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La classe politica parlamentare tra rivoluzione e restaurazione Alfio Mastropaolo L’Italia è uno strano paese. È un paese euro- peo come gli altri, né più, né meno. Ma a vol- te se ne dimentica, per esaltare specificità che di sicuro non mancano, ma sono assai meno clamorose di quanto spesso gli italiani non pretendano. Analogamente dell’appartenen- za dell’Italia all’Europa si dimenticano so- vente gli stranieri, che l’Italia si divertono ad osservarla, ma sono terribilmente sconcer- tati dai bizantinismi del suo sistema politico. In realtà, per gli italiani, è forse soprattutto il loro narcisismo, mescolato ad una robusta dose di provincialismo, che li induce a rite- nersi diversi. Se però ci si ferma per un mo- mento a riflettere, in particolare sulle vicende sociali e politiche dell’ultimo mezzo secolo, l’Italia è un paese non meno normale di altri. Essa ha anzi conosciuto uno straordinario sviluppo industriale e un non meno straordi- nario sviluppo democratico. Quanto ai pro- tagonisti di questo sviluppo, come nel resto d’Europa, sono stati fondamentalmente due: la classe imprenditoriale e le classi lavo- ratrici, che hanno fra loro stipulato un soli- dissimo patto, al quale si sono accodate le classi medie. Come negli altri paesi europei questo mo- dello si è rotto intorno alla fine degli anni set- tanta. Le trasformazioni del sistema produt- tivo, l’adozione di nuove tecnologie, lo spo- stamento del baricentro del sistema economi- co dal settore secondario al settore terziario, la mondalizzazione dell’economia, hanno oscurato i vecchi protagonisti dello sviluppo, in special modo le classi lavoratrici, avvan- taggiando, di contro, i ceti medi autonomi. Questo ha provocato — in Italia, esattamen- te come nel resto d’Europa — una vigorosa deriva verso destra, con un chiarissimo con- tenuto anti-welfare, la quale, avviata dal craxismo, ha trovato alfine sfogo con le ele- zioni del 1994, attraverso il successo di Berlu- sconi, di Fini, della Lega ed è tuttora ben lon- tana dall’essersi esaurita. Non deve infatti far da velo il successo conseguito il 21 aprile scorso dalla coalizio- ne di centrosinistra (Ulivo più Rifondazio- ne comunista più Lista Dini), la quale, è giusto ricordarlo, è maggioritaria in termini di seggi, e di voti nella quota uninominale, ma non nella quota proporzionale. A parte il fatto che tale coalizione contiene al suo interno una buona fetta del moderatismo nazionale, quella democraticamente più af- fidabile, e che la sinistra è rimasta inchioda- ta al 30 per cento dell’elettorato, il senso di quel risultato elettorale sta tutto nel milione di voti in più che le forze del Polo hanno conseguito (e il milione di voti in meno ot- tenuto dall’Ulivo) nella quota proporziona- I testi di Alfio Mastropaolo e Guido D’Agostino derivano da interventi al seminario su “Il voto del 21 aprile”, svoltosi al Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna il 21 maggio 1996. 'Italia contemporanea”, settembre 1996, n. 204

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La classe politica parlamentare tra rivoluzione e restaurazione

Alfio Mastropaolo

L’Italia è uno strano paese. È un paese euro­peo come gli altri, né più, né meno. Ma a vol­te se ne dimentica, per esaltare specificità che di sicuro non mancano, ma sono assai meno clamorose di quanto spesso gli italiani non pretendano. Analogamente dell’appartenen­za dell’Italia all’Europa si dimenticano so­vente gli stranieri, che l’Italia si divertono ad osservarla, ma sono terribilmente sconcer­tati dai bizantinismi del suo sistema politico. In realtà, per gli italiani, è forse soprattutto il loro narcisismo, mescolato ad una robusta dose di provincialismo, che li induce a rite­nersi diversi. Se però ci si ferma per un mo­mento a riflettere, in particolare sulle vicende sociali e politiche dell’ultimo mezzo secolo, l’Italia è un paese non meno normale di altri. Essa ha anzi conosciuto uno straordinario sviluppo industriale e un non meno straordi­nario sviluppo democratico. Quanto ai pro­tagonisti di questo sviluppo, come nel resto d’Europa, sono stati fondamentalmente due: la classe imprenditoriale e le classi lavo­ratrici, che hanno fra loro stipulato un soli­dissimo patto, al quale si sono accodate le classi medie.

Come negli altri paesi europei questo mo­dello si è rotto intorno alla fine degli anni set­tanta. Le trasformazioni del sistema produt­tivo, l’adozione di nuove tecnologie, lo spo­

stamento del baricentro del sistema economi­co dal settore secondario al settore terziario, la mondalizzazione dell’economia, hanno oscurato i vecchi protagonisti dello sviluppo, in special modo le classi lavoratrici, avvan­taggiando, di contro, i ceti medi autonomi. Questo ha provocato — in Italia, esattamen­te come nel resto d’Europa — una vigorosa deriva verso destra, con un chiarissimo con­tenuto anti-welfare, la quale, avviata dal craxismo, ha trovato alfine sfogo con le ele­zioni del 1994, attraverso il successo di Berlu­sconi, di Fini, della Lega ed è tuttora ben lon­tana dall’essersi esaurita.

Non deve infatti far da velo il successo conseguito il 21 aprile scorso dalla coalizio­ne di centrosinistra (Ulivo più Rifondazio­ne comunista più Lista Dini), la quale, è giusto ricordarlo, è maggioritaria in termini di seggi, e di voti nella quota uninominale, ma non nella quota proporzionale. A parte il fatto che tale coalizione contiene al suo interno una buona fetta del moderatismo nazionale, quella democraticamente più af­fidabile, e che la sinistra è rimasta inchioda­ta al 30 per cento dell’elettorato, il senso di quel risultato elettorale sta tutto nel milione di voti in più che le forze del Polo hanno conseguito (e il milione di voti in meno ot­tenuto dall’Ulivo) nella quota proporziona-

I testi di Alfio Mastropaolo e Guido D’Agostino derivano da interventi al seminario su “Il voto del 21 aprile” , svoltosi al Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna il 21 maggio 1996.

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le rispetto a quella uninominale. Al mo­mento di scegliere un simbolo ed un partito, sembrerebbe, l’elettorato moderato ha vo­tato col cuore. Al momento di scegliere una proposta di governo ha votato col por­tafoglio e col cervello. Rispetto alla destra rozza, arrogante, arruffona che l’Italia si ri­trova, la proposta di governo dell’Ulivo è apparsa di gran lunga la più moderata e la più tranquillizzante.

Alla deriva a destra dello scenario politico si fermano però le somiglianze. E cominciano invece differenze e specificità. Che di sicuro sono apprezzabili, ma che non sono, sia chia­ro, una caratteristica esclusiva dell’Italia, ma di ciascun singolo paese. Anche la Francia è una democrazia assai particolare, rispetto al­l’Inghilterra e alla Germania. Così come lo è la Germania rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna. In ogni caso, dalle specificità ita­liane occorre partire per situare le trasforma­zioni della classe politica parlamentare, la cui evoluzione per l’appunto segue assai dap­presso il tortuoso andamento delle vicende politiche nazionali.

Cominciamo dal patto sociale. Il modello prevalente di patto sociale in Europa è stato quello “keynesiano-socialdemocratico” . Con esso i partiti di sinistra hanno riconosciuto la democrazia pluralistica e l’economia di mercato ed hanno ottenuto, a titolo di com­penso, essenzialmente tre cose: la loro piena legittimazione quali partiti di governo, lo Stato assistenziale ed una politica di piena occupazione. In Italia il patto sociale ha as­sunto invece forme un po’ diverse. Sì, per­ché se lo Stato assistenziale è stato costruito anche in Italia, e se anche in Italia si è per­seguita una politica di piena occupazione, in

compenso la sinistra italiana non è stata mai ammessa al governo. Certo, tale sini­stra, anzi il suo partito maggiore, aveva il li­mite grave di esser comunista, d’intrattenere stretti legami con Mosca e di nutrire nei confronti della democrazia pluralistica sen­timenti ambivalenti. Fatto si è che la sola si­nistra che in Italia sia riuscita a governare è stata quella che ha rinunciato ad esser sini­stra, ovvero che si è sottomessa al gran par­tito di centro, che rappresentava la quota più consistente dell’elettorato, vale a dire la Democrazia cristiana.

Quantunque la politica economica italiana sia stata abbondantemente influenzata dal keynesismo, più che di un patto keynesiano1 occorrerebbe quindi parlare per l’Italia di un patto kelseniano. La democrazia di Kelsen è una democrazia la cui virtù fondamentale consiste nel far convivere minoranze eteroge­nee. Il suo fine primario è il compromesso fra partiti diversi2. Non voglio con questo sposa­re la teoria interpretativa della storia d’Italia recente che è andata per la maggiore in questi anni, quella del consociativismo3. Per la qua­le i due partiti che occupavano quasi total­mente la scena politica italiana — la De e il Pei — avrebbero stipulato fra loro un occulto patto di convivenza, intessuto di sotterranei favori reciproci, mentre agli occhi del mondo si avversavano ferocemente. Sono convinto piuttosto che tali partiti davvero si combat­tessero, che fossero portatori di concezioni del mondo radicalmente diverse e che l’obiet­tivo di ciascuno di loro fosse l’eliminazione dell’avversario, anzi del nemico. Solo che, co­stretti entrambi a rispettare le regole della de­mocrazia rappresentativa e pluralistica, sia per non distruggersi reciprocamente (giacché

1 Per una ricostruzione sintetica di questo genere di patti cfr. Lorenzo Bordogna, Giancarlo Provasi, Politica, economia e rappresentanza degli interessi, Bologna, Il Mulino, 19S4.

Cfr. Hans Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in Id., I fondamenti della democrazia e altri saggi, Bologna, Il Mulino, 1966 (ed. orig. 1929).3 La versione più autorevole, anche perché non condizionata da pregiudizi politici, di questa teoria è quella elaborata da Alessandro Pizzorno: cfr. Categorie per una crisi, “Micromega”, 1993, n. 3, pp. 81-96 (ora in Le radici delta politica assoluta e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1994) e Dopo il consociativismo, “Micromega”, 1995, n. 2, pp. 236-260.

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uno scontro aperto sarebbe stato distruttivo per entrambi), sia perché la situazione inter­nazionale scoraggiava troppo brusche rottu­re, la De e il Pei, col contorno dei partiti mi­nori, proprio grazie a tale metodo sono riu­sciti a coabitare, non felicemente forse, ma certo con vantaggio per il paese.

Quella italiana è stata insomma una demo­crazia bicefala4: ovvero la somma di due sot­tosistemi politici alternativi, ed autosufficien­ti, portatori di concezioni del mondo diversis­sime, radicati fra categorie sociali diverse, che si sono per lungo tempo aspramente confron­tati, inconsapevolmente producendo decisivi effetti di governo. Non solo lo scontro tra passioni politiche così vigorose è stato per la società italiana motivo di maggior vitalità ri­spetto ad altre società europee che i grandi conflitti sociali avevano superato già da tem­po. Non solo sul terreno della democrazia so­stanziale l’Italia non è stata seconda ad alcun altro paese europeo, ma col tempo i due par­titi su cui la democrazia s’imperniava, e che democratici in origine non erano, si sono pro­gressivamente socializzati alla democrazia pluralistica, elaborando altresì fra loro un modus rivendi. Che ha permesso appunto tre cose: la stabilizzazione della democrazia, uno straordinario sviluppo economico, la co­struzione di uno Stato sociale.

Con questo non s’intendono in alcun mo­do sottacere gli inconvenienti del modello: la tendenza della De ben presto a surrogare, con il clientelismo e con la lottizzazione degli apparati statali e delle imprese pubbliche, il richiamo dell’ideologia; la tendenza del Pei a surrogare a sua volta l’ideologia con l’ar­roccamento burocratico e con la scolastica difesa dell’ideologia; ma soprattutto la com­plessiva incapacità d’innovare del sistema politico, il quale, fallito il tentativo di una “grande coalizione” attravero cui i due prin­

cipali contendenti si legittimassero reciproca­mente, non ha trovato altra strada che la cor­ruzione diffusa, l’assistenzialismo di massa e la devastazione delle pubbliche finanze, coro­nati da un collasso che ha messo la democra­zia a repentaglio. Quel che qui si vuol dire so­lamente è che l’anomalia italiana era assai meno anomala di quanto non si pensasse e che, se la divaricazione fra l’Italia e le altre democrazie europee è cresciuta nell’ultimo quindicennio, non necessariamente questo era il suo destino.

Ma quali effetti ha avuto questo singolare modello di democrazia sulla fisionomia e sul­la composizione della classe politica? Il pri­mo punto da sottolineare è il ruolo preponde­rante che hanno svolto i partiti. Essendosi as­sunti il compito d’integrare la società — ed assumersi questo compito era stato impresa facile sia per l’antica debolezza dello Stato (e della nazione), sia per la meno antica pro­pensione delle classi possidenti e di quelle im­prenditoriali ad instaurare con lo Stato e la politica un rapporto protettivo, senza in pri­ma persona impegnarsi sulla scena politica, sia ancora per il tracollo subito dalle pubbli­che istituzioni dopo la caduta del fascismo — immediatamente i partiti si sono qualificati quali agenzie monopolistiche sul mercato del lavoro politico.

La classe politica emersa dalla lotta di libe­razione, quella che ha redatto la Costituzione della Repubblica, era una classe politica composta in larghissima parte da antichi resi­stenti e antifascisti, da dirigenti e quadri del­l’associazionismo cattolico, da notabili, spe­cie nel Mezzogiorno, — avvocati, proprietari fondiari, liberi professionisti — nonché da dirigenti di partito, che allora intraprendeva­no la carriera politica, affiancati da intellet­tuali in massima parte legati organicamente ai partiti5. Ebbene, assai rapidamente questa

4 Alfio Mastropaolo, La Repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant'anni di democrazia in Italia, Firenze, La Nuova Italia, 1996.5 Giovanni Sartori, Dove va il parlamento?, in Id. (a cura di), Il parlamento italiano. 1946-1963, Napoli, Esi, 1963.

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classe politica è stata avvicendata. O meglio sono state avvicendate le sue componenti non partitiche, il sistema dei partiti si è con­solidato ed è emersa una classe politica nuo­va, i cui tratti salienti sono stati descritti con efficacia da Maurizio Cotta, contrapponen­do due modelli, uno politico “di apparato” , proprio del Pei, e uno “partitico-clientelare” , proprio della De6. Il primo modello è quello tipico dei partiti d’integrazione di massa. Le cariche elettive sono riservate ai funzionari e ai dirigenti di partito e delle organizzazioni collaterali, a cominciare dai sindacati, finché i sindacati non decideranno di separare i pro­pri destini da quelli dei partiti. Il secondo modello non è troppo diverso: in apparenza conta solo assai di più il governo locale. Dai consigli comunali si ascende progressiva­mente verso il parlamento e la carriera negli organismi elettivi non si dissocia da quella negli organismi di partito.

La differenza si accentua quando si consi­derano i ben diversi stili politici che corri­spondono a questi due modelli. I due mag­giori partiti italiani erano grandi strutture di servizio. Il Pei svolgeva la sua funzione in­tegrativa adottando una tecnica più propria­mente associativa. Il servizio che rendeva alla sua base era quello d’integrarla collettiva­mente in una grande struttura di solidarietà, con una fortissima componente ideologica. Di contro, la De lasciava l’ideologia più sullo sfondo, grazie anche alla divisione del lavoro stabilitasi con la Chiesa, dalla cui ingom­brante tutela essa aveva anche il problema di emanciparsi. Ed applicava un modello di integrazione individualistico-clientelare. Il partito erogava favori in cambio di voti.

Il modello, in realtà, si modificava muo­vendo da Sud a Nord. Nell’Italia settentrio­nale, nella cosiddetta “zona bianca” , la De vantava un profondo radicamento nelle am­

ministrazioni municipali, restava più vicina alle parrocchie. E l’associazionismo cattolico aveva maggior peso. Quel che è certo è che col tempo il peso dei reticoli associativi per la De si è ridotto ed è cresciuto quello del clientelismo. E alla De si è offerta un’altra opportunità: quella del sottogoverno. Dai primi anni cinquanta, la De ha preso a colo­nizzare le banche e le imprese pubbliche. Qui insediava i suoi uomini. E per molti suoi esponenti, il sottogoverno diventava una tap­pa cruciale della carriera politica. Panebian­co ha giustamente parlato al riguardo di pro­fessionismo politico “ occulto” . Vi erano moltissimi politici professionisti a pieno tito­lo che si nascondevano nella pubblica ammi­nistrazione o nei settori pubblici dell’econo­mia, senza mai svolgere forse l’attività che era stata loro affidata7.

Tanto nel caso della De, quanto in quello del Pei, alla politica comunque si accedeva dal basso8.1 politici non vantavano esperien­ze extrapolitiche, né per se stessi intravedeva­no prospettive future al di fuori della politica. E non erano troppo diversi neppure gli altri partiti. Il Partito socialista somigliava moltis­simo al Pei in origine, salvo ravvicinarsi al modello De quando con il centrosinistra, al­l’inizio degli anni sessanta, esso avrebbe ab­bandonato l’opposizione e sarebbe giunto al governo. I piccoli partiti erano formazioni notabiliari, legati ad una ristretta pattuglia di personaggi di spicco, reduci per lo più del­l’antifascismo. E sopravvivevano grazie al rapporto privilegiato con la De, che offriva loro la possibilità di insediarsi nel sottogo­verno, negli enti pubblici, e quindi di ripro­dursi per partenogenesi. Merita una menzio­ne il caso del Partito liberale, che è il partito più strettamente legato al mondo imprendi­toriale. Il suo leader storico, Malagodi, van­tava un’esperienza di dirigente bancario di

6 Maurizio Cotta, Classe politica e parlamento in Italia: 1946-1976, Bologna, Il Mulino, 1979.7 Angelo Panebianco, Modelli di partito, Bologna, Il Mulino, 1982.8 Alfio Mastropaolo, Il ceto politico. Teoria e pratiche, Roma, Nis, 1993.

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alto rango, ma gli imprenditori entrati in po­litica insieme a lui si contavano sulle dita di una mano, confermando una tradizione che risale alla stessa unificazione.

La forza del patto kelseniano, che progres­sivamente si consoliderà fra questi attori, sta nella sua capacità di non escludere nessuno. Col tempo lo sviluppo industriale favorirà anche il saldarsi, al riparo di tale patto, di una forma di cooperazione conflittuale ed in­trisa di radicalismi ideologizzanti fra impren­ditori e sindacati. Ma intanto la De troverà il modo di contenere lo slittamento a sinistra del quadro politico radunando intorno a sé, grazie all’assistenzialismo e a una diffusa po­litica di lassismo fiscale, anche i ceti medi autonomi — quelli dipendenti col tempo si divideranno equamente fra De e Pei — e quelle che Sylos Labini ha definito le “cate­gorie della rendita”9.

Col passare del tempo altri due fenomeni hanno dunque segnato la politica italiana e il personale politico. Il primo potremmo defi­nirlo 1’ “ipertrofia della mediazione politica” . Le istituzioni disegnate dai costituenti erano del resto state predisposte a tal fine: gran par­te dell’attività del sistema politico italiano è stata un’attività di mediazione e di scambio. Tra attori sociali, tra attori sociali e attori politici, tra attori politici. Intanto quello ita­liano, per i cleavage che lo attraversavano, era un sistema a legittimazione duale e perciò insufficiente. Sicché il dualismo imponeva di sostituire la legittimazione con un consenso negozialmente ottenuto. Del pari, già lo si è detto, forme di consenso siffatte erano l’al­ternativa al fatale esaurirsi dell’ideologia. Inoltre, in parlamento le coalizioni di gover­no erano composite e fragili, mentre l’opposi­zione comunista era disciplinata e compatta. E quindi anche in questa sede occorreva quo­tidianamente scendere a patti e scambiare.

Non solo però nel loro insieme, i politici

maturavano un know-how specifico e diveni­vano tecnici della mediazione e dello scam­bio, ma al tempo stesso il personale politico si costituiva in ceto separato10. Lo scambio ha rappresentato per esso un forte elemento unificante. Tanto più che, onde mantenere il monopolio dello scambio politico, i politici si opponevano ad ogni tentativo di entrata laterale in politica. La politica si rinnovava così soprattutto per cooptazione, mentre il turnover, meno marginale di quanto spesso si pensi, si svolgeva tra i ranghi più bassi della carriera politica e quelli più elevati, con l’ef­fetto di produrre una classe politica singolar­mente longeva.

La prima grande crisi di legittimazione ha investito la classe politica italiana alla fine degli anni sessanta. Essa si manifestò attra­verso i movimenti collettivi, ma anche col vi­sibile declino elettorale della De e la specula­re crescita del Pei. Logorate le ideologie dallo sviluppo e dai processi di secolarizzazione politica e di differenziazione sociale, i vecchi pregiudizi reciproci tra i partiti tendevano ad attenuarsi. L’Italia diventava un paese mo­derno. Che faticava a riconoscersi nelle tecni­che clientelali di gestione del consenso della De. La società civile — le classi medie intel­lettuali, ma anche i lavoratori dipendenti — avanzavano la richiesta di istituzioni più mo­derne, più efficienti, e chiedevano anche di contare di più. E questo non solo cambiò gli equilibri elettorali, ma sconvolse le conso­lidate routine della classe politica.

Come si avverte chiaramente dai dati sulla classe politica, il Pei reagi sburocratizzandosi ed attraverso un apprezzabile ringiovani­mento dei quadri, anche attingendo ai ranghi del movimento collettivo. A sua volta la De replicò dapprima appellandosi all’identità — il referendum sul divorzio — e quindi an- ch’essa mediante uno svecchiamento dei qua­dri. Entrambi i partiti si aprivano insomma,

9 Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Bari, Laterza, 1975.10 A. Mastropaolo, Il ceto politico, cit.

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con molta cautela, alla società civile e le loro rappresentanze parlamentari registravano cambiamenti apprezzabili. Nascevano gli “ indipendenti” , di sinistra e non: professori universitari e letterati, imprenditori e profes­sionisti. Per lo più di gran nome. La cui pre­senza rivelava la crisi di tutto un modello di relazioni fra società e sistema politico. Solo che gli “indipendenti” non erano che un pal­liativo.

Com’è noto, il tentativo di modernizzare il paese, trasformando il patto kelseniano in patto keynesiano, era destinato al fallimento. Per ragioni troppo note per doverle qui ricor­dare. Ciò che importa in questa sede è che la democrazia italiana ha cercato negli anni successivi di percorrere altre strade, in parti­colare quella indicata da Craxi. Il quale verso la fine degli anni settanta intravide la possibi­lità di captare sia il consenso dei vecchi setto­ri moderati, preoccupati dall’ipotesi del com­promesso storico e da un “tradimento” della De, sia l’avversione verso il welfare e la sini­stra delle classi medie emergenti.

Quella di Craxi era un’ipotesi chiaramente conservatrice, la quale per realizzarsi impli­cava la rottura dell’assetto istituzionale pro- porzionalistico e parlamentare. Se non che, mentre da una parte Craxi riusci ad allargare il seguito elettorale del Partito socialista, dal­l’altro non seppe resistere alla tentazione di investire il suo successo elettorale accordan­dosi con la De per disputarle le enormi risor­se di sottogoverno di cui disponeva. Esauri­tasi la stagione della politica ideologica, de­perita la capacità di mobilitazione collettiva del Pei, spezzati i vincoli che legavano la De al mondo cattolico, la politica italiana degli anni ottanta è stata, com’è noto, dominata dalla corruzione, dal clientelismo, dall’uso distorto dello stato assistenziale e dalla mar- ginalizzazione del Pei, che, in cambio di

un’opposizione assai blanda, fu compensato con qualche mediocre vantaggio di sottogo­verno.

Entriamo così in una terza stagione della classe politica italiana, segnata da tre feno­meni. Il primo è il diffondersi della figura di quello che Donatella Della Porta ha chiama­to il “politico d’affari” , spesso esterno agli apparati di partito, talora anche estraneo alle istituzioni rappresentative, che opera attiva­mente quale intermediario con le imprese e le organizzazioni d’interesse, che a loro volta si preoccupano di reclutare, magari negli stessi ranghi della politica e delle aziende pubbliche, intermediari specializzati in grado di rappresentarli11.

Il secondo fenomeno di rilievo è consistito nell’intrecciarsi fra i politici d ’affari di sotter­ranei rapporti di comparaggio, all’interno del partito di appartenenza, ma anche al di fuori di esso, tessendo una fitta trama di correnti e cordate trasversali, capillarmente connesse al sistema degli interessi. In un contesto assai vischioso correnti e cordate servivano a pro­piziare la mobilità ascendente del personale politico, a prevenire il dissenso e ad agevolare gli accordi lottizzatori, ma soprattutto tra­sformavano uomini di governo, amministra­tori locali, dirigenti di aziende pubbliche in null’altro che loro emissari e portavoce, in tal modo spostando al di fuori del sistema politico visibile le scelte politiche decisive.

Il terzo fenomeno da sottolineare a propo­sito della classe politica è l’evoluzione della figura dell’“indipendente” . Negli anni ottan­ta un’altra importante specificità italiana ha cominciato a ridursi ed anche in Italia ha co­minciato a diffondersi il modello che Antho­ny King12 ha definito del “politico in carrie­ra” prevalente negli altri parlamenti europei. La secolarizzazione politica, il declino degli apparati, l’atrofia della militanza disinteres-

11 Donatella Della Porta, Lo scambio occulto. Casi di corruzione politica in Italia, Bologna, Il Mulino, 1992.12 Antony King, The Rise o f the Career Politician in Britain and its Consequences, “British Journal of Political Science”, 1981, n. 2.

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saia hanno trasformato profondamente i partiti. Ma la complessità dei compiti attri­buiti ai politici è rimasta tale da imporre a chi alla politica volesse dedicarsi un impegno a tempo pieno. Ciò favoriva comunque le “carriere” politiche di lunga durata, le quali però non prevedevano più una fase di socia­lizzazione attraverso incarichi di partito o mandati elettivi in sede locale prima di giun­gere al vertice. La regola divenivano gli in­gressi laterali in politica, ovvero l’ingresso non già dalla militanza, bensì da una profes­sione privata.

Come ha reagito la società a codeste tra­sformazioni? La risposta è ben nota: attra­verso vistosi processi di delegittimazione. I quali però — una volta addomesticata Top- posizione comunista ed in sintonia con lo slit­tamento verso destra della pubblica opinione verificatosi in Italia come nel resto d’Europa — hanno stavolta trovato nuovi imprendito­ri politici in grado di volgerli a proprio van­taggio. Tre i fondamentali focolai di delegit­timazione accesisi negli anni ottanta. Innan­zitutto i ceti medi intellettuali, in primis quelli legati al mondo cattolico, alimenteranno il movimento referendiario, il quale, utilizzan­do lo strumento del referendum, punterà ad una modifica della legge elettorale. Il secon­do focolaio nasce nella periferia: la periferia povera della periferia ricca e quindi anche la periferia ricca della periferia ricca — non dunque i grandi centri urbani - , l’area di pic­cola impresa, che troveranno in Bossi il ge­niale imprenditore politico capace di suscita­re una questione inedita nella storia d’Italia, quella settentrionale. Il terzo focolaio, deci­samente più in ombra dei primi due, è costi­tuito dai ceti medi emergenti, dalle nuove professioni, dalla borghesia della piccola im­presa e della finanza, che hanno sostenuto il progetto di Craxi e i quali, finché han potuto, hanno lucrato benefici dall’espansione del clientelismo e dalla corruzione, ma anche dalla sostanziale deregulation introdotta dal craxismo, salvo passare rapidamente all’op­

posizione quando hanno scoperto che nessu­na svolta conservatrice si era potuta realizza­re. La delegittimazione diverrà infine feno­meno, di massa nei primi anni novanta quan­do la crisi economica metterà in luce i disastri compiuti dai politici d’affari, quando il suc­cesso elettorale della Lega destabilizzerà il quadro politico e quando le indagini di “Ma­ni pulite” chiariranno quali dimensioni aveva assunto la corruzione politica.

Le elezioni del 1994 hanno sancito cosi una profonda rottura nella politica italiana. Hanno segnato anzitutto il collasso dei parti­ti tradizionali, con l’eccezione dei due partiti nati dal Pei e del Movimento sociale, trasfor­matosi in Alleanza nazionale. Hanno segnato in secondo luogo l’ingresso sulla scena politi­ca di quel singolarissimo partito televisivo che è Forza Italia, guidato da Berlusconi, il quale, con ogni probabilità, in un’epoca in cui la competizione politica è in larghissima misura condizionata dai media, non va consi­derato una patologia straordinaria (visti al­cuni tentativi abbozzati anche fuori d’Italia), ma un fenomeno, se non proprio fisiologico, comunque prevedibile per le società avanza­te, cosi capillarmente condizionabili attraver­so i media. Forza Italia ha avuto successo in Italia specie perché la destrutturazione del si­stema partitico non gli ha opposto alcuna re­sistenza.

In terzo luogo, le elezioni del 1994 hanno segnato un significativo avvicendamento nel­la classe politica parlamentare. A questo ri­guardo un’osservazione va però fatta. Non è vero che una classe politica nuova ha cac­ciato quella vecchia. Più semplicemente, e meno drammaticamente — la differenza è sottile, ma non irrilevante — una vecchia classe politica è uscita di scena, non si è ripro­posta agli elettori e se ne è improvvisata una nuova.

Quali le caratteristiche di questa classe po­litica? Premesso che, fuoriuscito in gran parte il vecchio ceto politico, nel complesso è dimi­nuita l’età media ed è contestualmente ere-

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sciuta, grazie però alla legge elettorale, la pre­senza femminile, due sono i partiti da tenere sotto osservazione, ovvero Lega e Forza Ita­lia, giacché è il loro successo che ha più inciso sulla fisionomia della rappresentanza parla­mentare. Grazie a loro, mentre sono rimaste stabili categorie come avvocati e notai, gior­nalisti, magistrati, insegnanti e docenti uni­versitari, sono apparsi in declino i politici di mestiere e i rappresentanti di gruppi d’inte­resse, così come s’è ridotta ad un terzo una categoria dietro cui parecchi politici a tempo pieno si nascondevano, ovverossia i dirigenti e i quadri degli enti pubblici e parapubblici. Viceversa, sono cresciuti sensibilmente gli imprenditori e i professionisti, che compren­dono molte professioni tradizionalmente non incluse nel novero delle professioni libe­rali: commercialisti, consulenti, agenti d’assi­curazione, addetti alle pubbliche relazioni, e così via.

Un terzo degli eletti di Forza Italia nel 1994 si dichiarava imprenditore o dirigente d’azienda (percentuale, questa, ben superiore a quella di tutti i partiti moderato-conserva- tori d ’Europa). Premesso che una quota non marginale di deputati e senatori di quel partito era costituita da dipendenti delle aziende di Berlusconi, o di aziende a lui colle­gate, resta il fatto che, ragionando in termini regionali, nelle regioni settentrionali, attra­verso la Lega e Forza Italia, si sono proposte categorie rimaste tradizionalmente estranee alla politica, preferendo esse avvalersi della mediazione specializzata del ceto politico.

Anche l’estrazione sociale del personale politico appariva nel 1994 più elevata che in precedenza. E cresciuta la borghesia profes­sionale, insieme a quella imprenditoriale. So­no diminuiti i ceti medi dipendenti. L’ipotesi più verosimile è che questo trend sia da far ri­salire a un duplice movente: in primo luogo, al successo di Forza Italia e della Lega; in se­condo luogo, alla crisi dei grandi partiti di massa e alla nascita di forze politiche nuove e scarsamente istituzionalizzate, che ha pro­

dotto un sensibile effetto di “sdemocratizza­zione” delle élite. Se è forse eccessivo sostene­re che la ricchezza sia divenuta nel 1994 la ri­sorsa decisiva d’ingresso in parlamento, non v’è dubbio che l’atrofia delle macchine di partito ha favorito chi già faceva parte delle élite sociali rispetto ai candidati anonimi, co­stretti unicamente a contare sul sostegno che i partiti non erano più in grado di offrire.

Si sottrae a questo schema in qualche mi­sura la Lega. Molti imprenditori leghisti era­no null’altro che piccolissimi imprenditori, al confine con l’artigianato, e molti professioni­sti della Lega svolgevano professioni scarsa­mente prestigiose, benché magari redditizie. Non è un caso che la percentuale di laureati tra i leghisti fosse ben più bassa che in Forza Italia. Radicata anche negli strati sociali me­dio-bassi, la Lega ha svolto una funzione di promozione sociale che per taluni versi l’ha assimilata ai partiti di sinistra (che tale fun­zione di promozione svolgono però oggi as­sai meno di un tempo).

Anche in fatto di precedenti politici si regi­strano nel 1994 cambiamenti degni di nota. Che consentono di stabilire quanto il rinno­vamento del personale politico fosse legato o meno a nuovi ingressi e quanto invece alla promozione dai livelli più bassi della carriera politica. Sotto questo profilo, è fuori di dub­bio che il personale più nuovo fosse quello di Forza Italia, mentre gli eletti della Lega, es­sendo la Lega un partito meno recente di Forza Italia, potevano vantare almeno qual­che esperienza nel governo locale. In com­penso, Forza Italia riciclava, specie nel Mez­zogiorno, molti vecchi portaborse, parenti, amici di esponenti democristiani. La fragilità del tessuto imprenditoriale la portava cioè a valorizzare gli imprenditori politici disponi­bili in loco, che sono appunto imprenditori politici.

I dati sulla carriera politica permettono anche di cogliere appieno la natura della rap­presentanza di Alleanza nazionale, nata co- m’è noto dal vecchio partito neofascista,

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per quarant’anni isolato alla destra estrema del sistema politico. Ebbene, la rappresen­tanza di An conteneva percentuali altissime di politici promossi dalle assemblee e dai go­verni locali. Lungi dall’aprirsi alla società, An, che apparentemente rinnegava il suo passato, non provava nemmeno a liberarse­ne. Disponeva di un personale politico di provata fedeltà, collaudato in quarant’anni di opposizione, fortemente ideologizzato, da­to che l’ideologia era l’unica risorsa disponi­bile per mantenere la coesione interna, e lo inviava in parlamento. Il che, chiaramente, solleva non pochi dubbi sulla sua metamor­fosi13.

Ciò che si può dire in conclusione è che due settori sociali sembravano entrare alfine nel 1994 nel parlamento italiano: da una parte la periferia settentrionale, dall’altra le classi medie emergenti, quelle che a suo tempo ave­vano sostenuto la svolta conservatrice ab­bozzata, ma non perfezionata, da Craxi, cui il populismo berlusconiano ha offerto un se­guito di massa. Chi è restato invece sostan­zialmente escluso è stato il ceto medio intel­lettuale che aveva animato il movimento re­ferendario o formazioni come la Rete: da un lato perché sia l’uno sia l’altra escono sconfitti dalle elezioni, dal lato opposto per­ché quella del ceto medio intellettuale era per definizione una mobilitazione di élite.

Cosa è accaduto invece con le elezioni del 1996? Probabilmente ad un “ rivoluzione di cachemire” non poteva non far seguito una “restaurazione di cachemire”. In attesa che si apra il dibattito sulla reale necessità della rivoluzione, e sul fatto che essa non abbia prodotto più danni di quelli che avrebbe do­vuto sanare, cominciamo dagli schieramenti che si sono fronteggiati, i quali non sono più gli stessi del 1994. Nel 1994 da una parte si schierava la sinistra vecchia e nuova, dal­l’altra le forze predemocratiche, che, caduto il fascismo, erano rimaste isolate all’estrema

destra, insieme alle forze postdemocratiche — Berlusconi e Bossi — la cui nascita è stata favorita tanto dal prolungato disfacimento della “prima repubblica” , quanto dalla re­pentina débàcle della De e dei suoi alleati san­cita dai magistrati. In mezzo,né da una parte, né dall’altra, si collocava il grosso degli ex de­mocristiani. Ben diversamente, nel 1996 dal centrodestra si è distaccata la Lega, colloca­tasi fuori da ogni schieramento, mentre sul versante opposto si è formata una sorta di al­leanza di Cln, inclusiva di tutte le grandi tra­dizioni politiche della “prima repubblica” , dagli ex comunisti agli ex De, dagli ex socia­listi agli ex partiti “laici” , con il sostegno del sindacato e dell’ala nobile del mondo im­prenditoriale e bancario (Fiat, Mediobanca, Bankitalia in prima fila, anche se non aperta­mente): una coalizione di salute pubblica, ce­mentata dalla diffidenza nei confronti di una coalizione, quella di destra, di scarsa affida­bilità democratica, di dubbia fede europeista, velleitaria in politica estera e quanto mai con­tradditoria in fatto di economia, scissa cioè fra una componente pseudoliberista, in cui spicca un imprenditore che ha prosperato grazie ai favori dei partiti, ed una di solida tradizione statalista.

In ogni caso, il dato che qui interessa è che aH’interno della classe politica quel po’ di no­vità — peraltro di qualità molto dubbia — che si era affacciato nel 1994 è stato in gran parte riassorbito. E che nessuna delle aspet­tative suscitate dal maggioritario è stata mantenuta. A cominciare dal fatto che forse mai come nel 1996 gli organismi nazionali dei partiti hanno fatto sentire il loro peso nel­la selezione dei candidati. An per la sua anti-

,ca vocazione centralista. Forza Italia perché Berlusconi cercava soprattutto candidati fe­deli. L’Ulivo perché si trattava di una coali­zione eterogenea, in cui ciascuna forza politi­ca pretendeva un adeguato riconoscimento in termini di candidature. In buona sostanza

13 Luca Verzichelli, Gli eletti, “Rivista italiana di scienza politica”, 1994, n. 3.

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non si è verificato quanto di regola avviene nei sistemi maggioritari, in cui i partiti conce­dono ai loro terminali periferici possibilità di scelta dei candidati più ampie che in quelli proporzionali.

La seconda considerazione da fare, legata alla prima, è che se da un lato i partiti hanno contato moltissimo, le elezioni del 1996 han­no rappresentato per i partiti un drammatico insuccesso. Più o meno metà dei candidati so­no stati espressi da partiti virtuali, da non partiti. Non è un partito Forza Italia, ma so­lo la filiazione di un’azienda. Non lo è la Li­sta Dini, che è solo un pugno di notabili lega­ti alla finanza e all’alta amministrazione. Non lo sono le formazioni che si ispirano alla tradizione liberale e a quella socialista (“ami­ci” di Maccanico, “ amici” di Bordon e di Adornato, socialisti della diaspora, cristia­no-democratici, ecc.) che hanno, non a caso, riproposto unicamente personaggi più o me­no credibili dèli'ancien regime, accuratamen­te filtrati da salotti e terrazze romane, per es­ser quindi paracadutati nei collegi.

Terza considerazione. Avendo i non partiti assunto un ruolo così ampio, non può stupire che si sia rafforzata la tendenza alla “sdemo­cratizzazione” delle élite già delineatasi in realtà negli anni ottanta. Una delle funzioni fondamentali, si è detto, dei partiti di massa era quella di promuovere militanti e quadri provenienti dalle classi inferiori. Da tempo i partiti svolgevano questa funzione assai me­no. Ma oggi non la svolgono più per nulla. In questo modo, fra l’altro, si spiega la drasti­ca riduzione della presenza femminile. Can­cellata dalla corte costituzionale la norma protettiva che li obbligava a presentare nella quota proporzionale per la Camera un nume­ro di donne uguale a quello degli uomini, i partiti hanno rinunciato a promuovere quella che è, senz’ombra di dubbio, una categoria sociale svantaggiata.

Quarta considerazione. La rappresenta­zione parlamentare è cambiata per metà. Ma ciò vuol dire ben poco. Tale cambiamen­

to è in gran parte imputabile al regime eletto­rale. Più o meno con gli stessi voti, il centro- destra ha ottenuto assai meno seggi e l’Ulivo molti di più. Occorrerà analizzare le liste dei candidati per avere le idee più chiare sull’of­ferta di classe politica fatta dalle forze in campo. Intanto qualcosa può dirsi circa la rappresentanza dei singoli partiti.

Non è sostanzialmente cambiata la com­posizione della rappresentanza parlamentare di An. Che ha seguitato a premiare i suoi fe­deli militanti e si è limitata ad aggiungervi un tocco di professori universitari. Nella pro­spettiva di diventare un partito di governo, il basso livello di qualificazione del suo per­sonale politico era un handicap non da poco e ha provato a rimediarvi. Salvo riciclare frattaglie del vecchio centro.

E leggermente cambiata la composizione di Forza Italia. Berlusconi ha premiato i più loyal, quindi i suoi dipendenti (spesso sot­to inchiesta da parte della magistratura). Da un primo esame dei dati parrebbe registrarsi un declino degli imprenditori e dei professio­nisti, taluni dei quali hanno pubblicamente dichiarato di ritirarsi delusi dalla competizio­ne politica. In compenso, anch’egli ha messo in lista qualche intellettuale accreditato dai media.

Pure la Lega non è cambiata, ma si è solo ridotto il numero dei suoi eletti. La differen­za, rispetto al passato, è che, dopo due-tre rielezioni, gli eletti della Lega sono ormai dei politici di mestiere, preoccupatissimi per il loro futuro politico. Come tali, non essen­do più in grado di ottenere grandi benefici dalla maggioranza, ed essendo un’opposizio­ne di scarso peso, è presumibile che puntino a radicalizzare lo scontro politico, onde mante­nere la loro visibilità.

Quanto infine all’Ulivo, esso altro non propone che una versione, emendata, del per­sonale della “prima repubblica” . Nel Partito popolare, ad esempio, numerosi sono i politi­ci di professione e di carriera, che — Ciriaco De Mita in testa — riprendono il loro posto

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in parlamento dopo un momentaneo abban­dono. In compenso, i politici che corrispon­devano al modello partitico-clientelare sem­brano non esserci più, giacché da un lato l’ala veneta è scomparsa, dall’altro l’ala meridio­nale — gli eredi di Gava, di Pomicino, di Li­ma — ha preferito schierarsi col Polo delle li­bertà (specie Ccd e Cdu). E un solido nucleo di professionisti della politica presentano an­che Pds e Rifondazione.

Non può considerarsi una gran novità il gran numero di professori universitari (e quello più ristretto di alti burocrati e impren­ditori) presenti nelle file del centrosinistra. Già da tempo le forze politiche tradizionali ingaggiavano esponenti del mondo accade­mico, contrapponendone la “competenza” all’incompetenza presunta dei professionisti politici. In realtà, una volta entrati in politi­ca, i docenti universitari stentano ad uscirne, sicché l’accademia può essere considerata or­mai un accesso privilegiato per gli aspiranti “politici di carriera” .

In ogni caso, le classi politiche dei due schieramenti possono ritenersi rappresentati­ve, seppure in forme alquanto diverse, dei ri­spettivi retroterra elettorali. Ilvo Diamanti contrapponeva nel 1994 una “destra dei pro­duttori” a una “sinistra degli intellettuali14” . Certo l’Ulivo corrisponde assai più da vicino a tale immagine, avendo integrato però gli in­tellettuali con un po’ di alta finanza e di alta amministrazione e con il vecchio professioni­smo politico di matrice comunista e democri­stiana. Di contro, la destra dei produttori si fa rappresentare dai demagoghi televisivi, contornati da una classe politica fatta dai vecchi professionisti dell’estremismo di de­stra e del clientelismo De, dagli impiegati di Berlusconi, cui vanno quindi aggiunti i rap­presentanti di commercio che guidano la Le­ga. Ma nella sostanza, dopo quattro anni di estenuanti sommovimenti, la politica e la so­cietà italiana ripropongono una classe politi­

ca che è difficile definire nuova. O, per dirla alla Croce, se davvero c’è del buono e del nuovo, il buono non è nuovo, né il nuovo può dirsi buono.

La qualità del personale politico non è vi­sibilmente migliorata, né sembrano destinate a migliorare le sue performance e quelle del­l’istituzione parlamentare. Nei regimi mag­gioritari, segnati dall’assoluta preminenza dell’esecutivo sul parlamento, la qualità degli eletti è di norma scadente. In parlamento ten­de ad impegnarsi chi non ritenga di avere suf­ficienti chance di successo nella sua professio­ne privata e cerchi opportunità alternative di mobilità sociale ascendente. In Italia le cose forse non stanno ancora in questo modo, i poteri dei parlamentari — se non quelli del parlamento — sono tuttora significativi e i banchi delle due camere restano mete apprez­zate. E però di sicuro emblematico il fatto che, mentre si sono moltiplicati i docenti uni­versitari, si sono di nuovo ridotti liberi pro­fessionisti e imprenditori: in parlamento sie­de unicamente chi non ha nulla da perdere nella sua professione privata.

Il rischio maggiore comunque è che, una volta esauritisi i partiti tradizionali, una vol­ta azzerata la disciplina di partito e stante l’attuale assetto istituzionale, né maggiorita­rio, né consensuale, bensì a metà strada, nul­la più freni né le propensioni lobbistiche, né il narcisismo degli eletti. Il che potrà anche andar bene all’opposizione (che vuoi per istinto, vuoi per tradizione non ha in gran simpatia l’istituto parlamentare e deve con­trastare la maggioranza), così come all’am­pio partito trasversale che sogna l’uomo for­te, ma non al governo e nemmeno a chi guarda con sospetto tanto all’ipotesi dell’uo­mo forte, quanto alle formule di marca pre- sidenzialista dietro cui potrebbe essere con- tabbandata.

In realtà, onde seguire i modelli europei e ridefinire il ruolo del parlamento, non è detto

14 Ilvo Diamanti, Perché perde la sinistra, “Micromega”, 1994, n. 5, pp. 150-165.

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che ciò debba necessariamente avvenire adot­tando il modello presidenziale, o quello semi­presidenziale. E forse non è detto neppure che sia necessario rafforzare ulteriormente gli aspetti maggioritari introdotti con la ri­forma elettorale del 1994. L’obiettivo di ridi­mensionare il parlamento si può raggiungere in molti modi. Dato lo stato della cultura po­litica nazionale, dato il tipo di destra che c’è in Italia — in cui le componenti populiste e autoritarie sono sovradimensionate rispetto agli altri paesi europei — un drastico passag­gio ad un assetto maggioritario, in chiave più o meno presidenzialista, sarebbe anzi un inu­tile rischio.

Qui però non si tratta unicamente, checché qualcuno ne pensi, d’ingegneria istituzionale. Il problema è politico. Dato che le riforme costituzionali, anche le più perfette, non sa­

ranno da sole sufficienti né a modernizzare una volta per tutte la democrazia italiana, re­stituendo la politica al suo ruolo, né ad esor­cizzare le forze politiche post, anti e pseudo­democratiche che in questa fase insidiano la democrazia italiana. In verità, a rischio non è solo l’Italia. Tutte le democrazie sviluppate affrontano oggi problemi di enorme portata. Le loro società sono frammentate e disgrega­te. E ovunque declina la fiducia nella demo­crazia. In Italia questo declino è stato però più evidente e rapido che altrove. Il caso, che ha riportato alla guida del paese le forze dell "ancien regime, il quale, malgrado i suoi limiti e difetti è stato comunque — ricono­sciamolo — una democrazia, ha offerto a queste forze una prova d’appello. Vedremo se sapranno profittarne.

Alfio Mastropaolo

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