di fine 800 nacquero varie sinistre d’ispirazione anarchica e baku-niana, con Carlo Cafiero, Osvaldo Gnocchi Viani, Andrea Costa in Romagna,Errico Malatesta a Fabriano e Pietro Gori a Gubbio). Marx li definì un ammas-so di spostati, diretti da avvocati senza cause e da medici senza ammalati.Ed effettivamente ressero poco: Costa, dopo aver fondato il PartitoRivoluzionario delle Romagne, finì con il farsi eleggere in Parlamento, Vianipoco più tardi fondò il POI, Partito Operaio Italiano.Tra i rivoluzionari irriducibili rimasero solo i sindacalisti di George Sorel(+1922).Vinsero i riformisti di Filippo Turati (+1932) che, intorno alla rivista Criticasociale stesero il programma del PSLI, Partito Socialista dei LavoratoriItaliani.Il socialismo italiano continuò a oscillare fra i sogni di rivoluzione del massi-malismo e la politica dei piccoli passi del riformismo, dividendosi e riunen-dosi a ripetizione. In bocca ai giovinetti del Sessantotto chiassoso e folklori-stico (ben diverso da quello minore, discreto e propositivo), gli aggettivi rifor-mista e socialista divennero (acriticamente) un insulto; così come oggi,altrettanto acriticamente, l’aggettivo liberale (meglio liberal) profuma dimodernità avanzata.

Il Partito Comunista Italiano nacque nel 1921, da una costola del PartitoSocialista, e fino alla metà degli anni 7013 assunse come modello di riferi-

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mento, perfettibile ma fondamentalmente giusto, quello russo nato dallaRivoluzione d’ottobre.

I TotalitarismiDiversi in radice, identici a volte negli esiti, i totalitarismi di destra e di sini-stra sono stati sconfitti, quello di destra dalla seconda guerra mondiale (inItalia e in Germania con traumi spaventosi, senza traumi in Spagna e inPortogallo, dove il totalitarismo sopravvisse a lungo, con Franciasco Franco econ Salazar), quello di sinistra dal crollo del muro di Berlino nel 1989. Lasconfitta sembra averli condannati ad essere accomunati acriticamente. Ilche non è giusto.Lo stalinismo è una paurosa degenerazione del comunismo, che è e rimaneun grande sogno di giustizia, probabilmente segnato in radice da una carenteconoscenza della natura umana. Del tutto diversa La fisionomia e la vicenda degli altri due totalitarismi, ilfascismo e il nazismo.

In Italia, nei primi anni ’20, le beghe fra PSI e il neonato PCI e i pregiudizisia degli uni che degli altri nei confronti dei Cattolici del Partito Popolarespianarono la strada alla dittatura fascista. Sull’onda della demonizzazione del comunismo orchestrata da potenti lobbies(sono gli anni del Ku Klux Klan, che negli USA adotta lo scontro fisico comeantidoto contro il male bolscevico), i Fasci Italiani di Combattimento per unpaio di anni picchiano e purgano; poi, nel 1922, promuovono la marcia suRoma. Il re Vittorio Emanuele III, di fronte alla conclamata incapacità deidemocratici a formare un governo, è “costretto” (?) ad affidare l’incarico diPrimo Ministro a Mussolini. Nel fascismo confluirono

• gruppi borghesi del ceto medio (lontani dai valori sia del movimentocattolico che di quello socialista),

• i molti delusi dell’azione del governo dopo la prima guerra mondiale, • gruppi diversi di libertari e di anticonformisti, ex socialisti ed ex sin-

dacalisti seguaci delle teorie di Sorel, • soprattutto i qualunquisti di quell’enorme palude dove convergono

sempre interessi economici inconfessati, modelli di comportamentoreazionari, difesa di privilegi acquisiti.

Paradossalmente, la vera forza del fascismo fu l’assenza di un vero progettopolitico: i più diversi soggetti politici erano autorizzati a pensare di trovare inesso sostegno per i propri obiettivi. Una strategia abile e spregiudicata, favo-rita dalla debolezza dello stato liberale e dagli errori degli oppositori. Fruttòal Fascismo un largo consenso. Una volta al potere, il Fascismo prima si identificò con lo stato (la normaliz-

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zazione), poi mise al bando le organizzazioni democratiche e ne eliminò i lea-ders più autorevoli: esiliandoli (Sturzo, Turati, De Gasperi), incarcerandoli(Gramsci, Terracini, Pertini), uccidendoli (Matteotti, Gobetti, Amendola, ifratelli Rosselli).

In Germania il nazismo salì al potere democraticamente, grazie all’appog-gio dei gruppi nazionalisti, patriottici, razzisti, anticomunisti e libertari, deidelusi dalla I guerra mondiale.Dietro la facciata di un progetto di grandezza nazionale e di neo-capitalismo“sociale” le divisioni della sinistra e la debolezza progettuale dei democrati-ci rafforzarono Hitler, che poté candidarsi a legittimo interprete delle dottri-ne politiche di Fichte e di Hegel. Ma la fortuna dei movimenti nazionalisti fu soprattutto la borghesia medio/alta,timorosa di perdere i non pochi privilegi che era riuscita a conservare nel caosdell’enorme conflittualità sociale e della spaventosa depressione economicapostbelliche, dovute soprattutto alla pesantissima punizione inflitta allaGermania dalla Francia, vincitrice della I guerra mondiale. Ebbero la loroparte nel sostegno a Hitler anche gli interessi di potenti multinazionali e dellamafia internazionale.

Il Pensiero Politico del Novecento

In tutto il Novecento il marxismo fu la dottrina politica di gran lunga più dif-fusa, quella che più di ogni altra alimentò le speranze degli oppressi e più diogni altra terrorizzò le destre di tutto il mondo.Sull’onda della paura del socialismo prima e del comunismo poi, per tutta laprima metà del sec. XX i nazionalismi e gli imperialismi dilagano un po’dovunque. In genere i loro leaders, spesso con un terrificante corredo di mito-logia autoctona, più che analizzare la vita e la storia lanciano pseudoproclamireligioso/morali, incentrati sull’irripetibile grandezza della Nostra Nazione,che chiede uomini eccezionali per progetti eccezionali, e via cazzeggiando.

In Inghilterra Carlyle: La storia universale è in fondo la storia dei grandiuomini che hanno operato su questa terra; e l’Inghilterra deve ritrovare ilmodo di richiamare al potere i più virtuosi, …perché a noi, e non ad altri, èstato chiesto di portare la luce e la civiltà nel mondo.Secondo il nazionalismo tedesco, teorizzato dalla destra hegeliana(Pangermanesimo), la Germania ha una missione spirituale esclusiva, perchéla sua evidente superiorità razziale dice che essa è stata destinata dallaProvvidenza a... dirigere il mondo intero. Görres (un …cattolico!): il popolotedesco è predestinato a realizzare il cristianesimo. Treitschke, un politico:Nessun idealismo politico è possibile senza l’idealismo della guerra.

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In Francia, in Italia e in Spagna altri fanatici dissero cose analoghe del pro-prio paese.

Ma mentre in Francia i nazionalismi e gli imperialismi fallirono il potere perun soffio, in Italia (con Mussolini) e in Spagna (con Francisco Franco) loafferrarono saldamente e se lo tennero stretto a lungo; gli Inglesi liberal-con-servatori sollecitarono con successo gruppi nazionalisti assortiti a sostegnodella loro politica espansionistica e di aggressione; gli Stati Uniti, pragmati-camente, puntarono all’espansione e all’egemonia economica e politica delmondo, con ottimi risultati.Fuori dell’orbita marxista i teorici della politica furono pochi e stentati, se sieccettua Max Weber (+1920), e in particolare il suo famoso saggio L’etica pro-testante e lo spirito del capitalismo:

• valori e idee hanno un’importanza determinante nei processi sociali epolitici: Marx ha torto;

• tra capitalismo moderno ed etica del protestantesimo, per il quale, inpresa diretta col mandato biblico di dominare la terra14, ricchezza eprofitto sono più un dovere che non un calcolo utilitaristico, vige unrapporto essenziale.

Il capitalismo però tende a svincolarsi dall’etica, a minacciare la libertà e amortificare i valori, che vanno faticosamente recuperati, giorno dopo giorno. In Italia ebbe un qualche seguito Vilfredo Pareto (+1923), che vide il motoredel progresso sociale nel rapporto dialettico fra massa ed élite. L’élite conqui-sta il potere e tende a mantenerlo, ma la pressione della massa mette in crisile vecchie élites, sostituite da altre, capaci di capire le nuove istanze sociali.La morte delle élites evita le rivoluzioni violente. Ben noto anche GaetanoMosca (+1941), secondo il quale in ogni società ci saranno sempre governan-ti e governati, e il potere sarà sempre gestito da una ristretta classe dirigen-te15, espressione di forze sociali, valori e interessi economici ben determina-ti. Quando questi cambiano, muta anche la classe dirigente. Il paese più libe-ro è quello in cui i diritti dei governati sono meglio protetti contro il capriccioarbitrario e la tirannide dei governanti.

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14 Gn. 1, 28.15 Inventata da Mosca, la dicitura classe dirigente è divenuta parte integrante del linguaggiopolitico.

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Dove finisce la “Callata dei Neri”,dove comincia Corso Garibaldi.

Ci hanno messo dei secoli a costruirli,edifici del genere.

Generazioni lontane nel tempo,stili diversi.

Ma le pietre antichissime trasudanouna pietà e una saggezza uniche.

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Ispirazione cristiana e politica

Per una Comunità d’ispirazione cristiana qual è la Capodarco dell’Umbriaquesto dell’impatto della concezione cristiana sulla politica è un tema diassoluto rilievo.

Il Movimento Cattolico

Fin dalla prima metà dell’800 gli spiriti più aperti, tra i Cattolici, avevanoauspicato (come Rosmini) una seria apertura alle istanze del mondo moderno,o addirittura (come Manzoni) l’incontro del Vangelo con la RivoluzioneFrancese. Temi che vennero rilanciati e articolati in Francia, intorno al perio-dico L’Atelier, ad opera soprattutto del Lamennais, ma si infransero control’intransigenza ottusa della Gerarchia.

Tutto sembrò definitivamente accantonato quando, nel 1864, il Beato Pio IX,con l’enciclica Quanta cura e l’annesso Sillabo (= “raccolta” di tutti gli erroridel mondo moderno) condannò senza appello

• i principi della neutralità religiosa e della laicità dello stato, • la libertà di opinione e di stampa, • la sovranità popolare, • la supremazia giuridica dello stato sulla chiesa.

Una manna per i cattolici integralisti, impegnati a testa bassa controRivoluzio-ne Francese e paraggi. Soprattutto quando lo Stato italiano occupòRoma e Pio IX si chiuse nel suo sdegnoso isolamento (“quel di se stesso anti-co prigionier”: così lo apostroferà Carducci), impedendo ai suoi fedeli ognipartecipazione alla vita del neonato Regno d’Italia. Era la Questione Romana,che sarebbe stata risolta solo da Mussolini con il Concordato del 1929. Magià in quegli stessi anni ’70 qualcosa aveva preso a muoversi in senso contra-rio; sparute minoranze di cattolici (l’Opera dei Congressi, i Comitati Cattolici,la Società della Gioventù Cattolica) avevano cominciato a chiedersi: come puòdiventare oggi città dell’uomo quell’ideale di convivenza fraterna che, ispiran-doci al vangelo, noi cattolici abbiamo sempre coltivato? Non era molto, magià era qualcosa.

Il non expedit (“non è conveniente”) del successore di Pio IX, Leone XIII(+1903), sbarrò ancora ai credenti la strada alla vita politica, ma senza fremitidi sdegno, ormai obsoleti; chi lo lascerà cadere del tutto sarà il santo Papameno colto di tutto il sec. XX, S. Pio X (+1914). A cavallo tra la fine del sec.XX e l’inizio del sec. XXI, il movimento cattolico crebbe e si articolò: SocietàOperaie cattoliche, Casse Rurali cattoliche, Leghe bianche, Leghe dei contadi-

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Capitolo Secondo

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ni, un Sindacato d’ispirazione cattolica e i Centri di studi sociali irrobustironoil movimento. Don Romolo Murri, sacerdote della Diocesi di Fermo (+1944),prima… maltrattato e poi emarginato dalla Chiesa, lo battezzò DemocraziaCristiana, dandogli un programma decisamente innovatore:

• garanzia per le libertà tradizionali, • riforme sociali incisive, • lotta al profitto capitalistico indiscriminato, • valorizzazione dell’iniziativa popolare (i referendum), • rappresentanza proporzionale in parlamento, • disarmo generale, • suffragio universale, • decentramento amministrativo.

A doverosa distanza da Murri, “scomunicato” ed emarginato, il PartitoPopolare, fondato da don Luigi Sturzo nel primo dopoguerra, pur non riuscen-do a scongiurare il lungo buio del fascismo al potere, puntigliosamente si pro-clamerà

• non cristiano, ma d’ispirazione cristiana, • interclassista, • a-confessionale, • riformista in campo sociale.

La Dottrina Sociale Cristiana

Nel frattempo, sotto l’enorme pressione dei grandi movimenti politici dell’e-poca, liberalismo e socialismo, sulla scia dell’elaborazione teorica delineatada Toniolo (+1918), nel 1891 Leone XIII aveva deciso di rompere il silenzio edi intervenire sulla questione sociale.

La Rerum novarum L’enciclica famosissima si riassume in due no e un sì:

• no al capitalismo, perché, gestendo il potere a vantaggio di una solaclasse sociale, rende strutturale sia il sopruso sui cittadini che losfruttamento dei lavoratori;

• no al socialismo, perché, abolendo la proprietà, priva l’uomo del suolegittimo regno.

• sì alla proprietà privata, quando essa conserva una funzione intrinse-camente sociale.

Il documento ha nella storia del pensiero sociale cristiano un’importanza tal-mente grande da venire assunto come esplicito punto di riferimento da tutti isuccessivi interventi del Magistero.

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Il principio di sussidiarietàNel 1931 l’enciclica Quadragesimo anno (“nel quarantesimo anniversario”:della Rerum novarum) di Pio XI formula un principio che oggi ha un grandespazio politico: il Principio di Sussidiarietà.

Questo principio ai nostri giorni, prima (con la riforma del Titolo V) è statointrodotto dal Parlamento nella nostra Costituzione Repubblicana, poi l’art. 5della legge 328/2002 l’ha reso operativo, poi le Regioni l’hanno inserito nelloro Statuto (l’Umbria nel 2005). Fra Enti pubblici si parla di sussidiarietàorizzontale: quello che può fare il Comune o l’ASL non lo faccia la Provincia;quello che può fare la Provincia non lo faccia la Regione; quello che può farela Regione non lo faccia lo Stato centrale.Fra ente pubblico e aggregazioni vitali nate dal basso si parla di sussidiarietàverticale: quello che può fare l’ente più vicino al problema (la famiglia, la par-rocchia, l’associazione di volontariato, la cooperativa sociale) non devonofarlo gli Enti pubblici, che invece devono essere di subsidium, di aiuto a chiil problema lo vive e lo sente da vicino.

La sana laicità dello Stato e il pluralismo politico dei CattoliciPaolo VI, con l’Esortazione apostolica Octogesima adveniens (sopraggiungen-do l’ottantesimo: sottinteso “anno dalla pubblicazione della Rerum novarum”)operò due scelte di fondamentale importanza:

• esiste una sana laicità dello Stato, che l’uomo di fede pone tra i capo-saldi della sua moralità;

• il Cattolico può e deve rivendicare a se stesso il pluralismo nella pras-si politica, purché si ispiri sempre ai principi proclamati dalMagistero.

Il peccato socialeGiovanni Paolo II ha pubblicato ben tre encicliche sociali: Laborem exercens,Sollicitudo rei socialis, Centesimus annus: ovviamente del 1991, quest’ultima,nell’anno centenario della Rerum Novarum. Una botta al cerchio e una bottaalla botte: Wojtyla condanna la teologia della liberazione e il primato assolutodel mercato, il socialismo spersonalizzante e il capitalismo consumista: discu-tibile l’indicazione che individua in queste due dottrine due forme uguali econtrarie di antropologia antipersonalista. Sul piano concettuale la veranovità introdotta da Giovanni Paolo II è stata la categoria del peccato sociale:le scelte perverse dei singoli, quando sono ampiamente condivise, incidonoanche sulle strutture della vita sociale, vanno quasi a raggrumarsi su quellestrutture, ne intaccano la positività, oggettivamente, indipendentemente cioèdalle coscienze che le hanno poste in essere, e le rendono peccaminose, cioèantiumane.

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Karl RahnerIl Vaticano II (Giovanni XXIII 1962 - Paolo VI 1965), convocandoli comeperiti conciliari, ha fatto incontrare gli esponenti di quel pensiero teologicoche, intorno alla metà del ’900, avevano preso sul serio i segni dei tempi, cioèle nuove realtà terrestri. Teologi e antropologi che

• da una parte avevano elaborato nuove prospettive teologiche sulmondo del lavoro, sul progresso, sulla giustizia, sulle moderne formedi oppressione dei popoli, sulle collaborazioni internazionali, sull’edu-cazione, sulla famiglia, sulla questione sessuale;

• dall’altra avevano ripensato, alla radice, percorrendo vie talvoltadiverse ma spesso convergenti, i fondamenti della teologia, i rapportitra fede e filosofia e scienza, quelli tra fede e politica, quelli tra lediverse confessioni cristiane tra cattolici e atei.

Tra questi teologi (c’era anche Ratzinger) emerge Karl Rahner che sostieneche ormai di Dio si può parlare solo a partire dall’uomo. La tensione versol’Assoluto (presente anche nelle azioni della vita quotidiana che apparentemen-te sembrano più banali)… non è un fatto accidentale, bensì è la condizione chefa essere l’uomo ciò che egli è e ciò che deve essere. OGNI AFFERMAZIONE TEOLOGICA HA UN CONTENUTO ANTROPOLO-GICO.

L’affermazione teologica, la comunicazione che Dio fa di se stesso nel liberoagire storico, riguarda esclusivamente i credenti, ma il contenuto antropologi-co di quella affermazione può e deve essere proposto a tutti.

Karl Barth La grande novità della teologia del ’900 era stata16 L’Epistola ai Romani pub-blicata nel 1922 dal pastore protestante Karl Barth (+1968)17, che i Cattolicipre/conciliari avevano tenuto lontano. La teologia liberale tendeva all’accordotra cristianesimo e cultura, incastrandoli l’uno nell’altra. Barth, rifacendosi aKierkegaard (esiste un’infinita differenza qualitativa tra Dio e l’uomo) denun-ciò il tentativo di ingabbiare la Parola di Dio nelle reti della razionalità, chela Rivelazione trascende totalmente e irreversibilmente, come trascende tuttociò che è umano.Il Dio di Gesù e di Paolo è “il totalmente Altro”. È folle pensare di poterloraggiungere con la filosofia o con la religione (intesa come insieme di prati-che cultuali): Dio è e rimarrà sempre il Dio sconosciuto; l’alterità assoluta di

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16 G. PATTARO, La svolta antropologica, un momento forte della teologia contemporanea (a curadi M. C. Bartolomei e A. Gallas), Edizioni Dehoniane, Bologna, 1991.17 Sulla sua scia lavorarono a fondo Brunner, Gogarten, Tillich, Bultmann.

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Dio rivelata da Cristo chiede un irragionevole, radicale, irreversibile abban-dono esistenziale ad essa; i moderni che si sono ribellati al Dio dei filosofiavevano ragione, perché quella era solo la sua umana caricatura; la loro èuna rivolta contro il non-Dio, legittima e doverosa, come lo fu quella diPrometeo contro Zeus.

Due le parole che definiscono la fede autentica:• rischio• salto.

L’analogia entis, che secondo la teologia cattolica ci abiliterebbe a dire qual-cosa di Dio partendo dall’uomo secondo Barth18 è una follia; Dio non potràmai essere oggetto di studio. Le prove dell’esistenza di Dio elaborate da S.Tommaso approdano ad un Essere supremo Dio che non ha nulla a che fare ilDio di Gesù. La fede cessa di essere fede quando cerca supporti razionali.Solo basandosi su Cristo (stile di vita e parola) è colmabile l’abisso che separal’uomo da Dio19. E questo rivoluziona20 l’atteggiamento dei cristiani nei confronti del mondo edella storia, perché il più radicale degli impegni che Gesù ha lasciato ai suoiseguaci è quello di aprire il mondo al futuro di Dio. La storia per Barth non èun accumulo insensato di giorni, e nemmeno un processo dialettico ditesi/antitesi/sintesi, ma è il futuro di Dio che si fa presente. E il futuro di Dionon è la vita eterna, ma quello che accade momento per momento e ci portaalla vita eterna. Questo futuro, per ciascuno di noi, è sempre imminente; esserepreparati a riceverlo, tenersi pronti perché questo futuro sarà il giudizio di tuttigli uomini che sono attaccati al mondo, che non sono né liberi né aperti alfuturo di Dio21. Allora vivere da Cristiani nel mondo vuol dire rendersi apertie disponibili a quello che accade, alla storia, alla grande storia come allanostra piccola storia personale, per viverla in pienezza mentre la vita ciproietta verso l’eterno.

Dietrich BonhÖffer Nel dopoguerra ha trovato consenso crescente, anche fra i Cattolici non ottu-si, la riflessione teologica di questo Pastore Evangelico impiccato nel campodi Flossemburg il venerdì santo del 1944, pare per ordine personale diHitler22.

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18 Il suo pensiero teologico viene sistematizzato nel grande ciclo della Dogmatica Ecclesiale, apartire dal 1932.19 Famosissima l’affermazione La parola di Dio altri non è che Gesù Cristo stesso.20 Cfr. G. PATTARO, o. c., 55-67.21 In Gesù Cristo e mitologia, 1958, cit. in Antiseri Reale, 562.22 Cfr. G. PATTARO, o. c., 36-41; 51-52; 293-300.

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Il problema23 è quello di sapere che cosa sia veramente per un cristiano lafede, oggi. Oggi che l’uomo moderno, con la secolarizzazione, ha imparato adaffrontare qualsiasi problema (scientifico, estetico, etico e anche religioso)senza far ricorso a Dio: tutto può andare avanti anche senza Dio, e non menobene di prima. L’ipotesi-Dio è sempre più emarginata. L’uomo, cosciente di sée delle leggi del mondo, è diventato maggiorenne. Non accetta più nessunatutela, nemmeno da Dio. Vivere nel mondo etsi deus non daretur (come se Dionon esistesse: basta con il Dio tappabuchi, che si limita a riempire le voraginiche la storia lascia dietro di sé: morte, violenza, raggiri. Chi ci spinge a vivere senza Dio è il Dio onnipresente. Con e al cospetto diDio, noi viviamo senza Dio. Dio si lascia scacciare dal mondo, sulla croce.Dio è impotente e debole nel mondo; così (soltanto così) rimane con noi e ciaiuta. Dall’interno. Cristo24 non ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma invirtù della sua debolezza. Qui sta il salto di qualità tra fede e religione25.Conclusione: La Chiesa – lascia scritto Bonhöffer in Appunti per un libro, ver-gati nella baracca del lager – è veramente se stessa unicamente quando esisteper l’umanità […]. La Chiesa dovrebbe prendere parte alla vita sociale degliuomini, non per dominarli, ma per aiutarli e servirli.

Jürgen Moltmann e la Teologia della SperanzaLa teologia della speranza, in rapporto dialettico con la filosofia di ErnstBloch, tende a recuperare la forza meravigliosa di un futuro ancora apertodella speranza, e su di essa si basa per tentare di delineare una nuova com-prensione del mondo.

Jürgen Moltmann26, protestante, capofila dei teologi della speranza, ha vistonell’escatologia lo strumento ermeneutico per un’interpretazione nuova dellaRivelazione: e questo perché l’elemento escatologico non è una delle compo-nenti del cristianesimo, ma… tutta la predicazione e l’esistenza cristiana …ela Chiesa stessa, nel suo insieme, sono caratterizzate dal loro orientamentoescatologico. Il primato dei novissimi. Alienazione? Tutt’altro. Quella prospet-tiva

• dà senso alla storia, illuminando la vita presente come non/rassegna-zione alla precarietà;

• relativizzandone tutte le scelte storico/culturali, ridimensionandone lepretese assolute.

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23 Etica, 1945; Lettere dal carcere pubblicate col titolo di Resistenza e resa, 1951.24 Cfr. Mt. 8,17.25 D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, Milano, 1968, 277.26 J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia, 1965.

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Commenta Pattaro27: l’escatologia di Moltmann non parla di un futuro ingenerale, parla di Gesù Cristo e del suo futuro. Certo, essa prende l’avvio dauna determinata realtà storica e ne annuncia la possibilità di avere un futuro,facendo perno non sul futuro dell’uomo, ma sul futuro di Cristo: un futuro chesorge totalmente alla promessa di Dio e oltrepassa ciò che è effettivamente pos-sibile e ciò che è effettivamente impossibile28. L’escatologia teologica legittima l’utopia; le parole della speranza devono esse-re per forza di cose in conflitto con la presente realtà empirica, perché esse nontendono a gettare luce sulla realtà esistente, ma su quella veniente, non foto-grafano la realtà esistente, ma la lanciano verso il cambiamento promesso esperato. Non vogliono reggere lo strascico alla realtà, ma portare la fiaccoladavanti ad essa. Il Cristiano non può vagare sulle nuvole ma deve formulare lasua speranza in contraddizione con l’esperienza presente della sofferenza, delmale, della morte.

CONTRO OGNI RASSEGNAZIONE, il Cristiano non accetterà mai le fatalitàineluttabili di questa terra. CONTRO OGNI SPIRITUALISMO, il Cristianovive la sua attesa del Regno in vigilanza critica contro tutto ciò che si presen-ta come assoluto e pretende, sostituendosi a Dio, di identificarsi nel Regno.Ogni volta che la fede si sviluppa in speranza non produce quiete ma inquietu-dine, non pazienza ma impazienza. …Coloro che sperano in Cristo non possonosopportare la realtà così com’è ma soffrono nel doverle sottostare… Pace conDio è conflitto col mondo.

Johannes B. Metz e la teologia della politicaJ. B. Metz29 ha tradotto la teologia della speranza in teologia politica30. Se èvero che, per una corretta interpretazione della rivelazione, oggi non si puòfar conto sulla metafisica (come fece Tommaso d’Aquino con Aristotele), èanche vero che pure l’esistenzialismo si rivela inadeguato.Questo perché l’uomo moderno si è scoperto come fondamentalmente orienta-to verso il futuro, e sa di poter vivere solo in un’autentica novità. Invece sia lametafisica che l’esistenzialismo

• sanno parlare solo di un futuro già incastonato nel passato;• privatizzano il messaggio cristiano, riducendo la pratica della fede

alla decisione privata, dell’individuo, staccato dal mondo; e rendonoinsignificante la realtà sociopolitica.

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27 Cfr. o. c., 35.28 J. MOLTMANN, Teologia della speranza, o. c., 82.29 J. B. METZ, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia, 1969; Il futuro della speranza,Queriniana, Brescia, 1970.30 G. PATTARO, o. c., 425-598.

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E invece nel Cristianesimo non si dà una salvezza privata, perché le promesseescatologiche della tradizione biblica – libertà, pace, giustizia, riconciliazione– non si lasciano privatizzare. Al contrario, esse ci rimettono necessariamente,incessantemente di fronte alla nostra responsabilità sociale. E Gesù è stato condannato a morte proprio per l’impatto che il suo concetto disalvezza aveva con i poteri pubblici del suo tempo. La sua croce viene innalzatanon nel privatissimum dello spazio individuale e nemmeno nel sanctissimumdello spazio unicamente religioso. La sua croce è confitta fuori porta: al di làdelle barriere protettrici del privato, oltre il recinto del puro religioso. La sacra-lità come separatezza è finita, il velo del tempio si è squarciato per sempre.Solo assumendo la speranza al centro della sua prospettiva d’impegno, laChiesa portatrice della memoria sovversiva della libertà può esercitare altempo stesso

• una funzione critica,- da una parte contestando le concezioni astratte del progresso e gli

ideali umanistici autogratificanti, - dall’altra minando alla base i tentativi di considerare l’individuo

vivente come semplice materiale di costruzione di un futuro collet-tivo.

• una funzione costruttiva, proclamando incessantemente, con le sceltedi vita prima che con le parole, la promessa escatologica di Dio, difronte ai sistemi politici che tentano di bloccare la storia e di proibireall’uomo l’accesso al futuro di cui ha bisogno.

La speranza nel futuro di Dio diventa difesa dell’individuo dai sistemi totaliz-zanti.

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Lo Stato, per rimanere all’altezza del proprio compito di promotore del benecomune, deve per forza di cose evolversi, come si evolve la società, come sievolve la cultura.Una certa teoria dello Stato dopo un certo tempo non può non entrare incrisi. È successo allo Stato assoluto, che ha dovuto cedere il passo allo stato demo-cratico.È successo allo Stato democratico, che ha dovuto cedere il passo allo statosociale.

Ma perché lo Stato democratico ha dovuto cedere il passo allo stato sociale?Perché, quando si verificò la Rivoluzione Industriale, e venne in primo pianoil problema del rapporto fra produzione della ricchezza e distribuzione dellaricchezza, lo Stato democratico, per il suo immedesimarsi con la borghesia,divenne liberale in politica e liberista in economia.Nei suoi documenti più illustri (La Dichiarazione dei Diritti della Virginia,1776; La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, Parigi 1789) lo Stato democra-tico intendeva tutelare solo i diritti civili, mentre l’incessante evoluzionedella società e della cultura gli chiedevano con forza crescente anche

• la tutela dei diritti sociali, con la fornitura degli strumenti culturali epolitici idonei a rivendicarli: l’istruzione, soprattutto: Che sia ricco opovero conta meno: basta che parli (don Milani, primo dei temi asse-gnati agli esami di maturità, nel 1974);

• la garanzia della esigibilità sia dei diritti civili che dei diritti sociali.

E poi la pretesa dello stato democratico/liberale, di volersi riservare il ruolodel carabiniere che interviene solo quando scoppia una lite, si rivelò fallace,perché quello che operava nella concretezza della vita dello Stato era uncarabiniere molto sui generis: picchiava sempre nella stessa direzione.Lo Stato sociale, nella duplice coscienza della non riducibilità dei dirittisociali ai diritti civili e della necessità di garantire il concreto esercizio siadegli uni che degli altri, si rese conto che l’imparzialità era un paraventodell’ingiustizia, e scelse la parzialità. Lo Stato sociale si qualifica per la dichiarata PARZIALITÀ delle sue sceltedi fondo. Ragionando in maniera astratta, cioè senza la dovuta attenzionealle reali condizioni dell’esistenza umana, la più ovvia e dovuta di tutte lescelte possibili sembrerebbe la scelta dell’imparzialità. E invece lo Statosociale, schierandosi dalla parte dei più deboli, facendone proprie le istanze,opta per la PARZIALITÀ.

Dietro la crisi dello Stato liberale la crisi dellacultura liberale

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Capitolo Terzo

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È stata questa la scelta forse della Costituzione della Repubblica Italiana,quando ha detto che il compito della Repubblica è quello di rimuovere gliostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’u-guaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana el’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, econo-mica e sociale del paese (art. 3).

La crisi dello Stato Liberale in Italia

Come ci siamo arrivati a questa convinzione? Una convinzione alla quale,anche se da diversa angolatura e con diversa intensità, sono giunte tutt’e trele correnti di pensiero che, tra il 3 giugno 1946 e il 1 gennaio 1948,nell’Assemblea Costituente hanno presieduto alla redazione della nostrasplendida Costituzione: la corrente cattolica, quella social/comunista e quel-la liberale.

Ci siamo arrivati attraverso la crisi dello Stato liberale.Con questa dicitura, “crisi dello Stato liberale”, in genere noi intendiamol’insieme degli eventi politici che seguirono la fine di quell’immane macelloche era Stata la prima guerra mondiale, quando la classe politica italiananon seppe cogliere le provocazioni al cambiamento che gli venivano dallasocietà e dalla cultura, ambedue in radicale evoluzione. Fu un errore colos-sale. Lo pagammo con i 20 anni di dittatura fascista. E con la mattanzaimmane della seconda guerra mondiale.Ma in seguito avremmo capito che quella dicitura, “crisi dello Stato libera-le”, aveva uno spettro semantico molto più ampio. Ma andiamo per gradi.

La dolorosa scia della prima guerra mondialeNel 1914, con la cartolina/precetto che li spediva al fronte, una legione digiovani italiani avevano avuto il loro primo contatto con lo Stato, del qualeavevano fino a quel momento un’idea molto vaga. Fra quei ragazzi c’eraanche il padre dello scrivente, Adamo Fanucci di Campitello (ScheggiaPascelupo); era nato nel 1894, e nel 1914 partì per il fronte, e si fece quattroanni di guerra tutti interi, ed era uno dei fantaccini travolti dagli Austriaci aCaporetto, e tornò a casa con delle varici enormi sulle tibie, frutto dei troppimesi passati a bagnomaria, nelle trincee del Carso e del Sabotino. E c’eraanche il fratello della madre dello scrivente, Lorenzo Nardi, che era inAmerica, e fece il diavolo a quattro per tornare in Italia a tempo per poterprendere parte al “glorioso completamento dell’epopea del nostroRisorgimento”, e alla fine di ottobre del 1918 era al fronte, e i primi dinovembre, appena in tempo, riuscì a morire “per la patria”: oggi è uno deicentomila sepolti a Redipuglia.

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Quelli che, tra quei ragazzi, tornarono a casa trovarono una situazione bendiversa da quella che era stata loro prospettata nei lunghi anni di guerra.Adamo Fanucci, all’indomani del suo ritorno a casa, si sposò, ma il suo“viaggio di nozze” (Scheggia - Foligno - Perugia - Scheggia) non poté durarepiù di un giorno.

Questa vicenda, tutt’altro che unica, è l’eco che nella vita di un uomo sem-plice e schietto ebbe quella traumatica agonia dello Stato liberale del qualela guerra rivelò impietosamente la fragilità degli equilibri sociali e politici.Cosa accade, infatti, a ridosso della grande mattanza?Dal punto di vista sociale si acutizza nel paese la conflittualità:

• i proletari, delusi nelle aspettative di agiatezza e di sicurezza cheerano state fatte balenare di fronte ai loro occhi durante i lunghi annidi guerra, dettero vita ad un impressionante serie di lotte operaie econtadine, rimaste nella storia con il nome di biennio rosso (1919-20)

• i ceti medi, i cui redditi reali sono falcidiati dall’inflazione, fremevanoin attesa di una qualche “rivincita”;

• i ceti abbienti, quelli i cui rampolli avevano fatto la guerra da dietrole scrivanie, enfatizzano oltre ogni dire il mancato accoglimento dellepretese italiane alla conferenza di pace: è il mito della vittoria muti-lata, agitato dai nazionalisti e da quell’incomparabile manager dellapropria ciarlataneria che fu Gabriele D’Annunzio.

Dal punto di vista economico, le cose vanno decisamente peggio di quando laguerra era cominciata, perché

• la riconversione dell’industria, “gonfiata” dalle esigenze della guerra,si rivela estremamente difficile;

• l’inflazione galoppa, per l’eccessivo indebitamento dello Stato e per ilforte passivo della bilancia commerciale.

Dal punto di vista politico nascono i partiti di massa (il Partito socialista e ilcattolico Partito popolare, fondato nel gennaio 1919), ma essi… non sannoquello che fare.

E pensare che i Futuristi, prima della guerra, in polemica con quella saggiapolitica di Giolitti che la loro mediocre albagia giudicava “vile”, avevanogridato, dovunque avevano potuto: La guerra è la sola igiene del mondo!Alle elezioni del 1919 trionfano i Socialisti e avanzano anche i Popolari, chesi rivelano indispensabile per la creazione di una maggioranza parlamentarein grado di governare: ma i Socialisti li rifiutano sdegnosamente, così comerifiutano ogni alleanza con i Liberali.L’incertezza domina sovrana, la classe dirigente uscita dalle urne si rivelatotalmente incapace di affrontare i problemi politici ed economici del paese;

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è il brodo di cultura ideale per i disegni dei nazionalisti, rozzi ma ricchi diuna ben maggiore presa sulla gente, per le rivendicazioni dei ceti proprietariteorizzati dal biennio rosso, per il nascente movimento fascista, che nel marzo1919, a Milano, in Piazza San Sepolcro, esce per la prima volta allo scoperto,attaccando a fondo la democrazia parlamentare, i Socialisti e i sindacati.Dopo due anni di incertezza assoluta, è nel 1921 che i giochi vengono fatti:dopo il fallimento delle prospettive rivoluzionarie e l’aggravarsi della crisieconomica, i sindacati vengono sbeffeggiati ovunque, e prima ancora (gen-naio 1921) i Socialisti perdono ulteriore mordente per la scissione diLivorno, con la quale dal Partito socialista unitario nasce il Partito comuni-sta d’Italia.

La priorità imposta dalla borghesia: “Riportare l’ordine!” Tra le tante rivendicazioni, quelle che ebbero la meglio furono le rivendica-zioni della borghesia agraria ed industriale. Mentre si affievoliva l’impeto del biennio rosso (1919-1921), dilagò l’offensi-va squadristica che dalle campagne del nord si allargò nel centro sud, perrisalire, poi, nel 1922, nelle grandi città del nord; a Milano, a Torino, aGenova le squadracce testarono la propria forza d’urto contro l’élite dellaclasse operaia; distrutte le sedi dei giornali socialisti, delle Camere delLavoro e delle cooperative, invase manu militari le aule dei consigli comu-nali, violentemente allontanati gli amministratori di sinistra. Migliaia i mortie i feriti. Nel primo semestre del 1921 vennero distrutte 17 tipografie e sedidi giornali, 59 case del popolo, 119 Camere del lavoro, 107 cooperative, 83leghe contadine, 141 sezioni e circoli socialisti e comunisti, 100 circoli dicultura, 10 biblioteche popolari e teatri, 28 sedi sindacali, 53 circoli operai ericreativi.Un trattamento particolare veniva riservato a singole persone: la squadracciagiungeva in piena notte in casa di un sindacalista o di un dirigente politicodel movimento operaio, lo bastonava brutalmente di fronte ai famigliari, locostringeva a bere una notevole quantità di olio di ricino; oppure lo preleva-va, lo picchiava e lo lasciava legato ad un albero a diversi chilometri didistanza dalla sua abitazione; a volte il disgraziato moriva, magari con uncolpo di pistola. I Sindaci, i Carabinieri, la Polizia avevano l’ordine di non intervenire; la spe-ranza era quella che socialisti e fascisti si scornassero fra di loro. Ma uominie mezzi affluivano copiosi al fascismo, mentre le sinistre continuavano a liti-gare su tutto.

Fra parentesi: l’uso dell’olio di ricino rimase una pratica abituale del fascismo,anche dopo la conquista del potere, contro chiunque si mostrasse in qualchemaniera avverso al regime. A Gubbio vennero “invitati” in caserma per un “brin-disi” del genere molti comunisti e socialisti, dall’Avv. Rossi al dr. Tabarrini, eanche un prete, don Origene Rogari, che bevve con signorile solennità.

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L’Ex socialista Benito Mussolini capisce che il momento era arrivato e, inquello stesso 1921, a novembre, il movimento fascista si trasforma in Partitonazionale fascista. Vi confluisce, ma ben più numerosa e arrabbiata, la stessafauna che s’era ritrovata nel 1919 a Piazza S. Sepolcro: ex combattenti,soprattutto ufficiali, giovani e giovanissimi “idealisti” con alle spalle diverseesperienze di piccolo gruppo; tutti accomunati da una viscerale avversionealla classe operaia, al socialismo, al Parlamento, alla democrazia.A distanza di meno di un anno, nell’ottobre del 1922, Mussolini verrà incari-cato da Vittorio Emanuele III di formare il nuovo governo.Ai nostalgici che riaffiorano anche oggi, anche tra i giovani (“Aridàtece erpuzzone”; “A quei tempi i treni arrivavano in orario!”), occorre ricordare il…segreto di questo folgorante successo:

• sul piano ideale, l’autocandidatura di Mussolini a “restauratore del-l’ordine”: plaudono, si aggregano e soprattutto mettono mano al por-tafogli gli agrari latifondisti e gli industriali terrorizzati dal bienniorosso; nei momenti di generale smarrimento il successo di questaprospettiva della “restaurazione dell’ordine”, boutade tipica di tuttele destre, è garantito, e le possibilità di distinguere l’ordine autenticodal disordine costituito diventano minime;

• sul piano concreto, l’azione selvaggia delle squadracce armate; adde-strate militarmente dai “ras”, capetti locali del fascismo, turgidi diidealità e di voglia di menare le mani, esse organizzano spedizionipunitive, intervenendo sul territorio a macchia di leopardo; picchiano,distruggono, per cancellare dalla faccia della terra i socialisti, i sin-dacati, le (poche) organizzazioni cattoliche socialmente impegnate.

Il governo Facta si sbagliava, sottovalutando il Fascismo e legalizzando lesue manifestazioni, le famose adunate, che si moltiplicavano e si facevanosempre più oceaniche. Quando sfociarono nella marcia su Roma (28 ottobre 1922: Mussolini lafece… per telefono, rimanendo a Milano), e le Camicie nere chiesero al Redi affidare a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo, VittorioEmanuele calò le brache.

La crisi della cultura di base dello Stato Liberale

Venti anni di dittatura fascista. 50/60 milioni di morti. Fame, borsa nera,miseria immane.Per prima cosa gli Italiani con il referendum del 2 giugno 1946 dettero ilbenservito ai Savoia, spedendoli in esilio; contestualmente designarono iCostituenti; ebbe così inizio il periodo più intenso della nostra storia recente:la redazione della Costituzione (2 giugno 1946-1 gennaio 1948).

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Ma i problemi maggiori dovevano ancora venire.Gli Italiani che il 1 gennaio 1948 applaudirono il Presidente De Nicola,minuto ed esangue, fra due Corazzieri imponenti, nell’atto di firmare il testodella nostra Costituzione repubblicana, potevano ragionevolmente pensareche con quell’atto si concludeva la crisi dello Stato liberale che aveva dato ilvia al Fascismo. E che per sperare in un mondo veramente nuovo fosserosufficienti gli oltre 50 milioni di morti che avevano insanguinato la terra.

Oggi una convinzione di questo genere non ha spazio.La prima persona che perse la speranza che un mondo nuovo nascesse da quel-l’oceano di sofferenze e di sangue fu Simone Weil, l’intellettuale ebrea che giun-se alle soglie del cattolicesimo (scrisse cose bellissime sull’Eucaristia), ma nonle varcò, perché volle rimanere tra i perseguitati. A poco più di 40 anni avevascritto moltissimo, aveva lavorato in fabbrica, aveva fatto la guerra in Spagna afianco dei Repubblicani, aveva avuto intensi rapporti con la Resistenza francese,ai massimi livelli…: alla fine della guerra intuì che lo spaventoso bagno di san-gue non sarebbe servito a nulla, e si lasciò morire in un sanatorio inglese, “perdisinteresse nei confronti della vita”: così recitava il referto medico del Coroner.

Oggi siamo convinti che la crisi dello Stato liberale era stata ben poca cosarispetto all’altra, imminente, inevitabile, grandissima crisi della cultura chesupportava lo Stato liberale.

Il dilagare del disagio socio/culturaleDa decenni viviamo tutti, chi più chi meno, in una situazione di grande disa-gio, che non solo non accenna a diminuire, ma si manifesta in forme semprepiù articolate, e spesso si nasconde nella psicologia profonda di personeapparentemente del tutto normali, che all’improvviso esplodono e magarifanno strage della propria, “bella” famiglia.Un disagio a due facce, una patologica e una culturale, una legata all’insor-gere di una qualche malattia psichica, una legata all’insoddisfazione chegenera il modello di auto/coltivazione che ci viene “suggerito” (o “imposto”,a seconda della maggiore o minore consistenza delle nostre difese) dal bom-bardamento al quale ci sottopongono i media. Tra le due facce il diaframma che le separa è sempre più sottile.

Il contesto: un’inaudita accelerazione del cambiamentoIl contesto nel quale viviamo questo disagio, nelle forme più diverse ma sem-pre più spesso con un peso psicologico ai limiti della tollerabilità, è quello diuna forte accelerazione del cambiamento socio/culturale.Il cambiamento della società e della cultura è stato una costante della storiaumana, ma la scansione dei suoi ritmi per secoli e secoli nel nostroOccidente è stata molto lenta.

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Poi si è avuta nel cambiamento un’accelerazione improvvisa, quasi selvag-gia. E oggi…

Si è calcolato (l’ho sentito riferire dal prof. Regni) che, ipotizzando un’unitàdi cambiamento pari a AZ, la società e la cultura sono cambiati di un AZ tral’anno 0 e il 1500, di un altro AZ fra il 1500 e il 1800, di un ulteriore AZ trail 1800 e il 1900, e ancora di una AZ tra il 1900 e il 1950; e forse il ritmodel cambiamento è già sceso da 50 anni a 25…

Citiamo solo alcuni tempi, da ripercorrere sotto l’aspetto della velocità delcambiamento.

SUL PIANO SOCIALE• Il villaggio globale,• La scomparsa delle classi sociali,• La globalizzazione dei rapporti,• L’approvvigionamento energetico,• Le lobbies e le mafie,• La base multinazionale dei grandi interessi economici.

SUL PIANO CULTURALE• La complessità,• La globalizzazione dei saperi, • La tecnocrazia che ridicolizza la filosofia e umilia ogni visione uma-

nistica della vita,• La settorializzazione eccessiva dei problemi, a scapito d’una visione

d’insieme. La bioingegneria sempre tentata di manipolare l’uomo. Lostrapotere dei mass media e il loro pressoché totale asservimento aldenaro e al potere. Le nuove forme di alienazione e di anonimato.

Ognuno di questi capitoli configura un problema enorme. Naturalmente que-sto vale anche per i fatti positivi: l’associazionismo sociale, la cooperazione,il volontariato, il privato sociale. Grandi problemi, grandi speranze.

Ma la domanda di fondo rimane la stessa: quale funzione compete allo Statoin quanto tale, perché esso possa effettivamente realizzare il bene comune?

Il pensiero deboleIl disagio socio/culturale da una parte segna a fondo la società, con fenomeniinauditi quali il suicidio degli adolescenti (che è apparso ai nostri giorni perla prima volta nella storia), o il consumo giornaliero di miliardi di pasticchedi tranquillanti, da parte dei soggetti più diversi; ma dall’altra anche nellacultura ha una sua specifica proiezione, sotto forma di pensiero debole.

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Anche per quello che riguarda le dottrine politiche oggi siamo in clima dipensiero debole:

• data la difficoltà che s’incontra per definirla, la politica tendenzial-mente viene declassata a tecnica dell’organizzazione;

• più che di pensiero autonomo, le dottrine politiche sanno di copertu-ra ideologica del capitalismo avanzato: il pensiero neo-liberale, rias-sunto nella formula equivoca Più società e meno stato, riduce tutti iproblemi all’asfissiante ingerenza dello stato nella vita della società;basta che lo Stato faccia un passo indietro – dicono – e tutto saràrisolto. Reagan: “Lo Stato non risolve nessun problema, è lui il pro-blema”.

L’utopia libertaria e paritaria del Sessantotto indubbiamente è stata feconda, mala complessità tipica della società moderna rende risibile la sua aspirazione dibase, il sogno del ritorno alla democrazia diretta, possibile soltanto nelle societàsemplici.

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L’alternativa, culturale e politica

Trovare un’alternativa a questo stato di cose, in un contesto qual è quello cheabbiamo descritto, è tutt’altro che facile. Ma non se ne può fare a meno.La prima operazione deve essere di taglio culturale. E per portarla avanti adeguatamente bisogna tornare nei sotterranei della cultu-ra liberale.

Nei sotterranei della cultura liberale

A questo punto torna indispensabile puntare il dito contro quegli aspetti dellacultura dell’Illuminismo che abbiamo abbondantemente illustrato e denunciatonell’apposita sezione che questo libro ha dedicato alla cultura.Certo, l’Illuminismo è stato foriero anche di grandissime acquisizioni positive:

• la laicità in positivo: la volontà di andare oltre la tolleranza, instaurandoun rapporto nel quale tutti prendono sul serio le tesi di tutti, per l’indi-viduazione del bene comune,

• l’esigenza di un nuovo rapporto con la natura, • l’esigenza di un uso nuovo della scienza.

Ma ci sembra innegabile che il disagio socio/politico/culturale, così pesante ecosì diffuso oggi, denunci come suo movente, o per lo meno come ambito privi-legiato, la cultura individualista, falsamente egualitaria e consumista che ilnostro mondo ha maturato con l’Illuminismo.E tornano pienamente attuali i sospetti di Nietzsche, l’analisi e la denunciadella Scuola di Francoforte Con una sottolineatura doverosa, che ci riguarda da vicino.La vittima più illustre dell’Illuminismo fu la solidarietà, non solo sul piano con-cettuale (Il benessere del povero sarà il naturale riverbero della ricchezza delricco: Adam Smith), ma anche sul piano dei concreti provvedimenti adottati:l’Illuminismo spazzò via non solo l’intero, secolare pensiero solidarista che, tramille contraddizioni, aveva innervato la filosofia fino ad allora, ma anche quellafitta trama di associazioni, comunità, confraternite che secondo W. Ullmannconfigurava quasi un “privato-sociale” ante litteram ed incarnava un senso del“potere dal basso”, incentrato sui bisogni concreti della persona concreta, radi-calmente diverso rispetto a quello che noi tutti, in occidente, abbiamo finito perinteriorizzare.

Nel settore della cura dell’handicap l’Illuminismo motiva il sorgere dei grandi,lugubri istituti dove vengono concentrati tutti: handicappati, psicolabili, ritar-dati mentali, schizofrenici. Il motivo che viene dichiarato è quello di assisterli.Il motivo reale è quello di difendersi da loro, rinchiudendoli.

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Capitolo Quarto

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Bisogna toglierli dalla circolazione senza fare loro del male. Bisogna convincer-li che quella è la vita migliore, per loro e per la società. “Un piatto di minestrace l’hai cosa vuoi di più?”.

Dalla cultura alla politica

Con “politiche sociali” intendiamo l’insieme degli interventi ragionati e struttu-rati che i Pubblici Poteri mettono in atto a favore delle fasce deboli della popo-lazione.Nel nostro Occidente le politiche sociali hanno visto la luce nei primi anni delsec. XVI, in Inghilterra prima (con la Legge sui poveri di Elisabetta I), inFrancia e nei territori dell’Impero poi. La storia delle politiche sociali hanno fatto registrare una costante anche semolto disomogenea crescita globale, sia di umanità che di efficacia.Agli inizi di questo cammino di crescita prevalse l’esigenza di contenere, spes-so ricorrendo anche alla forza pubblica, il più drammatico dei problemi socialidel tempo: la mendicità.Per secoli la mendicità fu fenomeno di immane portata, una piaga dolorosissi-ma che interessava masse enormi di uomini e, soprattutto in tempo di carestia,mieteva legioni di morti di fame, anche scuotendo alle radici la tranquillitàdella convivenza civile.L’esigenza di contenere il fenomeno della mendicità fu ampiamente avallata,anche se solo come “ineluttabile necessità”, dalla logica della cultura illumini-sta.Per uscire da quella logica (come abbiamo visto nell’apposito capitolo) occorreapprodare alla cultura della parzialità come unica cultura in grado di supporta-re una politica sociale giusta ed efficace. È quello che ha fatto la nostra CartaCostituzionale, impegnandosi a rimuovere gli ostacoli di ordine economico esociale che, limitando di fatto l’uguaglianza e la libertà dei cittadini, impedisco-no il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti ilavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3).Un obiettivo realizzabile solo se in politica si adotta l’atteggiamento che adottòPaolo VI quando, presentandosi all’ONU, dichiarò di essere à coté des emargi-naux (a fianco degli emarginati); occorre che la politica, come ha fatto laChiesa, adotti come prioritario il riferimento agli emarginati del nostro mondo eai diseredati del terzo mondo.

In questa chiave occorre realizzare in pienezza il WELFARE STATE.

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IL Welfare State

Il Welfare State, o Stato della sicurezza, rappresenta la più grande conquista dellaciviltà umana e, per noi Occidentali, l’orizzonte fisso sul quale devono obbligatoria-mente muoversi tutte le scelte pensate a sostegno delle fasce deboli della popola-zione. Tutto lo sconfinato lavorio che l’attuale situazione socio/culturale ci richiedeha in esso la sua cartina di tornasole.

Cos’è

Teorizzato nella Gran Bretagna della prima metà del sec. XX da Lord Beveridge, ilWelfare State trova il suo principio/cardine nell’UNIVERSALISMO DELLASOLIDARIETÀ.Questa istanza di fondo del Welfare si traduce in due esigenze:

• i beni e i servizi essenziali alla decorosa vita di tutti, sia sul piano dellasanità che sul piano dell’assistenza e della vita di relazione di ciascuno,devono essere garantiti a tutti i cittadini, in quanto cittadini, indistintamen-te, prioritariamente, sempre: dalla culla alla bara;

• i beni e i servizi oggettivamente richiesti da particolari categorie di cittadinio da particolari zone del territorio nazionale vanno erogati, in termini diassistenza economica, previdenza, sanità, edilizia popolare, ecc., con critericentrati sulla dignità della persona.

Una formidabile conquista.

Sintomo eccellente del grado di civiltà di un popolo

Il Welfare State è anche uno dei sintomi più puntuali del grado di civiltà che unacerta società ha raggiunto in un certo tempo.A questa ultima affermazione si oppongono, più o meno ferocemente, le Destre diogni tipo e di ogni tempo. Vi si oppongono perché sono convinte che più spendiamoper il sociale e meno resta da spendere per gli investimenti, la ricerca, ecc. Falso. Solo la miopia d’un micragnoso egoismo da quattro soldi può suffragareaffermazioni del genere. Infatti è stato ampiamente dimostrato in sede storica che laqualità delle prestazioni erogate dallo Stato sociale è sempre direttamente propor-zionale

• alla qualità del reggimento politico: non solo la bontà umana, ma anchel’ordinata crescita di una società senza scosse si misura anche e soprattuttosulla frontiera del sociale;

• alla qualità dello sviluppo economico: qualità, non necessariamente quan-tità; gli Stati Uniti, che anche nei momenti di crisi economica hanno man-

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Capitolo Quinto

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tenuto una crescita economica quantitativamente molto alta, lasciano sco-perti dal punto di vista della protezione sociale circa 40 milioni di cittadini:in questo la qualità del loro sviluppo economico lascia molto a desiderare;

• alla moralità della cosa pubblica.

Il Welfare italiano, nascita e crisi

Il Welfare in Italia arrivò in ritardo, tra gli anni 60 e 70, quando ormai la sua crisipetrolifera del 1973 era alle porte un po’ in tutta Europa, dove il PIL calava e le“urgenze” (vere presunte) della specie socio/sanitaria crescevano. Ma le sue conquiste sono state notevoli; tra le più recenti:

• l’istituzione del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali, con la legge499/1999;

• la legge di riforma dell’assistenza, la 328/2000, approvata con tanta fatica apoco meno di 110 anni (!) dalla precedente (la Legge Crispi, del 1892).

Alla sfavorevole congiuntura di mercato si sommavano due fatti non/congiunturali: • l’invecchiamento della popolazione, dovuto al crescente benessere, al

declino della natalità e all’allungamento della vita media;• la crescita delle aspettative in merito alla qualità dei servizi da parte di

una popolazione il cui livello culturale, nel suo insieme, era enormementecresciuto.

Ulteriori elementi aggravanti, tipicamente italiani:• l’evasione fiscale, tra le più alte d’Europa;• la medicalizzazione degli stati di malessere: montagne di analisi diagnosti-

che inutili, volute dai medici solo per non perdere pazienti; medicine nelsecchio della spazzatura;

• la burocrazia mangia tutto: giustamente a partire dagli anni ’70 (secondo ilPrincipio di Sussidiarietà) le dovute competenze sono passate dallo Statocentrale alle Regioni, dalle Regioni alle Province, dalle Province aiComuni: ma l’auspicato calo del numero degli addetti non ha avuto luogo; ei primari di vari reparti, chiusi da anni per calo dell’utenza, per anni hannocontinuato a percepire lo stipendio senza avere nulla d fare;

• l’assistenzialismo clientelare, soprattutto ma non solo nel Mezzogiorno; nelsociale hanno allignato organizzazioni abilitate a fare formazione che sisono limitate a riscuotere e distribuire soldi, a volte senza portare avantinessuna attività formativa;

• la renitenza alla razionalizzazione: infinite volte si è parlato dell’opportunitàdi applicare al settore pubblico i criteri di controllo della produttività chel’industria privata ha collaudato e applica da molto tempo (a volte conmetodi da schiavisti): non se n’è fatto nulla;

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• l’inadeguatezza dei controlli;• gli sprechi di ogni genere; le colonie marine dell’Amministrazione

Provinciale di Perugia ne furono un esempio egregio…

La crisi si aggravaCon l’ascesa al potere del Centro/destra, nel 2001, la crisi del Welfare italiano si èulteriormente aggravata, fino quasi ad intaccarne le basi. La preoccupante situazio-ne economica, finanziaria e occupazionale dell’Italia ha ingiustamente portato sulbanco degli imputati il Welfare, come sempre accusato di sottrarre risorse all’inno-vazione tecnologica e agli investimenti.Il 23 gennaio 2004, in occasione del decennale della nascita di Forza Italia, il suopartito/azienda, Silvio Berlusconi ha presentato la sua “Carta dei Valori” del suo“partito”. Il documento prima afferma (fra l’altro) di volere “far proprie le parolecon cui Paolo VI conclude la Populorum Progressio: lo sviluppo è il nuovo nomedella pace”, ma poi l’impudente candore dell’Omino di Ceralacca lo porta ad affer-mare che non la redistribuzione della ricchezza, ma la sua crescita è da sempre allabase del superamento delle soglie di povertà.Nihil novi sub sole. Abbiamo già ampliamento constatato come l’accoppiata econo-mico/politica tra liberismo e liberalismo, figlia legittima di Papà Illuminismo, abbiaemarginato la solidarietà, come impegno specifico da proporre alla responsabileassunzione da parte di ogni cittadino. Nel “progetto/uomo” degli Illuministi la soli-darietà è assente. Non per nulla etica ed economia, che fino alla fine del 700 eranostate insegnate in coppia in tutte le università, da allora sono state separate: l’eco-nomia l’insegna un tecnico, l’etica viene relegata tra le pie esortazioni. Produrre,basta che la produzione cresca. Se ciascuno ricerca liberamente la propria felicitàindividuale, egli contribuisce anche al raggiungimento della felicità generale. Per produrre poi i beni necessari alla vita dell’individuo e insieme al bene comunedella società è necessario e sufficiente affidarsi al mercato. Via i lacci e i laccioli!.Tra i lacci e i laccioli ci sono anche le “pastoie morali”. Parola di Umberto Bossi,l’antropologo di lusso che ha “riscoperto” la Padania ed è tornato a celebrare i ritiancestrali in onore del dio Po.Il bene comune è affidato solo alla libera iniziativa dei singoli cittadini. Lo dicevaJohn Stuart Mill, lo ripete Gianfranco Fini. Non si parli di esercizio dei diritti. Non ne parlava Geremia Bentham, non ne parlal’Omino di Ceralacca, Lo stato/carabiniere si fa carico, ma solo in negativo, dei diritti civili; i diritti sociali(ma è poi giusto chiamarli cosi?) vanno affidati al volontariato, l’“eroico volontariato”.

L’attacco allo stato socialeBerlusconi ha riproposto l’antica ideologia. Il Ministro Maroni, leghista, ex batteri-sta di un complessino di provincia niente male, autore ed esecutore di un indegnopiagnisteo sul Welfare che, secondo lui, era ormai giunto al capolinea, con il suofamoso Libro Bianco, ha sferrato un vero e proprio attacco allo Stato sociale.

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L’intento fondamentale dell’accolito di Bossi è quello di trasferire nelle politichesociali quella stessa esigenza di privatizzazione che ha vinto nelle politiche indu-striali. Come?Innanzitutto un forte disimpegno finanziario dello Stato dalle politiche sociali: biso-gna – dicono – che lo Stato spenda di meno nel sociale; bisogna “tagliare” le spesedei meno fortunati, bisogna scaricare i costi della spesa sociale sugli Enti locali.

Non è affatto vero che l’Italia destina al sociale una quota troppo alta del suo reddito.No, è poco, anche in relazione agli altri Paesi sviluppati. C’è da qualche parte, nonsaprei dire bene dove, non saprei dire bene come calcolato, un indice dell’impegnosociale che colloca l’Italia un po’ sotto il 5, mentre la Francia è tra il 7 e l’8, la GranBretagna al 9, gli Stati Uniti al 12.

Contestualmente, e se possibile in maniera ancora più forte, promuovendo il totaledisimpegno politico dello Stato: non deve essere il Governo, o la Regione, o laProvincia, o il Comune a programmare le politiche sociali, no: limitiamoci a indivi-duare i sevizi sociali necessari (molto pochi, presumibilmente), mettiamoli all’asta,assegniamoli a chi fa il prezzo più basso; una S.p.A., se possibile, perché di asso-ciazioni, di volontariato, di cooperative sociali non se ne può proprio più!

Una volta esisteva in Italia un Ministero delle Partecipazioni Statali, molto appetitoperché gestiva un mucchio di soldi, che curava le iniziative industriali dello Stato, con-dotte dallo Stato o in prima persona (le cosiddette “industrie statali”) o in sinergia conalcuni privati, ovviamente molto (troppo) privilegiati dalla copertura statale (le cosid-dette “industrie parastatali”). Oggi non rimane quasi niente di tutto quell’enorme appa-rato, che è stato privatizzato quasi per intero.

In terzo luogo, donando alle famiglie dei soldi risparmiati facendo chiudere asso-ciazioni e cooperative sociali: loro sì che li spenderanno bene!Infine (“ Meno tasse per tutti”!) favorendo i redditi medio/alti, perché solo l’ulterio-re arricchimento dei ricchi, garantendo la produttività del sistema, garantirà ilbenessere dei poveri. Senza esagerare, per carità! In effetti, con il Governo di Centrodestra

• la quantità delle risorse destinate al Fondo Nazionale per le PoliticheSociali, istituito con la legge 499/1999, è crollata: nel 2005, dai1.734.333.000 (2004) a 1.252.333.000;

• è cambiata anche l’allocazione delle risorse, tramite l’attribuzione al Fondostesso di un cumulo di voci di spesa molto pesanti e molto… improprie;

• la difficoltà nella quale versano gli Enti Locali, ai quali sono state attribuitemolte prerogative sociali dismesse dal Governo, rischiano di diventare insop-portabili; solo il collegato alla finanziaria 2006 l’ha frettolosamente evitata;

• ancora una volta, in una finanziaria di forte contenimento della spesa, si èpensato di sacrificare il settore delle politiche dell’assistenza; e la discus-sione sui livelli essenziali dei servizi da erogare continua a scivolare neltempo;

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• monetizzandoli selvaggiamente, è stata minata alla base l’esigibilità deidiritti sociali; un diritto è un diritto, nessuna somma di denaro può surroga-re la possibilità di esercitarlo;

• il “Reddito minimo di inserimento” viene sostituito con un indefinito“Reddito di ultima istanza”; così sfuma la definizione dei livelli essenzialidi assistenza sociale.

Ma soprattutto s’è verificato un radicale cambiamento culturale: il progressivodepotenziamento della L. 328 è stato l’indice più chiaro della tendenza a mettere indiscussione i diritti fondamentali della persona, sostituendo all’universalismo delWelfare una specie di “residualismo di carità” (carità in senso deteriore, ovviamen-te, come elemosina).I Ministri della CdL si sono rapportati agli ultimi non con lo scopo di promuoverli,rendendo così più equa la società, ma con la pia intenzione di alleviarne le soffe-renze contingenti, ben attenti a mantenere sostanzialmente inalterate le disugua-glianze. Infine alle organizzazioni di volontariato il Centrodestra non ha mai ricono-sciuto alcun ruolo politico per la tutela delle esigenze e dei diritti delle personeincapaci di autodifendersi: da Lorsignori il volontariato è considerato, nei fatti,come un aggregato di opere buone e un supporto, puramente operativo e del tuttoepisodico, alle istituzioni.

Contro il libro biancoContro il libro bianco di Maroni sono state molte le prese di posizione. Una dellepiù dure è stata quella della Consulta Ecclesiale degli organismi impegnati nei ser-vizi socio-assistenziali.La Consulta suddetta innanzitutto premette che, a livello politico e di teoria econo-mica, tra noi e loro esiste una differenza essenziale nella concezione stessa delbenessere:

• per loro il benessere della persona consiste nell’avere più beni di consumo adisposizione;

• per noi il benessere della persona ha una configurazione multidimensio-nale: è il risultato di una serie di fattori economici, culturali o relazionali.

Ebbene, il Libro bianco opta per lo sviluppo economico, vuole che ci siano più reddito epiù ricchezza a disposizione, cosicché molte più persone e famiglie possano raggiungerealti livelli di consumo: secondo Maroni maggior consumo equivale a maggior benessere.Appena un’occhiata alle famiglie “meno fortunate”, quelle che ad esempio hanno alproprio interno una persona non autosufficiente: esse vanno in qualche modo aiutate,ma solo per alleviare l’onere: non sembra che sia per loro possibile un orizzonte di uma-nità e di dignità. Parole durissime, che non vengono da Rifondazione Comunista, madall’organismo collegiale degli enti assistenziali cattolici. Per questo, quando le risorse diminuiscono, quando si leva il fatidico grido delMinistro delle Finanze di turno, che appare in TV con un barattolo vuoto in mano,

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lo rovescia sottosopra e grida al Popolo Sovrano: “Non ci sono più soldi”,Centrosinistra e Centrodestra (se sono veramente di sinistra, se sono veramente didestra) reagiscono in maniera totalmente diversa. Se prevalesse un minimo di logica umana, la prima reazione dovrebbe essere diquesto tipo: mancano risorse? Bene (cioè male!), cominciamo a togliere, educata-mente, secondo legge e buon senso, un po’ di soldi a chi ce ne ha tanti!Perché il sotto senso della giustizia, ancorché flebile ed estemporaneo, ci dice chequel poco che siamo riusciti a destinare alle fasce deboli non si tocca.Già, e quando mai dirà qualcosa del genere chi è convinto che il benessere dipoveri è l’automatica ricaduta del benessere dei ricchi? Ecco perché, di fronte allariduzione delle risorse,

• il Centrosinistra, privilegiando la prevenzione sulla cura, propone di difen-dere, sostenere e compattare la rete pubblica dei servizi, inserendovi orga-nicamente e creativamente, ma non certo estemporaneamente, il PrivatoSociale;

• il Centrodestra, nella sua strutturale tendenza a restringere il più possibileil ruolo del pubblico e a cancellare quei principi/base di politica socialesolidale che sono stati una delle basi principali dello sviluppo non solosociale ma anche economico del nostro Paese, vuole incrementare il merca-to dei servizi, liberalizzandolo completamente. Vendere servizi come sivendono le scatolette di tonno.

Quale Welfare, oggi

In passato, solo con l’avvento del Socialismo, alle misure sociali di puro conteni-mento subentrarono politiche sociali propositive. Sia nella sua forma “pre/scientifi-ca” (Fourier, Saint Simon, Blanc, Blanqui), sia nella forma che Marx ed Engels pre-sunsero di definire “scientifica”, lucida e appassionata fu la pars destruens, l’attac-co ai fattori disumanizzanti del liberismo/liberalismo:

• l’amoralismo (nella soluzione dei problemi sociali la morale non c’entranulla),

• l’individualismo (il motore della storia è l’appetito del singolo contrappostoagli altri),

• la concorrenza selvaggia (solo mettendo gli uomini l’uno contro l’altro ilpotere politico assicura il progresso),

• l’assenteismo dello Stato: nelle dispute sociali.

Se la parte propositiva del Socialismo reale ha rivelato tutte le sue carenze con ilcrollo del muro di Berlino, questa pars destruens mantiene intatta la sua validità. Inpositivo, urge una innovata e moderna rete di protezione sociale, poggiata su unforte progetto di sviluppo. Il Patto per l’Innovazione e lo Sviluppo può rappresenta-re il punto di riferimento.

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Il Welfare state, oggi che Città e Welfare per certi versi diventano un binomioinscindibile,

• come tutti i progetti seri ha bisogno di una puntuale conoscenza dellasituazione;

• ha bisogno di un forte recupero di socialità;• ha bisogno di favorire l’avvento di nuovi soggetti sociali.

Prima urgenza: una puntuale conoscenza della situazioneIl contesto odierno vede abbinarsi alla povertà di sempre anche povertà di tiponuovo.

LA POVERTÀ DI SEMPREFino a qualche anno si fa si parlava molto e soltanto di nuove povertà, dando perscontato che le vecchie povertà fossero scomparse. No, le antiche forme di povertà non sono scomparse.Alla fine del 2003, la Commissione Parlamentare di Indagine sull’EsclusioneSociale ci ha fatto sapere che

• sono circa sette milioni i cittadini che si trovano nella condizione dipovertà relativa;

• sono circa tre milioni le persone che vivono in condizioni di povertà assoluta. “Povertà relativa”: non si riesce a disporre di quanto la coscienza comune ritienenecessario per una vita mediamente dignitosa.“Povertà assoluta”: si fa fatica a metter insieme l’indispensabile per sopravvivere.

E questo anche nelle zone più sviluppate del paese (il 5% delle famiglie, circa, è incondizioni di questo tipo). Le zone più esposte sono quelle del sud, le famiglie piùesposte sono quelle monoreddito e quelle con anziani a carico.

Quanto all’Umbria, il quadro sociale è decisamente peggiorato rispetto aquello degli anni ’90: 27.000 famiglie, pari all’8,6% del totale, si trovano instato di povertà. Un dato inferiore a quello delle regioni del Sud, ma si trat-ta pur sempre di una fascia consistente.

Di passi avanti ne sono stati compiuti molti, la sensibilità della gente è cresciuta,ma la fascia di cittadini in stato di povertà continua ad ampliarsi. Sostanzialmenteimpreparati sia la società civile che le istituzioni: la povertà degli stranieri, adesempio, sfugge alle statistiche ufficiali, anche quando hanno avuto il permesso disoggiorno. Il Governo Berlusconi ha cancellato, arbitrariamente, sostituendolo con la promes-sa fumosa di un futuro Reddito di Ultima Istanza, un qualcosa che non è stato ulte-riormente definito, il Reddito Minimo di Inserimento, che prevedeva:

• sostegno materiale immediato a famiglie in povertà assoluta;• programmi di inserimento sociale (pre/lavorativo e lavorativo) per le perso-

ne bisognose;

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• superamento dell’assistenzialismo tramite l’assunzione strutturale del RMItra le politiche sociali riconosciute.

La questione è stata chiusa delegandone in fretta la definizione ai quattro soldidelle Regioni. E così l’Italia nell’Europa sviluppata è l’unico Paese che non ha unalegge che contrasti alla povertà. Come la Grecia. Ma, per la verità, anche ilCentrosinistra. Aveva snobbato il RMI. E la Caritas nazionale ancora una voltaaveva avvisato il Governo, tentato di cercare delle scuse: alla concezione fatalisticadella povertà… si sostituisce oggi una concezione più realistica, che coinvolge nel-l’attribuzione di responsabilità società civile e istituzioni...

LE NUOVE POVERTÁMa indubbiamente esistono e pesano moltissimo le nuove forme di povertà. Nuoveforme che potremmo catalogare in due gruppi:

• le povertà sconosciute al passato, • le povertà di contesto: sono sempre esistite, ma il contesto attuale le rende

intollerabili.

Povertà sconosciute al passato • La fine delle antiche agenzie formative: una volta il giovane poteva far

conto, per la sua crescita armonica, non solo sulla famiglia, ma anche sullascuola, sul quartiere, sulla parrocchia; oggi non più: il quartiere è diventatospesso un dormitorio, la scuola si è drasticamente declassata (nei contenutie nei metodi) proprio quando approdava ad essa la gran massa della popo-lazione; la parrocchia (gli oratori) non di rado è stata occupata dai talebanidello spirito, che non si interessano dei “lontani” se non in chiave di con-versione: e non tutti se la sentono di convertirsi.

• L’insicurezza dell’istituto familiare: è soprattutto la Chiesa che denunciaquesta mina vagante che minaccia l’intera società, cioè l’indebolimento diquella che, anche secondo la nostra Costituzione, doveva essere la sua“cellula fondamentale”, la famiglia.

• Le linee di tendenza delle le nuove aggregazioni giovanili: droga, alcool,microcriminalità, indifferenza.

• Il problema delle aree industriali dismesse e mai riqualificate.• L’invecchiamento della popolazione: i pensionati, con il loro carico di insi-

curezze e bisogni irrisolti, stanno diventando assoluta maggioranza neiquartieri (17 anziani ogni 10 giovani) e soprattutto con le malattie tipichedell’età avanzata (Parkinson, Alzheimer) stanno inserendosi tra le avan-guardie della povertà.

• I giovani che percepiscono se stessi come gente senza prospettive (e il piùdelle volte lo sono), come monadi abbandonate a se stesse: 20% alCentro/Nord, 50% al Sud, con punte del 52%.

• Gli immigrati, sia quelli integrati nelle fasce basse del mercato di lavoro,

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sia quelli non integrati e che si nascondono nei tuguri delle aree dimesse.• I disperati “senza fissa dimora”. • I monoreddito delle zone dove la vita costa di più.• I portatori di handicap fisico e (soprattutto) psichico. • I clochards diventati tali per scelta.

Le povertà di contestoMa il concetto di povertà non deve far riferimento solamente a dei parametri ogget-tivi; sullo sfondo della coscienza di oggi, è povertà quello che non lo era ieri:

• in un contesto socio/culturale che esige per tutti gli stessi diritti fondamen-tali, cresce il numero degli emarginati totali e il disagio sociale non accen-na ad arrestarsi;

• in un contesto socio/culturale che ha acquisito la coscienza del diritto allavoro come un diritto fondamentale, il lavoro si fa sempre più precario;crescono i lavoratori residui dell’industria, i lavoratori in nero o sottopagati,quelli del commercio in via di espulsione, quelli delle aziende pubblicheinsidiati dalle privatizzazioni, gli autonomi, i lavoratori atipici e a tempodeterminato;

• la frustrazione dei diritti dichiarati e non esigibili;• la casa, che troppo spesso è un onere spesso pesante;• la sanità, che è sempre meno gratuita.

Seconda urgenza: il recupero della socialitàNella sua sostanza, l’antidoto di oggi non può essere altro che l’antidoto di ieri. Non necessariamente nella forma dello Stato socialista, ma in forme anche assortitedi Stato sociale.Per approfondire ulteriormente le nostre critiche, ripartiamo dai capisaldi dellapolitica sociale:

• Non esiste Stato che non sia sociale. Lo Stato nasce per tutelare i debo-li,visto che i forti si tutelano da soli. Per questo le politiche sociali sonoparte assolutamente fondamentale di ogni progetto politico degno di questonome. L’importanza vitale di questa istanza è stata recepita dal nostro Stato,quando l’assistenza sociale (con l’art. 38 della Costituzione della repubblicaItaliana) è diventata un diritto costituzionale.

• La minore disponibilità di risorse deve sempre tenere ben presente ilprincipio suddetto. Se e quando è davvero necessario “tagliare”, lo si fac-cia a partire dal superfluo, o quanto meno dal non strettamente necessario,e dai più forti, non dai più deboli…

• Come tutti i veri diritti, anche il diritto all’assistenza non solo deve esse-re certo, ma anche esigibile: senza questa esigibilità concreta i discorsisociali sono una turlupinatura: si ritorna fatalmente all’assistenza caritate-vole e discrezionale.

• Il soggetto fondamentale della garanzia, dell’erogazione e del controllo di

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gestione dei servizi va individuato nella rete istituzionale strutturalmen-te collegata con il Privato sociale.

• I ruoli e le finalità dell’assistenza sociale vanno tenuti distinti dai ruoli edalle finalità della sanità in senso stretto, come prevenzione e cura di pato-logie specifiche: in questo la sanità deve garantire a tutti i cittadini il dirittoalla salute, a prescindere dalla loro condizione economica; l’assistenzasociale, invece va erogata a quelle fasce di cittadini che non sono in gradodi procurarsi da soli un decoroso benessere, anche a causa di patologieinvalidanti stabilizzate: in tal caso, oltre che gli erogatori specifici dell’assi-stenza sociale, va chiamata in causa anche la sanità, se vogliamo rimanerefedeli alla definizione che al termine “salute” ha dato l’OrganizzazioneMondiale della Sanità: la salute è il Benessere fisico, psichico, sociale e rela-zionale di una persona.

• Occorre superare la prestazione disarticolata per passare al progetto, al per-corso attentamente pensato, accuratamente gestito e oculatamente control-lato, ma senza modificare nella sostanza, disgregare o restringere la rete diprotezione sociale faticosamente costruita con lotte e sacrifici nel 1900,assolutizzando le pur legittime esigenze della competitività economica, delmercato o del bilancio. I bisogni riconosciuti vanno collocati dentro un pro-getto di inserimento che tenga presenti soprattutto l’identità e l’autonomiadel destinatario.

• L’erogazione monetaria, che il più delle volte fronteggia appena la sola con-dizione economica, va attivata solo quando il potenziamento e l’interventodiretto dei servizi non fanno alla bisogna.

• All’assistenza va preferita la prevenzione ogni volta che è possibile, soprat-tutto per individuare a tempo le fasce delle nuove marginalità e dei nuovibisogni.

• Alla centralità del servizio e del professionista che lo eroga va decisamentesostituita la centralità del cittadino/utente con il suo concreto bagaglio diesigenze, bisogni, attese.

Oggi occorre gente come l’attuale Sindaco di Firenze, Domenici, che, all’annunciodel taglio dei trasferimenti dall’Amministrazione centrale ai Comuni, come primacosa ha detto: “La spesa sociale non si tocca”.Ci vuole gente che, come ha fatto il Ministro Damiano a Ballarò del 30 gennaio2007, seccamente, ha privilegiato la destinazione sociale per le maggiori entratefiscali che (pare) sono in arrivo nelle casse esangui del nostro Stato.

Terza urgenza: l’attivazione di nuovi protagonismi socialiMa oggi occorre anche riconoscere cordialmente e potenziare come merita l’azionedi nuovi soggetti promotori di giustizia: il volontariato, la cooperazione sociale, ilprivato sociale. Sono gli attori le cui caratteristiche abbiamo illustrato nella sezioneintitolata “La nostra cultura” e che lo Stato italiano (come abbiamo visto) ha giusta-

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mente sentito il bisogno di inquadrare nel nostro sistema sociale; con una legisla-zione che prende le mosse dalla 266/1991 alla Legge 381/2002.

A questo punto occorre premettere che lo Stato non può abdicare al suo ruolo. AlloStato compete

• la guida della programmazione d’insieme dell’impegno sociale: la messa afuoco dei criteri, l’articolazione degli interventi, la decisione dopo ladiscussione;

• la metodologia e l’operatività del controllo dei processi avviati a realizzazio-ne; di capitale importanza, nel settore della disabilità, la recente istituzionedell’Unità Multidisciplinare Valutativa (UMV); che però non funzionerannose non riusciranno a coinvolgere a tutti i livelli di teste pensanti del privatosociale;

• la determinazione dei parametri sulla base dei quali distinguere il “privatosociale” dal privato speculativo;

• il monitoraggio continuo dei suoi comportamenti, la possibilità di chieder-gli conto ad ogni passo.

Il volontariato, la cooperazione sociale e il privato sociale, quando sono autentici,non solo possono, ma debbono riconoscere allo Stato questo diritto/dovere, e solle-citarlo, e esigere che venga messo in atto. Premesso questo, occorre precisare chesi parla di attori nuovi. Nuovi e necessari perché

• è cresciuta in anni recenti la richiesta di personalizzazione dell’interventosociale: le fasce deboli si sono fatte sempre più esigenti, e domani (ce loauguriamo con tutto il cuore, per il bene di tutti) nessun disabile si accon-tenterà più di sopravvivere, ma vorrà com’è giusto accedere anche a queibeni immateriali che “fanno” la qualità della vita; ebbene, lo Stato non hagli strumenti, ideali e operativi, per far fronte a bisogni

- che esigono un alto spessore d’umanità, - che presuppongono una decisa volontà di instaurare con chi fa fati-

ca un rapporto da persona a persona, - che presentano pieghe dentro le quali l’elefante/Stato non può

penetrare. • è cresciuta in anni recenti nella società civile la richiesta di protagonismo

nell’impegno sociale; gli operatori che si sentono portatori di una particolarevision della vita e del rapporto preferenziale con gli ultimi pensano giusta-mente di aver diritto ad una propria mission in proposito; e chiedono che loStato, passando dal regime di convenzione al regime di accreditamento,inglobi il loro impegno nella propria compagine di Stato moderno.

Da qui nasce la necessità, o per lo meno l’estrema opportunità, che, senza abdi-care alla funzione che gli è propria, lo Stato in alcuni settori faccia un passoindietro.

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Necessità che si pone,• in negativo, come rinuncia dello Stato al delirio di onnipotenza nell’azione

sociale;• in positivo, come tensione all’allargamento della base dello Stato stesso.

Oggi lo Stato ha preso atto che certi problemi sociali non possono essere affrontaticon i provvedimenti di routine, né con logiche che magari altrove hanno la loropiena giustificazione.

“Faccio tutto io”, diceva la Regione Umbria nei primi anni ’70. E nel settore della disa-bilità tentava di realizzare con mezzi propri (cioè con la logica della pura e sempliceassunzione lavorativa) addirittura dei gruppi/famiglia. Poi fu il sindaco Zangheri che perprimo, alla metà degli anni ’70, dal governo del Comune di Bologna, lanciò lo slogan:“Programmare e controllare di più, gestire di meno”. Sulla tendenza dello Stato arestringere nel sociale l’area del suo intervento diretto l’inopinato recupero del principiodi sussidiarietà, condiviso da tutte le forze politiche, è arrivato… come l’olio sul lume.

Oggi lo stato deve associare al proprio impegno sociale le realtà del Privato Socialealle quali riconosce un “alto valore aggiunto”.

Nel contesto della necessità dell’allargamento della base dello Stato già alla fine deglianni ’80, per bocca del presidente prof. Cotturri, ci veniva prospettata, a noi delleComunità di Capodarco che frequentavamo a Roma, in Via della Vite, il Centro per laRiforma dello Stato (fondato da Pietro Ingrao), l’opportunità di chiamarci non più priva-to sociale, ma pubblico senza Stato: talmente forte era la valenza politica che, nel campodella disabilità e del disagio sociale, veniva riconosciuta alle Comunità di accoglienza.

Un’operazione importante e delicata, perché essa, per venire portata avanti nelmodo giusto, abbisogna di un RICONOSCIMENTO DEL PESO POLITICO DELLEMOTIVAZIONI PERSONALI. Il nostro non è uno “Stato etico”, che presuma di atteggiarsi a fonte di valori. Diconseguenza allo Stato non interessano, in sé e per sé, le motivazioni per le qualiun certo operatore fa certe scelte, altamente positive per questa o quella categoriadi emarginati. Allo Stato interessa solamente (o… dovrebbe interessare) il risultatodi quelle motivazioni, la qualità della prestazione che esse producono, l’impattoche esse hanno sul sociale. Se la cura dei ritardati mentali porta qualcuno a condi-videre la propria vita con loro, lo Stato, che da parte sua non potrà mai chiedere adun suo dipendente di fare una scelta del genere, ma dovrà limitarsi ad esigere daisuoi dipendenti, ai quali demanda la cura dei meno fortunati, professionalità,buona educazione, delicatezza, non può non coglierne il peso politico di quellascelta. Lo Stato non solo ignora, ma deve ignorare parole come “atteggiamentooblativo” o “disponibilità a 360°”; sarebbe delittuoso ignorare l’impatto reale che,quando esprimono valori autenticamente vissuti, quelle parole hanno sulla qualitàdella prestazione che lo Stato finanzia.

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IL Welfare State nel settore della disponibilità

In data 3 gennaio 2007 il Presidente della Comunità di Capodarcodell’Umbria ha inviato alla Presidente della Giunta Regionale dell’UmbriaMaria Rita Lorenzetti, all’Assessore alla Sanità Maurizio Rosi e agli Apicalidi quello stesso Assessorato, Romagnoli e Perelli, il contributo che nelnovembre del 2006 gli è stato richiesto dall’apposito Gruppo di Lavoro, inca-ricato di redigere il testo da sottoporre alla Giunta Regionale al fine di aboli-re i Presidi socio/riabilitativi noti oggi con il nome di Ex art. 26 e di sosti-tuirli con altri presidi, più idonei alla bisogna.

La premessa necessaria

Anche se la proposta dell’abolizione degli “Ex art. 26” avviene nel contestodella recente scelta della Regione Umbria, che (dopo che l’aveva fatto ilGoverno centrale con la riforma del Titolo V della Costituzione e con la Legge328/2002, sul Sistema integrato dei servizi) ha inserito nello suo Statuto ilPrincipio di sussidiarietà, la legislazione che le varie Regioni sembrano volervarare non darebbe nessuna chance alla nascita di una realtà come la nostra,quella della Comunità di Capodarco dell’Umbria.

Il recupero del buonsenso

Le nostre osservazioni più pertinenti e maggiormente legate all’esperienzapiù che trentennale che abbiamo maturato vogliono collocarsi su questa fal-sariga.

Senza dimenticare alcune altre nostre osservazioni, annose, che avrebberodovuto essere prese in considerazione da tempo:

• che l’organo della Regione o dell’ASL che stabilisce l’ammontaredella retta sia lo quello stesso che fissa l’organigramma al quale ètenuto l’ente che percepisce quella retta;

• che ci venga finalmente concessa l’autorizzazione che chiediamodalla notte dei tempi: l’autorizzazione a fatturare l’80% della retta neigiorni nei quali i nostri “ricoverati” si assentano per particolariincombenze o ricorrenze; la Regione Umbria ha sempre fatto orecchieda mercante; e i nostri Amministratori vivono il mese di dicembrecome gli eroi di Fort Apache, perché, tra tredicesime e i “buchi”dovuti al fatto che giustamente molti dei nostri “ricoverati” desidera-no passare le feste in famiglia, la dèbacle sembra ogni anno imminen-te...

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Capitolo Sesto

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Le mine vaganti delle politiche per l’handicap

Le politiche per l’handicap debbono oggi fare i conti con delle vere e propriemine vanganti, che sono tutte di taglio culturale. C’è una cultura dei soggettiforti che, nei confronti dei soggetti deboli e dei disabili in particolare, anchequando non lo dice, giustifica le maggiori aberrazioni:

• il custodialismo, la convinzione cioè, espressa o sottintesa, che men-tre tutti hanno diritto a vivere, il disabile se sopravvive è grassa checola;

• la monetizzazione dell’handicap: quando ad un disabile ventenne glihai assicurato un reddito, hai fatto tutto quello che c’era da fare;

• la medicalizzazione dell’handicap: nella valutazione e nella cura del-l’handicap, le necessità mediche hanno la precedenza assoluta sututte le altre e spesso monopolizzano l’intero intervento;

• l’aziendalizzazione delle USL; le USL (Unità Sanitaria Locale) sonodiventate ASL (Azienda Sanitaria Locale); era un passo necessario enon rimandabile. Ma l’ASl è anche un’azienda, non solo, né soprattut-to. Se nel suo rapporto con le fasce deboli l’ASL si comporta come sefosse solo un’azienda, li stritola. Come a volte accade.

Le traduzioni concrete del primato della persona

Oggi tutti sono d’accordo che, nella cura dell’handicap, come d’altra partenella cura di tutti i malanni molteplici che affliggono i soggetti deboli, il rife-rimento essenziale è il primato della persona. Rischia di diventare unamoda: “Scusi, lei è per il primato della persona?!”: ti guarda come un alieno:perché esiste qualcuno al mondo che teoricamente non è per il primato dellapersona?

Bene. Ma il principio del primato della persona non è materiale da sottoporrealle elucubrazioni degli studenti della facoltà di Filosofia, bensì un’istanza difondo che deve avere delle traduzioni concrete, in comportamenti concreti.Quali?

Le preferenze da accordareAbbiamo detto che lo Stato aggrega al proprio impegno a beneficio dei piùdeboli le realtà del Privato sociale che presentano un maggiore “valoreaggiunto”. E le realtà del Privato che presentano un maggiore “valoreaggiunto” sono quelle che mettono in primo piano la persona, quelle per lequali, nella concretezza del loro impegno, un disabile è prima di tutto unapersona, poi un cittadino a tutti gli effetti, poi un lavoratore (potenziale, pur-troppo, il più delle volte), poi un elettore, poi ANCHE un disabile. Le orga-

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nizzazioni che, nella concretezza del loro impegno, ispirano a questa gerar-chia il loro “farsi prossimo” al disabile vanno tenute in palmo di mano.

Abbattere l’assurda barriera che separa il sanitario dal socialeAlla luce del primato della persona e dei servizi ad essa destinati la barrierache separa il sanitario dal sociale appare assurda. Non si capisce perchéun’appendice infiammata meriti tutto l’impiego di tutte le risorse che occor-rono per operarla, mentre si tenta di economizzare sul superamento di unapovertà di vita totalmente sconquassata sul piano relazionale.

Rivisitare la vera valenza della riabilitazioneSembrerebbe che la “vera riabilitazione” sia solo quella intensiva. E invece,se vogliamo ragionare del benessere della persona e del contributo che essapuò dare alla vita sociale, la riabilitazione estensiva potrebbe essere moltopiù importante di quella intensiva. L’Italia è piena di gente che si è riabilita-ta fisicamente e adesso vegeta aspettando la morte. Anche le terapie di man-tenimento possono essere sottostimate solo da chi non si mette nella prospet-tiva della persona disabile, ma ne parla come si parlerebbe di un motore inpanne. La riabilitazione dell’arto leso è solo l’inizio.

Ricoverato e operatoreLo stacco che esiste (o forse bisogna parlare di contrapposizione diametra-le?) fra operatore e ricoverato a volte andrebbe ridimensionato, se non addi-rittura annullato. Quando, ad esempio, la struttura di accoglienza ospita sog-getti ad alto tasso di disabilità fisica, che acquisiscono professionalità accla-rate in questo o quel campo dello scibile umano, e si laureano con 110 elode e bacio accademico e diritto di pubblicazione, in Economia (ad esem-pio), ma più spesso in psicologia o materie affini, e magari condividono lavita di soggetti psichicamente problematici, perché non potrebbero lavoraredentro la comunità che li ospita? Come operatori sociali, educatori, consu-lenti, ecc. Quanti altri posti di lavoro concretamente potrebbero aprirsi loro,se sul piano dell’agibilità del proprio corpo hanno bisogno di assistenza con-tinua? E la struttura che li ospita dovrebbe continuare a percepire una rettaper garantire l’assistenza in ordine a questa agibilità.

L’inserimento lavorativo La sproporzione fra le risorse impiegate per l’inserimento lavorativo dei disa-bili seri e la modestia dei risultati conseguiti è nota a tutti A suo tempo lavecchia USL Alto Chiascio diffuse in proposito balle grandiose.L’inserimento lavorativo va personalizzato. Il mio amico Filippo, che, grazieanche al fatto di essere congiunto di un Magistrato, ha lavorato 20 anni in unMinistero romano, ne parla come di “Venti anni d’inferno”.La soluzione che il nostro sistema comunità/cooperative, in 30 anni di prove

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e controprove, ha messo a punto merita un’attenzione diversa da quella chefinora le è stata riservata.

La vera novità del principio di sussidiarietà

Ma la novità dell’assunzione del principio di sussidiarietà per noi ha vera-mente del grandioso, perché con esso noi del Privato Sociale in qualchemodo entriamo a far parte dello Stato.

E questo da parte dei competenti organi dello Stato comporta un atteggia-mento nuovo nei nostri confronti. “Comporta”? Meglio: dovrebbe comportare.Perché l’handicap con estrema facilità tracima in emarginazione socio/cultu-rale; e l’emarginazione sociale non è la patologia di una singola parte dellasocietà, ma uno dei sintomi più eclatanti di un’intera società malata.

La valenza concreta delle istanze idealiEsistono delle realtà di accoglienza del disabile che portano avanti nella vitadi ogni giorno istanze ideali di prima grandezza. Nel nostro caso questeistanze hanno un duplice nome: autogestione e condivisione della vita. Lapresenza di queste istanze, che funzionano secondo la logica dell’utopia ehanno quindi dei percorsi particolari, ma fecondissimi, merita di essereattentamente valutata da parte dello Stato, sul piano del benessere della per-sona che esse possono produrre.

Rapporti collaborativi, non puramente ispettivi Le ASL non possono più limitarsi ad “ispezionarci”, prescrivendo e impo-nendo, ma, pur conservando con tutta la necessaria autorevolezza il compitodi programmare con oculatezza e di verificare con puntualità, devono anchefarsi carico delle nostre realtà.

Un ruolo attivo nell’UMV (Unità Multidisciplinare Valutativa)Ridurci ad uditori quando si tratta di valutare lo stato del disabile che cichiede accoglienza, o lo stato del disabile del quale ci facciamo carico maga-ri anche da molto tempo, è inaccettabile. Noi disponiamo di competenze professionali pari e a volte superiori a quelledelle quali dispongono gli operatori o i funzionari dell’ASL, mentre sul pianodei rapporti umani interpersonali abbiamo evidentemente da dire cose chesolo il diuturno rapporto con gli accolti permette di dire.

Nell’UMV la realtà da valutare deve poter disporre di una nostra presenza,corposa e decisionale, anche se minoritaria, ma con possibilità di appelloall’istanza di livello superiore. Escluderci dalla strutturazione di questo

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momento decisivo del cammino di riabilitazione della persona svantaggiatanon solo è offensivo nei confronti della nostra lunga e ponderata esperienza,ma è in flagrante contraddizione con il conclamato Principio di Sussidiarietà.

La certificazione della qualitàLa certificazione della qualità dei servizi erogati va fatta con serietà e conti-nuità, non però con metodi “estrinseci” (come quando entrano in gioco solol’agibilità dei locali e l’organigramma), ma adottando, debitamente corretti, imetodi seri in uso per le aziende serie, però con tutta quella serie di accorgi-menti che il CNCA (Coordinamento Nazionale delle Comunità diAccoglienza) ha messo a punto e ha pubblicato per i tipi dell’EGA nell’aureolibretto intitolato La qualità prende servizio.

La Prudenza nell’applicazione dei principi

Dal tempo di Aristotele la prudenza fa parte del corredo elementare dellamoralità umana, come una delle 4 virtù/cardine; la prudenza è l’attitudine aproporzionare al fine che si intende perseguire i mezzi che vengono adottatiper conseguirlo. La nuova mappa delle tipologie di sostegno ai disabili pre-vede spesso la compartecipazione alla spesa sia da parte dei Comuni che daparte della famiglia. Teoricamente impeccabile, o quasi. Ma anche da pensa-re con molta attenzione. Perché

• la quota spettante al Comune va richiesta - solo dopo che ai Comuni saranno state assicurate le relative

risorse; - solo dopo che i Comuni saranno stati obbligati a spendere

quelle risorse in quella direzione;

• la quota richiesta alle famiglie dei soggetti accolti va attentamentepensata:

- se hanno l’assegno d’accompagnamento, e se non l’usano peraccompagnare il loro congiunto al lavoro o allo studio (questoera inizialmente l’intento del legislatore), quella dovrà esserela giusta quota a carico delle famiglie;

- se non hanno l’assegno d’accompagnamento, ogni benchéminima richiesta di denaro alla famiglia potrebbe equivalerealla cancellazione di quanto le realtà come la nostra hannofaticosamente costruito con loro in anni di “prossimità”; i lorogenitori accumulano “per il loro futuro”, ma per il loro ogginon scuciono un euro.

E qui si apre un capitolo potenzialmente molto doloroso.

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Quando un disabile ricoverato “esce dalla retta” i responsabili dell’ASL sifregano le mani. E questo sarebbe più che giusto, se l’uscita dalla retta equi-valesse alla giusta conclusione di un percorso portato a termine.Ma a volte può capitare qualcosa di diverso, come nel caso di D.C., il cuipapà, un pensionato semplice e cordialissimo, veniva quasi settimanalmentein comunità e gioiva dei grandi progressi che D. stava realizzando; ma allasua morte la cognata, che nel frattempo aveva perso il suo lavoro extra moe-nia, ha pensato bene di trovarsi un lavoretto a domicilio e contestualmente di“dedicarsi a D.”. Oggi D. è chiusa in casa, da anni, come Tutankhamon nellasua tomba.

Sarà stato davvero, quello, il suo bene?

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Parte Quarta

a nostraSpiritualità

L

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Il Refettorio delle Monache.L’armonia assoluta.

Il ritmo dei volumi. I punti fermi dei capitelli.La tenera dolcezza delle curve aeree.

Lo stavano costruendo quando Cristoforo Colomboveleggiava verso le Indie.

Gli scranni sono della scuola dei Fratelli Maffei.

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Spiritualità (don Nazareno Marconi)

Secondo un saggio pubblicato alla fine degli anni ’90 dalla CaritasNazionale, bisogna partire dalla certezza che Dio, dopo aver inviato suo figlionel mondo, continua, con il suo spirito, a comunicarsi ai credenti per vivere ilsuo mistero lungo il corso di tutte le generazioni umane.”Secondo il Concilio Vaticano II,

• il soggetto della spiritualità è tutto il popolo di Dio, tutta laChiesa, in ogni suo membro; e questo assicura alla spiritualità unadimensione fortemente dinamica: il popolo di Dio cresce perché edu-cato dallo Spirito Santo di Dio nell’evolversi della storia; ogni mem-bro della Chiesa è dunque impegnato a chiedersi cosa lo spirito chie-de alla chiesa oggi, nella situazione attuale, perché ognuno possarispondere a quella voce, nella propria responsabilità, con i propridoni e carismi;

• la spiritualità cristiana è eminentemente una spiritualità incar-nata; nella storia della salvezza l’azione dello Spirito è stata l’incar-nazione del verbo: questa stessa spinta all’incarnazione lo Spirito laesercita anche nei confronti della chiesa, popolo di Dio, chiamataanche corpo mistico di Cristo.

Mons. Nazzareno Marconi, Rettore del Seminario Regionale Umbro e docen-te alla LUMSA/ Capodarco/Gubbio ci mette in guardia dal rischio, semprelatente, di costruire una spiritualità avulsa dalla storia, incapace di permearela situazione concreta e storica, una spiritualità degenerata in spiritualismo;quel tipo di falsa spiritualità che condusse in passato ad atteggiamenti con-solatori e sublimizzanti, di fronte a situazioni di povertà e di oppressione.

La spiritualità vera è quella che sa trovare la forza che la inserisca nel desti-no dell’uomo contemporaneo. Il teologo e cardinale Von Balthasar usa in proposito un’espressione moltoforte: Nessuno è cristiano a priori; tali si diventa soltanto dimostrandosi cri-stiani nell’ambito del mondo, nei confronti del prossimo. Io sono cristiano sol-tanto quando tramite me il cristianesimo si presenta credibile al mondo.

Le varie forme di spiritualità che sono nate nell’alveo cristiano potrebberoanche essere definite come particolari curvature di uno stesso ideale, comesottolineature di una particolare parola, che non annullano le altre parole (acominciare da quella fondamentale: Gesù Cristo), ma di quella particolareparola fanno il proprio emblema.Quante parole emblematiche! Per i Francescani la povertà. Per i Domenicanila sapienza. Per i Gesuiti la militanza. Per Comunione e Liberazione la pre-

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Premessa

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senza. Per l’Azione Cattolica Italiana la mediazione. Per le Comunità di acco-glienza la liberazione dei poveri.

Per Capodarco la liberazione attraverso l’autogestione dei processi di libera-zione e la condivisione della vita.

In un incontro del Gruppo Chiesa del CNCA, un religioso contemplativo, P.Mosconi, ci disse che la spiritualità è sempre la linfa che assicura alla vitacristiana personale e comunitaria il carisma dell’autenticità e le prospettivedella continuità; per questo, nelle comunità di accoglienza e di condivisonedi vita con gli ultimi, la spiritualità deve incarnarsi nella loro storia e trasfor-mare chi le vive da generici credenti a veri, autentici servitori dell’uomo, acominciare dal più debole.

In altri termini, esiste una spiritualità tradizionale che ha come asse attornoa cui tutto si organizza il desiderio umano di Dio, e una spiritualità conciliareche si sviluppa attorno all’amore di Dio per l’uomo; noi siamo decisamenteper questa seconda ipotesi: la spiritualità è essenzialmente obbedienza allospirito, disponibilità ad inserirsi nel progetto di amore di Dio, ma Dio parlanon solo attraverso la Bibbia; parla anche attraverso la vita, la storia, lacomunità degli uomini.

Questa convinzione era presente già nei Padri della Chiesa, che pure attri-buivano il primato assoluto alla Parola di Dio. S. Gregorio Magno ha un’af-fermazione significativa in proposito: Molte cose che nella sacra scrittura, dasolo, non ero riuscito a comprendere spesso le ho capite quando mi sono trovatoin mezzo ai miei fratelli1.

Assolutamente centrale, per calibrare adeguatamente la nostra spiritualità,questo fare perno sull’amore di Dio per l’uomo.

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1 MIGNÉ, Seconda omelia a commento del libro di Ezechiele, PL 76, n. 1.

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Una comunità “d’ispirazione cristiana”

In questa sua tensione ad accentrare la propria spiritualità intorno all’amoredi Dio per gli uomini, la Comunità di Capodarco si proclama non comunitàcristiana, tout court, ma comunità d’ispirazione cristiana, che però in quantotale (art. 3 dello Statuto, comma L) cura al proprio interno che la propostacristiana venga fatta a tutti i soci.E questo perché abbiamo riconosciuto che quella cultura del gratuito checaratterizza la nostra collocazione culturale ha la sua radice nella visionecristiana della vita, quella Weltanschauung che, come dicevamo nel capitoloapposito, assegna alla solidarietà un posto di assoluto rilievo. Poiché è stato il Vangelo che ha inoculato nel nostro DNA la convinzione chenoi uomini siamo un solidum, un tutt’uno.

Prendendo in mano la BibbiaPerché dovremmo essere solidali gli uni con gli altri? Perché è bello che siacosì? Perché così tutti vivremo meglio? Perché l’uomo è un essere intrinseca-mente sociale? La Bibbia ignora tutti questi possibili motivi. La Bibbia afferma soltanto:dovete essere solidali fra di voi perché prima ancora Dio è stato ed è soli-dale con tutti voi.

Il libro della Genesi, con le sue favole teologiche”, articola questa risposta,basandola sul fatto che tre sono le dimensioni costitutive dell’essere umano:

• la relazione con JHWH, cui Adamo deve amore ed obbedienza,• la relazione col mondo che egli deve custodire e far crescere, • la relazione con l’altro, necessaria sia per rapportarsi correttamente

con JHWH, sia per prendersi cura del mondo.

Dalla Trinità alla storia In principio c’è Dio uno e trino. In principio c’è la relazione. I Cristiani nonpossono limitarsi ad una fede rigorosamente monoteista. Nel grembo trinitario – dice Bruno Forte – va ripensata per intero la storia,perché è lì che si prepara, attraverso quotidiani gesti d’amore e attraverso lacelebrazione attualizzante del mistero, il futuro ultimo, quando la storia degliuomini si congiungerà all’esterna storia di Dio e il Figlio consegnerà tutto alPadre, e Dio sarà tutto in tutti.

Il patto iniziale progressivamente evolveÈ nel grembo trinitario che ha preso forma quel patto che il Dio di Abramo,di Isacco e di Giacobbe decise di instaurare con il popolo che si era sceltocome partner privilegiato: nessuno saprà mai dire perché.Rinnovato attraverso Mosè, quel patto garantiva a Israele “i beni di Dio”,

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Capitolo Primo

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cioè quello che è essenziale nella vita di un uomo: la pace, la prosperità, lafecondità…Ma già nel X sec. (tempo di composizione dei primi salmi) gli Ebrei non siaccontentarono più dei “beni di Dio”, ma puntarono al rapporto personalecon Lui, perché La tua grazia vale più della vita (Sal 63, 4) e Il mio vero beneè di stare vicino a Dio (Sal 62, 28).Un sogno, I Profeti dei secoli VIII (Isaia) e VI (Geremia), di fronte alle infe-deltà del popolo si convincono che l’uomo in quanto tale non ha forze suffi-cienti per “stare vicino a JHWH: c’è bisogno di una nuova alleanza, garanti-ta da una nuova effusione dello Spirito di JHWH, paragonabile a quella cheall’inizio aveva dato origine al mondo. Su questa linea si colloca Gesù.

Gesù, il volto di DioGesù non solo rappresenta, ma è la nuova alleanza. Rivelando agli uominiche all’inizio c’è la relazione, ci fa sapere che nel cuore dell’Essere infinitoed eterno del quale hanno balbettato i filosofi vivono tre Persone, tra le qualivige un vincolo talmente forte da farne un quid unico, pur lasciando ogni sin-gola persona nella originalità del suo essere. Questo vincolo è LA CARITÀ. Sarà la carità che un giorno, dopo la morte, superata l’opacità del corpo,introdurrà l’uomo nel vivo della vita trinitaria.

I nostri Santi mistici vi sono penetrati a fondo, riportandone una sensazione comesgomenta, di stordimento; ma la loro esperienza esalta la nostra possibilità diaccogliere il fiume straripante della gioia assoluta.

Ma fin da oggi, nella nostra condizione, di uomini esiliati che faticosamentestanno tornando a quella “patria della storia” che è la Trinità Santissima, lacarità ci addita i punti di riferimento sui quali possiamo contare, per nonannaspare nel buio totale e intravedere la realtà di quella vita.

È qui la centralità della Pasqua: l’Evento Cristo Risorto rivela il mistero trinita-rio. Il Padre che lo ha resuscitato rivela il Figlio che risuscitando diviene IL

VIVENTE, per antonomasia, il centro reale di ogni vita; e rivela lo Spirito Santoche congiunge sia il Padre che tutti gli uomini al Risorto, rendendoli vivi di vitanuova.

Il primato della carità Intorno a questo primato della carità deve necessariamente strutturare il pro-prio discorso ogni forma di spiritualità che voglia definirsi cristiana ed esser-lo veramente. E dunque innanzitutto bisogna calibrare attentamente la natu-ra della carità, che nel linguaggio corrente è stata il più della volte declassa-ta addirittura ad “elemosina”.La carità è una virtù teologale. Aristotele ha individuato, a fondamento delcomportamento morale dell’uomo, quattro virtù, dette cardinali, perché sono

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come il cardine della moralità umana, e devono fermentare all’interno diogni altra virtù: la giustizia (il dare a ciascuno il suo), la prudenza (il sapercommisurare ai fini morali che si perseguono gli strumenti che si scelgono perconseguirli), la fortezza (la capacità di aggredire gli ostacoli, per superarli) ela temperanza (il non lasciarsi ubriacare dai successi).Alle spalle delle virtù cardinali la visione cristiana del mondo colloca levirtù teologali. Tre:

1. LA FEDE, che ci rende disponibili ad accogliere Dio che rivela il suopiano di salvezza in Cristo;

2. LA SPERANZA, che applica le prospettive della fede all’esistenza per-sonale del credente,

3. LA CARITÀ, che ci fa partecipare alla forza e alla bellezza dell’amorecon cui Cristo ha amato il Padre e i fratelli nel suo sacrificio pasquale.

Secondo la dottrina cristiana, queste tre virtù vengono infuse, deposte “nelcuore dell’uomo” con il battesimo, allo stato di germi.Allo stato di germe, la carità potenzialmente abilita l’uomo a tendere contutto se stesso ad amare come Dio ama.Siamo di fronte all’utopia di tutte le utopie: amare come Dio ama. Amarecome Dio ama non sarà mai e poi mai possibile, letteralmente, nemmenonella vita eterna.

A meno che si riesca entrare nel cuore di Dio, e… usufruire del fatto che “Dio èuno solo, ma in tre persone uguali e distinte”. Quel “ma” tra noi credenti contatroppo poco: se ne lamentava Rahner, grande teologo cattolico del ’900: iCristiani sono quasi solo “monoteisti” nella pratica della loro vita religiosa.

Ma nella concretezza delle vita di ogni giorno l’uomo vive su tutt’altro regi-stro. L’uomo a volte sa essere un angelo, ma altre volte, o forse più spesso, èuna bestia. C’è in lui, innata e irresistibile, la tensione verso il male: S.Tommaso la collega al fatto che l’uomo, creato da Dio, è stato però creato dalnulla, e il nulla, nelle forme più diverse, continua ad attrarlo. E quello chevale per l’uomo nella sua storia singola vale anche per la storia della grandefamiglia umana, che alterna nel suo cammino, sempre accidentato, slancisolidali a terrificanti ritorni dell’egoismo istituzionalizzato.Questo vuol dire che nella storia degli individui come nella storia dellecomunità umane la tensione quotidiana deve essere sempre orientata apotenziare le energie migliori e contenere quelle deteriori.È tutto qui il primato della liberazione nella morale cristiana, se la moralecristiana non vuol essere la fotocopia della morale naturale.

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Il Coro delle Monache.Qui per cinque secoli le Sorelle Clarisse

hanno pregato per tutti.Tra loro c’è stata anche una Beata,

Isabella Gherzi, genovese.La Comunità di Capodarco dell’Umbria

è nata, ed insiste, sullo stesso alveo.

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Il Cristianesimo di liberazione

In quella stessa tensione alla quale abbiamo qui sopra accennato, la tensionead accentrare la propria spiritualità intorno all’amore di Dio per gli uomini,che la porta a proporsi come “comunità d’ispirazione cristiana”, la Comunitàdi Capodarco si è collocata d’istinto all’interno di un particolare filone di quelgrande solco della spiritualità cristiana che viene connotato come “cristianesi-mo di liberazione”.

L’art. 3 comma L) dello statuto della Comunità di Capodarco dell’UmbriaONLUS, quello del quale abbiamo qui sopra citato la parte finale, recita:… laComunità di Capodarco dell’Umbria, pur condividendo lo spirito e la prassipluralista che caratterizza la Comunità di Capodarco, collabora, in modo tuttoparticolare con la Chiesa locale, per incrementare, all’interno di essa, ladimensione di liberazione personale propria del Cristianesimo.Che la dimensione della liberazione totale dell’uomo, spirituale e corporale,individuale e politica, faccia parte integrante del messaggio cristiano l’ha dettoa chiarissime note il Concilio. E questo, nell’immediato post Concilio, hainfiammato il dibattito ecclesiale come mai era successo in passato.

La dimensione della liberazione infiamma il dibattito ecclesiale La Chiesa di prima del Concilio sembrava un elefante addormentato. IlConcilio la svegliò a la lanciò su strade prima impensabili, prima fra tutte ledistinzione fra Chiesa e Regno di Dio.Il Regno di Dio è molto più ampio della Chiesa, e coincide in pratica con tuttociò che di bello e di buono il genere umano realizza, sul piano delle coscienzee sul piano delle strutture; al servizio del Regno di Dio (non necessariamenteper la sua conversione) la Chiesa è chiamata ad operare.Il dibattito su questo punto delicatissimo era inevitabile: cadeva quella visione“ecclesiocentrica” che per tanti anni aveva strutturato quella serie di atteggia-menti operativi che chiamiamo “la pastorale della Chiesa” e aveva alimentatola spiritualità di tanti Santi.

Il dibattito ecclesiale sfociò presto nel dissenso ecclesiale. Nella sua fase iniziale, la fase moderata (1966/67), il dissenso prese di mira lecontraddizioni più macroscopiche della Chiesa, ad opera di più di 1.000 grup-pi spontanei, esplicitamente impegnati nel suo rinnovamento.Nella fase della cosiddetta contestazione globale (1968/1970), la critica siallargò progressivamente al piano socio-politico:

• la Chiesa venne messa sotto accusa come complice della disumanità edell’ingiustizia prodotte dalle strutture del capitalismo;

• in contrapposizione con la Chiesa/istituzione deve nascere una Chiesadi popolo.

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Capitolo Secondo

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Su questa falsariga si verificarono fatti di clamorosa disubbidienza, come ilcontro-quaresimale di Trento e l’occupazione della Cattedrale di Parma.

Tra gli epicentri del dissenso ci furono la Comunità dell’Isolotto di Firenze(don Enzo Mazzi) e la Comunità di Oregina, a Genova (P. Agostino Zerbinati).In aperta contestazione al Sinodo dei Vescovi del 1971 nasce il Movimento 7novembre.La Chiesa italiana dovette emarginare queste esperienze, e non poteva nonfarlo.Lo fece con la tecnica del “muro di gomma”, la stessa tecnica che fiaccò, sulpiano psicologico, la follia omicida dei terroristi degli anni ’70 e ’80; chi silancia a testa bassa contro un muro di pietra una speranza, per lo meno, cel’’ha, quella che uno sbaffo di sangue rimanga sulla pietra bianca; ma un murodi gomma ti ributta indietro, intontito.Fu così che, con l’acqua sporca, spesso venne buttato via anche il bambino.La accuse mosse alla Chiesa/istituzione:

• il suo carattere autoritario e non comunitario;• la sistematica emarginazione dei carismi, in nome della stabilità dell’i-

stituzione;• i mille compromessi col capitalismo;• i mille compromessi col potere.

L’epicentro della proposta verteva sul recupero della centralità della povertà,• come rinunzia “al denaro del Vaticano, alla diplomazia e alla Curia”;• come rinuncia a quella presunta forma di ricchezza culturale che pre-

tendono d’essere gli “schemi filosofici”, i quali in realtà non fanno altroche mortificare il Messaggio;

• come rinuncia al “legame con qualsiasi forma di potere temporale”;• come rinuncia al prestigio, cioè ad ogni manifestazione mondana che

vela l’autenticità del popolo di Dio: da un certo malinteso decoro perso-nale, al trionfalismo delle belle Chiese, all’esibizionismo delle parate diautorità religiose/civili/militari, all’accettazione di onori principeschi eregali non confacenti ai seguaci del Cristo morto in croce;

• come rinuncia all’organizzazione di una Chiesa/azienda di tipo com-merciale e finanziario, in cui, con la scusa di procurarsi i mezzi perevangelizzare, si sottoscrive e si pratica la logica del profitto e dellapotenza economica2.

Tesi spregevoli? Non mi pare.

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2 Cfr. AA.VV., L’altra Chiesa in Italia, Mondadori, Milano, 1970.

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Tre distinte forme di militanza cattolicaI cattolici militanti uscirono frammentati da quel dibattito. A metà degli anni’70 si potevano chiaramente individuare:

• i cristiani della diaspora: sostenevano che l’unica presenza cristianaaccettabile è quella individuale e di lievito: nessuna presenza cristianaorganizzata ha senso, in nessun campo: né politico, né sociale, né cul-turale; non esiste una “cultura cristiana”;

• i cristiani della presenza: la fede va compiutamente (“integralmen-te”) tradotta in forme e luoghi propri, ben identificabili, alternativi, intutti i campi: nel politico, nel sociale, nel culturale; fede cristiana ecultura cristiana quanto meno tendono a identificarsi;

• i cristiani della mediazione: la fede non può rimanere un fatto esclu-sivamente privato, ma nel suo applicarsi alla società, alla politica ealla cultura esclude qualsiasi automatismo, esige al contrario media-zioni che fino ad un certo punto sono garantite dalla fede o anche sol-tanto dalla disciplina ecclesiale, e da quel punto in avanti dipendonodalla personale responsabilità del cristiano; fede cristiana e culturacristiana si richiamano per linee interne, ma il loro reale rapportarsireciproco è affidato a molteplici mediazioni, tutt’altro che semplici edelementari. Esse muovono dalla convinzione che il Padre del SignoreGesù è “il Dio di tutti” e la sua presenza va colta in tutte le posizioniideologiche e operative che si rifanno ad un alto e nobile concetto diuomo.

Su questo sfondo il I Convegno di tutte le Chiese di Dio che sono in Italia(Roma, 1976) sviluppò una riflessione di grande intensità.

Roma, 1976: “Evangelizzazione e promozione umana”Sul tema “Evangelizzazione e promozione umana” verteva il primo dei quattroconvegni ecclesiali voluti dalla Conferenza Episcopale Italiana. Gli altri tre:Loreto 1985, Palermo 1995, Verona 2006.Fu un convegno spumeggiante di aperture inaudite. La relazione finale delVescovo/pompiere, che ufficiosamente era stato incaricato di spegnere i focolaid’incendio, cercò di ridurre artatamente ad unanimità i termini di quel dibatti-to, ma il mormorio ostile e crescente dell’Assemblea costrinse Sua Eccellenzaa troncare prima della metà il pistolotto di decine e decine di pagine che spe-rava di poterci ammannire: ricordo senza gioia il suo volto affranto, mentrechiudeva la cartella nella quale giaceva il suo pistolotto.La paura era quella che la Chiesa, nel suo dedicarsi alla promozione umana,perdesse la propria fisionomia. La paura era quella che l’evangelizzazione siriducesse a promozione umana. Il riassunto normalizzante che Sua Eccellenza aveva tentato era solo rimandato.Nella presentazione ufficiale degli Atti del Convegno si legge: Anche dopo il

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convegno il senso autentico della missione della Chiesa dev’essere alla base delnostro rinnovamento e delle nostre iniziative. E questo non può che richiamare ilprimato dell’evangelizzazione, la quale costituisce la missione fondamentaledella Chiesa e ne esprime la grazia, la vocazione e l’identità sua propria. E si haautentica evangelizzazione solo quando il messaggio di Cristo viene ripropo-sto... in tutta la sua la sua genuina integrità e nella sua autentica dimensionereligiosa; la minaccia è quella della riduzione del cristianesimo a umanesimo.L’antidoto contro questo pericolo va colto in un’evangelizzazione che conduca aisacramenti e, dai sacramenti resa efficace per la salvezza, possa essere testimo-niata dalle nostre Chiese locali nella loro sempre maggiore conformità a Cristo,con la concretezza d’una vita di trasparenza evangelica e di servizio ai fratelli.Tutto vero, ma non era quella paventata l’angolazione dalla quale la problema-tica era stata affrontata, per lo meno nella VI Commissione, della quale lo scri-vente fece parte.Il Convegno Evangelizzazione e promozione umana, pur senza uscire dal bina-rio della scelta prioritaria dell’evangelizzazione, suscitò tuttavia una moltitudi-ne di problemi

• in ordine al rapporto fede-vita, • in ordine al rapporto fede-politica.

E su questi problemi il dissenso non solo era possibile, ma obbligatorio, per-ché il monolitismo cattolico era morto con il Concilio, era finita per sempre laconcezione della Chiesa come un sistema di cerchi concentrici e interdipen-denti: nel cerchio centrale la Parola e i Sacramenti, nel cerchio successivo laGerarchia e il Clero, poi i laici strutturalmente legati alla Gerarchia nel loroimpegno apostolico, poi il sindacato d’ispirazione cristiana, infine, sul cerchiopiù largo, quasi a tenerli insieme tutti, la Democrazia Cristiana.Uno schema accantonato, perché il pericolo di soffocamento era troppo alto.

Modesti gli esiti operativi Il grande Convegno alla fine dei conti fu poco più che un auspicio. Perché?Perché

• il contesto italiano cui esso si riferiva, e che dava l’impressione che il“diritto di cittadinanza” sarebbe stato a breve scadenza riconosciuto atutti, anche agli emarginati, si deteriorò rapidamente;

- all’esaltazione abbondantemente artefatta dei “momenti parteci-pativi” e alla proclamazione del tutto retorica d’un fumoso “pro-tagonismo di tutti”, subentrarono rapidamente scelte di politicasociale residuale;

- non fece più scandalo la ricchezza accumulata in tempi brevis-simi;

- i sociologi cominciarono a parlare della “società dei due terzi”,dando per non recuperabile il terzo mancante;

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- i teorici della politica smisero di parlare dell’utopia dell’Ugua-glianza, per concentrarsi (?!) sulla “realistica” dimensionedella “giusta disuguaglianza”;

• lo stesso Convegno, nonostante l’entusiasmo suscitato, non ebbe grandeseguito nelle iniziative pastorali dell’episcopato italiano3; non per catti-va volontà, ma per carente preparazione.

E così i problemi che allora erano sul tappeto ci sono anche oggi, forse ancorapiù vivi che in passato, perché

• rilanciati sul piano politico/sociale - dal crollo del muro di Berlino, - dal dilagare della cultura neoliberista,- dal pensiero debole, - dalla nuova situazione strutturale della vita politica in Italia:

sembra che la scomparsa della Democrazia Cristiana obblighila Chiesa italiana ad intervenire in prima persona nella politica;

• rilanciati sul piano ecclesiale- dal dilagare dei movimenti spiritualisti, come il Rinnovamento

dello Spirito e il Movimento Neocatecumenale, che recuperanocon forza istanze fondamentali del cristianesimo, ma ne mini-mizzano l’impatto con la storia;

- dal trionfo dell’Opus Dei, che nei poveri vede quella fascia dipopolazione che “va amorevolmente aiutata” (a sopravvivere),non certo un’istanza di primaria grandezza sul piano della fede;

- dalla linea pastorale di Papa Wojtyla che, per quanto sensibilis-simo alle istanze sociali, ha sempre portato in sé i germi (anchepatogeni) di un anticomunismo viscerale, acquisito nella lungaesperienza di oppressione da parte del socialismo reale.

Viva, anche se in forma di germe, l’istanza culturale Ma la vera portata del Convegno Ecclesiale del 1976 era tutta culturale, grazieal filo conduttore che l’unificò per intero; e questo filo rosso fu l’attenzioneriservata alle “nuove povertà”. La tesi che nel contesto italiano non si può piùparlare di poveri da assistere, ma di emarginati che chiedono di veder rispettatii propri diritti, aleggia ovunque nel Convegno4.La grande novità culturale di questa affermazione elettrizzò noi convegnisti. E in questo clima i tre spunti che risultarono particolarmente significativifurono:

• il recupero dei profeti disarmati, quei “preti scomodi” che anche

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3 Cfr. A. MASTANTUONO, Volontariato e profezia, EDB, Bologna, 1991, 191.4 Ibid., 186.

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dopo il Concilio erano stati abbondantemente emarginati dalla Chiesaitaliana; se ne incaricò il prof. Bolgiani, e lo fece nei termini chiari edistinti, costituzionalmente allergici a ogni diplomatica sfumatura, cheusano nel loro lavoro quotidiano i miti cultori di cose antiche; per tuttinoi sentire esaltare don Milani, in un momento così alto della vitaecclesiale e con il card. Florit seduto in prima fila, non era così di tuttii giorni;

• il superamento delle analisi d’impianto ideologico-piagnone, a vantag-gio di analisi di tipo strutturale; gli interventi che ascoltammo inaula e in commissione facevano riferimento assai frequente e puntualealle condizioni concrete (“materiali”) della vita e alle strutture emargi-nanti della medesima, quelle che più tardi Giovanni Paolo II avrebbechiamato strutture di peccato; e mons. Nervo ci chiedeva di non parlaredi promozione umana in modo indifferenziato, come se tutti camminas-sero sulla stessa linea. Ci sono persone che hanno molte opportunità dipromozione umana, altre meno, altre pochissime, altre sono bocciate:sono gli emarginati...5: coloro che, fin dalla più tenera infanzia, eranostati abituati ai lugubri e sterili piagnistei sulla “caduta dei valori”:avevano l’impressione che qualcuno avesse aperto all’improvviso lafinestra;

• un’inedita riconsiderazione delle esperienze di frontiera: per chi,vivendo in una comunità d’accoglienza che diventava ogni giorno sem-pre meno “cristiana” e sempre più “d’ispirazione cristiana”, sentivaspesso sul collo il fiato del sospetto condito di miele velenoso e l’accu-sa di orizzontalismo improntato a gusto dell’avventura; suonavano ripa-ratorie e incoraggianti le parole di De Rita: È il sintomo più sicuro diincultura e di vigliaccheria dire che l’attenzione allo sviluppo dellasocietà è compito o patrimonio di persone, strutture, gruppi che stanno,come avanguardie culturali, o avamposti sociali, ai confini fra chiesa erealtà sociale; quasi che la comunità ecclesiale abbia il bisogno e/o lafurbizia di mandare avanti altri, a coltivare utopia e impegno, per poiaver tempo e base per riflettere, ruminare, mediare. Chi si arroga un talecompito securizza se stesso e deresponsabilizza tutti noi. Gli applausiscrosciarono a lungo.

Su quella linea culturale, una vera e propria fioritura. E CapodarcoChe Capodarco sia credibile come riproposta di quel “Cristianesimo di libera-zione” che, delineatosi in Concilio, dette respiro ampio al Convegno del 1976sono gli studiosi a dirlo6.

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5 Ibid., 189.6 Ibid., 167-169.

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Scrive uno di loro: Non possiamo qui rendere conto di tutti i gruppi (nati nelpost-Concilio) ...alcuni dei quali hanno raggiunto una certa notorietà e diffu-sione, come la Comunità di S. Egidio, il Gruppo Abele di Torino, il CentroAgape di Reggio Calabria... Fra queste esperienze scegliamo la Comunità diCapodarco, che si pone in sintonia con le istanze più innovative del Vaticano II eche diventa paradigmatica in quanto ad essa fanno riferimento molte altre espe-rienze7.Fino al 1984 la Comunità di Capodarco, che viveva nella Villa Piccolominidell’omonimo paesino (AP), ribattezzata “Casa Papa Giovanni”, eraun’Associazione di Diritto Ecclesiastico approvata dal Vescovo di Fermo esuccessivamente riconosciuta dallo Stato; il suo nome era Centro ComunitarioGesù Risorto, e la sua ragione sociale era lo sviluppo umano e cristiano deglihandicappati. Quel nome (Centro Comunitario Gesù Risorto: Centro Comunitario JesusResuscitado) oggi lo conserva solo la Comunità di Capodarco a Penipe, inEcuador. Ma, al di là del nome, la laicizzazione della Comunità di Capodarco nonintaccò nessuno dei valori che la caratterizzavano e la caratterizzano.

Il senso della laicizzazione della ComunitàLo statuto del 1984 ha ridotto di molto, SUL PIANO GIURIDICO, l’agganciocon il cristianesimo.SUL PIANO DEI CONTENUTI è cambiato lo scopo sociale della Comunità diCapodarco, che oggi è (come abbiamo sottolineato nel primo capitolo di questolibro) la promozione della persona, con particolare attenzione agli emarginati;ma ancora oggi il suo statuto, all’art. 2, recita: Per la matrice cristiana di partedei suoi membri e per l’esperienza di servizio all’uomo di tutti i suoi membri, laComunità di Capodarco è luogo d’incontro e di confronto fra quanti, pur varia-mente ispirati sul piano ideologico e culturale, ne condividono lo spirito e l’im-pegno vitale.All’interno della Comunità Nazionale di Capodarco, la nostra Comunità diCapodarco dell’Umbria, che allora, nel 1984, si chiamava “Centro LavoroCultura” e che tutti conoscevano come “Comunità di S. Girolamo”, al 3.ocomma dell’art. l del suo statuto scrisse: Per la particolare natura della propo-sta sulla quale la realtà associativa, che con il presente Statuto assume formagiuridica, si è formata ed ha aggregato consensi, il Centro Lavoro Cultura, purcondividendo lo spirito e la prassi pluralista che caratterizza la Comunità diCapodarco, collabora, in modo tutto particolare, con la Chiesa locale, per incre-mentare – all’interno di essa – la dimensione di liberazione personale propriadel Cristianesimo, nel pieno rispetto e nella costante tensione a promuovere e a

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7 La voce degli esclusi, numero unico, Porto San Giorgio, 1965.

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valorizzare le storie e il patrimonio ideale e pratico di gruppi territoriali che sisiano formati su altre dinamiche; coerentemente, nel pieno rispetto dei valoripersonali di ciascun socio, cura al proprio interno che la proposta cristianavenga fatta a tutti.Perché, allora, la laicizzazione?

• In prima battuta, per il rispetto dovuto a chi vive in comunità e non siriconosce cristiano;

• in seconda battuta, per rendere spendibile da tutti e impegnativo pertutti, sul piano antropologico, quel patrimonio ideale che, in un conte-sto come il nostro, non potrebbe essere né l’uno né l’altro sul pianodella fede.

Nella Chiesa di ieri e nella Chiesa di oggiNella Chiesa di ieri, soprattutto nel clima abbondantemente anticonciliare cheha accompagnato la promulgazione del nuovo Codice di Diritto Canonico(1983), questa laicizzazione non è stata vista di buon occhio, per lo meno daquel poco di Chiesa che s’è interessata a noi.La lunga storia dei tradizionali istituti per handicappati era improntata all’e-quivoco “primato della sofferenza”; non c’era in giro pudore sufficiente perevitare di dire ad un ventenne in carrozzina: “Tu devi soffrire anche la miaparte”: sottinteso che io vedrò di vivere anche la parte tua. E poi in circolo c’e-rano storie poco credibili (ma molto credute) che raccontavano di perfide suo-rine che all’handicappato che riceveva la comunione tutti i giorni riservano unramaiolo di minestra in più...Certo, erano, quelli, gli anni in cui, accanto a tanti effetti positivi evidenti delnuovo Codice che regola la vita della Chiesa, si verificò anche un rilancio delgiuridicismo e una contrazione notevole del coraggio apostolico: di fronte adun tentativo, magari di un prete isolato, magari anche molto discutibile, diriproporre in termini nuovi e magari rischiosi la “potenza liberatrice delVangelo”, per un vescovo è molto più facile ricorrere al codice di diritto cano-nico piuttosto che esercitare quel saggio e faticoso discernimento che il suoservizio alla Chiesa richiederebbe.In questioni del genere lo stile d’intervento della Chiesa sembra oggi volgere anostro favore. Uno stile che in un certo senso viene come “canonizzato” dalle regole dettateda Benedetto XVI, al n. 31 della Deus caritas est:

• la Chiesa considera come sue non solo le comunità d’accoglienza chesi dicono esplicitamente cristiane, ma anche le comunità d’ispirazionecristiana, come la nostra;

• in nessun caso le comunità di accoglienza devono fare proselitismo:l’operatore che ci crede farà anche, con estremo rispetto e discrezione,la sua proposta di fede, ma in nessun caso forzerà il sì di colui al qualela proposta è rivolta.

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I “testi sacri” della spiritualità caratteristica della Comunità di Capodarco sonotre:

• il numero unico intitolato La voce degli esclusi, del 1965;• il Contributo al II Convegno Ecclesiale elaborato dalla Comunità di

Capodarco di Fermo nel 1985;• la relazione che nel 1996 don Angelo M. Fanucci tenne, a Firenze, al

Convegno Caritas/CNCA, su “Annunciare la carità, vivere la speranza”.

Il “documento di base”: La voce degli esclusiLa Comunità aprì i battenti nel Natale del 1966. Ma già alla fine del 1965 ilgruppetto di giovani invalidi che da anni andava elaborando il progetto comuni-tario insieme con Don Franco Monterubbianesi pubblicò un numero unico, LaVoce degli Esclusi, che va tutt’oggi considerato come il manifesto dellaComunità di Capodarco. Tutto è già chiaro: il “progetto-Capodarco” nasce nellascia del Concilio, e senza di esso non avrebbe mai preso corpo. Andiamo alparticolare.

Sulla testata, una riproduzione del deserto: come nella prima inquadratura diTeorema, il film di Pier Paolo Pasolini che in quegli anni aveva fatto tantodiscutere; ma, mentre nel film la didascalia riporta il versetto dell’Esodo (“EDio ordinò al popolo di piegare per il deserto”), sulla testata di La Voce degliEsclusi si legge: Bisogna che il deserto fiorisca, e non c’è che il tuo amore chepossa compiere il miracolo, Signore!

Ma quello che il Concilio ha esplicitamente detto sul tema specifico, quellodegli emarginati a causa di un qualche deficit fisico, a La voce degli esclusi nonpiace. Il Messaggio ai poveri e agli ammalati, inviato dall’AssembleaConciliare, in calce ai suoi documenti ufficiali, l’ultimo giorno di assemblea (l’8dicembre 1965), accanto ad altri sei “messaggi” (ai governanti, agli intellettua-li, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai giovani) viene, sì, riportato integral-mente nel “numero unico”, ma come confinato in un angolo, quasi con imba-razzo. Effettivamente la chiave di lettura del breve scritto è tutta di taglio con-solatorio, vi aleggia piuttosto pesantemente l’equivoco primato della sofferenzae la valorizzazione delle esperienze negative alla quale esso punta; è un qualco-sa che si pone sostanzialmente in chiave escatologica, non ancora in chiavepienamente ed esplicitamente storica. Su questa strada è facile passare dallavalorizzazione della sofferenza alla sua professionalizzazione, dalla tesi splendidae vera che tutto, anche il cancro e la morte, può avere un senso e un valore, allacaricatura di quella tesi: Tu, ventenne in carrozzina, hai un compito nella vita:

I “Sacri testi” del Cristianesimo di liberazione sulquale Capodarco è nata

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Capitolo Terzo

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quello di soffrire per la salvezza di tutti. Per la “Voce degli Esclusi”, invece,tutto si gioca sulla capacità di liberare storicamente l’emarginato, per farne asua volta un liberatore.

L’area culturale nel quale questo tipo di “nuovo” cristianesimo si muoveviene chiaramente denunciata dalla pubblicazione di un intero brano delSaggio sull’amore umano di Jean Guitton, che permette anche un abbozzo didiscorso su sessualità e handicap; è l’area del cattolicesimo francese d’avan-guardia, quello della Scuola Teologica di Lione, dei De Lubac, degli Chenu, deiCongar…: erano le letture preferite di don Franco.

La didattica dell’abbassamento. L’articolo Alla ricerca del vero volto di Diolumeggia la vicenda umana di Cristo come didattica dell’abbassamento: un temapaolino (l’Apostolo parla di kènosis) che era stato carissimo alla teologia prote-stante di Karl Barth e di Dietrich Bonhöffer, ma era pressoché ignorato dai teo-logi italiani e del tutto sconosciuto alla predicazione. La voce degli esclusi ne dàuna lettura particolarmente intensa:

• la vicenda umana di Cristo comporta l’abbattimento, in radice, di ognisteccato (perché la vita degli uomini è di una sola stoffa);

• la vicenda umana di Cristo chiarisce il senso della filiazione nostra alFiglio di Dio, come associazione ai progetti e alle ambizioni del Padre;

• la vicenda umana di Cristo porta a definir il peccato come gesto di iso-lamento e di rassegnazione a dei limiti.

Il primato teologico/culturale dei poveri. L’articolo La Chiesa è soprattuttodei Poveri fa riferimento alla tematica forse più cara, nell’immediato post-Concilio, all’immaginario collettivo dei cristiani “impegnati”. La voce degliEsclusi sviscera quell’affermazione per approfondimenti successivi, secondodiversi piani di valore.

• Cristo ha fatto proprie le sofferenze dei poveri.• I poveri hanno una connaturale funzione stimolatrice nei confronti della

coscienza di tutti.• I poveri insegnano come liberarsi dai miti delle mode culturali.• I poveri possono come nessun altro offrire a tutti l’indicazione sul dove

cercare la vera libertà.• Sul piano religioso la povertà può diventare vera e propria liturgia di Cristo.• Il povero possiede la misura dell’autenticità del rapporto con gli altri.

In chiusura, tutto viene come riassunto in una splendida tesi: I poveri sonomediatori fra il mondo e la Chiesa, perché la Chiesa possa essere mediatrice frail mondo e Cristo.Sono solo alcuni spunti, ma dalla loro analisi risulta ben chiaro che cosa vogliadire “cristianesimo di liberazione”.

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8 Lc. 17,10.9 Comunità di Capodarco, Contributo al II Convegno Ecclesiale, pro manuscripto, Capodarco diFermo 1985.10 Ibid.

È un cristianesimo• che non ignora ma presuppone il discorso dell’ortodossia, e punta tutto

sull’ortoprassi;• che muove dalla coscienza d’avere in sé potenzialità enormi per

riscattare l’uomo dalle molte ipoteche che, a tutti i livelli, gravano sudi lui; e questo non solo per la vita eterna, ma come capacità di produr-re vita umana concreta dentro la storia umana concreta (che è poi lamateria del Regno eterno di Dio);

• che sente di dover tenere viva la parzialità evangelica, quella dellapecora smarrita; ma non l’interpreta pietisticamente, bensì in chiave diappello alla dignità e di servizio al riscatto di tutte le persone.

In questo contesto di spiritualità della condivisione non sospirosa, né aleatoria ovolontaristica, ma radicata nel solco tracciato già dagli Atti degli Apostoli, l’in-vito è quello di andare oltre, recuperando ciò che è nostro e rimettendo al centrole domande radicali.

Il Contributo di Capodarco al II Convegno delle Chiese Italiane (Loreto,1985) Il secondo “testo sacro” della nostra spiritualità è un piccolo, prezioso docu-mento, tirato col ciclostile, ma chiaramente segnato dalla forte personalità didon Vinicio Albanesi; elaborato a titolo di contributo all’imminente II convegnoecclesiale, s’intitola “Comunità di Capodarco, Contributo al II ConvegnoEcclesiale, pro manuscripto, Capodarco di Fermo 1985”. La Comunità di Capodarco – sostiene il documento – è nata da un gesto diribellione contro chi, in nome d’un Cristo che non è mai esistito, voleva ottun-dere il desiderio di vita di giovani handicappati per insegnare loro la rassegna-zione precoce. A questa assurdità essi risposero proclamando nel loro“Manifesto” che la rassegnazione precoce è il più grande dei peccati8. E questoin piena coerenza col testo evangelico dei “servi inutili”9.Quel messaggio – sostiene Capodarco – è tuttora di estrema attualità, perché latendenza difficilissima da sradicare è, sempre quella: Si dà per scontato, inelut-tabile, quasi naturalmente necessario, lo schema primi/ultimi, oppressori-oppres-si, santi/peccatori, convertiti/da convertire; innegabile che le cose siano state estiano così, ma non può essere questa la prospettiva per l’ideale cristiano, inquanto dare per scontato questo schema significa limitarsi ad offrire la logicadella riparazione, invece che la proposta della pari dignità per tutti10.

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Diceva don Milani che è molto consolante interpretare la storia in chiave fatalistica:aiutandola i benpensanti a scaricarsi delle proprie responsabilità, si evitano legrane, a tutti i livelli. E si dorme “tranquilli”.

Certo, non possiamo ignorare che la cultura del nostro popolo cristiano è preva-lentemente perbenista. Cioè minimalista, conformista, più che sensibile airichiami della peggiore “aurea mediocritas”, che non ha nulla di aureo, perchénon è indotta da robuste frequentazioni filosofiche, ma solo dalla teledipenden-za; il popolo cristiano è indifeso di fronte al fascino dell’ovvio e di Sua Maestàl’Audience.

Ci vorrebbe di nuovo la pena di morte!; e poi: Lo saprei io come fare con i droga-ti!; e ancora, Aridatece er puzzone! Questo autentico florilegio del nostro qua-lunquismo prevede qualcosa che conviene anche agli handicappati: Mica ècolpa mia se sei nato distrofico!Già, ma è colpa anche tua, e della cultura che ci ha ipnotizzato tutti, e dell’or-ganizzazione sociale che ci siamo dati, se colui che era soltanto un distrofico èdiventato anche un emarginato.Il top del perbenismo qualunquista, oggettivamente, al di là della sincera buonavolontà di singoli Cristiani anche squisiti, l’abbiamo raggiunto quando si è dif-fuso fra le nostre Chiese quello slogan, oggettivamente molto azzeccato, quasiquanto uno dei tanti formidabili spot pubblicitari della SIP, che esortava aRipartire dagli ultimi. Ognuno ne diede una lettura calibrata su se stesso: chicominciò ad andare a Lourdes col “treno bianco”, chi promosse una raccolta difondi. Chi s’era illuso che l’intenzione fosse stata quella di innescare una spe-cie di revisione integrale del nostro essere Chiesa (Ripartire, perbacco!) fusmentito dai fatti, o meglio dal non-fatto.E allora si parli piuttosto dei primi, e dei secondi, si chieda loro di lavorare ognigiorno ad abolire tutte le classifiche in tema di dignità umana, dentro il propriospirito non meno che nella materialità dei rapporti tra gli uomini, perché quellodegli ultimi non è un problemino che possa risolversi con la generica buonavolontà: solo cambiando la logica del potere gli ultimi potranno acquistaredignità e non venire più manipolati11.

Centrale, dunque, come sempre, il tema del potere.La Chiesa in quanto tale, in tema di potere, ha davanti a sé, spalancata, la stra-da evangelica: quella, semplicemente, di cedere potere; così interpretiamo il can-tico del Magnificat (Lc.1,46-55)12.C’è stato un momento, nella storia densa, a volte... alluvionale, del Magistero

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11 Ibid.12 Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, Non di solo pane, CEI, Roma, 1979, 273.

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dei Vescovi Italiani, in cui ci è stata insegnata una specie di... allergia dellaChiesa all’esercizio del potere.Tra Chiesa e potere non solo può, ma deve instaurarsi una specie di…. recipro-ca sordità, dovuta al rifiuto intransigente di ogni potere terreno da parte diGesù13. Era il ribaltamento totale d’una prassi secolare, culminata in quello StatoPontificio che, nato in chiave di supplenza dei pubblici poteri, s’era poi tran-quillamente seduto sulla Poltrona altrui, e ci si era trovato talmente bene darimanerci per i secoli, senza eccessivi patemi d’animo.

Quel ribaltamento è… durato poco: non abbiamo trovato traccia alcuna di “intransi-gente rifiuto del potere da parte di Gesù Cristo” nel Catechismo della ChiesaCattolica, nei capitoli dedicati al potere di Cristo e al potere della Chiesa14.

E questo era perfettamente comprensibile, per lo meno fino agli anni ’90 delXX secolo, in un contesto come quello italiano, provinciale, provincialissimo,dove un partito che di per sé era non cattolico, ma di cattolici, veniva in realtàidentificato con la Chiesa, e dove una buona parte del clero anziano usa ancoraa mo’ d’insulto il nome del “nemico storico” (“comunistaaa!”).

Dalla frontiera dell’emarginazione viene l’appello non a disinteressarsi di politi-ca, ma ad interessarsene a fondo. Il potere va comunque gestito, in questo modo oin quell’altro. Ma va gestito. Noi diciamo che, paradossalmente, il potere nonva gestito... dall’angolazione del potere, bensì dall’angolazione del dirit-to del più povero.Merce rara, affermazioni tutt’altro che condivise. È vero che in molte diocesiitaliane fioriscono le “Scuole di politica”, ma è anche vero che per moltiCristiani “rinnovamento” vuol dire solo corretta amministrazione, consiste tuttonel riassettarsi l’abito e nel recuperare consenso. Certo, l’aggregazione del consenso è la causa formale della politica.Ma solo subordinatamente ad un’attenta riconsiderazione della politica sullosfondo della concezione cristiana dell’esistenza. Per un Cristiano, la politica haanche una causa efficiente (un soggetto primo) e una causa finale (un obbiettivoultimo).Il soggetto primo della politica è la buona volontà eterna generale, di persegui-re tutto il bene comune; il soggetto secondo è la volontà del bene comune cosìcome, concretamente, riesce ad aggregare consensi in un determinato tempo ein un luogo determinato.L’obbiettivo ultimo della politica è la liberazione sociopolitica di tutti gli

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13 Catechismo Universale della Chiesa Italiana, LEV, Roma, 1992, 141-189 e 239-248.14 B. MAGGIONI, Radici e figure bibliche della solidarietà, in AA.VV. La solidarietà, Vita e Pensiero1990, 41.

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oppressi che la storia inesorabilmente ha creato e (intensificando i ritmi, secontinua questo trend) continuerà a creare; l’obbiettivo penultimo è quello dibattere tutte le povertà che storicamente si riesce a battere.Come Cristiani ci compete il diritto-dovere del culto dell’utopia che si proiettaverso l’obbiettivo ultimo in nome dell’energia che le viene dalla presenza delsoggetto primo. Non si può fare politica da Cristiani se non abbracciando con losguardo e scegliendo come stella polare del proprio impegno Tutto il BeneComune, e sentendosi frammenti di quella Buona Volontà Generale che loSpirito di Dio immette nella storia.Solo subordinatamente a questa visione di fondo può e deve essere accettato epotenziato il proprio ruolo come “secondo soggetto”, legato all’“obbiettivopenultimo”.È così che si coltiva il potere... oltre il potere.

Fuori di questo quadro non esiste alcuna “politica da Cristiani”. Esiste solouna politica da sagrestani.

Il Contributo di Capodarco al II Convegno Caritas/CNCA (Firenze,1996) Intervenendo il 29 ottobre 1996 al Convegno della Caritas e del CNCA suAnnunciare la carità, vivere la speranza, a Firenze, don Angelo M. Fanucci,come presidente di quella che ancora si chiamava Centro Lavoro Cultura e chel’anno dopo avrebbe assunto il nome di Comunità di Capodarco dell’UmbriaONLUS, alle centinaia di credenti che erano presenti formulò la proposta didare vita ad una specifica SPIRITUALITÀ DELLA CONDIVISIONE.

Spiritualità in senso cristiano è la particolare angolatura che, nell’ambitodella decisione comune a tutti i Cristiani di scegliere Lui come fondamento dellavita e la Chiesa come ambito connaturale al cammino fatto con Lui, una perso-na, o un gruppo di persone, intende dare alla propria sequela.

I destinatari della proposta sono dunque innanzitutto coloro che hanno sceltoCristo come modello e la Chiesa come propria casa. Per essi non si tratta d’in-ventare nulla. Si tratta di esaltare dal grembo della casta meretrix (la Chiesa,“Santa puttana”, così si esprime S. Agostino) che ci ha generato, tra le millecose nuovissime e decrepite che vi allignano, LA CONDIVISIONE: un’ispira-zione di taglio finora rimasto in ombra, o confinato tra gli “eroismi” che inrealtà non sono affatto tali. Ma sono anche coloro che per Cristo hanno un gran-de rispetto e una grande stima delle potenzialità liberatrici del suo messaggio.Anche per chi non riesce a vedere in Cristo nulla più che un maestro eccezio-nale, una persona eccellente, un cultore coerente della giustizia, uno psicologofinissimo, ecc., questa proposta può avere un senso. Essa viene fatta nella suainterezza, ognuno poi la sintetizza come sa e può nella propria vita. La Bibbiaha un valore normativo determinante per tutti quelli che hanno fede, ha un

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valore culturale enorme (= insegna un eccellente modo di coltivare se stessi) pertutti quelli che hanno cuore e cervello.

I contenuti della proposta sono fondamentalmente quattro:IL PRIMATO DELLA GRAZIA. Sulla scia di Gesù di Nazareth (“Senza di mevoi non potete far nulla”) la Chiesa insegna che alle sole forze umane è impos-sibile fare luce fino in fondo sulle dinamiche che davvero “costruiscono l’uo-mo” e, soprattutto, accoglierle in pienezza nella prassi quotidiana. “Occorre –dice la Chiesa – la Grazia di Dio, la sua iniziativa gratuita; con questa iniziati-va si viene a contatto, in via normale, tramite l’Annuncio e il Sacramento”. Tuttele splendide cose che abbiamo detto finora non si realizzano DI NORMA senon accogliendo L’ANNUNCIO CHE Dio si è fatto prossimo a noi da tutti ipunti di vista: nella natura, nella storia, nei poveri, ma soprattutto nella PARO-LA ETERNA DI DIO FATTO CARNE e NEI SANTI SEGNI DELLA SUAPRESENZA. “DI NORMA” le vie del Signore sono veramente infinite, anchegli asini nella Bibbia parlano; ma la via additata è una sola; e nascere asini nonè la migliore delle condizioni idonee a comunicare con gli altri.

LO SPAZIO CHE HA AVUTO LA CONDIVISIONE MATERIALE DELL’ESI-STENZA NELLA VITA DI GESÙ DI NAZARETH. I trent’anni della “vita con-divisa senza commenti” sono il riferimento essenziale della spiritualità dellacondivisione. A quei trent’anni nella storia del Cristianesimo si è pensato spes-so, ma quasi soltanto in chiave di “abnegazione”, di nascondimento del Verbo.Tutto questo rimane di fondamentale importanza. Ma quei trent’anni hannoanche un altro valore, riassumibile in una tesi di questo genere: il Figlio di Dio,pure atteso da secoli, pure nella piena consapevolezza di quanto fossero neces-sari agli uomini la sua parola e i suoi “segni”, ha scelto di “condividere senzacommenti” la vita dei poveri per i dieci undicesimi della sua esistenza terrena,riservando gli ultimi tre anni a spiegare il perché di quella scelta. Per questo lasua prassi di vita è fortemente caratterizzata (dice Maggioni) dall’“incondizio-nata accoglienza dei poveri, dei peccatori, degli stranieri, degli ammalati, deldisprezzato popolo della terra”; e quando gli hanno chiesto di “essere più chia-ro” è stato chiarissimo: “Io sono venuto non per farmi servire, ma per servire, eper mettere la mia vita a disposizione delle moltitudini”: Quando avrà preso espezzato il pane, quando a tutti avrà detto “mangiatene tutti!”, tutti quelli chelo vorranno avranno la possibilità di capire.

UNA VERA SPIRITUALITÀ, CHE ABBIA CIOÈ UN’ANIMA E UN CORPO• un’anima, per non ridursi alla (pur necessaria) dimensione politica;• un corpo, per non arenarsi nelle secche dello spiritualismo.

Anima e corpo come “sünolon”: non solo indivisibili, ma perfettamente recipro-ci, e tali da definirsi l’uno in relazione all’altro.

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L’anima è la croce, così come la legge oggi la Chiesa: in chiave di oblatività a360°.Il corpo è la materialità del vivere insieme con gli emarginati, giorno dopo gior-no, non vaghe esperienze di sostegno “spirituale”, ma l’esistenza grezza, il quo-tidiano in senso materiale: la colazione, Natale, il pianto dei bambini di notte...Gratuità e oblatività in un quotidiano che non ha nulla di speciale. Come quel-lo di Gesù a Nazareth. Una vita che si propone nient’altro che di essere gratuitae oblativa, nel senso più ampio: nell’oblatività è ovviamente compreso l’impe-gno a dire, quando qualcuno ce le chiederà, le “ragioni della nostra speranza”.

UNA CONDIVISIONE DOPPIAMENTE POVERA, perché, pur utilizzandocorrettamente tutti i mezzi che lo Stato mette a disposizione di tutti (convenzio-ni, accreditamenti, facilitazioni varie) non fa affidamento né sulla bisaccia benfornita, né sul paio di scarpe di riserva, ma, pur non escludendo nessuno, privi-legia il povero, così come esige la più elementare giustizia.

Laicamente. La proposta non ha senso sullo sfondo del micragnoso laicismo,fatto solo di tolleranza, in uso tra gli intellettuali “di sinistra”; il suo senso laproposta l’assume in una laicità vissuta per intero in positivo, nel rispetto rigo-roso della coscienza di ciascuno, ma anche con un fortissimo impegno morale amettere insieme ciò in cui crediamo e speriamo, a cominciare da quelle “ragio-ni di speranza” che ci hanno indotto a condividere la vita degli emarginati.

Don Carlo Molari, quando la commozione ci travolseCome suggello di tutto il nostro discorso sulla spiritualità della condivisione edell’accoglienza, vogliamo qui ricordare la commozione che ci colse quanto donCarlo Molari concluse la sua relazione al I Convegno del CNCA. Torino, Parcodella Pellerina, maggio 1984.Il Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza era nato due anniprima, nel 1982, per iniziativa di comunità che accoglievano emarginati assor-titi (prevalentemente tossicodipendenti) e che, pur dando all’attività terapeuticail giusto peso, sottolineavano il carattere culturale dei processi emarginanti,secondo un detto programmatico divenuto giustamente famoso tra gli addetti ailavori: L’emarginazione non è la parte malata della società, ma il sintomo piùevidente di una società malata in radice.Tre furono le relazioni memorabili di quel memorabile convegno: quella diBruno Maggioni (di taglio biblico), quella di Daniele Menozzi (di taglio storico)e quella di taglio teologico tenuta da don Carlo Molari, il brillantissimo docentedi Teologia Dogmatica e consulente della Congregazione per la Dottrina dellaFede (ex Santo Uffizio) che tanti anni or sono venne emarginato, nessunosaprebbe dire perché.Il destino degli emarginati e dei poveri è quello di essere sempre assenti là dove sidecide del loro futuro. Ma la loro missione è quella di vivere in modo tale da

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rivoluzionare le situazioni di male causate dal peccato e da indicare le vie attra-verso le quali la Vita si apre faticosamente il cammino nella storia degli uomini.Essi diventano così il luogo privilegiato dove la storia delinea il destino di tuttigli uomini e formula le decisioni da prendere per il futuro dell’umanità.Ma perché ciò avvenga è necessario che gli emarginati, i sofferenti, i dannatidagli uomini non siano lasciati al loro destino. È necessario che altri fratelli siuniscano a loro per accogliere le parole che attraverso di essi il Verbo continua asussurrare agli uomini e per esprimere l’amore liberatore che Dio ha per loro.Poiché l’amore di Dio non può manifestarsi sulla terra se non attraverso gestiamorosi di uomini, solo se gli emarginati saranno circondati dall’oblatività difratelli potranno costituire luogo salvifico. La loro condizione diventerà esplosio-ne di forza nuova per l’umanità intera.Quando Gesù moriva sulla croce, fuori della città, ai margini di una festapasquale, si compiva un delitto, un’ingiustizia si consumava. Ma Gesù seppe vive-re in un modo così coerente la sua dannazione, da fare di un delitto degli uominiuna riserva di grazia da parte di Dio. Un omicidio divenne un evento salvifico.Non c’era che poca gente a condividere quella tragedia. Ma fu quella condivisio-ne che germinò una nuova umanità. Non è senza significato che tra quella pocagente ci fosse anche sua Madre.Gli aveva insegnato ad amare, avvolgendolo di oblatività, e il figlio “imparò daciò che soffrì l’obbedienza” (Ebrei 5, 8). Gli aveva insegnato a morire, dato cheogni gesto di amore è apprendimento dell’offerta radicale che un giorno la mortechiede ad ogni uomo. Sotto la croce completò la sua maternità con l’ultimo gestodella sua condivisione oblativa. Gli insegnò a morire fino all’ultimo respiro. EGesù si consegnò al punto da “essere costituito da Dio Messia e Signore” (cfr. Atti2, 36).La croce era ai margini della città, e divenne una frontiera per l’umanità intera.La frontiera è sempre marginale. Ma essa è l’unico luogo dove il futuro si intro-duce nella storia: essa è il centro dell’invenzione della vita.La storia nuova non nasce certo dove si scrivono le leggi, né dove i potenti pro-grammano la spartizione dei beni della terra.La storia nuova nasce dove si sprigionano le forze sotterranee della vita, doveesplodono le invenzioni dello Spirito.Là dove il margine diventa frontiera.Ma perché ciò avvenga è necessario che:

• chi si trova in emarginazione viva la sua condizione in modo da sprigio-nare la forza nascosta della Vita;

• chi condivide la loro situazione metta in circolo tale oblatività da cam-biare “l’ingiustizia in grazia, la sofferenza in salvezza”.

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“Non c’è dignità senza lavoro”.Non c’è nessuno, nemmeno per i disabili

Che ognuno dia quello che può dare,che ognuno riceva quello di cui ha bisogno.

Non ti diamo il becchime giustoperché tu possa tornare domani a lavorare.

Ti diamo la vita, e la vogliamo da te.

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Carità e Solidarietà

Con il Concilio e il Cristianesimo di liberazione abbiamo scoperto che noiCattolici non siamo i soli a impegnarci per i poveri, né siamo necessariamentei primi della classe.Noi parliamo di “carità” come culmine della vita, che ha senso solo se è obla-tiva, altri danno lo stesso peso alla parola “solidarietà”, con esiti a volte moltopiù incisivi dei nostri.Inevitabile, dunque, che solidarietà e carità si confrontinoEppure la parola solidarietà, che esprime tutto questo, è stata per secoli guar-data con sospetto dai cristiani.

Carità e solidarietà: un lungo conflitto di parole La parola “solidarietà” non esiste nella Bibbia15, ma fino alla prima metàdell’Ottocento non esisteva nemmeno nel vocabolario delle lingue europee.Esisteva la locuzione latina in solidum, che nel diritto romano indicava laresponsabilità di soggetti distinti chiamati a rispondere d’un certo atto come sefossero una sola persona. Con la parola solidarietà intendeva presentare se stesso l’ugualitarismo illumi-nista del Settecento, in forte chiave polemica contro la tradizionale carità cri-stiana16. Nel linguaggio comune la locuzione carità cristiana ha tre diversi significati:

• elemosina: gli spiccioli che scivolano sul piattino del mendicante; hovisto un poveretto e gli ho fatto la carità”;

• l’insieme delle iniziative socio/assistenziali della Chiesa; “la carità dellaChiesa è presente ovunque nel nostro paese”

• virtù teologale, che la fede cristiana vuole sia stata infusa in noi (alivello di germe) dal battesimo insieme con la fede e la speranza; insinergia con esse, la carità abilita l’uomo ad amare Dio sopra ogni cosaa motivo della sua bontà infinita… e gli altri così come Lui li ama, …cifa partecipare alla forza e alla bellezza dell’amore con cui Cristo haamato il Padre e i fratelli17.

La polemica illuminista contro la carità come elemosina non può non esserecondivisa. Ma gli Illuministi sostengono che la carità come insieme delle attività assisten-ziali della Chiesa non ha più senso, perché quelle attività non sono quello che

15 Ibid., 53.16 CEI, La verità vi farà liberi, o. c., n. 832.17 P. LEROUX, De l’humanité, citato in V. Paglia, Storia dei poveri in occidente, Rizzoli, Milano,1993, 354.

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Capitolo Quarto

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dicono di essere; e questo perché, secondo loro, la carità come virtù non è altroche la versione mitologica della solidarietà umana; una versione in tono deci-samente minore, perché impegna ad amare in funzione di quell’unico amore chela religione ritiene veramente degno, fino in fondo, di questo nome: l’amore diDio18 ed è tutta improntata alla suprema lex del cristianesimo, quella salus ani-marum (“La salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa”) che impe-gna il Cristiano a tentare di portare tutti in Paradiso. La virtù che secondo gli Illuministi deve sostituire le carità, messa definitiva-mente in crisi dall’avvento della ragione, è la filantropia, l’amore dell’uomo inquanto uomo, l’unica forma di amore dalla quale possono nascere iniziativesocioassistenziali tese a servire l’uomo amato per se stesso, e non strumentaliz-zato in funzione del fine soprannaturale che egli si presume sia chiamato araggiungere.Su queste basi la contrapposizione fra solidarietà e carità ha serpeggiato perdue secoli come sottofondo di ogni incontro/confronto fra iniziative a vantaggiodei deboli ispirate al cristianesimo e iniziative analoghe ispirate a una visionelaica ed agnostica del mondo. Grazie a questi antefatti il termine “solidarietà”è stato comprensibilmente tenuto a debita distanza dall’area dai credenti: intutti i documenti pontifici antecedenti il magistero di Giovanni Paolo II il ter-mine “solidarietà” ricorre poche decine di volte.Quando ci si è resi conto che la contrapposizione era tutta strumentale a unapolemica storica che aveva fatto il suo tempo, la diga è crollata: nell’insegna-mento di Papa Wojtyla l’uso di quel termine si ripropone circa ventimila volte.La diga è crollata perché si è andati alla sostanza; se mettiamo da parte leparole e puntiamo alla sostanza, vediamo che l’istanza solidarista nella Bibbiaè onnipresente e si lega a filo doppio a tutti i significati fondanti del messaggiobiblico, da berìth19 (alleanza, centrale nel VT) ad agàpe20 (carità, centrale nelN.T.). La diga è crollata quando, messe da parte le parole, si è andati a scanda-gliare il significato autentico della parola solidarietà, in controluce rispetto adaltri significati meno autentici della stessa parola. Quando, in controtendenzarispetto alla faciloneria dei mass media, si è cominciato a parlare de la solida-rietà in controluce su le solidarietà.

Carità e solidarietà: una complicità sincera ma provvisoriaSolidarietà e carità nell’impegno a favore dei poveri partono insieme. L’amoreeterno e infinito di Dio, per inarrestabile forza endogena, cerca le vie dell’uo-mo, dando origine a una serie di progetti storici che in parte si collegano conla fede in Cristo, ma in parte ne prescindono: si pensi da una parte alla molti-

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18 J. L. MAC KENZIE, Israele, popolo alleato con Dio, in Grande commentario biblico, Queriniana,Brescia, 1977, 1787-1806.19 J. A. GRASSI, La lettera agli Efesini, in o. c. , 1275-1280.20 Sollicitudo rei socialis, 38-40.

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tudine degli ordini religiosi nati nel corso della storia cristiana a vantaggio deipiù deboli, dall’altra alle portentose invenzioni del volontariato laico di oggi,da Amnesty International a Emergency, da Medicins sans frontières al Tribunaleper i Diritti del Malato. Il primo di tutti questi progetti è stata ed è la Chiesa stessa, “luogo della croce,della resurrezione e dei poveri”.Il vertice e il riassunto di tutta l’esperienza ecclesiale è la virtù teologica dellaCarità. È quindi del tutto naturale che, quando incontra la solidarietà e le suerealizzazioni storiche, la carità ne divenga immediatamente complice. Troppoevidentemente tensione ad amare come Dio ama e assunzione di responsabilitàdi tutti verso tutti si richiamano l’una l’altra.Gandhi e Francesco camminano a lungo insieme. Ma viene il momento nelquale separarsi.

La carità rivendica la propria originalità e denuncia l’insufficienza dellasolidarietàQuando viene il momento di separarsi? Quando, senza complessi d’inferiorità esenza integralismi, i Cristiani avvertono l’urgenza di richiamarsi a quel “dina-mismo integralmente nuovo” al quale Cristo li ha chiamati chiamandoli allafede.La salvezza è frutto solo della grazia, della libera e gratuita iniziativa di Dio inCristo e non è raggiungibile con le sole forze dell’intelligenza e della volontàumane. Grazie all’irriducibile distanza fra bisogno e risposta (sia sul piano del-l’intelligenza che su quello della volontà), le risposte buone al “perché dovreiessere solidale con i miei simili” possono essere molte, ma, nella visione cri-stiana della vita, l’unica risposta che decide è sempre oltre.

Metà degli anni ’80: una ventina di giovani operatori del CNCA(Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza), al terminedi tre intense giornate di dibattito sulla cultura della condivisione edell’accoglienza, tenutesi a Gubbio, a S. Girolamo, nella Comunità diCapodarco dell’Umbria, chiedono d’incontrare Sergio Quinzio, il gran-de e anomalo Cristiano, amico fra l’altro anche dello scrivente, cherecitava ogni giorno il rosario intero (150 Ave Maria) e metteva in allar-me preti e vescovi per la libertà e l’originalità della sua rivisitazionedel Vangelo. Salimmo a Montebello, tra Fossombrone e Fano. Gli rac-contano la spremitura delle nostre discussioni, gli chiedono una suariflessione in proposito. Sergio, i suoi occhi chiari.: “Volete sapere dav-vero cosa penso di voi?”. Che domanda, Sergio! Siamo venuti quassùproprio per questo! Sergio si liscia più volte la grande barba rossiccia.“Ebbene, sapete quanto vi voglio bene e quanto stimo il vostro lavoro,ma sappiate che voi...: voi non salvate nessuno!”. La solidarietà da sola non basta. Quando si spinge l’acceleratore, ci siaccorge che essa “non salva nessuno”.

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La stessa cosa che diceva S. Pier Damiani (+1071) da Fonte Avellana: l’amoretra gli uomini senza l’amore verso Dio è inutilizzabile, rattrappito, senza sapore.Francesco e Ghandi si separano.Ma hanno un grande servizio da rendersi reciprocamente.

La Carità disvela, fonda, abilita e, trascendendola,salva la solidarietà

Provocandola ad uscire da se stessa, la carità non abbandona la solidarietà alproprio destino, ma le offre tre indicazioni atte ad “andare fino in fondo”, apredavanti ad essa la possibilità di un triplice, decisivo “balzo in avanti”, in tredirezioni:

1. la carità DISVELA alla solidarietà le sue radici ultime;2. la carità FONDA la solidarietà sulla più tenace delle rocce;3. la carità ABILITA la solidarietà a compiere ciò che altrimenti non

sarebbe stato nemmeno pensabile.

Disvela. La solidarietà non sa da dove viene, né verso dove va, e nemmenoche cosa è. È un piccolo moto dell’anima, occasionale ed episodico? È il risul-tato d’una tempesta di ormoni impazziti? No. Alla sua base c’è un amore gratuito tendenzialmente senza misura, unamore che cancella il concetto stesso di “nemico”, un amore che, senza esclu-dere nessuno, la sua preferenza la riserva agli ultimi. Dio è Amore, Gesù ne èla prima proiezione nella storia: sulla base di questo amore l’unione fra idiscepoli si fa letteralmente in-dicibile. Su questa linea sono nati via via i“miracoli della carità”: quei pochissimi che tutti conoscono, e quei tantissimiche risplenderanno nel Regno di Dio.

Fonda. L’“emergenza assoluta del bene” che l’uomo solidale ha sperimentatoin sé, come una forza irresistibile, poggia su di un processo di tipo personale,ha come attori delle persone, tende ad un fine di taglio personale, configura unforte cammino relazionale interpersonale. Le persone coinvolte nel processosono l’uomo e Dio. Il soggetto primo è lui: là dove si pensava che esistesseun’anonima “sorgente”, si scopre un oceano di vita, misteriosa ma anche stori-ca, d’insospettato e insondabile spessore personale: la partecipazione d’amoretra il Padre e il Figlio, nella gioia dello Spirito Santo; e in questa nuova lucequel “cammino della famiglia umana verso l’unità”, che era poco più di unmito di tipo simbolico, assurge ad evento finale che STORICAMENTE si rea-lizzerà alla fine dei tempi, quando Dio sarà tutto in tutti; e questo perché il suoprotagonista è il Cristo stesso (“Io sono la via...”), come persona STORICA,risorto e operante tra i suoi, vivente in pienezza nella Chiesa, vivo in ogniuomo che abita la faccia del mondo.

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Abilita. Una volta che la carità è penetrata nel cuore dell’uomo, risalendo intutte le parti del suo organismo, grazie ad una specie di capillarità silenziosa eonnipotente, l’amore umano, in tutte le sue gradazioni (“agàpe” – donazione;“filìa” – nobile amicizia, “eros” – bisogno psicofisico dell’altro), si apre senzapiù alcuna riserva all’Infinito scoperto come persona, anche se ognuna dellegradazioni alle quali abbiamo accennato conserva una sua originalità e unasua dignità.

Ad onta dei “maestri del sospetto”La proposta cristiana è dunque che la solidarietà si apra alla trascendenza. Latrascendenza è stata calunniata e ridotta ad alienazione dai “Maestri delsospetto” (Darwin, Marx, Freud), che pure una qualche giustificazione ce l’a-vevano, nelle distorsioni delle quali soffriva il messaggio cristiano al lorotempo. Darwin ha tentato di convincerci che fra l’animale e l’uomo la differen-za è solo quantitativa, non qualitativa: la scimmia è un uomo che non haavuto…l’ultima mano, o – se preferite – l’uomo è una scimmia accuratamentepolita. Marx ha tentato di convincerci che la coscienza non è “una luce”, masolo la proiezione dei rapporti materiali che un uomo vive nella concretezza diogni giorno feriale. Freud ci ha messo sull’avviso: attenti!, perché quelle che voi pomposamentechiamate “scelte morali” potrebbero essere in realtà solo capricci del subcon-scio.Feuerbach ha fatto la sintesi: L’uomo debole si crea un Dio forte. E ancora: Ilpensiero dell’al di là è una vigliaccata consolatoria tesa ad evitare surrettizia-mente la durezza dell’al di qua.Certo, nella Weltanschauung cristiana la trascendenza è anche un “alto là” allapresunzione dell’homo sapiens e dell’homo faber, ma prima ancora è il puntoomega

• che struttura l’intero cammino umano, come fa ogni fine nei confrontidel cammino che a quel fine porta,

• che, rettamente compresa e interiorizzata, riempie di significato l’interavicenda umana.

La trascendenza che salva la storia salva anche la solidarietà.

La Solidarietà storicizza la Carità

La Chiesa serve gli uomini trascendendone la condizione e, al tempo stesso,incarnandosi in essa. Nella dialettica fra trascendenza e incarnazione il pendolo oscilla fra posizionidiverse che comportano pericoli diversi; quando sottolinea la propria trascen-denza, la Chiesa si stacca e si isola dal mondo, quando invece sottolinea la

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propria full immersion nel mondo, rischia la perdita della propria identità, l’o-mologazione sull’ultimo umanesimo di successo.All’interno di questa dialettica la solidarietà indica la forma che l’istanza cari-tativa deve assumere qui e oggi. E questo perché il cuore profondo della solidarietà umana

• è la solidarietà interpersonale perché l’uomo, prima di ogni altra cosa, èPERSONA,

• è l’appartenenza radicale dell’uomo ad un certo luogo, un certo tempo,una certa cultura.

Chi è solidale, prima ancora di impegnarsi a fare qualcosa, scopre là dovevive, nel proprio tempo, nella propria cultura valori e percorsi vitali, ignoti achi solidale non è. Siamo parte essenziale d’un tutto vitale che ha il volto ditutti: il volto della persona; ogni persona è LA persona, centro di dignità tota-lizzante, non quantificabile, definitiva: tra tante realtà che hanno valore “infunzione di”, la persona vale quello che vale, rivendica la sua radicale centra-lità solo per quello che è.

La diversità non solo non fa problema, ma è “conditio sine qua non”. La comu-nione vera è solo comunione fra diversi. È la scoperta dell’altro come Altro,che genera in rapida successione rispetto, fedeltà, cura, gratuità.

È stato Giovanni Paolo II21 a definire la SOLIDARIETÀ come ferma e perse-verante determinazione a impegnarsi per il bene di tutti e di ciascuno, perchétutti siamo responsabili di tutti, perché tutti siamo uguali come immagine diDio, riscattati dal sangue di Cristo, oggetto dell’azione perenne dello Spirito”.La definizione si articola in due livelli ben distinti:

• a livello antropologico, valido per tutti; parlando un uomo di buonavolontà agli uomini di buona volontà, il Papa afferma che la solidarietàin sé e per sé consiste nella ferma e perseverante determinazione a impe-gnarsi per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo responsabili ditutti;

• a livello teologico, valido per chi ha fede; parlando da Papa ai suoifedeli e ai credenti in genere, il Papa afferma che, in chi ha avuto ildono della fede, la solidarietà può e deve attingere le sue radici ultime.

Una definizione che, a livello antropologico, è davvero ben calibrata, perchédella solidarietà coglie l’essenza (determinazione a perseguire il bene comune) eal tempo stesso ne delimita i confini:

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21 J. L. MAC KENZIE, Israele, popolo alleato con Dio, in Grande commentario biblico, Queriniana,Brescia, 1977.

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• ferma: non poggia sulle sabbie mobili del ricatto sentimentale, maabita le fondamenta della persona;

• perseverante, cioè incarnata in una serie di comportamenti omogenei; • impegnata sia sul piano politico (“il bene di tutti”) che sul piano inter-

personale (“il bene di ciascuno”);• radicata in un vitale senso di appartenenza alla grande famiglia umana,

che è il solidum che dà senso e pienezza ad una vita individuale sentitacome responsabile verso tutto.

Nelle definizioni dell’uomo solidale, un ruolo centrale tocca al bene comune,inteso non come un optional festivo, ma

• come un’istanza assolutamente feriale: il bene comune;• non alternativa al bene personale, ma complementare ad esso.

Proprio come appartenenza storica, la solidarietà offre un servizio importantealla carità.In negativo, innanzitutto, denunciando le marachelle che possono nascondersisotto la copertura ideologica offerta dal nome “carità”. Il pericolo delle mezzeverità, il perbenismo qualunquista, l’irresistibile fascino dello slogan, l’osses-sione verbale del servizio, l’ossessione reale del potere, lo spiritualismo.In positivo la radicale appartenenza al qui e all’oggi addita alla carità unaserie di piste: I poveri come luogo teologico, L’autentico rapporto tra carità efede, L’impraticabilità della rassegnazione, La sottile insidia dell’Age quod agis, Il corretto rapporto fra ortodossia e orto-prassi, La vera riconciliazione, La centralità antropologica dell’Eucaristia, Iltaglio cristiano dell’educazione dei giovani. Ognuna di queste piste meritereb-be uno specifico approfondimento.

L’Ultima istanza: Carità e Solidarietà nella curadell’Handicap

Stringiamo. Questo volume condensa l’auto/riflessione della Comunità diCapodarco dell’Umbria ONLUS; questa associazione ha come scopo sociale lapromozione della persona, con particolare attenzione agli emarginati, ma questaintenzione di fondo s’incarna soprattutto nell’accoglienza e nella promozione disoggetti disabili. Che “ci azzecca” tutto quello che abbiamo detto finora, intema di spiritualità, con la concretezza di questo servizio?

Le tre parole che sintetizzano l’intervento tecnico sull’handicapLa coscienza civile di oggi impegna la società e lo stato a farsi carico del disa-bile accogliendolo, riabilitandolo, socializzandolo. Tre parole che riassumonocon efficacia.

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Accoglienza. L’handicappato non va né isolato né nascosto, ma deve innanzi-tutto essere e sentirsi accolto come persona; per questo occorre

• mettere a fuoco con lui la verità della sua condizione e aiutarlo a ren-dersi conto che solo l’esercizio di certe sue competenze di persona èstato bloccato dalla malattia, mentre il suo essere persona rimane intat-to;

• dimostrargli con i fatti che accanto a lui ci sono persone disposte - a scommettere sulla sua persona,- ad instaurare con lui relazioni non funzionali né pietistiche, ma

di taglio personale.

Chi deve accogliere il disabile come persona?• Colui che si dedica alla sua riabilitazione, e il nostro Corso vorrebbe

aiutarlo - a maturare le motivazioni di profilo personalista, il più alto che

sia possibile;- a conoscerlo nella sua concretezza, attraverso un tirocinio serio

e guidato.• La società nel suo insieme: “recuperare” vuol dire re/imparare a vivere

in ambienti sempre meno specifici, destinati solo al disabile, impararea muoversi senza reti di protezione.

Purtroppo questa accoglienza, grazie ad una specie di razzismo strisciante,risulta a volte disturbata da un meccanismo psicologico, che tende a deformareil rapporto con l’handicappato. Il disabile deve giustificare sine die il fatto diessere al mondo.

La gente si chiede:• devo accogliere l’handicappato anche se è diverso da me?• oppure devo accoglierlo come se non fosse diverso da me?• oppure devo accoglierlo proprio perché è diverso da me?

In realtà l’unica risposta veramente degna dell’uomo è… il rifiuto di risponde-re a domande del genere; se vivessimo in una società veramente accogliente,ad alto contenuto di umanità, dovremmo poter dire: NON VEDO PERCHÉDOVREI MOTIVARMI AD ACCOGLIERE L’HANDICAPPATO.

In realtà l’handicappato è quasi sempre un emarginato• o per la tangente inferiore: segregato in casa, a non far nulla per tutta la

vita, o relegato in un istituto, a dividere per tutta la vita la camera daletto con cinque estranei, quando nel paese del quale egli è ufficial-mente cittadino è ormai rarissimo il caso d’un suo coetaneo che dividala camera da letto col proprio fratello;

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• o per la tangente “superiore”: superprotetto e viziato dall’amore deigenitori, eccessivo e poco rispettoso della sua dignità; coccolato daigiovani del gruppo parrocchiale Caritas, “amici” che se non fosse statoinvalido non si sarebbero mai avvicinati a lui; e nel nord Europa loStato Buono e Puntuale, che ogni mattina gli fa trovare nuovo di zeccaun biglietto di banca da 100 euro sul comodino, con preghiera di met-terlo nel portafoglio senza troppe domande sul chi ce l’ha messo, e direstare a letto fino all’ora di pranzo, e di godersi nel pomeriggio la tele-visione, o, ad libitum, di dedicarsi a infastidire la cassiera del bar.

Paradossalmente anche noi Cristiani abbiamo in qualche modo contribuito afare dell’accoglienza (del disabile e del povero in genere) non la regola mal’eccezione. È successo quando, innalzando fino al cielo gli eroi della carità cristiana,abbiamo insinuato (press’a poco) un ragionamento di questo tipo: noi Cristianimedi facciamo altre cose, ma ci sentiamo vicini ai tanti preti e frati e suore elaici che, eroicamente, anche a nome nostro accolgono i più deboli.

Riabilitazione. La “riabilitazione” è quell’insieme di operazioni che, perquanto possibile, rendono di nuovo “agibili” quelle parti dell’organismo chenel disabile sono state lese dal deficit congenito o dal trauma sopravvenuto.Ovviamente i processi che riabilitano un handicappato fisico sono quasi deltutto diversi da quelli che riabilitano un handicappato mentale. E, all’internodi queste due grandi classi, ogni forma di disabilità ha il suo specifico percor-so. Ma tutti i processi riabilitativi degni di questo nome hanno come base la cen-tralità dell’uomo.

Si parte dall’uomo per arrivare all’uomo.• Si parte dall’uomo. L’uomo-persona e l’uomo personalità.

- Ogni uomo è persona allo stesso, identico modo, con la stessaintensità; lo è per il puro e semplice fatto di esistere comeuomo. La persona, centro assolutamente originario e irripetibiledi una dignità intangibile, in qualsiasi condizione (materiale omorale) vivano: Caino condivide con Abele il diritto a “nonessere toccato”;

• Ogni uomo è personalità in un modo totalmente diverso da quello in cuilo sono gli altri uomini. La “personalità” è data dalla capacità di indi-viduare i fini che uno vuol dare alla propria vita e di scegliere i mezziper raggiungere quei fini. In ordine alla diversità della personalità,ogni intervento va personalizzato, in un delicato gioco di azione/reazio-ne fra proposta del terapeuta e risposta del paziente.

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“Partire dall’uomo” nel rapportarsi con il disabile vuol dire che il terapeuta èanimato, al tempo stesso, dal senso vivo dell’altissima dignità intangibile delsoggetto del quale si prende cura e dalla realistica percezione delle sue effetti-ve possibilità di recupero.

Per arrivare all’uomo. Prima dell’arto va ri/educato e ri/motivato l’uo-mo. L’insulto alla sua salute fisica è solo l’involucro esterno di un benpiù grave insulto: quello fatto a lui come persona; e si traduce semprein insicurezza forte circa la possibilità e il senso del suo continuare adessere uomo tra gli uomini.

Tecnicizzare l’intero problema è fuorviante: lavorare con un prontuario d’inter-vento in mano, per applicarlo al “caso” che stai trattando, è assurdo. La com-ponente tecnica dell’intervento ha il suo senso solo all’interno di un rapportoumano face to face, unico, irripetibile. Per un paziente qualsiasi, che abbiaavuto una mano bloccata dall’ictus, dargli da sgranocchiare una pannocchia digranturco sarebbe una stranezza; per l’anziano contadino di Burano sarebbe ilnon plus ultra ai fini del recupero funzionale del suo arto. Il grande sviluppo che, all’interno dello Stato Sociale, hanno assunto ai nostrigiorni sia la fisiatria che il recupero psicologico hanno indotto nella cultura diquesto settore due autentiche sbornie:

• La sbornia meccanicistica nella terapia fisica: nel secondo dopoguerraha dilagato tra gli addetti ai lavori, a ondate, contagiando a volte anchel’opinione pubblica, una specie di gioiosa enfatizzazione di tutte le tec-niche riabilitative. Tornavano da Boston o dall’Austria giovani fisiote-rapisti pimpanti, sicuri di se stessi e latori di una nuova “buona noti-zia”: la “soluzione finale” era solo questione di tempo; l’incidenza delcontesto umano nel quale l’handicappato vive veniva come rimossa.

• La sbornia sociale nella terapia psichiatrica e psicologica: nei primi anni70 si verificò l’infatuazione specularmente contrapposta: l’uomo è nien-te di più che il membro d’una data struttura sociale; la vera riabilitazio-ne è tutta nel corretto rapporto con questa struttura. In Italia era iltempo dei CIM, i “Centri di Igiene Mentale” che davano per scontatoche la salute mentale fosse una questione di pura e semplice igiene. Erail tempo dei “basagliani acritici”: Franco Basaglia, a Gorizia e a Trieste,ha “abolito i manicomi”, sperimentando la loro non facile sostituzionecon proposte splendide ma di difficile realizzazione? Ebbene, i manico-mi li aboliremo anche noi. Per decreto. Senza tante “sottigliezze”.

“Sbornie”: l’istanza ideologica prevaricava nei confronti delle autenticheragioni della fisioterapia e della psichiatria, dilagava la strumentalizzazionesenza pudore da parte d’un potere politico che aveva un bisogno estremo digratificazione. Momenti esaltanti e al tempo stesso distruttivi.

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È Inserimento sociale. La socializzazione, o ri/socializzazione, è il traguardofinale di tutto il processo.L’uomo per natura sua è un essere sociale, e senza rapporti con gli altri non puòvivere né esplicare le sue doti.

La differenza fra individuo e persona è tutta qui: materialmente indi-cano lo stesso soggetto umano, che però è individuo se rimane com-patto in sé, chiuso a difesa del proprio io rispetto a quanto lo circon-da; diventa persona quando entra in rapporto dialettico, cordiale,osmotico con la realtà che lo circonda.

Per un vero reinserimento del disabile occorre che in lui si affermi la consape-volezza

• di essere sempre e comunque titolare di diritti inviolabili, - sia a livello di principio, (un ruolo effettivo, delle amicizie

autentiche, una relazionalità vera, una sua sessualità), - sia a livello di esercizio concreto (la scuola, il lavoro, i traspor-

ti, i luoghi destinati all’incontro informale e al culto, al diverti-mento e al consumo, alla cultura e alla partecipazione, ecc.);

• di essere sempre e comunque impegnato ai doveri che l’esercizio di queidiritti rende possibili, a cominciare dal dovere di non lasciare le politi-che sociali in mano ad assessori stanchi o a funzionari demotivati.

Il diritto del disabile ad un suo ruolo nella società viene oggi universalmentericonosciuto. Un soggetto affetto da spasticità grave (da sempre la spasticitàdei movimenti va a braccetto con un’intelligenza non comune) è rettore d’unauniversità. In Italia le elezioni politiche del 1994 hanno inserito nella compa-gine di governo due soggetti invalidi (spastici anch’essi). I settori nei quali sisono registrati i successi maggiori sono stati quello scolastico e quello dei tra-sporti: settori strumentali, non di contenuto. Nello sport, i campionati di basketper soggetti in carrozzina o le olimpiadi dei disabili sono ormai routine.

Eppure la “socializzazione effettiva” rimane spesso nel libro dei sogni.Tra il dire e il fare. Il problema non è tanto quello di permettere all’invalido dilaurearsi in psicologia, quanto quello di dove e come metterlo in grado di eser-citare la professione; il problema non è tanto quello di attrezzare treni e busper il trasporto degli invalidi, quanto quello del dove trasportarli, a fare che,oltre che a riscuotere la pensione.Nel settore del lavoro si sono dovuti registrare spesso tentativi d’inserimento odemagogici nella loro totale impraticabilità, o semplicemente inutili, o addirit-tura frustranti: non c’era un contesto umano, affettivo, culturale adeguato; perquesto noi “addetti ai lavori” abbiamo dovuto a volte rimpiangere forme dirapporto interpersonale e di inserimento sociale più limitate o anche protette,che in passato avevamo magari demonizzato.

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Questo perché il disabile, nonostante tutte le iniziative che a lui vengono dedi-cate, rimane pur sempre un diverso in una società che i diversi li scansa, con iguanti gialli quando con il pungo di ferro non si può. E se non riesce a scan-sarli, ne minimizza i problemi: almeno a sentire il taglio di certi discorsi dicerti assessori, quei problemi sembrerebbero risolversi tutti con l’abolizionedelle barriere architettoniche. Minimalismo.

Il minimalismo è un viziaccio che ci portiamo dentro, noi Occidentali; arciconvintidi essere i primi della classe, quando incontriamo un povero ne facciamo d’istintoun uomo di serie B; a titolo di esempio: i bisogni dei nostri bambini viziati sonosempre incredibilmente complessi, ma al bambino degli zingari basta una caramel-la, deve bastare.

La socializzazione autentica esige il superamento sia del culto acritico dell’effi-cienza, sia del bisogno endemico di omogeneità: due cancri operanti nei varimodelli di vita standardizzati e precotti: il minimalismo, la “cosificazione” deirapporti, l’enfatizzazione della cultura fisica.

Il disabile, in negativo, non è – semplicemente – il non-normale.

In positivo, il disabile è una persona che ha un nome e un cognome, una sto-ria, degli affetti, delle relazioni, delle potenzialità; e anche la sua patologia haun nome:

• l’handicappato, senza cessare d’essere un problema, può essere ancheuna risorsa; anzi, insieme a tutti gli altri emarginati del mondo, puòessere LA risorsa capace di rinnovare la convivenza umana alle radici;Capodarco ha preso le mosse dall’intuizione che la parabola del BuonSamaritano, nella sua parte non ancora scritta, prevede l’inversionedelle parti: colui che, colpito dai briganti, venne soccorso dal BuonSamaritano si china a sua volta sul Buon Samaritano e lo soccorre;

• il contesto culturale ricco e il contesto affettivo caldo senza pietismi delquale ha bisogno l’handicappato può decisamente contribuire acostruirlo, da protagonista;

• non basta “rinnovare la società a misura della persona”, bisogna impe-gnarsi a “rinnovare la società a misura della persona che non ce la fa”.

E tutto questo va organizzato secondo due diverse linee:• inserimento di tipo affettivo/familiare: non di rado l’handicap, per lo

meno ad una certa età, ti lascia senza una famiglia;• inserimento di tipo occupazionale (lavorativo vero e proprio, o terapeuti-

co/occupazionale);

Occorre che agiscano contestualmente sia l’handicappato (soprattutto incre-mentando l’autostima), sia la società che lo circonda, facendosi capace, nei

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suoi confronti, di vera accoglienza, quella che valorizza l’uomo che è in ognihandicappato.Siamo di fronte ad una serie di compiti nettamente complessi. Può dire nientela fede in proposito?

Il Triplice salto di qualità dell’impiego terapeutico, allaluce della fede

Il terapeuta (medico, educatore, infermiere, fisioterapista…), se vuol vivere ilsuo servizio al bisognoso alla luce del vangelo, deve innanzitutto prendereumile e responsabile coscienza che, rendendo ad un fratello quel servizio, con-divide l’interessamento di Dio stesso per i meno fortunati.“Accolto”, “riabilitato”, “socializzato”: chi vive in tensione ad amare come Dioama (la carità) non può non accettare senza riserve le tre parole nobilissime.Ma se la cultura di riferimento al cui interno esse vengono pronunciate è angu-sta, esse rischiano l’asfissia. Se il loro riferimento essenziale è solo tecnico,quelle parole si sgonfiano. Da qui la necessità del triplice salto di qualità cui abbiamo accennato.

Primo salto di qualità: dall’accoglienza alla preferenzaEsiste una preferenza per i deboli ispirata al senso di responsabilità: uno hapreso coscienza che “fare parti uguali fra gente disuguale non fa altro che per-petuare l’ingiustizia” (don Milani) e quindi dà ragione all’art. 3 dellaCostituzione che impegna la Repubblica a riservare particolari attenzioni a chiè portatore di qualche seria difficoltà.Esiste una preferenza per i deboli filosoficamente motivata. Nel suo L’Europa el’altro Armido Rizzi dimostra come la vita sia particolarmente vera là dove fafatica ad affermarsi. Se volete capire davvero la vita, fino in fondo, preferitequelle esperienze di frontiera dove nulla è ovvio e tutto va conquistato con fati-ca. L’uomo più che in quello che è va identificato in quello a cui tende.Esiste una preferenza per i deboli radicata nella Bibbia. La “scelta preferen-ziale dei poveri”, che è oggi una colonna portante della spiritualità cristiana,va ricondotta al fatto che Gesù, che in vita sua ha sempre vissuto povero tra ipoveri, esule per qualche tempo, in un paesino dal quale molti pensavano chenon possa venire nulla di buono, ha praticato fino a trent’anni un lavoromanuale duro e scarsamente remunerativo; come maestro itinerante è stato tal-mente sfornito di strumenti di sussistenza da non sapere “dove posare il capo”e ci ha rivelato che Dio

• per sua scelta è debole; • è impegnato a lottare a fianco degli oppressi;• indica nel farsi carico delle varie forme di povertà il criterio del suc-

cesso della vita intera.

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La gente che lo ascoltava poteva constatare con immediatezza come quegliinsegnamenti corrispondessero alla sua vita. “Se non vi coalizzate intorno aquesto bambino, non entrerete mai nel regno dei cieli”: e il bambino era l’em-blema dell’estrema debolezza.Gli hanno fatto eco nei secoli il sicut alii pauperes che fu come la consegnasuprema, sul piano delle scelte di vita, di Francesco ai suoi Frati Minori;Charles de Foucauld, i cui Piccoli Fratelli, nati tanto tempo dopo la sua morte,vanno a vivere nei posti più poveri del mondo e rinunciano a predicare; sonoperò disposti, solo se qualcuno glielo chiede, a spiegare perché hanno fattoquella scelta; il testamento di don Milani ai suoi “mocciosi” (“ho voluto piùbene a voi che a Dio”); la promessa di papa Giovanni l’11 settembre 1962,prima che il Concilio iniziasse: La Chiesa si presenta qual’è e quale vuol essere:la Chiesa di tutti e soprattutto la Chiesa dei poveri. Paolo VI all’inizio della IIsessione conciliare: La Chiesa appartiene all’umanità che piange e soffre. Paolo VI davanti all’Assemblea plenaria dell’ONU qualificandosi come avvoca-to dei poveri proclamò che la Chiesa intendeva schierarsi “à coté des emargi-naux”.Le intuizioni della Chiesa latino/americana recepita dalla Chiesa cattolica.Medellin, 1968: “Cristo nostro salvatore non solo predilesse i poveri ma,essendo lui ricco, da ricco che era si fece povero, imperniò la sua missionesull’annuncio della liberazione dei poveri e fondò la sua Chiesa come segno diquesta povertà tra gli uomini”. Puebla, 1979: Lo scandalo dell’enorme divariofra opulenza di pochi e miseria di molti “è il massimo tra i peccati sociali delnostro tempo” e “non investe solo la morale cristiana, ma lo stesso essere delcristianesimo”.Dopo quel Ripartite dagli ultimi! che la Chiesa italiana ci lanciò nel 1981,l’opzione preferenziale per i poveri è entrata definitivamente nella pastorale ordi-naria: “L’amore preferenziale per i poveri costituisce un’esigenza intrinsecadel vangelo della carità e un criterio di discernimento pastorale nella prassidella Chiesa” (CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità 1991).

Secondo salto di qualità: dalla riabilitazione alla resurrezioneNel messaggio biblico neotestamentario la Risurrezione di Cristo è talmenteimportante che possiamo fare riferimento ad essa per definire l’uomo: “l’essereche tende a realizzarsi pienamente nella vita tramite la Resurrezione diCristo”; parliamo di “Vita”: sia temporale che eterna.

La Pasqua è una categoria interpretativa di tutta la vita, che si ripropone làdove un uomo passa, dalla paura al coraggio, dall’ignoranza alla sapienza, dal-l’inerzia al dono di sé, dalla micragnosa e stolida autosufficienza all’obbedien-za a Dio. Secondo S. Paolo Cristo è risorto non come individuo isolato, macome primizia di coloro che sono morti, cioè come capo e rappresentante dell’u-manità intera. Il Risorto è realmente, ben al di là di sé e come gli uomini ne

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abbiano coscienza, “nel cuore della storia”, delle persone e del mondo. Ilmisterioso ma attivissimo cordone ombelicale che ci collega a Cristo fa sì chela sua Resurrezione si cali nel fluire dell’esperienza umana, e venga come…“anticipata” negli interventi che promuovono lo sviluppo della persona umana.

Per questo la primissima Comunità di Capodarco, nel 1966, sichiamò Centro Comunitario Gesù Risorto.

La Risurrezione, alfa e omega della riabilitazione.

Terzo salto di qualità: dalla socializzazione alla comunioneNel messaggio evangelico l’impegno a socializzare il disabile mantiene tutta lasua validità, anzi la incrementa, nella misura in cui lo radica nella COMU-NIONE, la categoria che, nella II parte del suo catechismo, la CEI indicacome fondamentale per interpretare la natura della Chiesa.Una formidabile forza invisibile unisce gli uomini a Cristo. Una forza che attie-ne all’essere profondo di ogni uomo: come un cordone ombelicale attraverso ilquale passa la vita, poiché l’amore di Dio ha una forza incomparabile e produ-ce un’intimità del tutto singolare: colloca Dio in noi e noi in Dio... Siamo difronte ad un concetto di portata cosmica, che non riguarda solo i disabili e pro-prio per questo conferisce fondamento solidissimo all’istanza della loro socia-lizzazione.Chiusa in se stessa, la socializzazione perpetua l’idea di una mortificante divi-sione tra socializzatori e socializzati; chi è portatore di handicap rischia dirimanere confinato a tempo indefinito tra i beneficiari del processo senza maidiventarne protagonista; evapora la speranza che la parabola del BuonSamaritano possa avere un “secondo tempo”, quello in cui colui che un giornovide chinarsi su di sé il soccorritore si china a sua volta su di lui.

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giugno 2007