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LA COMUNICAZIONE NON Verbale e il linguaggio del corpo nella rieducazione del gesto grafico di Maria Luisa Scirea Rieducatrice Neuropsicomotricista dell’età evolutiva [email protected]

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LA COMUNICAZIONE NON Verbale

e il linguaggio del corpo

nella rieducazione del gesto grafico

di Maria Luisa Scirea

Rieducatrice

Neuropsicomotricista dell’età evolutiva

[email protected]

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Introduzione

Parte prima: IL CORPO COMUNICANTE

1.1 Origini, funzioni e caratteristiche del comportamento non verbale e del suo

significato comunicativo

Parte seconda: LA COMUNICAZIONE NON VERBALE IN UNA RELAZIONE DI AIUTO

2.1 Terapia psicomotoria e rieducazione del gesto grafico

Parte terza: I PARAMETRI DI LETTURA DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE

3.1 Il tono muscolare ed il contatto

3.2 Lo sguardo

3.3 La mimica del volto

3.4 La voce e le vocalizzazioni non verbali

3.5 Il movimento e i gesti

3.6 La postura

3.7 Il tempo

3.8 Il comportamento spaziale

3.9. Cosa osservare

Appendice: IL GESTO GRAFICO COME FORMA DI COMUNICAZIONE NON VERBALE

Bibliografia

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INTRODUZIONE

La motivazione che mi ha indotto a un approfondimento sulla comunicazione non

verbale nell’interazione con il bambino in rieducazione scaturisce dalla mia

formazione di psicomotricista e dalla mia esperienza lavorativa sia in ambito

educativo che rieducativo.

Come ho più volte potuto sperimentare il corpo del bambino e dell’adulto sono

entrambi coinvolti in ogni relazione e spesso significano in modo ancora più

pregnante delle parole. Questo diventa ancora più importante quando un bambino

viene da noi per una difficoltà.

Nello specifico si tratta di creare un luogo decondizionato e decondizionante dalle

pressioni esterne nel quale il gesto grafico e conseguentemente la scrittura possano

ritornare ad essere qualcosa di padroneggiato a livello corporeo e non solo un

prodotto spesso frustrante e affaticante.

Il linguaggio del corpo, quindi il come si comunica non verbalmente con il bambino,

come lo si guarda, il tono della voce che si usa, la nostra postura, il tocco che ci

permette di sentire le sue tensioni e i confermare la nostra presenza, mi sembra

possano essere la trama di un discorso che va al di là delle parole.

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Parte prima: IL CORPO COMUNICANTE

1.2 ORIGINI, FUNZIONI E CARATTERISTICHE DEL COMPORTAMENTO NON

VERBALE E DEL SUO SIGNIFICATO COMUNICATIVO

“Se chiudiamo le orecchie e non ascoltiamo le parole degli uomini, ma

osserviamo le loro azioni, allora scopriremo che ognuno di essi ha dato un suo

individuale significato alla vita e che tutti i loro atteggiamenti, i loro modi, i

loro gesti, le espressioni, le caratteristiche del comportamento sono in

armonia con esso.” Così scrive Adler ed in questa affermazione è possibile

leggere l’importanza comunicativa del linguaggio del corpo.

E’ da più parti affermato che ogni espressione dell’uomo è o può essere

significante in quanto è o può diventare messaggio: non solo dunque il

messaggio verbale, ma anche i linguaggi non verbali come il mimico gestuale,

il grafico, il linguaggio sociale dei ruoli e l’espressione corporea in generale. La

teoria dell’informazione ha sostenuto che ogni espressione diventa messaggio

in un sistema che prevede un interlocutore (ricevente) e un codice.

Watzlawick ha sottolineato, in particolare, l’aspetto pragmatico della

comunicazione umana, ovvero il fatto che la comunicazione è strettamente

connessa con il comportamento. Egli ha anche avanzato l’ipotesi dell’esistenza

di assiomi circa il fenomeno comunicativo.

Tra essi ne riporto alcuni che sembrano risultare i più interessanti:

1) L’impossibilità di non comunicare: il comportamento non ha il suo

opposto, cioè non esiste una forma di non comportamento. Attività o

inattività, parole o silenzio hanno un valore di messaggio nella misura in cui

influenzano gli altri, i quali, a loro volta non possono non rispondere.

2) Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed un aspetto di relazione

che classifica il contenuto stesso. Ciò significa che ogni trasmissione di

informazione è legata ad un comportamento che definisce il modo in cui

debba essere considerata l’informazione stessa.

3) Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico (verbale) che con

quello analogico (non verbale). Il linguaggio numerico ha una sintassi logica

molto complessa e di estrema efficacia riguardo alla definizione del

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contenuto, esso manca però di una semantica adeguata nel settore della

relazione. Il linguaggio analogico invece ha una semantica ricchissima a cui

non fa riscontro una sintassi di pari livello. Questo è il motivo per cui più

facilmente l’aspetto del contenuto della comunicazione ha più probabilità

di essere trasmesso attraverso il linguaggio verbale, di contro nell’aspetto

relazionale avrà netta predominanza la comunicazione non verbale.

Esiste dunque un rapporto quantitativo e qualitativo tra il linguaggio verbale

e il non verbale. Per esaminarlo occorre far riferimento sia agli studi etologici

e antropologici , sia alle osservazioni sullo sviluppo del bambino.

Come in parte esposto nel paragrafo relativo allo sviluppo della

comunicazione interpersonale, il linguaggio non verbale risulta

filogeneticamente ed ontogeneticamente più arcaico del verbale. I modelli di

comunicazione analogici possiedono, oltre ad una componente appresa dal

contesto, anche una componente istintiva. In tal senso sono significativi gli

studi compiuti sulle modalità comunicative analogiche degli animali.

Nell’uomo la riduzione dello sviluppo degli organi ricetrasmittenti per

comunicazioni analogiche a beneficio dello sviluppo di organi per la

ricetrasmissione del linguaggio verbale e del pensiero, non sembra

corrispondere ad una riduzione delle capacità espressive. Ciò significa che la

comunicazione analogica, pur perdendo il carattere di unicità di

comunicazione non ha perso la sua peculiarità espressiva. Il linguaggio del

corpo permane e non perde di significato nell’interazione con l’altro, anzi

sembra che per alcune sue caratteristiche in talune situazioni l’uomo tenda a

privilegiare la CNV rispetto al linguaggio.

P.E. Ricci Bitti e Bruna Zani, integrando i contributi di diversi studi in materia

danno un elenco abbastanza dettagliato delle molteplici funzioni svolte dalla

CNV nel comportamento sociale.

Esso può essere considerato un “linguaggio di relazione”, mezzo primario per

segnalare i mutamenti di qualità nello svolgimento delle relazioni

interpersonali (atteggiamenti interpersonali) e per esprimere e comunicare

emozioni; ha uno speciale valore simbolico che esprime, in un elementare

linguaggio del corpo, atteggiamenti circa l’immagine di sé e del proprio corpo

e partecipa alla presentazione di sé agli altri; sostiene e completa la

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comunicazione verbale e svolge una funzione meta comunicativa in quanto

fornisce elementi per interpretare il significato verbale; funge da “canale di

dispersione” in quanto essendo meno sottoposta al controllo consapevole,

lascia filtrare più facilmente contenuti profondi dell’esperienza dell’individuo;

svolge una funzione di regolazione dell’interazione, partecipando a

sincronizzare turni e sequenze, a fornire informazioni di ritorno, a inviare

segnali di attenzione; assume infine funzione di sostituzione della

comunicazione verbale in situazioni che non consentono l’uso del linguaggio.

Lo studio dei comportamenti non verbali mette dunque in luce una serie di

aspetti interessanti per chi interagisce con un bambino in particolare in un

contesto di relazione di aiuto.

Per prima cosa è rilevante la loro efficacia come modalità di espressione dei

sentimenti, delle emozioni e degli atteggiamenti rivolti all’interlocutore: essi

rappresentano una sorta di meta-linguaggio che permette all’adulto

educatore o rieducatore di comprendere più approfonditamente il messaggio

del bambino ed anche il suo stato d’animo in una determinata situazione.

Esiste inoltre un aspetto non meno importante e cioè il messaggio non

verbale emesso dall’adulto: i gesti, lo sguardo, la mimica del volto,

l’intonazione della voce trasmettono sfumature molto più pregnanti delle

parole per lo svolgersi dell’interazione stessa.

Ci si trova dunque di fronte a due elementi: quello della codifica e quello della

decodifica del non verbale sia da parte del bambino che da parte dell’adulto e

della modalità d’uso prevalentemente inconscia, ma pregnante a livello

relazionale del linguaggio del corpo.

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Parte seconda:

LA COMUNICAZIONE NON VERBALE IN UNA RELAZIONE DI AIUTO

2.1. TERAPIA PSICOMOTORIA E RIEDUCAZIONE DEL GESTO GRAFICO

La terapia psicomotoria si caratterizza per l’importanza data al corpo e alla

sua espressività psicomotoria in senso lato, questo ha luogo in un setting

adeguatamente strutturato, nel rapporto con l’altro in una relazione

“asimmetrica” che si configura come relazione di “aiuto”.

Tra terapista e bambino, secondo la distinzione fatta da F. Cartacci si giocano

diverse forme di relazione possibile, che prendono più o meno il sopravvento

a seconda della scelta epistemologica compiuta: la relazione simbolica,

l’intersoggettività e l’interazione.

Dice Cartacci: “La relazione simbolica sta a rappresentare la centratura sul

mondo dei significati: il comportamento del paziente in un setting a

prevalenza simbolica viene interpretato e ad esso viene attribuito un valore di

simbolizzazione dei conflitti inconsci sottoposti ad analisi.” L’intersoggetività

invece è definita come “quel piano di scambio terapeutico che mette in gioco i

mondi soggettivi del terapeuta e del paziente. Il terapeuta non limita il suo

sguardo al comportamento manifesto né tiene un atteggiamento focalizzato

sul mondo inconscio, bensì assume consapevolmente la propria collocazione

intersoggettiva: una capacità di presenza consapevole a se stesso e all’altro”.

L’interazione invece è definita come “il luogo degli scambi manifesti tra

terapista e bambino dove si attivano i linguaggi, si sviluppa la comunicazione,

si afferma l’espressività, si intrecciano i segni. I fili di questa tessitura sono la

relazione con il tempo, lo spazio, le cose, la prossemica, la postura, la

modulazione tonica, la voce, lo sguardo. La scelta interattiva è quella

prevalentemente compiuta dalle scienze della comunicazione, dall’etologia,

dalla semiotica e rappresenta l’anima della clinica psicomotoria”.

La psicomotricità, prima di essere un quadro clinico, é un approccio al

bambino, una visione integrata corpo-mente-emozioni, è una esperienza

vissuta. Viene infatti chiamata psicomotoria la forma che prende l’esperienza

umana all’inizio del suo sviluppo, nei primi sei/otto anni di vita, una forma

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“globale”. Su questa parola non mi dilungherò, cito solo a tale proposito il

concetto di globalità affermato da Wallon, primo teorizzatore in questo

campo di ricerca che verrà poi chiamata psicomotricità.

E’ all’interno di questa cornice che ritengo possa iscriversi anche la

rieducazione del gesto grafico in quanto, pur con le dovute differenze,

centrate sui diversi obiettivi e quindi su un setting propriamente organizzato,

si tratta allo stesso modo di una relazione di aiuto tra un adulto ed un

bambino.

I linguaggi attraverso cui si comunica sono globali, il corpo è un soggetto

attivo del gesto grafico e della scrittura nella postura assunta, nella sua

rigidità o distensione, nella ricerca della acquisizione della precisione, della

fluidità del gesto e possibilmente nella riconquista del piacere del lasciare una

traccia di sè e del proprio pensiero, anche scritto. Il corpo dell’adulto è

presente come facilitatore, mediatore, modello se necessario senza

sovrapporsi all’esperienza soggettiva del bambino che resta la fonte del vero

recupero di una attività espressiva come quella grafo motoria.

Come nella terapia psicomotoria esiste un tempo, uno spazio, una ritmicità

degli incontri, il ritorno alla vita “fuori” e alle richieste che vengono dal mondo

degli adulti, la scuola in primis, a cui di solito il bambino fatica ad adattarsi.

Anche nella rieducazione sono necessarie delle regole, il fare i conti con la

difficoltà, l’ascolto e l’incoraggiamento, il camminare insieme.

In entrambe le situazioni si tratta di due persone che si incontrano. Il bambino

che incontriamo possiede un suo patrimonio comunicativo che mette in gioco

nell’instaurare la relazione con noi, che proviene dalla sua storia personale.

Lo stesso vale per il rieducatore che interagisce con gli stessi parametri

espressivi: si colloca nello spazio in un certo modo, i suoi gesti hanno

particolare forma e velocità, assume posture prevalenti, orienta lo sguardo

ecc. Quello che caratterizza una relazione d’aiuto è la consapevolezza della

propria espressività da parte dell’adulto, la scelta di porsi in un modo o un

altro nell’interazione. La scelta comunicativa è improntata sull’autenticità

dello scambio relazionale, ben conoscendo la sensibilità dei bambini nel

cogliere doppi messaggi, messaggi latenti o contraddittori.

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Parte terza: I PARAMETRI DI LETTURA DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE

3.1 IL TONO MUSCOLARE E IL CONTATTO

La prima via di comunicazione tra il bambino e il mondo esterno si basa su una

dotazione neurofisiologica di base: il tono muscolare.

Le sensazioni di piacere-dispiacere, legate alle situazioni dipendenti dal

primordiale stato di bisogno-soddisfazione, sono espresse dal bambino e

interpretate dalla madre attraverso il tono muscolare, che si costituisce perciò

come primo terreno di incontro e di comunicazione nella coppia.

Gradualmente le variazioni toniche del bambino si moduleranno e si

adegueranno nell’interazione con la madre: è il “dialogo tonico”, secondo

l’espressione di J. De Ajuriaguerra”. Questo primo codice comunicativo funge

da fondamento su cui potranno basarsi tutti gli altri codici man mano che il

bambino cresce; non sarà mai sostituito del tutto, ma completato. Resterà

una “modalità comunicativa inconscia, involontaria, che fa da criterio di verità

agli altri messaggi; perché manifesta sempre lo stato emotivo di chi parla”. La

percezione del tono dell’altro avviene solo nel contatto che rimane quindi la

condizione essenziale per questo tipo di comunicazione.

M. Argyle ne “Il corpo e il suo linguaggio” ha fatto una analisi dell’uso del

contatto corporeo nelle comunicazioni sociali, che sottolinea la sua pregnanza

nel comunicare gli atteggiamenti interpersonali.

Egli distingue diversi tipi di contatto. Di solito esso è operato da mani o dalla

bocca ed è eseguito sulle mani, braccia, spalle ed in generale sulla parte

superiore del corpo. Queste zone sono probabilmente determinate da

convenzioni socialmente accettate su ciò che conviene o non conviene fare,

almeno per quanto riguarda l’adulto. Il toccare infatti sembra avere un

significato di accresciuta intimità e coinvolgimento emotivo. La quantità e il

tipo di contatti che si verificano tra le persone dipende dunque in gran parte

dall’età degli interagenti e dal tipo di relazione.

In particolare per i bambini il toccare gli adulti sembra esprimere un

atteggiamento di dipendenza nei loro confronti, mentre il toccare gli altri

bambini può esprimere affiliazione o aggressività. Sembra che nel toccare i

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genitori il bambino esprima una sintesi di tutto quel comportamento di

attaccamento sviluppato in precedenza soprattutto attraverso il dialogo

tonico.

3.2 LO SGUARDO

L’appuntamento evolutivo più importante per il bambino, dopo il primo stadio

della comunicazione tonica, è quello di investire, in senso comunicativo, la

distanza dal corpo.

Tutta la maturazione neurofisiologica, cognitiva, percettiva, psicologica, cioè

tutte le competenze che egli via via matura, sono messe al servizio di questa

esigenza primaria: far sì che la distanza che separa lui dall’Altro non annulli il

livello di comunicazione. Vengono allora investite alcune categorie del

linguaggio corporeo che hanno proprio l’esplicita funzione di trasformare in

presenza una assenza di contatto fisico: lo sguardo, la voce, il movimento.

Quando, a 4/5 mesi, la maturazione dei muscoli del collo, permette al

bambino il controllo del capo, egli può tenere lo sguardo fisso e ruotarlo

volontariamente sia sul piano verticale che orizzontale. Più avanti il bambino

stando seduto può padroneggiare l’intero orizzonte e uno spazio più ampio.

Tutto questo gli permette di rendere effettiva la presenza della madre anche

quando non è attaccata a lui.

Lo sguardo gioca un ruolo centrale nello sviluppo dell’attaccamento e della

socievolezza. Sembra che i passaggi individuati a Bruner come proto forme del

rapporto comunicativo con la madre, e cioè l’attenzione condivisa e

congiunta, avvengano proprio su una condivisione e un primo scambio di

sguardi. Le persone infatti si guardano reciprocamente e guardano in

direzione delle fonti da cui pensano i ricevere informazioni: gli occhi sono

principalmente dei recettori di messaggi.

Lo sguardo, secondo la classificazione di Argyle può venire interpretato in vari

modi: dal punto di vista degli atteggiamenti personali, della personalità, dello

stato emotivo della persona, oltre che fungere naturalmente da canale di

sincronizzazione. Nell’espressione degli atteggiamenti interpersonali, che

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determinano la qualità del rapporto, lo sguardo sembra poter manifestare

piacere, approvazione, seduzione, dominanza, minaccia.

La gente osserva maggiormente le persone per le quali ha simpatia e lo

sguardo è percepito anche dall’altro come segnale che esprime gradimento. In

un rapporto di dominanza l’evitamento dello sguardo esprime al contrario il

desiderio di sfuggire in qualche modo al controllo.

Alcuni esperimenti in campo umano mostrano che uno sguardo fisso agisce e

viene letto come minaccioso e comunque “invasivo”. Confermando una

esperienza quotidiana, Lemineur e Morisse notano che le persone si sentono

generalmente a disagio quando sanno di essere osservate da altri e non

possono a loro volta vedere e quindi controllare.

Nello stesso senso altre ricerche hanno mostrato un’influenza negativa che la

presenza di valutatori ed osservatori in genere esercita sulle performance di

soggetti invitati ad eseguire dei compiti che richiedono una buona

coordinazione motoria: il corpo risponde evidentemente al disagio. Se

riportiamo queste affermazioni nel campo dell’osservazione del bambino è

molto interessante fare delle riflessioni sulla qualità dello sguardo del

terapista o rieducatore (o insegnante) e sulla percezione che ciascun bambino

ha di esso.

Lo sguardo, come ho accennato, ci dà anche informazioni interessanti sullo

stato emotivo di una persona. E’ evidente che l’evitamento dello sguardo

possa essere dovuto anche a emozioni negative come l’ansia, la vergogna,

l’imbarazzo. Non è difficile inoltre, vedendo qualcuno con gli occhi “sbarrati”,

intuire che qualcosa lo stia spaventando, oppure leggere meraviglia o stupore

quando gli occhi sono spalancati, lo sguardo è fisso e la bocca leggermente

aperta.

Lo sguardo è comunque prevalentemete usato come segnale di

sincronizzazione: in questo senso implica un incrociarsi di emissione e

ricezione: di solito si guarda per raccogliere il feed-back in momenti strategici

della relazione, ad esempio dopo una affermazione o una azione, in momenti

di attesa di una risposta verbale o non verbale.

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3.3 LA MIMICA DEL VOLTO

Avendo ora trattato lo sguardo mi sembra importante completare il discorso

con la mimica del volto, in quanto sguardo, sorriso ed espressione facciale

sono strettamente interdipendenti dal punto di vista comunicativo e

ontogenetico (studi di Spitz sulla “Gestalt segnale”).

Secondo quanto affermato da Argyle, il volto è la parte del corpo più rilevante

per la comunicazione non verbale, infatti è una zona estremamente espessiva

in grado di inviare molte informazioni e perciò oggetto di molto studi.

Il volto sembra una delle parti meglio “controllabili”. In esso è presente una

muscolatura fine e una innervazione neuromotoria che permette di assumere

espressioni molteplici e varie.

In primo luogo con la mimica del volto è possibile che vengano comunicati

atteggiamenti interpersonali ed emozioni e come altri parametri della

comunicazione non verbale, anch’esso funziona come segnale interattivo per

fornire un feedback continuo e per la sincronizzazione.

Da diversi studi si è arrivati ad individuare chiaramente sette gruppi di

espressioni: felicità, paura, sorpresa, collera, tristezza, disgusto, interesse

sembra siano le principali emozioni che il viso può esprimere. Più

generalmente si può individuare una gamma di espressioni che va dal piacere

al dispiacere oppure una certa “fissità” della mimica del volto che appare poco

espressiva o limitata ad una espressione stereotipa.

Per ciò che riguarda più propriamente l’aspetto interattivo, i segnali collegati

generalmente al discorso verbale sono inviati con movimenti piuttosto rapidi,

di parti del volto, per esempio sollevando le sopracciglia. Queste espressioni

sono abbastanza differenti da quelle “emotive”, esse includono solo parti del

volto ed hanno una complessa struttura sintattica.

Come già accennato, la mimica del volto viene utilizzata in modo

prevalentemente consapevole. Nell’adulto le emozioni forti o spiacevoli o che

si ritengono non socialmente accettabili generalmente non trapelano nel

volto, ma magari in un irrigidimento posturale. A volte succede addirittura che

il volto funga a “maschera”, i cosiddetti “sorrisetti stereotipati” nascondono il

nostro vero stato d’animo di tensione, imbarazzo o addirittura di ostilità.

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Nel rapporto con il bambino è importante che il terapista o rieducatore sia il

più possibile consapevole dell’eventuale uso di segnali contraddittori, perché

il bambino come abbiamo visto, sembra particolarmente sensibile alla

ricezione di atteggiamenti che rimangono a livello infra-cosciente e

all’autenticità del messaggio.

3.4 LA VOCE E LE VOCALIZZAZIONI NON VERBALI

Ripercorrendo l’investimento del canale vocale-uditivo si può certamente

affermare che non è la parola nel suo specifico valore semantico a creare il

legame con il bambino nello stadio primitivo dello sviluppo, ma sono i tratti

paralinguistici (tono, timbro, pause, respirazioni ecc.)

Questa sensibilità primordiale potrebbe essere una delle ragioni che rendono

questo aspetto della comunicazione non verbale così pregnante e carico di

affettività che trascende il contenuto stesso delle parole.

Sembra che il tono della voce in particolare contribuisca, secondo gli studi di

Meharabian a determinare impressioni circa l’atteggiamento personale.

Tra gli elementi indipendenti dal linguaggio verbale sono da ricordare anche i

pianti, le grida, le risate particolarmente presenti nei bambini in

accompagnamento al movimento e al gioco con gli oggetti. In un’ottica più

globale di espressività corporea del bambino si può dire che “suono, rumore è

presenza, il silenzio al contrario è assenza, e’ morte”.

3.5 IL MOVIMENTO E I GESTI

Le manifestazioni primitive del movimento hanno un carattere indifferenziato

e coinvolgono globalmente tutto l’organismo. Solo con la maturazione

neuromotoria il bambino diverrà in grado di compiere movimenti intenzionali

sempre più raffinati e precisi.

Ai primi gesti si aggiungerà una gestualità sempre più varia che assumerà

valore di richiamo dell’attenzione, di richiesta di condivisione di una

esperienza e via via una gestualità più rituale e codificata.

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Argyle distingue gesti cosiddetti convenzionali, gesti che esprimono stati

emozionali e gesti che sostituiscono o accompagnano il discorso.

I primi sono messi in atto e codificati intenzionalmente e di solito sono appresi

convenzionalmente come il linguaggio verbale. I gesti che accompagnano il

discorso sembra forniscano un secondo canale in aggiunta al vocale-uditivo. A

questo gruppo appartiene tutto il linguaggio iconico-gestuale e i cosiddetti

gesti illustratori che in qualche misura possono anche sostituire il discorso.

Per quanto riguarda i gesti che esprimono stati emozionali sia nel bambino

che nell’adulto infine Argyle, Ekmann e Friesen hanno rilevato che esistono

numerosi gesti connessi con le emozioni che comprendono il toccare se stessi,

soprattutto alcune parti del corpo con le mani. Sebbene non vi siano in questo

caso dati di ricerca, gli stessi autori concordano nel dire che il toccarsi rivela

una preoccupazione per la propria presentazione mentre lo sfregarsi

assumerebbe un valore di autorassicurazione.

3.6 LA POSTURA

“Postura” può essere definita la posizione del corpo come unità e come

rapporto fra le sue parti, e come rapporto dell’insieme delle parti con lo

spazio, posizione caricata di senso perché assunta in relazione con l’altro che

la riceve.

Studiando il comportamento dei bambini piccoli è stato dimostrato come

l’assetto posturale sia utilizzato molto precocemente per stabilire relazioni e

inviare messaggi soprattutto per quanto riguarda le coppie semantiche

accettazione/rifiuto e difesa/attacco.

Anche a livello di adulti ricerche in antropologia culturale e in psichiatria

provano che le posture assolvono al ruolo essenziale di aprire, mantenere o

interrompere la comunicazione fra due o più individui e stabilire il tipo di

relazione affettiva o gerarchica esistente. Secondo questa funzione le posture

possono essere classificate in: con contatto, senza contatto, faccia a faccia,

faccia a fianco, fianco a fianco, faccia a schiena, schiena a schiena.

Le culture occidentali sembrano privilegiare per l’adulto assetti posturali con

un limitato contatto con il suolo (eretto o seduto su sedie), per i bambini

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piccoli invece sono preminenti posture accosciate, accovacciate, a quattro

zampe, dove l’opposizione verticale/orizzontale appare più sfumata.

Si può inferire allora che questa opposizione spaziale richiami e traduca la

coppia adulto/bambino. In questo contesto la postura eretta è connessa con

l’autonomia e l’equilibrio, in opposizione la postura orizzontale possiede le

marche di “dipendenza”, bisogno di sicurezza e sostegno.

Ogni postura poi si dissolve in una pluralità di rapporti non appena si passa ad

analizzare la sua forma, cioè i rapporti delle singole parti tra loro, con il tono

che la sostiene e con i vettori spaziali. Ad esempio la postura faccia a faccia è

tale perché è stato considerato come parametro la relazione spaziale di un

corpo con un altro corpo, mentre se consideriamo pertinenti i rapporti tra i

singoli elementi corporei e lo spazio si parlerà piuttosto di postura

aperta/chiusa. Lo stesso dicasi se si considera come pertinente il tono delle

varie parti del corpo per cui la postura può essere definita come intera,

spezzata, in equilibrio o disequilibrata.

Per ciò che riguarda lo stato emotivo delle persone, Ekman e Friesen rilevano

che, mentre l’espressione del volto è in grado di trasmettere un maggior

numero di informazioni sulle emozioni specifiche, il tono posturale esterna

l’intensità dell’emozione: in questo caso si parla di postura tesa o rilassata.

Diversi studi hanno inoltre dimostrato che il rispecchiamento della postura

dell’altro facilita una immedesimazione nel suo stato del momento e

promuove una maggior capacità di ascolto.

3.7 IL TEMPO

“Tutti i discorsi sul tempo (e sullo spazio) sono possibili proprio perché c’è un

corpo che dà loro fondamento e li significa: la temporalità è così intrinseca

all’esistenza che l’una non è concepibile senza l’altra.”

Quando ci si aspetta che il bambino, nella sua maturazione evolutiva normale

sappia orientarsi nello spazio-tempo, ci si riferisce propriamente al tempo

quantitativo lineare dell’orologio e allo spazio geometrico.

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Ma esiste un altro tempo quantitativo anche se ciclico e non lineare che il

corpo vive fin dalla nascita sotto forma di ritmi: della veglia e del sonno, del

bisogno e della soddisfazione, ritmi scandibili dalla coppia presenza-assenza.

Su questa struttura ritmica nasce il tempo nella scansione di prima, adesso,

dopo con la dimensione dell’attesa.

Anche la ciclicità e la durata degli incontri di rieducazione con il bambino

possono essere letti in una dimensione temporale come il mettere a

disposizione del bambino un segmento di tempo oggettivo che rappresenta

nel succedersi degli appuntamenti un incontro con il tempo e il segno di una

co-presenza.

Egli si trova in una stanza nuova ma accogliente, con un adulto che dedica un

certo tempo a lui. L’adulto ha un controllo diretto sul tempo dell’incontro,

marca il tempo con dei segni, stabilisce i rituali sul dentro/fuori e inizio/fine.

3.8 IL COMPORTAMENTO SPAZIALE

Anche il linguaggio verbale per veicolare significati affettivi o gerarchici,

predilige spesso espressioni che denotano rapporti spaziali. Ad esempio

nell’espressione “sentirsi perso” vi è la coincidenza fra assenza di riferimenti

affettivi e spaziali conosciuti; l’espressione “dare spazio” instaura una

equivalenza tra i concetti di importanza, necessità vitale e dimensioni ampie

di spazio. Per non parlare di termini quali vertice e piramide dove il significato

gerarchico è reso dal rapporto topologico alto/basso.

Quindi “lo spazio si configura come una categoria carica di espressioni visive,

motorie, sonore che veicolano contenuti emotivi ed affettivi”.

E’ in questo contesto che intendo considerare il comportamento spaziale del

bambino e dell’adulto in una relazione di aiuto, ponendo in risalto le sue

valenze arcaiche e tenendo in secondo piano le valenze funzionali e cognitive.

Lo spazio tridimensionale della stanza e il tempo della seduta formano il

tessuto su cui si ritaglia l’interazione. Come il tempo dell’incontro anche lo

spazio della stanza appartiene all’adulto che vi imprime i propri significati

tramite il tipo di materiale contenutovi e le variazioni. La stanza viene così a

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qualificarsi come un “dentro” separato dal “fuori” che è costituito dagli spazi

familiari e sociali.

Secondo diversi studi sulla prossemica, il comportamento spaziale, sebbene

non sia usato intenzionalmente per comunicare, è codificato e decodificato in

termini di atteggiamenti interpersonali ed in questo senso può essere

considerato come un tipo di comunicazione non verbale. In esso si possono

individuare i seguenti elementi: la vicinanza, l’orientazione, l’altezza, il

movimento nell’ambiente fisico e le sue modificazioni oltre alla più vasta

categoria legata al comportamento territoriale.

La vicinanza fisica, determinata dalla distanza esistente tra le persone emerge

in ogni rapporto interpersonale. Cito a questo proposito la classificazione fatta

da Hall in distanza intima, personale, sociale, pubblica. Il grado di vicinanza

comunica normalmente i rapporti esistenti tra le persone ed in genere la

vicinanza fisica è importante in relazione all’intimità e alla dominanza. Una

vicinanza più elevata viene codificata in termini di gradimento ma viene

concessa solo a persone con le quale si desiderano rapporti intimi, viceversa

viene vissuta come invasione dello spazio personale.

La vicinanza subisce molti mutamenti nel corso dell’interazione, variazioni che

possono fornire informazioni sull’intenzione di iniziare, mantenere o

interrompere un incontro, nonché sugli stati d’animo degli interagenti.

L’orientazione fianco a fianco è più spesso utilizzata nelle situazioni di

cooperazione, mentre le posizioni direttamente frontali sono considerate di

confronto. Si può riscontrare a volte una relazione inversa tra orientazione e

vicinanza. Esse risultano essere indici alternativi di intimità, e in diverse

situazioni si scelgono diverse combinazioni di queste due componenti.

Da ultimo il comportamento territoriale riguarda principalmente la

presentazione di sé ed il riconoscimento da parte degli altri, nonché il rispetto

dell’altro. Per comportamento territoriale si intende la definizione del proprio

“territorio”, la sua delimitazione, invasione e difesa.

Le ricerche sul comportamento umano hanno permesso di distinguere tre tipi

di territorio di tre diverse dimensioni: lo spazio personale, il territorio

personale, il territorio domestico.

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Il primo è l’area direttamente circostante il corpo, una invisibile bolla la cui

dimensione varia secondo il momento, l’età, la cultura, la personalità. Se i

nostri simili invadono questo spazio ci sentiamo minacciati, se ne stanno

troppo lontani ci sentiamo respinti: il risultato è tutta una serie di adattamenti

spaziali, di solito effettuati del tutto inconsciamente che portano ad un

compromesso ideale tra invasione e distanza.

Il territorio personale invece è costituito da una zona più vasta, che un

individuo ha in uso esclusivo e controlla. Esso si identifica con la propria casa,

l’automobile, l’ufficio, o nel nostro caso la stanza in cui riceviamo il bambino,

la scrivania o il banco su cui scriviamo. Questi spazi permettono di ottenere

una condizione di privacy e la condivisione di essi con altre persone richiede

un certo grado di intimità. Alcuni tipi di comportamento sono considerati

violazioni del territorio personale come il fare rumore, l’impossessarsi di

oggetti presenti o danneggiarli, oppure anche entrare fisicamente in esso

quando ciò non sia richiesto o permesso.

3.9 COSA OSSERVARE

In particolare nel setting di rieducazione del gesto grafico potrebbe essere

utile focalizzare l’attenzione a come il bambino si presenta al primo incontro,

mentre parliamo della sua difficoltà e del perché viene da noi, mentre lo

sottoponiamo al bilancio grafo motorio e quando si ricongiunge con i genitori.

Questa prima osservazione ci potrebbe guidare durante il trattamento di

rieducazione ad esempio facendo attenzione al suo comportamento non

verbale durante le varie proposte che gli facciamo. Ad esempio durante il

rilassamento, nella proposta di esercizi funzionali di potenziamento della

motricità fine, nell’esecuzione dei tracciati sulla sabbia o dei tracciati scivolati,

nelle tecniche di pittografiche e scrittografiche ed infine quando ritorna a

cimentarsi con le scrittura. Tutto ciò naturalmente non per classificare il suo

stile comunicativo, ma per saper meglio individuare quali siano i canali da lui

privilegiati e la strada per noi per entrare in comunicazione con lui e nello

stesso tempo cogliere le tensioni che sorgono eventualmente in momenti di

difficoltà nell’ottica di favorire un clima di ascolto.

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Appendice

IL GESTO GRAFICO COME FORMA DI COMUNICAZIONE NON VERBALE

Da ultimo vorrei delineare le caratteristiche intrinseche che il gesto grafico porta

con sé come forma di comunicazione.

Mi sembra importante ricordare che i primi gesti grafici del bambino diventano tali

in quanto egli sperimenta la possibilità di lasciare una traccia di sé su una superficie

in grado di accoglierla. Inoltre il suo ambiente relazionale condiziona in modo

significativo tali prime esperienze: accogliendole, rinforzandole, dando loro un senso

e sostenendo in questo modo il piacere di comunicare.

Partendo da questo, sappiamo poi come il piacere e il desiderio siano un motore

potentissimo per continuare una esplorazione, che prima è sensomotoria e poi

sempre più finalizzata alla rappresentazione di una forma. Dai primi scarabocchi

funzionali si arriva a un contenuto simbolico e a ciò che viene più propriamente

definito disegno rappresentativo.

Spesso si tratta di un disegno di sé e delle prime forme che rappresentano la realtà e

l’esperienza affettiva del bambino. Ma anche quando il contenuto sembra essere la

forma prevalente di comunicazione, la superficie del foglio continua a

rappresentare lo spazio su cui ci si esprime, il tratto può essere veloce, lento,

continuo discontinuo, più o meno marcato, l’atteggiamento posturale, il tono, lo

sguardo del bambino mentre disegna ci comunicano quale sia il suo stato d’animo in

merito a ciò che sta facendo.

La scoperta della scrittura e della possibilità di utilizzare il linguaggio verbale anche

in forma grafica avviene più tardi in linea con l’evoluzione cognitiva e neurologica

del bambino, ma si inscrive nel continuum dell’ esperienza grafo-motoria.

Come sappiamo la scrittura è frutto di un apprendimento e sottostà a regole di

esecuzione precise ma mi sembra di poter dire che essa, insieme a queste

caratteristiche che ha in comune con la comunicazione linguistica (modulo

numerico, logico, sintassi complessa) contemporaneamente presenti alcuni

caratteristiche delle forme di comunicazioni non verbali (analogiche) viste in

precedenza.

La scrittura quindi in questo senso è come un ponte tra il linguaggio verbale e non

verbale: così come la prosodia del linguaggio parlato non può essere disgiunta dalle

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parole che vengono dette, le parole scritte si inscrivono in uno spazio grafico, in un

tempo, con un ritmo, con un tratto, con forme che sono proprie di quella persona in

quel momento.

La grande differenza è che, anche dopo aver terminato di scrivere, la traccia rimane

e gli elementi non verbali del gesto grafico continuano ad essere presenti e in

questo senso sono molto evidenti sia all’autore dello scritto che agli altri che lo

leggono, come ha ben evidenziato la grafologia.

In particolare lo studio più approfondito del gesto grafico e della educazione e

rieducazione della scrittura mi ha fatto comprendere quanto sia importante

considerare questa attività in continuità con lo sviluppo psicomotorio di ogni

bambino sostenendone i prerequisiti per la sua evoluzione in modo che essa possa

essere una conquista che avvenga in continuità con gli altri apprendimenti.

Cosi come la comunicazione non verbale accompagna per tutta la vita il linguaggio in

quanto il corpo è sempre presente quando noi ci rapportiamo con gli altri, anche

nella scrittura penso si possa aiutare il bambino in difficoltà a percepire l’unitarietà

della sua esperienza corporea quando con il gesto comunica il suo pensiero in una

forma scritta.

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