La classe politica parlamentare tra rivoluzione e ... · prenditoriali ad instaurare con lo Stato e...
Transcript of La classe politica parlamentare tra rivoluzione e ... · prenditoriali ad instaurare con lo Stato e...
La classe politica parlamentare tra rivoluzione e restaurazione
Alfio Mastropaolo
L’Italia è uno strano paese. È un paese europeo come gli altri, né più, né meno. Ma a volte se ne dimentica, per esaltare specificità che di sicuro non mancano, ma sono assai meno clamorose di quanto spesso gli italiani non pretendano. Analogamente dell’appartenenza dell’Italia all’Europa si dimenticano sovente gli stranieri, che l’Italia si divertono ad osservarla, ma sono terribilmente sconcertati dai bizantinismi del suo sistema politico. In realtà, per gli italiani, è forse soprattutto il loro narcisismo, mescolato ad una robusta dose di provincialismo, che li induce a ritenersi diversi. Se però ci si ferma per un momento a riflettere, in particolare sulle vicende sociali e politiche dell’ultimo mezzo secolo, l’Italia è un paese non meno normale di altri. Essa ha anzi conosciuto uno straordinario sviluppo industriale e un non meno straordinario sviluppo democratico. Quanto ai protagonisti di questo sviluppo, come nel resto d’Europa, sono stati fondamentalmente due: la classe imprenditoriale e le classi lavoratrici, che hanno fra loro stipulato un solidissimo patto, al quale si sono accodate le classi medie.
Come negli altri paesi europei questo modello si è rotto intorno alla fine degli anni settanta. Le trasformazioni del sistema produttivo, l’adozione di nuove tecnologie, lo spo
stamento del baricentro del sistema economico dal settore secondario al settore terziario, la mondalizzazione dell’economia, hanno oscurato i vecchi protagonisti dello sviluppo, in special modo le classi lavoratrici, avvantaggiando, di contro, i ceti medi autonomi. Questo ha provocato — in Italia, esattamente come nel resto d’Europa — una vigorosa deriva verso destra, con un chiarissimo contenuto anti-welfare, la quale, avviata dal craxismo, ha trovato alfine sfogo con le elezioni del 1994, attraverso il successo di Berlusconi, di Fini, della Lega ed è tuttora ben lontana dall’essersi esaurita.
Non deve infatti far da velo il successo conseguito il 21 aprile scorso dalla coalizione di centrosinistra (Ulivo più Rifondazione comunista più Lista Dini), la quale, è giusto ricordarlo, è maggioritaria in termini di seggi, e di voti nella quota uninominale, ma non nella quota proporzionale. A parte il fatto che tale coalizione contiene al suo interno una buona fetta del moderatismo nazionale, quella democraticamente più affidabile, e che la sinistra è rimasta inchiodata al 30 per cento dell’elettorato, il senso di quel risultato elettorale sta tutto nel milione di voti in più che le forze del Polo hanno conseguito (e il milione di voti in meno ottenuto dall’Ulivo) nella quota proporziona-
I testi di Alfio Mastropaolo e Guido D’Agostino derivano da interventi al seminario su “Il voto del 21 aprile” , svoltosi al Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna il 21 maggio 1996.
' I t a l i a c o n t e m p o r a n e a ” , s e t t e m b r e 1 9 9 6 , n . 2 0 4
498 Alfio Mastropaolo
le rispetto a quella uninominale. Al momento di scegliere un simbolo ed un partito, sembrerebbe, l’elettorato moderato ha votato col cuore. Al momento di scegliere una proposta di governo ha votato col portafoglio e col cervello. Rispetto alla destra rozza, arrogante, arruffona che l’Italia si ritrova, la proposta di governo dell’Ulivo è apparsa di gran lunga la più moderata e la più tranquillizzante.
Alla deriva a destra dello scenario politico si fermano però le somiglianze. E cominciano invece differenze e specificità. Che di sicuro sono apprezzabili, ma che non sono, sia chiaro, una caratteristica esclusiva dell’Italia, ma di ciascun singolo paese. Anche la Francia è una democrazia assai particolare, rispetto all’Inghilterra e alla Germania. Così come lo è la Germania rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna. In ogni caso, dalle specificità italiane occorre partire per situare le trasformazioni della classe politica parlamentare, la cui evoluzione per l’appunto segue assai dappresso il tortuoso andamento delle vicende politiche nazionali.
Cominciamo dal patto sociale. Il modello prevalente di patto sociale in Europa è stato quello “keynesiano-socialdemocratico” . Con esso i partiti di sinistra hanno riconosciuto la democrazia pluralistica e l’economia di mercato ed hanno ottenuto, a titolo di compenso, essenzialmente tre cose: la loro piena legittimazione quali partiti di governo, lo Stato assistenziale ed una politica di piena occupazione. In Italia il patto sociale ha assunto invece forme un po’ diverse. Sì, perché se lo Stato assistenziale è stato costruito anche in Italia, e se anche in Italia si è perseguita una politica di piena occupazione, in
compenso la sinistra italiana non è stata mai ammessa al governo. Certo, tale sinistra, anzi il suo partito maggiore, aveva il limite grave di esser comunista, d’intrattenere stretti legami con Mosca e di nutrire nei confronti della democrazia pluralistica sentimenti ambivalenti. Fatto si è che la sola sinistra che in Italia sia riuscita a governare è stata quella che ha rinunciato ad esser sinistra, ovvero che si è sottomessa al gran partito di centro, che rappresentava la quota più consistente dell’elettorato, vale a dire la Democrazia cristiana.
Quantunque la politica economica italiana sia stata abbondantemente influenzata dal keynesismo, più che di un patto keynesiano1 occorrerebbe quindi parlare per l’Italia di un patto kelseniano. La democrazia di Kelsen è una democrazia la cui virtù fondamentale consiste nel far convivere minoranze eterogenee. Il suo fine primario è il compromesso fra partiti diversi2. Non voglio con questo sposare la teoria interpretativa della storia d’Italia recente che è andata per la maggiore in questi anni, quella del consociativismo3. Per la quale i due partiti che occupavano quasi totalmente la scena politica italiana — la De e il Pei — avrebbero stipulato fra loro un occulto patto di convivenza, intessuto di sotterranei favori reciproci, mentre agli occhi del mondo si avversavano ferocemente. Sono convinto piuttosto che tali partiti davvero si combattessero, che fossero portatori di concezioni del mondo radicalmente diverse e che l’obiettivo di ciascuno di loro fosse l’eliminazione dell’avversario, anzi del nemico. Solo che, costretti entrambi a rispettare le regole della democrazia rappresentativa e pluralistica, sia per non distruggersi reciprocamente (giacché
1 Per una ricostruzione sintetica di questo genere di patti cfr. Lorenzo Bordogna, Giancarlo Provasi, Politica, economia e rappresentanza degli interessi, Bologna, Il Mulino, 19S4.
Cfr. Hans Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in Id., I fondamenti della democrazia e altri saggi, Bologna, Il Mulino, 1966 (ed. orig. 1929).3 La versione più autorevole, anche perché non condizionata da pregiudizi politici, di questa teoria è quella elaborata da Alessandro Pizzorno: cfr. Categorie per una crisi, “Micromega”, 1993, n. 3, pp. 81-96 (ora in Le radici delta politica assoluta e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1994) e Dopo il consociativismo, “Micromega”, 1995, n. 2, pp. 236-260.
La classe politica parlamentare 499
uno scontro aperto sarebbe stato distruttivo per entrambi), sia perché la situazione internazionale scoraggiava troppo brusche rotture, la De e il Pei, col contorno dei partiti minori, proprio grazie a tale metodo sono riusciti a coabitare, non felicemente forse, ma certo con vantaggio per il paese.
Quella italiana è stata insomma una democrazia bicefala4: ovvero la somma di due sottosistemi politici alternativi, ed autosufficienti, portatori di concezioni del mondo diversissime, radicati fra categorie sociali diverse, che si sono per lungo tempo aspramente confrontati, inconsapevolmente producendo decisivi effetti di governo. Non solo lo scontro tra passioni politiche così vigorose è stato per la società italiana motivo di maggior vitalità rispetto ad altre società europee che i grandi conflitti sociali avevano superato già da tempo. Non solo sul terreno della democrazia sostanziale l’Italia non è stata seconda ad alcun altro paese europeo, ma col tempo i due partiti su cui la democrazia s’imperniava, e che democratici in origine non erano, si sono progressivamente socializzati alla democrazia pluralistica, elaborando altresì fra loro un modus rivendi. Che ha permesso appunto tre cose: la stabilizzazione della democrazia, uno straordinario sviluppo economico, la costruzione di uno Stato sociale.
Con questo non s’intendono in alcun modo sottacere gli inconvenienti del modello: la tendenza della De ben presto a surrogare, con il clientelismo e con la lottizzazione degli apparati statali e delle imprese pubbliche, il richiamo dell’ideologia; la tendenza del Pei a surrogare a sua volta l’ideologia con l’arroccamento burocratico e con la scolastica difesa dell’ideologia; ma soprattutto la complessiva incapacità d’innovare del sistema politico, il quale, fallito il tentativo di una “grande coalizione” attravero cui i due prin
cipali contendenti si legittimassero reciprocamente, non ha trovato altra strada che la corruzione diffusa, l’assistenzialismo di massa e la devastazione delle pubbliche finanze, coronati da un collasso che ha messo la democrazia a repentaglio. Quel che qui si vuol dire solamente è che l’anomalia italiana era assai meno anomala di quanto non si pensasse e che, se la divaricazione fra l’Italia e le altre democrazie europee è cresciuta nell’ultimo quindicennio, non necessariamente questo era il suo destino.
Ma quali effetti ha avuto questo singolare modello di democrazia sulla fisionomia e sulla composizione della classe politica? Il primo punto da sottolineare è il ruolo preponderante che hanno svolto i partiti. Essendosi assunti il compito d’integrare la società — ed assumersi questo compito era stato impresa facile sia per l’antica debolezza dello Stato (e della nazione), sia per la meno antica propensione delle classi possidenti e di quelle imprenditoriali ad instaurare con lo Stato e la politica un rapporto protettivo, senza in prima persona impegnarsi sulla scena politica, sia ancora per il tracollo subito dalle pubbliche istituzioni dopo la caduta del fascismo — immediatamente i partiti si sono qualificati quali agenzie monopolistiche sul mercato del lavoro politico.
La classe politica emersa dalla lotta di liberazione, quella che ha redatto la Costituzione della Repubblica, era una classe politica composta in larghissima parte da antichi resistenti e antifascisti, da dirigenti e quadri dell’associazionismo cattolico, da notabili, specie nel Mezzogiorno, — avvocati, proprietari fondiari, liberi professionisti — nonché da dirigenti di partito, che allora intraprendevano la carriera politica, affiancati da intellettuali in massima parte legati organicamente ai partiti5. Ebbene, assai rapidamente questa
4 Alfio Mastropaolo, La Repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant'anni di democrazia in Italia, Firenze, La Nuova Italia, 1996.5 Giovanni Sartori, Dove va il parlamento?, in Id. (a cura di), Il parlamento italiano. 1946-1963, Napoli, Esi, 1963.
500 Alfio Mastropaolo
classe politica è stata avvicendata. O meglio sono state avvicendate le sue componenti non partitiche, il sistema dei partiti si è consolidato ed è emersa una classe politica nuova, i cui tratti salienti sono stati descritti con efficacia da Maurizio Cotta, contrapponendo due modelli, uno politico “di apparato” , proprio del Pei, e uno “partitico-clientelare” , proprio della De6. Il primo modello è quello tipico dei partiti d’integrazione di massa. Le cariche elettive sono riservate ai funzionari e ai dirigenti di partito e delle organizzazioni collaterali, a cominciare dai sindacati, finché i sindacati non decideranno di separare i propri destini da quelli dei partiti. Il secondo modello non è troppo diverso: in apparenza conta solo assai di più il governo locale. Dai consigli comunali si ascende progressivamente verso il parlamento e la carriera negli organismi elettivi non si dissocia da quella negli organismi di partito.
La differenza si accentua quando si considerano i ben diversi stili politici che corrispondono a questi due modelli. I due maggiori partiti italiani erano grandi strutture di servizio. Il Pei svolgeva la sua funzione integrativa adottando una tecnica più propriamente associativa. Il servizio che rendeva alla sua base era quello d’integrarla collettivamente in una grande struttura di solidarietà, con una fortissima componente ideologica. Di contro, la De lasciava l’ideologia più sullo sfondo, grazie anche alla divisione del lavoro stabilitasi con la Chiesa, dalla cui ingombrante tutela essa aveva anche il problema di emanciparsi. Ed applicava un modello di integrazione individualistico-clientelare. Il partito erogava favori in cambio di voti.
Il modello, in realtà, si modificava muovendo da Sud a Nord. Nell’Italia settentrionale, nella cosiddetta “zona bianca” , la De vantava un profondo radicamento nelle am
ministrazioni municipali, restava più vicina alle parrocchie. E l’associazionismo cattolico aveva maggior peso. Quel che è certo è che col tempo il peso dei reticoli associativi per la De si è ridotto ed è cresciuto quello del clientelismo. E alla De si è offerta un’altra opportunità: quella del sottogoverno. Dai primi anni cinquanta, la De ha preso a colonizzare le banche e le imprese pubbliche. Qui insediava i suoi uomini. E per molti suoi esponenti, il sottogoverno diventava una tappa cruciale della carriera politica. Panebianco ha giustamente parlato al riguardo di professionismo politico “ occulto” . Vi erano moltissimi politici professionisti a pieno titolo che si nascondevano nella pubblica amministrazione o nei settori pubblici dell’economia, senza mai svolgere forse l’attività che era stata loro affidata7.
Tanto nel caso della De, quanto in quello del Pei, alla politica comunque si accedeva dal basso8.1 politici non vantavano esperienze extrapolitiche, né per se stessi intravedevano prospettive future al di fuori della politica. E non erano troppo diversi neppure gli altri partiti. Il Partito socialista somigliava moltissimo al Pei in origine, salvo ravvicinarsi al modello De quando con il centrosinistra, all’inizio degli anni sessanta, esso avrebbe abbandonato l’opposizione e sarebbe giunto al governo. I piccoli partiti erano formazioni notabiliari, legati ad una ristretta pattuglia di personaggi di spicco, reduci per lo più dell’antifascismo. E sopravvivevano grazie al rapporto privilegiato con la De, che offriva loro la possibilità di insediarsi nel sottogoverno, negli enti pubblici, e quindi di riprodursi per partenogenesi. Merita una menzione il caso del Partito liberale, che è il partito più strettamente legato al mondo imprenditoriale. Il suo leader storico, Malagodi, vantava un’esperienza di dirigente bancario di
6 Maurizio Cotta, Classe politica e parlamento in Italia: 1946-1976, Bologna, Il Mulino, 1979.7 Angelo Panebianco, Modelli di partito, Bologna, Il Mulino, 1982.8 Alfio Mastropaolo, Il ceto politico. Teoria e pratiche, Roma, Nis, 1993.
La classe politica parlamentare 501
alto rango, ma gli imprenditori entrati in politica insieme a lui si contavano sulle dita di una mano, confermando una tradizione che risale alla stessa unificazione.
La forza del patto kelseniano, che progressivamente si consoliderà fra questi attori, sta nella sua capacità di non escludere nessuno. Col tempo lo sviluppo industriale favorirà anche il saldarsi, al riparo di tale patto, di una forma di cooperazione conflittuale ed intrisa di radicalismi ideologizzanti fra imprenditori e sindacati. Ma intanto la De troverà il modo di contenere lo slittamento a sinistra del quadro politico radunando intorno a sé, grazie all’assistenzialismo e a una diffusa politica di lassismo fiscale, anche i ceti medi autonomi — quelli dipendenti col tempo si divideranno equamente fra De e Pei — e quelle che Sylos Labini ha definito le “categorie della rendita”9.
Col passare del tempo altri due fenomeni hanno dunque segnato la politica italiana e il personale politico. Il primo potremmo definirlo 1’ “ipertrofia della mediazione politica” . Le istituzioni disegnate dai costituenti erano del resto state predisposte a tal fine: gran parte dell’attività del sistema politico italiano è stata un’attività di mediazione e di scambio. Tra attori sociali, tra attori sociali e attori politici, tra attori politici. Intanto quello italiano, per i cleavage che lo attraversavano, era un sistema a legittimazione duale e perciò insufficiente. Sicché il dualismo imponeva di sostituire la legittimazione con un consenso negozialmente ottenuto. Del pari, già lo si è detto, forme di consenso siffatte erano l’alternativa al fatale esaurirsi dell’ideologia. Inoltre, in parlamento le coalizioni di governo erano composite e fragili, mentre l’opposizione comunista era disciplinata e compatta. E quindi anche in questa sede occorreva quotidianamente scendere a patti e scambiare.
Non solo però nel loro insieme, i politici
maturavano un know-how specifico e divenivano tecnici della mediazione e dello scambio, ma al tempo stesso il personale politico si costituiva in ceto separato10. Lo scambio ha rappresentato per esso un forte elemento unificante. Tanto più che, onde mantenere il monopolio dello scambio politico, i politici si opponevano ad ogni tentativo di entrata laterale in politica. La politica si rinnovava così soprattutto per cooptazione, mentre il turnover, meno marginale di quanto spesso si pensi, si svolgeva tra i ranghi più bassi della carriera politica e quelli più elevati, con l’effetto di produrre una classe politica singolarmente longeva.
La prima grande crisi di legittimazione ha investito la classe politica italiana alla fine degli anni sessanta. Essa si manifestò attraverso i movimenti collettivi, ma anche col visibile declino elettorale della De e la speculare crescita del Pei. Logorate le ideologie dallo sviluppo e dai processi di secolarizzazione politica e di differenziazione sociale, i vecchi pregiudizi reciproci tra i partiti tendevano ad attenuarsi. L’Italia diventava un paese moderno. Che faticava a riconoscersi nelle tecniche clientelali di gestione del consenso della De. La società civile — le classi medie intellettuali, ma anche i lavoratori dipendenti — avanzavano la richiesta di istituzioni più moderne, più efficienti, e chiedevano anche di contare di più. E questo non solo cambiò gli equilibri elettorali, ma sconvolse le consolidate routine della classe politica.
Come si avverte chiaramente dai dati sulla classe politica, il Pei reagi sburocratizzandosi ed attraverso un apprezzabile ringiovanimento dei quadri, anche attingendo ai ranghi del movimento collettivo. A sua volta la De replicò dapprima appellandosi all’identità — il referendum sul divorzio — e quindi an- ch’essa mediante uno svecchiamento dei quadri. Entrambi i partiti si aprivano insomma,
9 Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Bari, Laterza, 1975.10 A. Mastropaolo, Il ceto politico, cit.
502 Alfio Mastropaolo
con molta cautela, alla società civile e le loro rappresentanze parlamentari registravano cambiamenti apprezzabili. Nascevano gli “ indipendenti” , di sinistra e non: professori universitari e letterati, imprenditori e professionisti. Per lo più di gran nome. La cui presenza rivelava la crisi di tutto un modello di relazioni fra società e sistema politico. Solo che gli “indipendenti” non erano che un palliativo.
Com’è noto, il tentativo di modernizzare il paese, trasformando il patto kelseniano in patto keynesiano, era destinato al fallimento. Per ragioni troppo note per doverle qui ricordare. Ciò che importa in questa sede è che la democrazia italiana ha cercato negli anni successivi di percorrere altre strade, in particolare quella indicata da Craxi. Il quale verso la fine degli anni settanta intravide la possibilità di captare sia il consenso dei vecchi settori moderati, preoccupati dall’ipotesi del compromesso storico e da un “tradimento” della De, sia l’avversione verso il welfare e la sinistra delle classi medie emergenti.
Quella di Craxi era un’ipotesi chiaramente conservatrice, la quale per realizzarsi implicava la rottura dell’assetto istituzionale pro- porzionalistico e parlamentare. Se non che, mentre da una parte Craxi riusci ad allargare il seguito elettorale del Partito socialista, dall’altro non seppe resistere alla tentazione di investire il suo successo elettorale accordandosi con la De per disputarle le enormi risorse di sottogoverno di cui disponeva. Esauritasi la stagione della politica ideologica, deperita la capacità di mobilitazione collettiva del Pei, spezzati i vincoli che legavano la De al mondo cattolico, la politica italiana degli anni ottanta è stata, com’è noto, dominata dalla corruzione, dal clientelismo, dall’uso distorto dello stato assistenziale e dalla mar- ginalizzazione del Pei, che, in cambio di
un’opposizione assai blanda, fu compensato con qualche mediocre vantaggio di sottogoverno.
Entriamo così in una terza stagione della classe politica italiana, segnata da tre fenomeni. Il primo è il diffondersi della figura di quello che Donatella Della Porta ha chiamato il “politico d’affari” , spesso esterno agli apparati di partito, talora anche estraneo alle istituzioni rappresentative, che opera attivamente quale intermediario con le imprese e le organizzazioni d’interesse, che a loro volta si preoccupano di reclutare, magari negli stessi ranghi della politica e delle aziende pubbliche, intermediari specializzati in grado di rappresentarli11.
Il secondo fenomeno di rilievo è consistito nell’intrecciarsi fra i politici d ’affari di sotterranei rapporti di comparaggio, all’interno del partito di appartenenza, ma anche al di fuori di esso, tessendo una fitta trama di correnti e cordate trasversali, capillarmente connesse al sistema degli interessi. In un contesto assai vischioso correnti e cordate servivano a propiziare la mobilità ascendente del personale politico, a prevenire il dissenso e ad agevolare gli accordi lottizzatori, ma soprattutto trasformavano uomini di governo, amministratori locali, dirigenti di aziende pubbliche in null’altro che loro emissari e portavoce, in tal modo spostando al di fuori del sistema politico visibile le scelte politiche decisive.
Il terzo fenomeno da sottolineare a proposito della classe politica è l’evoluzione della figura dell’“indipendente” . Negli anni ottanta un’altra importante specificità italiana ha cominciato a ridursi ed anche in Italia ha cominciato a diffondersi il modello che Anthony King12 ha definito del “politico in carriera” prevalente negli altri parlamenti europei. La secolarizzazione politica, il declino degli apparati, l’atrofia della militanza disinteres-
11 Donatella Della Porta, Lo scambio occulto. Casi di corruzione politica in Italia, Bologna, Il Mulino, 1992.12 Antony King, The Rise o f the Career Politician in Britain and its Consequences, “British Journal of Political Science”, 1981, n. 2.
La classe politica parlamentare 503
saia hanno trasformato profondamente i partiti. Ma la complessità dei compiti attribuiti ai politici è rimasta tale da imporre a chi alla politica volesse dedicarsi un impegno a tempo pieno. Ciò favoriva comunque le “carriere” politiche di lunga durata, le quali però non prevedevano più una fase di socializzazione attraverso incarichi di partito o mandati elettivi in sede locale prima di giungere al vertice. La regola divenivano gli ingressi laterali in politica, ovvero l’ingresso non già dalla militanza, bensì da una professione privata.
Come ha reagito la società a codeste trasformazioni? La risposta è ben nota: attraverso vistosi processi di delegittimazione. I quali però — una volta addomesticata Top- posizione comunista ed in sintonia con lo slittamento verso destra della pubblica opinione verificatosi in Italia come nel resto d’Europa — hanno stavolta trovato nuovi imprenditori politici in grado di volgerli a proprio vantaggio. Tre i fondamentali focolai di delegittimazione accesisi negli anni ottanta. Innanzitutto i ceti medi intellettuali, in primis quelli legati al mondo cattolico, alimenteranno il movimento referendiario, il quale, utilizzando lo strumento del referendum, punterà ad una modifica della legge elettorale. Il secondo focolaio nasce nella periferia: la periferia povera della periferia ricca e quindi anche la periferia ricca della periferia ricca — non dunque i grandi centri urbani - , l’area di piccola impresa, che troveranno in Bossi il geniale imprenditore politico capace di suscitare una questione inedita nella storia d’Italia, quella settentrionale. Il terzo focolaio, decisamente più in ombra dei primi due, è costituito dai ceti medi emergenti, dalle nuove professioni, dalla borghesia della piccola impresa e della finanza, che hanno sostenuto il progetto di Craxi e i quali, finché han potuto, hanno lucrato benefici dall’espansione del clientelismo e dalla corruzione, ma anche dalla sostanziale deregulation introdotta dal craxismo, salvo passare rapidamente all’op
posizione quando hanno scoperto che nessuna svolta conservatrice si era potuta realizzare. La delegittimazione diverrà infine fenomeno, di massa nei primi anni novanta quando la crisi economica metterà in luce i disastri compiuti dai politici d’affari, quando il successo elettorale della Lega destabilizzerà il quadro politico e quando le indagini di “Mani pulite” chiariranno quali dimensioni aveva assunto la corruzione politica.
Le elezioni del 1994 hanno sancito cosi una profonda rottura nella politica italiana. Hanno segnato anzitutto il collasso dei partiti tradizionali, con l’eccezione dei due partiti nati dal Pei e del Movimento sociale, trasformatosi in Alleanza nazionale. Hanno segnato in secondo luogo l’ingresso sulla scena politica di quel singolarissimo partito televisivo che è Forza Italia, guidato da Berlusconi, il quale, con ogni probabilità, in un’epoca in cui la competizione politica è in larghissima misura condizionata dai media, non va considerato una patologia straordinaria (visti alcuni tentativi abbozzati anche fuori d’Italia), ma un fenomeno, se non proprio fisiologico, comunque prevedibile per le società avanzate, cosi capillarmente condizionabili attraverso i media. Forza Italia ha avuto successo in Italia specie perché la destrutturazione del sistema partitico non gli ha opposto alcuna resistenza.
In terzo luogo, le elezioni del 1994 hanno segnato un significativo avvicendamento nella classe politica parlamentare. A questo riguardo un’osservazione va però fatta. Non è vero che una classe politica nuova ha cacciato quella vecchia. Più semplicemente, e meno drammaticamente — la differenza è sottile, ma non irrilevante — una vecchia classe politica è uscita di scena, non si è riproposta agli elettori e se ne è improvvisata una nuova.
Quali le caratteristiche di questa classe politica? Premesso che, fuoriuscito in gran parte il vecchio ceto politico, nel complesso è diminuita l’età media ed è contestualmente ere-
504 Alfio Mastropaolo
sciuta, grazie però alla legge elettorale, la presenza femminile, due sono i partiti da tenere sotto osservazione, ovvero Lega e Forza Italia, giacché è il loro successo che ha più inciso sulla fisionomia della rappresentanza parlamentare. Grazie a loro, mentre sono rimaste stabili categorie come avvocati e notai, giornalisti, magistrati, insegnanti e docenti universitari, sono apparsi in declino i politici di mestiere e i rappresentanti di gruppi d’interesse, così come s’è ridotta ad un terzo una categoria dietro cui parecchi politici a tempo pieno si nascondevano, ovverossia i dirigenti e i quadri degli enti pubblici e parapubblici. Viceversa, sono cresciuti sensibilmente gli imprenditori e i professionisti, che comprendono molte professioni tradizionalmente non incluse nel novero delle professioni liberali: commercialisti, consulenti, agenti d’assicurazione, addetti alle pubbliche relazioni, e così via.
Un terzo degli eletti di Forza Italia nel 1994 si dichiarava imprenditore o dirigente d’azienda (percentuale, questa, ben superiore a quella di tutti i partiti moderato-conserva- tori d ’Europa). Premesso che una quota non marginale di deputati e senatori di quel partito era costituita da dipendenti delle aziende di Berlusconi, o di aziende a lui collegate, resta il fatto che, ragionando in termini regionali, nelle regioni settentrionali, attraverso la Lega e Forza Italia, si sono proposte categorie rimaste tradizionalmente estranee alla politica, preferendo esse avvalersi della mediazione specializzata del ceto politico.
Anche l’estrazione sociale del personale politico appariva nel 1994 più elevata che in precedenza. E cresciuta la borghesia professionale, insieme a quella imprenditoriale. Sono diminuiti i ceti medi dipendenti. L’ipotesi più verosimile è che questo trend sia da far risalire a un duplice movente: in primo luogo, al successo di Forza Italia e della Lega; in secondo luogo, alla crisi dei grandi partiti di massa e alla nascita di forze politiche nuove e scarsamente istituzionalizzate, che ha pro
dotto un sensibile effetto di “sdemocratizzazione” delle élite. Se è forse eccessivo sostenere che la ricchezza sia divenuta nel 1994 la risorsa decisiva d’ingresso in parlamento, non v’è dubbio che l’atrofia delle macchine di partito ha favorito chi già faceva parte delle élite sociali rispetto ai candidati anonimi, costretti unicamente a contare sul sostegno che i partiti non erano più in grado di offrire.
Si sottrae a questo schema in qualche misura la Lega. Molti imprenditori leghisti erano null’altro che piccolissimi imprenditori, al confine con l’artigianato, e molti professionisti della Lega svolgevano professioni scarsamente prestigiose, benché magari redditizie. Non è un caso che la percentuale di laureati tra i leghisti fosse ben più bassa che in Forza Italia. Radicata anche negli strati sociali medio-bassi, la Lega ha svolto una funzione di promozione sociale che per taluni versi l’ha assimilata ai partiti di sinistra (che tale funzione di promozione svolgono però oggi assai meno di un tempo).
Anche in fatto di precedenti politici si registrano nel 1994 cambiamenti degni di nota. Che consentono di stabilire quanto il rinnovamento del personale politico fosse legato o meno a nuovi ingressi e quanto invece alla promozione dai livelli più bassi della carriera politica. Sotto questo profilo, è fuori di dubbio che il personale più nuovo fosse quello di Forza Italia, mentre gli eletti della Lega, essendo la Lega un partito meno recente di Forza Italia, potevano vantare almeno qualche esperienza nel governo locale. In compenso, Forza Italia riciclava, specie nel Mezzogiorno, molti vecchi portaborse, parenti, amici di esponenti democristiani. La fragilità del tessuto imprenditoriale la portava cioè a valorizzare gli imprenditori politici disponibili in loco, che sono appunto imprenditori politici.
I dati sulla carriera politica permettono anche di cogliere appieno la natura della rappresentanza di Alleanza nazionale, nata co- m’è noto dal vecchio partito neofascista,
La classe politica parlamentare 505
per quarant’anni isolato alla destra estrema del sistema politico. Ebbene, la rappresentanza di An conteneva percentuali altissime di politici promossi dalle assemblee e dai governi locali. Lungi dall’aprirsi alla società, An, che apparentemente rinnegava il suo passato, non provava nemmeno a liberarsene. Disponeva di un personale politico di provata fedeltà, collaudato in quarant’anni di opposizione, fortemente ideologizzato, dato che l’ideologia era l’unica risorsa disponibile per mantenere la coesione interna, e lo inviava in parlamento. Il che, chiaramente, solleva non pochi dubbi sulla sua metamorfosi13.
Ciò che si può dire in conclusione è che due settori sociali sembravano entrare alfine nel 1994 nel parlamento italiano: da una parte la periferia settentrionale, dall’altra le classi medie emergenti, quelle che a suo tempo avevano sostenuto la svolta conservatrice abbozzata, ma non perfezionata, da Craxi, cui il populismo berlusconiano ha offerto un seguito di massa. Chi è restato invece sostanzialmente escluso è stato il ceto medio intellettuale che aveva animato il movimento referendario o formazioni come la Rete: da un lato perché sia l’uno sia l’altra escono sconfitti dalle elezioni, dal lato opposto perché quella del ceto medio intellettuale era per definizione una mobilitazione di élite.
Cosa è accaduto invece con le elezioni del 1996? Probabilmente ad un “ rivoluzione di cachemire” non poteva non far seguito una “restaurazione di cachemire”. In attesa che si apra il dibattito sulla reale necessità della rivoluzione, e sul fatto che essa non abbia prodotto più danni di quelli che avrebbe dovuto sanare, cominciamo dagli schieramenti che si sono fronteggiati, i quali non sono più gli stessi del 1994. Nel 1994 da una parte si schierava la sinistra vecchia e nuova, dall’altra le forze predemocratiche, che, caduto il fascismo, erano rimaste isolate all’estrema
destra, insieme alle forze postdemocratiche — Berlusconi e Bossi — la cui nascita è stata favorita tanto dal prolungato disfacimento della “prima repubblica” , quanto dalla repentina débàcle della De e dei suoi alleati sancita dai magistrati. In mezzo,né da una parte, né dall’altra, si collocava il grosso degli ex democristiani. Ben diversamente, nel 1996 dal centrodestra si è distaccata la Lega, collocatasi fuori da ogni schieramento, mentre sul versante opposto si è formata una sorta di alleanza di Cln, inclusiva di tutte le grandi tradizioni politiche della “prima repubblica” , dagli ex comunisti agli ex De, dagli ex socialisti agli ex partiti “laici” , con il sostegno del sindacato e dell’ala nobile del mondo imprenditoriale e bancario (Fiat, Mediobanca, Bankitalia in prima fila, anche se non apertamente): una coalizione di salute pubblica, cementata dalla diffidenza nei confronti di una coalizione, quella di destra, di scarsa affidabilità democratica, di dubbia fede europeista, velleitaria in politica estera e quanto mai contradditoria in fatto di economia, scissa cioè fra una componente pseudoliberista, in cui spicca un imprenditore che ha prosperato grazie ai favori dei partiti, ed una di solida tradizione statalista.
In ogni caso, il dato che qui interessa è che aH’interno della classe politica quel po’ di novità — peraltro di qualità molto dubbia — che si era affacciato nel 1994 è stato in gran parte riassorbito. E che nessuna delle aspettative suscitate dal maggioritario è stata mantenuta. A cominciare dal fatto che forse mai come nel 1996 gli organismi nazionali dei partiti hanno fatto sentire il loro peso nella selezione dei candidati. An per la sua anti-
,ca vocazione centralista. Forza Italia perché Berlusconi cercava soprattutto candidati fedeli. L’Ulivo perché si trattava di una coalizione eterogenea, in cui ciascuna forza politica pretendeva un adeguato riconoscimento in termini di candidature. In buona sostanza
13 Luca Verzichelli, Gli eletti, “Rivista italiana di scienza politica”, 1994, n. 3.
506 Alfio Mastropaolo
non si è verificato quanto di regola avviene nei sistemi maggioritari, in cui i partiti concedono ai loro terminali periferici possibilità di scelta dei candidati più ampie che in quelli proporzionali.
La seconda considerazione da fare, legata alla prima, è che se da un lato i partiti hanno contato moltissimo, le elezioni del 1996 hanno rappresentato per i partiti un drammatico insuccesso. Più o meno metà dei candidati sono stati espressi da partiti virtuali, da non partiti. Non è un partito Forza Italia, ma solo la filiazione di un’azienda. Non lo è la Lista Dini, che è solo un pugno di notabili legati alla finanza e all’alta amministrazione. Non lo sono le formazioni che si ispirano alla tradizione liberale e a quella socialista (“amici” di Maccanico, “ amici” di Bordon e di Adornato, socialisti della diaspora, cristiano-democratici, ecc.) che hanno, non a caso, riproposto unicamente personaggi più o meno credibili dèli'ancien regime, accuratamente filtrati da salotti e terrazze romane, per esser quindi paracadutati nei collegi.
Terza considerazione. Avendo i non partiti assunto un ruolo così ampio, non può stupire che si sia rafforzata la tendenza alla “sdemocratizzazione” delle élite già delineatasi in realtà negli anni ottanta. Una delle funzioni fondamentali, si è detto, dei partiti di massa era quella di promuovere militanti e quadri provenienti dalle classi inferiori. Da tempo i partiti svolgevano questa funzione assai meno. Ma oggi non la svolgono più per nulla. In questo modo, fra l’altro, si spiega la drastica riduzione della presenza femminile. Cancellata dalla corte costituzionale la norma protettiva che li obbligava a presentare nella quota proporzionale per la Camera un numero di donne uguale a quello degli uomini, i partiti hanno rinunciato a promuovere quella che è, senz’ombra di dubbio, una categoria sociale svantaggiata.
Quarta considerazione. La rappresentazione parlamentare è cambiata per metà. Ma ciò vuol dire ben poco. Tale cambiamen
to è in gran parte imputabile al regime elettorale. Più o meno con gli stessi voti, il centro- destra ha ottenuto assai meno seggi e l’Ulivo molti di più. Occorrerà analizzare le liste dei candidati per avere le idee più chiare sull’offerta di classe politica fatta dalle forze in campo. Intanto qualcosa può dirsi circa la rappresentanza dei singoli partiti.
Non è sostanzialmente cambiata la composizione della rappresentanza parlamentare di An. Che ha seguitato a premiare i suoi fedeli militanti e si è limitata ad aggiungervi un tocco di professori universitari. Nella prospettiva di diventare un partito di governo, il basso livello di qualificazione del suo personale politico era un handicap non da poco e ha provato a rimediarvi. Salvo riciclare frattaglie del vecchio centro.
E leggermente cambiata la composizione di Forza Italia. Berlusconi ha premiato i più loyal, quindi i suoi dipendenti (spesso sotto inchiesta da parte della magistratura). Da un primo esame dei dati parrebbe registrarsi un declino degli imprenditori e dei professionisti, taluni dei quali hanno pubblicamente dichiarato di ritirarsi delusi dalla competizione politica. In compenso, anch’egli ha messo in lista qualche intellettuale accreditato dai media.
Pure la Lega non è cambiata, ma si è solo ridotto il numero dei suoi eletti. La differenza, rispetto al passato, è che, dopo due-tre rielezioni, gli eletti della Lega sono ormai dei politici di mestiere, preoccupatissimi per il loro futuro politico. Come tali, non essendo più in grado di ottenere grandi benefici dalla maggioranza, ed essendo un’opposizione di scarso peso, è presumibile che puntino a radicalizzare lo scontro politico, onde mantenere la loro visibilità.
Quanto infine all’Ulivo, esso altro non propone che una versione, emendata, del personale della “prima repubblica” . Nel Partito popolare, ad esempio, numerosi sono i politici di professione e di carriera, che — Ciriaco De Mita in testa — riprendono il loro posto
La classe politica parlamentare 507
in parlamento dopo un momentaneo abbandono. In compenso, i politici che corrispondevano al modello partitico-clientelare sembrano non esserci più, giacché da un lato l’ala veneta è scomparsa, dall’altro l’ala meridionale — gli eredi di Gava, di Pomicino, di Lima — ha preferito schierarsi col Polo delle libertà (specie Ccd e Cdu). E un solido nucleo di professionisti della politica presentano anche Pds e Rifondazione.
Non può considerarsi una gran novità il gran numero di professori universitari (e quello più ristretto di alti burocrati e imprenditori) presenti nelle file del centrosinistra. Già da tempo le forze politiche tradizionali ingaggiavano esponenti del mondo accademico, contrapponendone la “competenza” all’incompetenza presunta dei professionisti politici. In realtà, una volta entrati in politica, i docenti universitari stentano ad uscirne, sicché l’accademia può essere considerata ormai un accesso privilegiato per gli aspiranti “politici di carriera” .
In ogni caso, le classi politiche dei due schieramenti possono ritenersi rappresentative, seppure in forme alquanto diverse, dei rispettivi retroterra elettorali. Ilvo Diamanti contrapponeva nel 1994 una “destra dei produttori” a una “sinistra degli intellettuali14” . Certo l’Ulivo corrisponde assai più da vicino a tale immagine, avendo integrato però gli intellettuali con un po’ di alta finanza e di alta amministrazione e con il vecchio professionismo politico di matrice comunista e democristiana. Di contro, la destra dei produttori si fa rappresentare dai demagoghi televisivi, contornati da una classe politica fatta dai vecchi professionisti dell’estremismo di destra e del clientelismo De, dagli impiegati di Berlusconi, cui vanno quindi aggiunti i rappresentanti di commercio che guidano la Lega. Ma nella sostanza, dopo quattro anni di estenuanti sommovimenti, la politica e la società italiana ripropongono una classe politi
ca che è difficile definire nuova. O, per dirla alla Croce, se davvero c’è del buono e del nuovo, il buono non è nuovo, né il nuovo può dirsi buono.
La qualità del personale politico non è visibilmente migliorata, né sembrano destinate a migliorare le sue performance e quelle dell’istituzione parlamentare. Nei regimi maggioritari, segnati dall’assoluta preminenza dell’esecutivo sul parlamento, la qualità degli eletti è di norma scadente. In parlamento tende ad impegnarsi chi non ritenga di avere sufficienti chance di successo nella sua professione privata e cerchi opportunità alternative di mobilità sociale ascendente. In Italia le cose forse non stanno ancora in questo modo, i poteri dei parlamentari — se non quelli del parlamento — sono tuttora significativi e i banchi delle due camere restano mete apprezzate. E però di sicuro emblematico il fatto che, mentre si sono moltiplicati i docenti universitari, si sono di nuovo ridotti liberi professionisti e imprenditori: in parlamento siede unicamente chi non ha nulla da perdere nella sua professione privata.
Il rischio maggiore comunque è che, una volta esauritisi i partiti tradizionali, una volta azzerata la disciplina di partito e stante l’attuale assetto istituzionale, né maggioritario, né consensuale, bensì a metà strada, nulla più freni né le propensioni lobbistiche, né il narcisismo degli eletti. Il che potrà anche andar bene all’opposizione (che vuoi per istinto, vuoi per tradizione non ha in gran simpatia l’istituto parlamentare e deve contrastare la maggioranza), così come all’ampio partito trasversale che sogna l’uomo forte, ma non al governo e nemmeno a chi guarda con sospetto tanto all’ipotesi dell’uomo forte, quanto alle formule di marca pre- sidenzialista dietro cui potrebbe essere con- tabbandata.
In realtà, onde seguire i modelli europei e ridefinire il ruolo del parlamento, non è detto
14 Ilvo Diamanti, Perché perde la sinistra, “Micromega”, 1994, n. 5, pp. 150-165.
508 Alfio Mastropaolo
che ciò debba necessariamente avvenire adottando il modello presidenziale, o quello semipresidenziale. E forse non è detto neppure che sia necessario rafforzare ulteriormente gli aspetti maggioritari introdotti con la riforma elettorale del 1994. L’obiettivo di ridimensionare il parlamento si può raggiungere in molti modi. Dato lo stato della cultura politica nazionale, dato il tipo di destra che c’è in Italia — in cui le componenti populiste e autoritarie sono sovradimensionate rispetto agli altri paesi europei — un drastico passaggio ad un assetto maggioritario, in chiave più o meno presidenzialista, sarebbe anzi un inutile rischio.
Qui però non si tratta unicamente, checché qualcuno ne pensi, d’ingegneria istituzionale. Il problema è politico. Dato che le riforme costituzionali, anche le più perfette, non sa
ranno da sole sufficienti né a modernizzare una volta per tutte la democrazia italiana, restituendo la politica al suo ruolo, né ad esorcizzare le forze politiche post, anti e pseudodemocratiche che in questa fase insidiano la democrazia italiana. In verità, a rischio non è solo l’Italia. Tutte le democrazie sviluppate affrontano oggi problemi di enorme portata. Le loro società sono frammentate e disgregate. E ovunque declina la fiducia nella democrazia. In Italia questo declino è stato però più evidente e rapido che altrove. Il caso, che ha riportato alla guida del paese le forze dell "ancien regime, il quale, malgrado i suoi limiti e difetti è stato comunque — riconosciamolo — una democrazia, ha offerto a queste forze una prova d’appello. Vedremo se sapranno profittarne.
Alfio Mastropaolo
ITALIA CONTEMPORANEAAcquisto di singoli fascicoli: è possibile ricevere, senza aggravio di spese postali, singoli numeri di “ Italia contemporanea” ai prezzo unitario di copertina di lire 25.000.
Abbonamento annuo 1996: lire 80.000 per l’Italia e lire 110.000 per l’estero.
I versamenti devono essere eseguiti sul CCP n. 16835209 intestato all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (Piazza Duomo 14, 20122 Milano), specificando se si tratta di abbonamento o della richiesta di uno o più fascicoli. I singoli numeri della rivista possono anche essere inviati, a richiesta, in contrassegno.