La citta e la palude

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Paolo Delpino, cyberpunk, fantapolitica In un futuro non troppo lontano, Milano è divenuta una città-stato col nome di Menegoville. Trasformata in una metropoli di dimensioni spropositate, è divisa fra le tra principali etnie - Madarlocchi, Salamecchi e Brumisti (cinesi, islamici e milanesi) - più una quantità di gruppi minori. La privatizzazione è selvaggia al punto che perfino le vie cittadine sono chiuse da cancelli e soggette al pagamento di pedaggio; la città è sull’orlo di una totale anarchia e a malapena è tenuta a freno dai tradizionali corpi di pubblica sicurezza e da centinaia di reparti di polizia privata. Negli anni precedenti, il city provider (sindaco) Teobaldo Quorra è riuscito a riorganizzare Menegoville sulla base di un non troppo stabile equilibrio politico, che vede in posizione dominante gli imperscrutabili Madarlocchi, insidiati nel loro primato dagli esagitati Salamecchi, mentre i Brumisti, ormai divenuti minoranza, perseverano nell’italica abitudine di...

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In uscita il 25/11/2014 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine dicembre 2014 e inizio gennaio

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PAOLO DELPINO

LA CITTÀ E LA PALUDE

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LA CITTÀ E LA PALUDE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-814-5 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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CAPITOLO 1 In una fredda serata di tardo autunno il city provider Teobaldo Quorra osservava il panorama dall’alto del suo appartamento, sito al quindicesimo piano della Torre della Vela, dal quale poteva godere una superba vista della metropoli di Menegoville. A nord, in mezzo alla moltitudine dei condomini graticciati new east style, spiccavano il Palazzo del The Freddo, le pagode ge-melle del Gatto Tigrato e della Tartaruga, e oltre ancora i gratta-cieli della Sungunguri Limited, della Patekafuki Incorporate, del-la Munchai Info e di altre non meno minacciose aziende. Era quello il cuore del quartiere di Ma Cha Chin, che dall’ex bor-go popolare della Bovazza si estendeva sino al centro, nel cuore di Menegocity. Ma Cha Chin (letteralmente Città della Triade Celeste) ospitava una folta popolazione mandorlocca, i cui primi insediamenti in Menegoville risalivano al secolo precedente. Gli abitanti, noti per essere laboriosi, taciturni, diffidenti e vendi-cativi, erano organizzati in numerose associazioni, quali segrete e quali no, tutte ai limiti della legalità. Le attività economiche comprendevano l’informatica, la scienza dei materiali, il bag & breakfast (take away congiunto di prodotti di pelletteria e generi alimentari) la giocattoleria killer e il com-mercio dei coralli, finti e veri.

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Vi prosperavano altresì le attrazioni turistiche; oltre ai palazzi già citati, la tozza Torre delle Rondini, i Giardini delle Peonie Multi-ple e lo zoo, nel quale era possibile ammirare alcuni esemplari di draghi dalla coda a sventola, rarissima specie esotica in via di e-stinzione. Queste bellezze erano però accessibili solo tramite tour gestiti dalla Famiglia del Fior di Loto, consorteria di figuri incappucciati che a volte affiancavano la polizia metropolitana nelle indagini e nelle operazioni di ordine pubblico, altre invece la ostacolavano. La comunità mandorlocca costituiva l’etnia più numerosa di Me-negoville, motivo per il quale era oggetto di particolare attenzione da parte delle pubbliche autorità, cui risultava arduo sia interpre-tarne che ignorarne il comportamento. Ma la stessa considerazione, rifletteva Quorra, poteva tranquilla-mente venir estesa alle altre etnie che popolavano la metropoli. La zona est, infatti, era presidiata dai salamecchi, genia di più re-cente immigrazione, all’inizio dispersa qua e là e improvvisamen-te compattatasi come una nube di gocce di mercurio. L’occasione per questa palingenesi si era presentata quando la “Setta degli Impossibili”, capeggiata da tale Kassàm Somùl, ave-va deciso di insediarsi in alcuni stabili in rovina, ex sede di attivi-tà di archeologia industriale. L’area si trovava allora in uno stato di profondo degrado a causa della presenza di diverse bande di balordi che avevano spinto quasi tutti gli altri abitanti a trasferirsi per evitare noie. Per diversi anni i quartieri orientali erano divenuti sede di cino-dromi clandestini, di tuguri adibiti al gioco delle tre carte e alla morra, di spacci per la vendita di superalcolici e cocktail pasti-gliati di ogni sorta.

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Ma poco tempo dopo il suo arrivo Kassàm Somùl aveva scatenato la sua setta di fanatici contro i randa e gli zanza che infestavano le strade, molti dei quali erano stati cacciati, altri messi a morte o comunque posti nelle condizioni di non nuocere. In soli sei mesi la zona era stata ripulita e occupata manu militari dai salamecchi. Il consiglio metropolitano allora in carica, cui l’azione degli Im-possibili aveva risparmiato incursioni e retate della Compagnia Rapida (quasi certamente infruttuose) aveva chiuso un occhio sui metodi adottati dalla setta, appoggiato il piano di rinascita e con-cesso prestiti ad alcuni uomini d’affari a essa legati. Sotto la loro spinta bazar, case e moschee erano spuntate come funghi dal terreno e la circoscrizione, ribattezzata Al Ambrat (Città della Salvezza) aveva conosciuto un impetuoso sviluppo. Inoltre, grazie ai buoni uffici dell’influente califfo Elijah Mon-shur, si era stabilito un accettabile equilibrio tra autorità religiosa e civile. Questo non impediva, però, che le beghe interne venissero risolte secondo la legge coranica, senza interferenza da parte degli infe-deli; ne discendeva perciò un certo numero di decessi violenti, più che compensati dalle numerose nascite. Nei primi tempi, auspici Kassàm Somùl e i suoi seguaci, Al Am-brat aveva conosciuto un rigido proibizionismo, successivamente attenuatosi per opera dei membri più secolarizzati della comunità. Il segno più evidente del mutamento si era avuto cinque anni prima con l’istituzione della grande “Fiera delle conturbine”, nel corso della quale venivano messe all’asta femmine per lo più mo-re e meticce, destinate ad attività di tipo domestico.

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La comunità salamecca era senza confronti la più turbolenta, an-che se le tensioni che la percorrevano erano prevalentemente di carattere interno. Teobaldo Quorra arricciò le labbra e si affacciò alla finestra che guardava verso ovest, ove era arroccata l’etnia di quelli che si sa-rebbero dovuti chiamare autoctoni e che per la verità non erano mai stati tali. L’area in questione aveva conservato l’antico nome di sciuri e scigulatti (letteralmente signori e sciagurati) dovuto alla presenza in essa di un quartiere signorile e di un agglomerato più popolare, un tempo separati da un torrente a vista. Il corso d’acqua, noto come la Bruma a causa della fitta nebbia che lo circondava nei periodi più freddi dell’anno, aveva causato svariati casi di annegamento. Tuttavia, diversi anni addietro il torrente si era misteriosamente inabissato e la separazione tra le due zone era venuta meno; gli abitanti avevano così assunto la denominazione corrente di “bru-misti”. Rispetto alle altre due popolazioni, i brumisti erano meno nume-rosi e soprattutto meno coesi; privi di leader carismatici, incon-travano da sempre enormi difficoltà nell’elezione dei loro rappre-sentanti, sia nel governo zonale che in quello metropolitano, e vi erano stati periodi in cui la giunta di Menegocity aveva dovuto far ricorso a forme di commissariamento. Conseguenza non secondaria di questa situazione era stata la pro-gressiva privatizzazione di ogni servizio e spazio pubblico. Un esempio era fornito dalla circolazione delle auto, limitata nel-le diverse aree da una serie di cancelli, le cui chiavi erano detenu-te dagli abitanti degli isolati confinanti; un altro dalle tessere sani-

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tarie, che abilitavano l’accesso ad alcune farmacie piuttosto che ad altre, per non parlare del proliferare dei corpi di polizia privati, ormai più di trecento. L’unico significativo esempio di associazionismo era costituito da Il Vischio, potente confraternita dei commercianti autoctoni di razza bianca, che riusciva a esercitare una certa influenza sia sulla vita del quartiere che su quella della città. Per quanto si è detto, l’attività di governo di Menegoville non era affatto facile e aveva richiesto la stesura di una costituzione me-tropolitana, successivamente sottoposta a referendum in ciascuna delle tre ripartizioni. In quell’occasione, auspici i maggiorenti di tutte le etnie, era stato concordato un piano di intervento ad hoc. A Ma Cha Chin tutto era filato liscio, con una percentuale di “sì” che aveva superato il cento per cento (alcuni membri della comu-nità mandorlocca, per maggior sicurezza, avevano votato due vol-te). In Al Ambrat, viceversa, una sciagurata diatriba religiosa tra Eli-jah Monshur e un suo concorrente, autoproclamatosi discendente diretto di Maometto, aveva rischiato di compromettere tutto; for-tunatamente la fatwa ai danni del califfo lanciata da quest’ultimo era stata scongiurata da un pirata della strada che aveva attronzato il malintenzionato contro un pilastro della Moschea Verde. Ciononostante, i voti favorevoli erano risultati superiori ai contra-ri solo per qualche zero virgola. Nel quartiere degli sciuri e scigulatti, infine, erano state deposita-te nelle urne decine di migliaia di schede già votate per compen-sare il cronico astensionismo della popolazione.

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Padri costituenti della nuova democrazia erano stati Zu Hsu Ciun, chairman della Sungunguri Limited, il califfo Elijah Monshur e Teobaldo Quorra, allora presidente de Il Vischio. Quest’ultimo aveva rischiato più di tutti, dato che l’etnia cui ap-parteneva non l’avrebbe sicuramente appoggiato nel caso in cui l’operazione non avesse sortito l’esito sperato. La costituzione, approvata due anni prima, rappresentava un feli-ce compromesso tra rappresentatività e decisionismo: demandava infatti a ogni etnia le forme di governo locale da essa ritenute più appropriate, ma istituiva come supremo organo dirigente a livello metropolitano il Consiglio di Menegocity. Quest’ultimo constava di due camere; la Camera Grande o dei Cento, così detta perché composta appunto da cento membri, e la Camera di Consultazione, formata da soli cinque e comunemente chiamata Cameretta. La prima veniva eletta su base strettamente proporzionale, e ri-specchiava fedelmente la composizione di Menegoville: quaran-tuno mandorlocchi, trentasette salamecchi, ventidue brumisti. La seconda aveva invece il compito di risolvere i delicati proble-mi di convivenza tra le diverse etnie e consisteva di cinque rap-presentanti, due del nord, due dell’est, uno dell’ovest. La costituzione prevedeva che gli affari di normale amministra-zione venissero gestiti dalla Camera Grande, mentre alla Came-retta si faceva ricorso ogni volta che il meccanismo proporzionale rischiava di compromettere il fragile equilibrio tra le etnie. Come si è visto, infatti, i mandorlocchi dimostravano grande compattezza, magari ottenuta con metodi spicci, per cui i dissensi al loro interno erano praticamente assenti; i salamecchi, dal canto loro, vivevano forti scontri tra opposte fazioni; i brumisti, invece,

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frammentati in gruppetti che difficilmente superavano i confini di un condominio, tenevano comportamenti squisitamente opportu-nistici, appoggiando ora l’una, ora l’altra parte. La succitata Cameretta aveva dunque il compito di portare a sin-tesi le diverse posizioni e di individuare volta per volta una via di uscita dai cul-de-sac in cui quasi sempre incappava la vita civica. Da notare che la Cameretta era presieduta a turno da un membro delle differenti comunità (il city provider) e che nel periodo del quale parliamo tale compito ricadeva sulle spalle di Teobaldo Quorra. Da quanto detto è facile intuire che il governo di Menegocity era quasi sempre costretto a navigare a vista; prodigo di attenzioni per evitare incidenti diplomatici, risultava incapace di pensare in termini progettuali. Per sfortuna della metropoli (e del city provider in particolare) era ormai venuto al pettine un problema di grande rilevanza sociale e istituzionale che risultava insieme necessario e proibitivo affron-tare. Teobaldo Quorra, controvoglia, cambiò finestra e aguzzò lo sguardo verso sud, ove in lontananza brillavano alcune luci fio-che. L’area sud di Menegoville, che tempo addietro aveva ospitato se-di direzionali faraoniche e disutili, da alcuni anni era letteralmen-te sprofondata in vasti acquitrini, costringendo i residenti ad ab-bandonare le proprie abitazioni e a cercare rifugio altrove. Il fenomeno, che aveva portato alla formazione di quelle che era-no state chiamate Grandi Paludi, non era mai stato spiegato in maniera esauriente.

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Per alcuni, ciò si doveva all’imprevista emersione in quella zona del torrente Bruma, che aveva percorso fior di chilometri sotto la superficie e aveva formato una sorta di bacino naturale; secondo il parere di altri, alla cosiddetta memoria storica dell’acqua, che aveva ripreso possesso del territorio dal quale l’uomo l’aveva im-provvidamente cacciata. Comunque fosse, il risultato netto era consistito in una significa-tiva restrizione delle aree abitabili; ne era conseguito un sovraf-follamento delle restanti zone della metropoli, già sovraccariche, e un sensibile peggioramento della vivibilità e degli equilibri inte-retnici. Il problema del recupero della zona sud era da tempo maturo, ma per esso si prospettavano soluzioni diverse e apparentemente in-conciliabili. Per i mandorlocchi, infatti, l’area avrebbe dovuto fungere da in-sediamento polmone per il quartiere di Ma Cha Chin, sicuramente il più incasinato; per la comunità salamecca, al contrario, vi si sa-rebbe dovuta edificare una città santa, popolarmente battezzata Menegomecca; secondo i brumisti, a corto di progetti, si doveva privilegiare la soluzione più redditizia. Va inoltre detto che mentre il consiglio di Menegocity si intorci-nava vanamente su se stesso, altri gruppi sociali si erano lenta-mente insediati nelle Grandi Paludi, e al momento in cui inizia la nostra vicenda avevano raggiunto una consistenza che non poteva più essere ignorata. Costoro non costituivano un’etnia vera e propria, ma un composi-to fricandò di sbandati; ex abitanti di Al Ambrat, mercanti di co-lore che non avevano ancora scelto dove stabilirsi, e infine ex abi-

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tanti delle valli a est di Menegoville, espulsi dalla costruzione delle linea ferroviaria detta Transmontana. Questi ultimi formavano un corpo ristretto ma compatto, signo-reggiato dalla Nuova Fratacchia, una banda di avventurieri ca-peggiati da Taddeo Birolin. Questi, messosi sette anni prima alla testa dell’UVA (Unione Valligiani Autonomisti) aveva guidato la rivolta contro la costru-zione della Transmontana; accanitamente braccato, era però sfug-gito alle forze dell’ordine e aveva raggiunto sano e salvo la zona sud con quanto restava della sua compagnia. Non si può spiegare questa impresa senza ricordare che sulle or-me del brigante si erano mossi insieme (ma per diversi motivi) sia gli agenti della Compagnia Rapida, che gli uomini della Congre-gazione dei Fucilieri e del Corpo di Sorveglianza Commerciale; in una parola le tre polizie della metropoli, use a ostacolarsi assai più che a collaborare. L’unica presenza organizzata della zona, pertanto, rivestiva carat-tere squisitamente illegale, il che aggiungeva problema a proble-ma. Infatti, dopo lunghe diatribe, le tre etnie della metropoli si erano convinte che la bonifica delle Grandi Paludi non sarebbe mai po-tuta avvenire senza il coinvolgimento nel progetto dei loro abitan-ti, benché essi venissero concordemente ritenuti più mona degli altri. In effetti i “nomadi” (come venivano chiamati) vivevano in vil-laggi fluviali costruiti su palafitte, parlavano almeno una decina di linguaggi diversi e praticavano come uniche attività economi-che la caccia e la pesca; inoltre nulla si sapeva di un loro ordina-mento giuridico, ammesso che esistesse.

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Nonostante ciò erano già sorte diverse associazioni ex animaliste che ne avevano preso pubblicamente le difese, e si doveva alla paziente mediazione di Teobaldo Quorra il prevalere di una linea volta a promuovere l’integrazione dei nomadi all’interno della società menega. Ciò doveva comportare l’acquisizione di diritti e doveri pari a quelli delle altre etnie; vale a dire l’autogoverno della propria comunità e la partecipazione al consiglio di Menegocity. Per questo era però necessaria l’effettuazione di un censimento dei nomadi, seguito da un referendum che sancisse la loro ade-sione al territorio metropolitano. Esperita tale procedura, i successivi problemi sarebbero consistiti nella ridefinizione degli organismi metropolitani sopra citati: la Camera dei Cento e la Camera delle Consultazioni. Per quanto riguardava il primo, vi era stata una lunga diatriba tra chi sosteneva che si dovesse aumentarne i membri e coloro i quali opponevano che meglio sarebbe stato chiedere alle altre tre etnie di rinunciare ad alcune delle loro presenze per dare spazio ai no-madi. Era infine prevalsa questa seconda linea, che rispetto all’altra pre-sentava il vantaggio di mantenere fisso il numero dei rappresen-tanti. Al contrario, per quanto riguardava la composizione della Came-ra delle Consultazioni, il nodo da sciogliere risultava assai più complicato. Infatti al momento, per una felice coincidenza, il numero dei membri di questa era dispari, ciò che consentiva, qualora fossero fallite tutte le mediazioni, che la maggioranza potesse far valere le proprie ragioni.

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Viceversa, con l’entrata di un rappresentante dell’etnia dei noma-di (meno di così era veramente impossibile) la Cameretta avrebbe rischiato l’ingovernabilità. Tutti si trovavano d’accordo sul fatto che si dovesse modificare la composizione di questo organismo, ma quando si veniva ai nume-ri scoppiava il casino più generale. Dopo lunghe e improduttive dispute tra i più illustri costituziona-listi delle tre comunità, si era deciso di rinviare il problema a quando fosse stato effettuato il censimento dei nomadi. Passo dopo passo, come Teobaldo Quorra aveva suggerito, si sa-rebbe addivenuti prima alla conoscenza del problema e poi all’individuazione delle soluzioni più idonee. E il primo passo consisteva nel realizzare un contatto con il fri-candò di gruppi che si celavano dietro alla denominazione di “nomadi”. A questo punto, si era posto il problema di come comporre la de-legazione. Quorra non aveva avuto dubbi nel proporre una triade composta, oltre che da lui medesimo, da Zu Hsu Ciun e da Elijah Monshur, in qualità di padri della costituzione di Menegoville. Sicuro com’era che tra i brumisti la sua linea non avrebbe incon-trato né approvazione né opposizione, aveva unicamente informa-to della propria idea il loro capogruppo alla Camera dei Cento. Zu Hsu Ciun e il califfo, dal canto loro, avevano chiesto dodici ore di tempo per meditare insieme al consiglio delle rispettive comunità e prendere una decisione. Il termine stava per scadere e Teobaldo Quorra aspettava la rispo-sta.

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In realtà, forte della sua esperienza, sapeva che entrambi i suoi interlocutori avrebbero tentato di dare il loro assenso per ultimi, al solo scopo di far apparire determinante la loro opera di convin-cimento.

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CAPITOLO 2 Zu Hsu Ciun entrò dall’ingresso di destra nella “Aula della lib-bra”, che ospitava la Camera dei Cento, eseguì una sorta di inchi-no all’indirizzo della presidenza e andò a occupare la propria po-sizione nel primo dei banchi di sinistra. Elijah Monshur fece invece il suo ingresso da sinistra, giunse le mani in segno propiziatorio all’indirizzo della presidenza e andò a occupare la propria posizione nel primo dei banchi di destra. Teobaldo Quorra, che presiedeva la seduta, sospirò e dichiarò a-perto il dibattito. Contrariamente alle sue aspettative, nessuno dei due personaggi aveva ancora sciolto la riserva sulla sua proposta. A onta di ciò, il city provider era sicuro che sia il presidente della Sungunguri Limited che il supremo capo religioso della comunità salamecca avrebbero aderito alla sua proposta. Quorra, dopo aver letto l’ordine del giorno, si rassegnò all’inevitabile dibattito. Puntualmente, come a un segnale convenuto, dai banchi dei man-dorlocchi si levarono le mani di quattro camerani (eletti) che ri-chiedevano altrettanti interventi. Prima ancora che costoro riabbassassero le mani, Elijah Monshur lanciò un’occhiata verso i banchi della propria gente. Altrettanto prontamente, quattro camerani del quartiere di Al Ambrat richiesero anch’essi di essere ascoltati.

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Teobaldo Quorra annuì, sospirò e fece segno al primo degli iscrit-ti a parlare di Ma Cha Chin. L’oratore, dopo aver salutato compitamente il presidente dell’assemblea e i colleghi, debuttò con un’oscura citazione di Confucio, che provocò l’immediata uscita dall’aula di una buona metà dei camerani brumisti e un concitato brusio tra la rappresen-tanza di Al Ambrat. Teobaldo Quorra scosse violentemente il campanello per richia-mare all’ordine i presenti e pregò l’oratore di voler perdonare l’interruzione. Questi, imperturbabile, riprese dall’inizio la citazione di Confu-cio. Dai banchi brumisti provenne l’eco sottile, ma inconfondibile, di una pernacchia; un paio di aeroplani di carta volteggiarono nell’emiciclo e atterrarono nei pressi dei banchi della presidenza; Quorra, furioso, scosse ripetutamente il campanello ottenendo di sedare il tumulto per alcuni istanti. Insensibile a queste manifestazioni di dissenso, l’oratore proseguì per altri cinque minuti, dopo di che s’inchinò, ringraziò e sedette al proprio posto. Metà dei camerani brumisti prima usciti fecero di nuovo il loro ingresso, mentre il city provider concedeva facoltà di intervento al primo oratore salamecco. Anche questi s’inchinò, salutò la presidenza e i colleghi, e senza tanti preamboli andò dritto al punto. L’area delle Grandi Paludi doveva vedere il sorgere della nuova moschea del Popolo Credente. Ogni altro progetto era empio per definizione, per cui qualunque diverso edificio vi fosse stato co-

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struito sarebbe crollato, seppellendo tutti coloro che si fossero venuti a trovare al suo interno. A quelle parole l’intera delegazione mandorlocca sorrise compia-ciuta e con la testa fece segno prima di sì, e subito dopo di no. I banchi brumisti si spopolarono lentamente, a eccezione dell’ultima fila ove un paio di camerani addormentati e immobili bloccavano l’uscita dei colleghi. Teobaldo Quorra giunse le mani, alzò lo sguardo al cielo e mor-morò un paio di bestemmie. Venne poi il turno del secondo oratore di Ma Cha Chin, il quale pensò bene di contestare quanto appena affermato dal collega di Al Ambrat sostenendo che, al contrario, l’area delle Grandi Palu-di era destinata a ospitare la comunità della Serenità Celeste. Venti salamecchi si levarono come un sol uomo e ingiuriarono l’infedele, prontamente difeso dai suoi. A questo punto, con un moto iroso, Teobaldo Quorra ruppe il campanello picchiandolo sul banco e minacciò di sospendere la seduta. Dai banchi brumisti i pochi rimasti fecero partire un applauso di incoraggiamento e per qualche secondo nessuno parlò. Finalmente Zu Hsu Ciun ed Elijah Monshur si levarono, presero da parte i più scalmanati delle rispettive fazioni e parlottarono fit-to con loro per alcuni minuti. Infine, dopo essersi scambiati uno sguardo d’intesa, i due leader si diressero insieme verso il banco della presidenza, ove Quorra s’industriava vanamente a rimettere insieme i cocci del campanel-lo. Al termine di un breve conciliabolo, il city provider prese la paro-la per sottoporre a votazione la proposta di sospendere la seduta

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in corso e dare luogo a una sessione straordinaria presso la Came-ra di Consultazione. Volò qualche fischio, vi fu un brusio sommesso, ma la proposta alla fine passò quasi all’unanimità. L’ispettore Jean-Claude Lebison, commissario capo della Com-pagnia Rapida di Menegoville, scorse il titolo dei principali gior-nali metropolitani, arricciò il naso, estrasse da un astuccio un Vé-ritable Corbusier e lo soppesò nella mano, incerto se dovesse ac-cenderlo o meno. Infine si volse al computer acceso sulla scrivania e premette un tasto funzionale. Lo schermo gli rimandò l’immagine dell’ispettore capo Mirco Sgarzi, il suo braccio destro. «Mirco?» «Patròn?» «Potresti riunire la squadra?» «Certo patròn.» Lebison infilò il trench, recuperò una scatola di fiammiferi e uscì dall’ufficio. Due minuti dopo, nel cortile del comando Nord Ovest di Mene-gocity, trovò ad attenderlo Sgarzi insieme agli altri componenti della Squadra Interetnica. Essa era composta, oltre che da Sgarzi, da tre ispettrici: Luciana Spino in Roseto, che vantava un’antica discendenza brumista (i suoi avi avevano esercitato per lunghi anni l’attività di pescatori sul torrente la Bruma) Mina Sha Tar, di sangue mammalucco, e Lula Malùk, afropachistana.

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Compito della Squadra Interetnica era monitorare gli umori e i movimenti delle tre comunità della metropoli, ciò che si rivelava abbastanza facile per le prime due a causa delle loro radici socio-razziali, mentre Lula Malùk, cui era stata assegnata la zona di Ma Cha Chin, aveva dovuto conquistarsi la confidenza di alcuni membri della comunità mandorlocca. Erano occorsi circa sei mesi, ma alla fine l’ispettrice si era gua-dagnata la fiducia di Pran Balong, prefetto dell’associazione dei mercanti di corallo: risultato, questo, di assoluto rilievo, conside-rando la solidarietà e l’omertà ferree che caratterizzavano l’etnia celeste. Lebison invitò gli altri a seguirlo per una breve passeggiata e ac-cese soddisfatto il Véritable Corbusier, il cui odore penetrante ne sconsigliava il consumo in locali chiusi. «Novità?» chiese. Luciana Spino riferì per prima. I suoi sorvegliati parevano come sempre indifferenti alle sorti pubbliche; ma ella aveva comunque notizia di fitti contatti tra Tommaso Schippari, attuale presidente de Il Vischio e Luis Ale-jandro Ventura, amministratore delegato della Bit & Chips, co-losso dell’informatica che rivaleggiava con le mandorlocche Sungunguri e Patekafuki. La comunità business brumista stava discutendo sui progetti ri-servati alle Grandi Paludi; Schippari vedeva di buon occhio la na-scita della città santa salamecca, che avrebbe potuto favorire i suoi traffici, mentre Ventura riteneva che sarebbe stato preferibile una sorta di tecnocity, più in linea con i desiderata della gente di Ma Cha Chin.

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A riprova di questo equilibrio, il web site degli sciuri & sciguli, che era denominato “West Forever”, alternava equamente pagine pubblicitarie dedicate ai due piani. L’ispettrice valutava che, in assenza di una soluzione concordata dal governo di Menegocity, le due fazioni avrebbero potuto arri-vare in breve tempo ai ferri corti. Mina, dal canto suo, informò superiori e colleghi che in Al Am-brat, viceversa, il clima era rovente, e la situazione veniva tenuta sotto controllo da Elijah Monshur solo grazie alla sua autorità. La comunità salamecca, infatti, era percorsa da forti tensioni, di-visa com’era in correnti che gareggiavano in radicalismo; tutte, però, volevano che il califfo ottenesse per il suo popolo la costru-zione di una città santa nell’area delle Grandi Paludi. Era dunque importante che il supremo organo di governo di Me-negoville trovasse una risposta a tali aspettative. Lula Malùk, per contro, era a corto di notizie. La comunità di Ma Cha Chin appariva tranquilla, anche se certo non dormiva. Pran Balong le aveva fatto un discorso tortuoso, ricco di riferi-menti poco comprensibili, dal quale comunque si evinceva che erano in corso preparativi segreti. Lula Malùk aveva chiesto spiegazioni, ma l’enigmatico perso-naggio aveva sorriso e l’aveva invitata ad avere pazienza. Quando fosse venuto il momento, egli le avrebbe fornito infor-mazioni utili; prima di allora, i rischi sarebbero risultati superiori ai benefici. Jean-Claude Lebison ascoltò con attenzione i resoconti delle i-spettrici e crollò il capo.

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Da tempo abituato alle tortuosità che la sua professione richiede-va, sentiva che i nodi stavano per venire al pettine: si augurava solo che non vi arrivassero tutti insieme. Teobaldo Quorra attendeva pazientemente accanto all’imponente Minamai Wagon l’arrivo del presidente della Sungunguri Limited e del Commendatore del Popolo Credente. I due giunsero quasi contemporaneamente, si salutarono con un breve inchino e presero posto sul sedile posteriore accanto al city provider. Quorra tirò un sospiro di sollievo. «Possiamo andare.» Al seguito della grande berlina nera si mossero altre quattro auto. Una dopo l’altra le vetture lasciarono il piazzale antistante il mu-nicipio di Menegocity e, dopo aver percorso poche centinaia di metri, s’infilarono nel lungo tunnel sotterraneo che portava a sud. Durante il tragitto, Teobaldo Quorra porse agli altri due alcuni fogli di carta. Riportavano la risoluzione della Cameretta, poi vo-tata all’unanimità dalla Camera dei Cento. Secondo questa risoluzione, i nomadi avrebbero dovuto esprimer-si con un referendum sull’adesione al governo centrale di Mene-goville. I tre plenipotenziari erano stati investiti del compito di trattare le condizioni, che prevedevano la partecipazione di una rappresen-tanza dei paludici alle due camere di Menegocity, la consistenza della quale sarebbe stata stabilita da un preliminare censimento. Nonostante i suoi sforzi, Quorra non era riuscito a ottenere di più dai due riottosi colleghi.

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Egli si rendeva perfettamente conto che la soluzione trovata era monca, in quanto si sarebbe dovuto per lo meno garantire ai nuo-vi venuti un seggio alla Cameretta, ma su questo né Zu Hsu Ciun né Elijah Monshur avevano ceduto di un millimetro. L’inclusione dei nomadi nel governo metropolitano era una vera corsa a ostacoli, e il city provider sperava di riuscire a portarla a termine senza danni. La Minamai Wagon, seguita dalle altre auto, sbucò alla fine del grande tunnel, oltre il quale si stendeva una nebbia fittissima che segnalava l’inizio delle Grandi Paludi. «OK, dobbiamo fermarci qui» disse Quorra. Scese per primo, imitato da Zu Hsu Ciun e da Monshur. I tre, accompagnati dalla scorta, percorsero una lunga banchina di cemento fino a raggiungere un grosso motoscafo il cui motore era già acceso. L’imbarcazione mollò gli ormeggi e si mosse sulle acque sta-gnanti di uno stretto canale fiancheggiato da due file di salici piangenti. Mezzo chilometro più in là, il motoscafo virò verso est. «Come fanno a orizzontarsi?» chiese Monshur, ammirato dalla sicurezza con cui l’equipaggio affrontava la traversata. Il commissario capo Jean-Claude Lebison, che comandava la scorta, si concesse un sorriso. «Navighiamo guidati per intero dagli strumenti, Califfo: scanda-glio, ecometro, radar, eccetera. In caso contrario, ci saremmo già arenati sul fondo.» Usciti che furono dal canale, la nebbia si diradò appena, rivelando il profilo di alcune casette pensili che si levavano dal fondo della palude.

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«Dove ci dirigiamo?» domandò il pilota. «Verso il primo attracco disponibile.» Appena oltre le palafitte si delineò un pontile tralicciato dall’aspetto poco sicuro. «Quello va benissimo.» Giunti all’altezza del pontile, l’equipaggio mise il motore in pan-ne, legò delle cime ai pali di sostegno e assicurò la scaletta alle travi. La delegazione metropolitana sbarcò rapidamente e si diresse verso il nucleo di palafitte più vicino. Dalla prima di queste mise fuori il naso qualcuno avvolto in una palandrana verde marcio. «Chi l’è che vèn?» Zu Hsu Ciun e il califfo rivolsero uno sguardo interrogativo a Quorra. Questi fece segno che andava tutto bene e sventolò una mano in aria. «Sèm dela capitàl, òmen.» «Sùnt una dòna, ma fa l’istèss. Lù chi l’è?» Quorra fece una breve riflessione. «El sìndech. E lè?» «Me ciàmi Rusètta. Fù la pesciadùra.» «Mì, Bartolo.» «E i sò amìs?» «Tùsc assessùr.» «Vègna avanti.» La nomade fece segno di accomodarsi. «Perché hai detto di chiamarti Bartolo?» chiese Monshur, per-plesso.

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«Per non spaventarla. Forza, andiamo.» Quorra si diresse verso l’abitazione seguito dagli altri. L’ambiente era spoglio ma spazioso, suddiviso in due ambienti; nel locale cucina era stato ricavato un soppalco. «Vèn chi, Giuàn, gh’ìn di ospiti.» A quelle parole fece il suo ingresso un pezzo d’uomo, vestito di un completo alla cacciatora con stivali all’altezza della coscia, che si presentò: «Me ciàmi Giuàn La Frasca.» «Teobaldo Quorra. Parla la nostra lingua?» L’uomo aggrottò le sopracciglia con aria diffidente. «Sì. Che desiderate?» In pochi minuti il city provider rivelò al nuovo venuto il motivo della visita. Questi ascoltò e scosse il capo. «Non sono tanto convinto che si possa fare.» Quorra, per fortuna, era preparato a una simile evenienza. «Mica è da decidere subito. Dovrete riunirvi, discutere…» «Riunirci chi?» «Tutti gli abitanti della zona. Dovreste aiutarci a fare un censi-mento…» «Cussa l’è, Giuàn?» chiese la moglie, intenta a cucinare il pranzo. Seguì un rapido dialogo conciliabolo, al termine del quale anche la donna scosse la testa. Quorra decise allora di cambiare tattica e spiegò che quella deci-sione non si poteva rimandare all’infinito, perché l’area delle Grandi Paludi era comunque destinata alla bonifica. La Frasca abbassò la voce.

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«Mi rendo conto. Vede, da queste parti siamo tutti sparpagliati, un po’ qui e un po’ là. Ciascuno si fa i fatti suoi… capisce?» «Ma ci sarà pure qualcuno che… che insomma, come dire… or-ganizza, dirige…» La Frasca fece un sorriso enigmatico. «Be’, ci sarebbe, ma è proprio lui l’ostacolo.» Ciun e Monshur, che fino a quel momento non avevano ancora aperto bocca, si fecero avanti. «E chi sarebbe, questo ostacolo?» domandarono a una voce. Quorra si strinse nelle spalle. «Ma è chiaro: lui.» «Lui?» chiese Ciun, indicando La Frasca con un cenno della te-sta. «No, lui… Taddeo Birolin.» «Lo conosce?» «È mio cognato» disse La Frasca.

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CAPITOLO 3 «Birolin chi? Quello della Transmontana?» chiese Elijah Mon-shur. «Proprio lui» confermò Quorra. Zu Hsu Ciun fece un sorriso mellifluo. «Be’, vorrà far conoscere la sua opinione…» Giuàn La Frasca annuì. «Già fatto. Aspettate un attimo.» Ciò detto, sparì nella camera attigua e ritornò con un foglio spie-gazzato che porse a Quorra. «Populasiùn delle Paludi…» «Forse è meglio se la traduci» suggerì il califfo. «Come preferite. Allora, vediamo… popolazione delle Paludi, a-scoltate la voce della verità. Diffidate degli abitanti della città, bastardi, traditori e ganàssa (questa è intraducibile). Rifiutate le loro offerte, quali che siano. Tenetevi stretta la vostra terra, e sia-te pronti a difenderla con la vostra stessa vita. Unitevi a noi. Fir-mato: Nuova Fratacchia.» «Un po’ sintetico» commentò il califfo «non si capisce che cosa vuole, questo Birolin.» La Frasca allargò fatalisticamente le braccia. «Vuole che le cose rimangano come sono. Non credo che gli inte-ressi altro.»

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«E lei come ha ricevuto questo… proclama?» domandò Lebison, dopo aver gettato un’occhiata al foglio. «Me l’ha consegnato lui stesso.» «Dunque lei lo frequenta?» «È una specie di parente» confermò La Frasca «anche se so che è ricercato.» Il califfo assunse un’espressione eloquente, ma Quorra scosse la testa. «Signori, siamo qui in missione diplomatica, non per un’operazione di ordine pubblico.» Ammiccò a Lebison; ci mancava soltanto l’apertura di un nuovo fronte, nel già delicato equilibrio etnico di Menegoville. «Ci perdoni un attimo.» Il city provider fece segno agli altri due plenipotenziari di voler conferire con loro. «Vulé del pèss?» s’informò premurosamente Rusètta. «Grazie, abbiamo già pranzato» replicò con un mezzo inchino Teobaldo Quorra. «Cummissàri?» «Merci, je n’ai pas faim.» «El gà minga fàm» tradusse La Frasca. Il conciliabolo tra Quorra e gli altri due si protraeva oltre le previ-sioni, per cui Rusètta si decise a farsi sotto a Lebison. «Dìga lù, cussa l’è che g’han in mènt, chi trì balòss?» «Sais pas. Forse vogliono lasciare un messaggio a Birolin.» «Te pòdi minga ciamàl, chèl ostia de to cugnà?» osservò Rusètta. «Sais pas où il est maintenant» replicò il marito. «El sa mìnga duv’è che l’è adèss» tradusse Lebison. Il volto della donna si illuminò in un largo sorriso.

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«Lù sì che l’è simpàtic, cummissàri! El pare prèupi un de nùm! L’è minga inscì, Giuàn?» «Vous etes vraiment aimable» tradusse La Frasca. «Grazie, ma sùn minga de chi. Sun franzès.» «Se capìss mia, dalla pronuncia.» Nel frattempo la suprema triade doveva aver trovato una media-zione, e infatti Quorra si avvicinò reggendo un foglio in mano. «Ascoltate, avremmo una proposta. Vi abbiamo parlato della riso-luzione raggiunta dal consiglio comunale per quello che riguarda il destino delle Grandi Paludi: la zona va bonificata, recuperata, ricostruita, eccetera. Ma questo non può avvenire senza vostro previo consenso, eccetera. Per cui vi rimettiamo il documento che rappresenta la suddetta risoluzione e vi diamo tempo quindici giorni per farci pervenire una risposta, eccetera. Trascorso questo termine…» Qui il city provider si interruppe, perché non voleva dar l’impressione che fosse già stata presa una decisione. «…trascorso questo termine, ritorneremo qui per conoscere il vo-stro parere, eccetera.» «Chi ìn, ‘sti cètera?» chiese Rusètta diffidente. «Gli altri abitanti della città» tagliò corto La Frasca. «Lei però, signor La Frasca, dovrebbe aiutarci a trasmettere que-sto messaggio… pensa di potercela fare?» La Frasca fece una smorfia. «Capisco che per voi sarebbe un’impresa percorrere le Paludi in tutta la loro estensione. Posso impegnarmi a consegnare il vostro messaggio a Birolin.» «Tè crèdi; l’è tò cugnà, chèl liggèra de l’ostia!» sbottò la Rusètta. «Che ha detto?» chiese Ciun a Lebison.

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«Il est son beau-frère» disse il commissario. «In tal caso, dobbiamo pensare a una pubblicizzazione a tappe-to.» «Da realizzarsi come?» chiese con mal celato sospetto il califfo. «Sganceremo migliaia di volantini. Ovviamente, in tutte le lin-gue.» La Frasca annuì. «Mi sembra una proposta ragionevole.» Sulla via del ritorno Lebison, seduto nella Tultentàiten metalliz-zata della Compagnia Rapida, rifletteva sui compiti che l’attendevano. Accanto a lui Luciana Spino in Roseto fingeva di prendere ap-punti sul palmtop che solitamente usava per le deposizioni. L’ispettore Mirco Sgarzi, al volante, aveva l’aria preoccupata. «Guai in vista, patròn?» «Davvero non saprei.» La popolazione delle Grandi Paludi era un rebus che nessuno, fi-no a poco tempo prima, si era dato la pena di decifrare. Qualche sociologo aveva tentato di stabilirvisi per svolgere un’indagine sul campo, ma i risultati non erano stati univoci. Per quanto se ne sapeva, nell’area a sud di Menegoville erano confluiti, oltre ai valligiani dell’est scacciati dalla costruzione della ferrovia Transmontana, un po’ di randa e zanza messi in fu-ga dai salamecchi al tempo dell’occupazione del quartiere di Al Ambrat, venditori di tappeti di svariate nazionalità e altri perso-naggi di origine non precisata. Il problema della lingua era estremamente complesso; alcuni dei ricercatori avevano impiegato mesi per apprendere i rudimenti dei

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dialetti parlati in quell’area, ma lo sforzo era stato tale da portarli a dimenticare quasi interamente il loro idioma, ciò che aveva poi originato notevoli difficoltà nell’interpretazione dei testi da loro redatti. Il numero di comunità presenti nelle Grandi Paludi era valutato da un minimo di tre a un massimo di cinque; il ceppo più coeso, benché forse non maggioritario, era costituito dagli ex autoctoni delle vallate orientali, tra i quali la Nuova Fratacchia di Taddeo Birolin svolgeva un’intensa opera di proselitismo. Comunicare con un universo del genere era pertanto estremamen-te complesso, e le possibilità di successo della proposta del go-verno di Menegocity apparivano scarse. «Forse sarebbe bene avviare qualche contatto con quella gente» suggerì Luciana Spino in Roseto. Lebison sospirò. «Intendi noi?» «E chi, se no?» «Anche ammesso, non servirebbe a nulla. Tanto per cominciare, non sapremmo con chi.» «Ma sembra che lei gli sia simpatico.» «Ça marche, ma Birolin è ancora ricercato. Bisognerebbe assicu-rargli l’impunità, e questo è compito di altri.» «Mica c’è solo lui» osservò Mirco Sgarzi. «Una maggioranza silenziosa non è una maggioranza. La Nuova Fratacchia, viceversa, si fa sentire. Comunque possiamo parlarne al questore.» Luciana porse a Lebison un CD-rom con un gesto allusivo. «Anche quelli di Al-Ambrat si fanno sentire.» «Che cos’è?»

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«Un video sul progetto di ricostruzione delle Grandi Paludi, che Mina ha rintracciato ieri su “La nuova Medina”.» Il commissario capo inserì nel computer di bordo, il cui schermo s’illuminò d’immenso. La Nuova Medina era il più importante web site di Al Ambrat. Sul video comparve dapprima una minacciosa scritta color porpo-ra in caratteri arabi, inclinata di quarantacinque gradi, fortunata-mente mitigata dal sottotitolo Salàm. Subito dopo, scandite da una nenia soporifera, ecco carovane di cammelli avanzare nel deserto. L’immagine si dissolse, sostituita da quella di una folla prosterna-ta in preghiera. «Dèjà vu.» «Aspetti, patròn.» Il filmato assunse improvvisamente il ritmo di un video clip. Comparvero, in rapidissima successione, una tavola imbandita di frutti esotici, una ballerina del ventre che girava vorticosamente su se stessa, un grande palazzo bianco di marmi nella luce acce-cante dello zenit con il mare sullo sfondo, e infine una nuova scritta in arabo, inclinata dalla parte opposta rispetto alla prece-dente, il cui sottotitolo recitava: desideri tu questo? Poi, improvvisamente, dallo schermo uscì l’immagine in 3D di un leone, il cui ruggito fece tremare i vetri della vettura. Subito dopo dalle fauci della belva uscì un fumetto, anch’esso sottotitolato: puoi costruirlo insieme alla nuova Città Santa, a

pochi chilometri da te. «E adesso?» La scena successiva tornò sulle già viste truppe cammellate, ac-compagnate dalla stessa colonna sonora; poi ecco di nuovo la fol-

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la in preghiera, e poi, in rapidi flash, natura morta con frutta, bal-lerina pirlante, palazzo marmoreo con abitanti.

Desideri tutto questo? Durata complessiva, meno di un minuto. «Mina afferma che questo programma viene mandato in onda o-gni sera su tutti gli schermi di Al Ambrat, a intervalli di un quarto d’ora, dalle sette alle nove.» Sui quattro occupanti della Tultentàiten aleggiò per un secondo l’immagine di decine di migliaia di famiglie salamecche raccolte davanti alla TV per la cena, pronte a farsi imbesuire dal videoclip. «E nella tua zona? Anche lì circolano messaggi del genere?» chiese Lebison a Luciana. Tutti risero: il culto del proprio particulare era infatti la caratteri-stica principe dei brumisti. West Forever continuava a riferire sui progetti per il recupero dell’area sud di Menegoville, senza particolari entusiasmi. «E a Ma Cha Chin, Lula?» L’afropachistana, seduta di fianco a Sgarzi, prese la parola. Il web site dell’ex Bovazza, “Città Celeste”, da una settimana a-veva dato spazio a un personaggio a metà tra il monaco e il guer-riero che leggeva e illustrava storie popolari ispirate alle massime di Confucio, alcune delle quali sembravano intrise di oscure allu-sioni. A riprova di questo, Lula Malùk produsse un nastro registrato. Per alcuni minuti i presenti ascoltarono perplessi qualcosa di si-mile al lamento di una rana isterica, infine si volsero attoniti alla collega. «Aspettate, ecco la traduzione.»

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«Un giorno il Cavaliere Verde giunse sulla riva del Fiume Gial-lo. Voleva attraversarlo, quando vide acquattato sul fondo il Coccodrillo Celeste. Allora chiese al Coccodrillo Celeste se gli avrebbe permesso di attraversare il Fiume Giallo…» «Che pataccata!» commentò Sgarzi impaziente. «Ssst!» ingiunse Luciana Spino in Roseto.

«…e il Coccodrillo Celeste rispose: “non puoi attraversare il Fiume Giallo in sella al tuo cavallo, perché sareste troppo pesan-ti; il fondo del Fiume Giallo è fangoso, e anneghereste tutti e due. Quindi lascia sulla riva il tuo cavallo e guada il Fiume Giallo”. Allora il Cavaliere Verde disse al Coccodrillo Celeste: “Se io la-scio sulla riva il mio cavallo, tu lo mangerai”. “Sul mio onore, io non mangerò il tuo cavallo” disse il Coccodrillo Celeste “lui at-traverserà il Fiume Giallo dopo di te”. Allora il Cavaliere Verde lasciò sulla riva il cavallo e iniziò a guadare il Fiume Giallo. Quando però giunse nel mezzo, il Coccodrillo Celeste gli si gettò contro con le fauci spalancate. Allora il Cavaliere Verde disse: “Coccodrillo Celeste, tu hai promesso di non mangiare il mio cavallo”. E il Coccodrillo Celeste rispose: “Infatti non mangerò il tuo cavallo, ma te”. Mentre stavano litigando, affiorò alla su-perficie la Tartaruga Rossa.» «Che troiata!» esclamò Sgarzi, che era di temperamento focoso. «Ssst!» sibilò Luciana Spino in Roseto.

«Allora il Coccodrillo Celeste disse: “Tartaruga Rossa, il Cava-liere Verde non vuole che io lo mangi, ma io non ho promesso di risparmiare lui, bensì il suo cavallo”. Ma il Cavaliere Verde re-plicò: “Il Coccodrillo Celeste si è impegnato sul suo onore a non mangiare il mio cavallo. Perciò, se ora mangia me, io non potrò

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essere testimone che lui rispetti la parola che mi ha dato e ri-sparmi il mio cavallo”.» «Che cazzata!» imprecò Sgarzi, ormai agli sgoccioli. «Ssst!» ringhiò Luciana Spino in Roseto.

«Allora la Tartaruga Rossa disse al Cavaliere Verde e al Cocco-drillo Celeste: “Dovete ritornare entrambi a riva insieme a me, perché per esprimere un giudizio devo prima interrogare il ca-vallo”.» «E il cavallo, come mai era rimasto sulla riva come un pataca, in-vece di filarsela?» ironizzò Sgarzi. «Ssst!» ruggì Luciana Spino in Roseto.

«Così la Tartaruga Rossa, il Cavaliere Verde e il Coccodrillo Celeste ritornarono sulla riva del fiume. E la Tartaruga Rossa disse al cavallo del Cavaliere Verde: “Quale impegno ha richie-sto il tuo padrone al Coccodrillo Celeste?”. Ma il cavallo non ri-spose.» «E perché?» s’infuriò Sgarzi. «Ssst!» schiumò Luciana Spino in Roseto.

«Allora il Coccodrillo Celeste disse: “Cavallo, rispondi alla Tar-taruga Rossa che il tuo padrone, il Cavaliere Verde, aveva chie-sto che io non ti mangiassi, e che io, sul mio onore, gli dissi che non l’avrei fatto”. Ma il cavallo non rispose. Al che il Cavaliere Verde replicò: “Cavallo, spiega alla Tartaruga Rossa che se il Coccodrillo Celeste divorasse me, il tuo padrone, io non potrei essere testimone della sua fedeltà alla parola data”. Ma il caval-lo non disse nulla.» «Ma ve li vedete questi tre coglioni a perdersi in cazzate del ge-nere sulla riva del Fiume Giallo?!» esplose Sgarzi, mentre anche Lebison cominciava a spazientirsi.

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«Ssst!» proruppe Luciana Spino in Roseto.

«Disorientati, la Tartaruga Rossa, il Cavaliere Verde e il Cocco-drillo Celeste si rivolsero allora a un uomo di studio, fermo su un ponte che attraversava il Fiume Giallo…» «Non è possibile che ci fosse un ponte e nessuno l’avesse visto prima! Questi mandorlocchi sono troppo ciula!» bestemmiò Mir-co Sgarzi. «Ssst!» imprecò Luciana Spino in Roseto. «Allora la Tartaruga Rossa disse…» «Lula, manda avanti il nastro fino alla risposta dell’uomo di stu-dio» pregò Lebison.

«…allora l’uomo di studio disse alla Tartaruga Rossa: “Quale è stato il tuo giudizio?”. E la Tartaruga Rossa disse: “Uomo di studio…» «Non ha nemmeno un colore questo qui! E non ce l’aveva neppu-re il cavallo!» mitragliò Sgarzi ormai incontenibile. «Ssst!» diluviò Luciana Spino in Roseto.

«…per poter stabilire quale dei due abbia ragione, il Cavaliere Verde o il Coccodrillo Celeste, ho dovuto interrogare il cavallo. Ma questi non mi ha dato nessuna risposta. Per questo chiediamo il tuo giudizio”. L’uomo di studio rifletté…» «Speriamo che l’uomo di studio non narri un’altra storia con un Cavaliere Celeste, una Tartaruga Verde e un Coccodrillo Rosso!» mugghiò Sgarzi. «Ssst!» ruggì Luciana Spino in Roseto.

«…dice il saggio: “I cavalli non parlano”.» Un lieve fruscio segnalò che il nastro era terminato. «Sono quattro stronzi! Che gli vada di traverso il Fiume Giallo, a loro e anche al cavallo!» sbottò Sgarzi.

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«Sei il solito razzista!» commentò sprezzante Luciana Spino in Roseto. «Però io temo di non aver capito bene la morale della storia» con-fessò Lebison «dovresti illuminarci in proposito, Lula.» «Per quanto posso capirne io, direi che la storia contiene diversi ammonimenti. Primo…» «…se dovete attraversare il Fiume Giallo, cercate prima un pon-te» completò Sgarzi. «E piantala, Mirco!» fece Luciana Spino in Roseto. «OK.» promise l’ispettore. «Primo: formula sempre correttamente la tua richiesta. Questo vale non solo per il Cavaliere Verde, ma per tutti noi. Secondo: impegna sempre correttamente la tua parola…» «E questo vale per tutti, non solo per il Coccodrillo Celeste.» completò Lebison. «Terzo: non fare domande a chi non può rispondere.» «E questo è per il cavallo.» concluse Mirco Sgarzi. «No, semmai per la Tartaruga Rossa.» corresse Luciana Spino in Roseto. «Allora, anche per il Cavaliere Verde e il Coccodrillo Celeste!» ritorse Sgarzi. «Vale anche per tutti noi.» «Va bene» concluse Lebison. «Quarto: formula sempre correttamente la tua risposta, come l’uomo di studio.» «Quel pataca lì non sapeva che cosa dire. Se l’è cavata con una battuta.» «Ma secondo te questo ha qualcosa a che fare con le Grandi Pa-ludi?» domandò Lebison sconcertato.

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«Indubbiamente la metafora è acquatica. Non saprei.» «Però tu pensi che i mandorlocchi abbiano in mente qualche co-sa.» «C’è sicuramente qualche cosa che bolle in pentola. Domani devo vedere Pran Balong» terminò Lula Malùk. FINE ANTEPRIMA.Continua...