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La città nel XX secolo: il successo infelice di Emanuele Sgroi Estratto dal volume Enciclopedia Italiana. Eredità del Novecento, Enciclopedia Italiana Treccani 2001, pp. 1050-1068 SOMMARIO: 1. Il secolo delle città: dinamiche urbane nel XX secolo. 1a. Alla ricerca della città nel XX secolo. 1b. Le trasformazioni della forma e del significato della città. 1c. Tra città e urbano: è già metropoli. 2. L’egemonia urbana. 2a. Un mondo urbanizzato. 2b. La città che cambia. 2c. I fattori del successo urbano. 3. La coscienza infelice. 3a. La mitologia dell’antiurbanesimo. 3b. Crisi e critica della città. 3c. Le grandi paure urbane. 3d. L’incubo e la sfida. Bibliografia. 1. Il secolo delle città: dinamiche urbane nel XX secolo. 1a. Alla ricerca della città nel XX secolo. Si può utilizzare la definizione di “secolo breve” a proposito del XX secolo, a condizione di sottolineare come esso appaia troppo breve per la folla di eventi e di processi di mutamento che è stato “costretto” a ospitare: eventi e processi che sono stati capaci di mutare più volte - in un movimento che ci appare pendolare - l’ambiente del pianeta, la geografia politica, l’ordinamento economico, il patrimonio di idee e di tecniche, le forme di regolazione politico-istituzionale, finanche la consistenza demografica e le modalità della mobilità di merci, informazioni e uomini sul pianeta. Anche i fenomeni urbani hanno fatto la loro parte nel movimentare la realtà di questo secolo. La città industriale aveva già raggiunto la fase della maturità in gran parte dell’Occidente europeo e negli Stati Uniti all’alba del Novecento, mentre ancora sopravviveva - e la sua vita sarebbe continuata per più di metà del secolo - nel Mezzogiorno d’Italia, così come in altri “mezzogiorni” europei, la città contadina; vecchie e gloriose realtà metropolitane ereditavano, pur nella dissoluzione o nel declino degli imperi di cui erano la proiezione, un ruolo egemone e altre realtà metropolitane emergenti lo acquisivano, presentandosi le une e le altre con il nuovo volto di global city. La “haussmannizzazione” della città riesce a far sentire la sua influenza ancora nel nostro secolo, mentre al contempo cresce la reazione del Movimento moderno e dell’urbanistica razio- nalista e si sperimenta concretamente l’ambizione di disegnare, attraverso un nuovo edificio, un quartiere, una città l’armonico assetto di una nuova società; decolonizzazione, esplosione demografica e inurbamento di massa fanno lievitare il fenomeno delle metropoli nel Terzo Mondo; infine, la città postmoderna afferma il suo volto complesso e ambiguo, attraversando impetuosamente - e con esiti ancora oggi imprevedibili - i confini del vecchio, compatto ordinamento fordista con i suoi imperativi di concentrazione spaziale, di zonizzazione funzionale, di controllo tendenziale degli stili e dei tempi di lavoro, di consumo, di impiego del tempo libero di estese masse di abitanti, lavoratori, utenti urbani. È per questo forse che siamo usciti dal Novecento con minori certezze su che cosa sia la città di quante non ne avessimo all’inizio del secolo. Sembrerebbe una contraddizione, ma quanto più è evidente e imponente il fenomeno urbano nel mondo contemporaneo, tanto più sembra difficile individuare quei caratteri necessari a definire la città, a distinguerla da tutto ciò che non è città. Un disagio conoscitivo assai diffuso, anche nell’ambito degli studiosi dei fenomeni urbani, ha condotto non solo all’abbandono di quelle concezioni “forti” dell’urbano che avevano caratterizzato l’analisi sociologica della città, ma

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La città nel XX secolo: il successo infelice di Emanuele Sgroi

Estratto dal volume Enciclopedia Italiana. Eredità del Novecento, Enciclopedia Italiana Treccani 2001, pp. 1050-1068

SOMMARIO: 1. Il secolo delle città: dinamiche urbane nel XX secolo. 1a. Alla ricerca della città nel XX secolo. 1b. Le trasformazioni della forma e del significato della città. 1c. Tra città e urbano: è già metropoli. 2. L’egemonia urbana. 2a. Un mondo urbanizzato. 2b. La città che cambia. 2c. I fattori del successo urbano. 3. La coscienza infelice. 3a. La mitologia dell’antiurbanesimo. 3b. Crisi e critica della città. 3c. Le grandi paure urbane. 3d. L’incubo e la sfida. Bibliografia.

1. Il secolo delle città: dinamiche urbane nel XX secolo.

1a. Alla ricerca della città nel XX secolo.

Si può utilizzare la definizione di “secolo breve” a proposito del XX secolo, a condizione di sottolineare come esso appaia troppo breve per la folla di eventi e di processi di mutamento che è stato “costretto” a ospitare: eventi e processi che sono stati capaci di mutare più volte - in un movimento che ci appare pendolare - l’ambiente del pianeta, la geografia politica, l’ordinamento economico, il patrimonio di idee e di tecniche, le forme di regolazione politico-istituzionale, finanche la consistenza demografica e le modalità della mobilità di merci, informazioni e uomini sul pianeta.

Anche i fenomeni urbani hanno fatto la loro parte nel movimentare la realtà di questo secolo. La città industriale aveva già raggiunto la fase della maturità in gran parte dell’Occidente europeo e negli Stati Uniti all’alba del Novecento, mentre ancora sopravviveva - e la sua vita sarebbe continuata per più di metà del secolo - nel Mezzogiorno d’Italia, così come in altri “mezzogiorni” europei, la città contadina; vecchie e gloriose realtà metropolitane ereditavano, pur nella dissoluzione o nel declino degli imperi di cui erano la proiezione, un ruolo egemone e altre realtà metropolitane emergenti lo acquisivano, presentandosi le une e le altre con il nuovo volto di global city. La “haussmannizzazione” della città riesce a far sentire la sua influenza ancora nel nostro secolo, mentre al contempo cresce la reazione del Movimento moderno e dell’urbanistica razio-nalista e si sperimenta concretamente l’ambizione di disegnare, attraverso un nuovo edificio, un quartiere, una città l’armonico assetto di una nuova società; decolonizzazione, esplosione demografica e inurbamento di massa fanno lievitare il fenomeno delle metropoli nel Terzo Mondo; infine, la città postmoderna afferma il suo volto complesso e ambiguo, attraversando impetuosamente - e con esiti ancora oggi imprevedibili - i confini del vecchio, compatto ordinamento fordista con i suoi imperativi di concentrazione spaziale, di zonizzazione funzionale, di controllo tendenziale degli stili e dei tempi di lavoro, di consumo, di impiego del tempo libero di estese masse di abitanti, lavoratori, utenti urbani.

È per questo forse che siamo usciti dal Novecento con minori certezze su che cosa sia la città di quante non ne avessimo all’inizio del secolo. Sembrerebbe una contraddizione, ma quanto più è evidente e imponente il fenomeno urbano nel mondo contemporaneo, tanto più sembra difficile individuare quei caratteri necessari a definire la città, a distinguerla da tutto ciò che non è città. Un disagio conoscitivo assai diffuso, anche nell’ambito degli studiosi dei fenomeni urbani, ha condotto non solo all’abbandono di quelle concezioni “forti” dell’urbano che avevano caratterizzato l’analisi sociologica della città, ma

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addirittura a preconizzare la dissoluzione del concetto stesso di città (v. Tosi, 1987). Disagio conoscitivo o disagio ideologico? “La letteratura e il senso comune identificano per lungo tempo la città con la civiltà e questa, in ispecie dalla modernità in poi, diviene sinonimo di progresso scientifico” (v. Mazzette, 1997, p. 123). I numerosi critici della modernità che questa fine di secolo sta mobilitando tanto più sono efficaci nel prevedere o nel descrivere la “morte della città quanto più questa può essere elevata a simbolo di un continuo progredire di scienza e ragione, oggetti di fedi intiepidite per una certa parte del sentire comune. E tanto più una concezione forte dell’urbano può essere ritenuta improbabile, forse anche inutile sul piano esplicativo, quanto più la sua definizione diventa una cassetta di attrezzi concettuali e analitici genericamente disponibili, ma poco affidabili.

Il fatto è che le classificazioni della città si moltiplicano proporzionalmente alla crescita del fenomeno urbano e della sua centralità nella società contemporanea. La città non può più essere rappresentata come entità sociale a sé stante e non è più il solo luogo dell’urbanesimo, così come la città occidentale non è il punto conclusivo della storia dell’urbanizzazione: “Oggi l’intero pianeta sembra avviarsi - a poco più di cinque millenni dalla rivoluzione urbana - a costituire un’unica area urbanizzata nella quale la città celebra il proprio trionfo, ma vede anche approssimarsi la fine dei suoi caratteri distintivi” (v. Ceri e Rossi, 1987, p. 575). Non soltanto bisogna tener conto dell’esistenza di “diverse” città pur all’interno di quel fenomeno “città che finora appariva universalmente condiviso, ma coesistono più città dentro ogni città, in particolare entro ogni città metropolitana. Infatti “all’interno della medesima esperienza di città, si sono creati mondi urbani indipendenti gli uni dagli altri [...] riconoscibili in virtù della formazione di specifiche interazioni tra il corpo individuale, il corpo sociale e il corpo della città” (v. Mazzette, 1998c, p. 123). Come sottolinea David Harvey (v., 1989), siamo noi abitanti e utenti a costruire, con le nostre azioni, una città e i suoi nuovi ritmi di vita, senza necessariamente sapere che cos’è la città tutta intera o cosa dovrebbe essere.

La città, in gran parte del mondo, non si contrappone più alla campagna, perché si è come diffusa e dissolta nel territorio, occupandolo fisicamente e simbolicamente, affermandovi e riproducendovi i suoi modelli di comportamento e i suoi stili di consumo, replicandovi la sua organizzazione dello spazio e la sua tipologia abitativa: verticalizzazione edilizia, centri commerciali, megadiscoteche, ecc. “I curati non-luoghi autostradali, gli autogrill, i caselli, i distributori-bazar, le piazzole di umanizzazione erano la prova, tangibile e sovraregionale, della smisurata, onnipresente estensione della metropoli diffusa” (v. Desideri, 1997, p. 13). L’addizione compatta di migliaia di edifici di abitazione non rappresenta più la sola forma e il solo spazio ur-bano: la fitta rete di autostrade, superstrade, tangenziali, viadotti, svincoli, assi attrezzati stringe attorno ai nuclei urbani un territorio non più agricolo, ma già postindustriale, solcato in profondità dalla tecnologia. Anche là dove la campagna conserva tutti i segni della natura, essa è ormai oggetto di insediamenti e di forme spaziali organizzate, funzionalmente comprese nel sistema urbano-metropolitano: le cascine o le fattorie che diventano centri agrituristici, mescolando magari cavalli (reintrodotti in un’economia agricola meccanizzata), colture biologiche e vasche da bagno con idromassaggio; castelli e conventi che diventano alberghi di lusso o sedi prestigiose per convegni manageriali o di partito; interi paesi che diventano “albergo”, ambienti di particolare valore naturalistico e/o paesaggistico che diventano parchi nazionali o regionali, artificializzandosi (con percorsi guidati, supporti audiovisivi o di animazione, ecc.).

Siamo quindi in presenza di un vero e proprio processo di esportazione dell’urbano verso il non-urbano. Sembra sempre più astratto contrapporre alla città il vecchio concetto di campagna (secondo quel modello dualistico di divisione del lavoro proposto dalla teoria marxista della società e ripreso dalla sociologia classica). Infatti, il successo dell’urbano ha destrutturato il mondo territoriale, architettonico, economico, sociale che in passato era esterno - ed estraneo - alla città: al tentativo di reintrodurre la campagna nella città attraverso l’acquisizione di nuovi grandi spazi verdi e la riqualificazione dei parchi pubblici non si è accompagnato un tentativo in direzione

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contraria. Quando la città si è annessa progressivamente porzioni sempre più vaste di territorio, non sempre è riuscita a trasferirvi le sue qualità urbane; anche quando non si è provocato il degrado delle aree rurali, via via inglobate nella crescita di periferie senza qualità, queste sono state precipitate in una sorta di limbo, dove non sono più campagna e non sono ancora città: forse non lo saranno mai, almeno nel senso compiuto che assume l’immagine a noi familiare di città.

D’altra parte, anche la città vede sbiadire i suoi connotati tradizionali: “Lo spazio contemporaneo dell’abitare propone immagini tanto estranee all’idea di città sedimentata nella coscienza collettiva, quanto aderenti ai nuovi fenomeni sociali e culturali” (v. Ricci, 1996, p. 10). Ciò non impedisce, però, che anche chi è lontano dalla città definisca i suoi orizzonti esistenziali in rapporto costante con essa, magari inventandosi “una città che non esiste da nessuna parte ma continua a trasmettere promesse” (v. Berger e Mohr, 1975; tr. it., p. 23).

Malgrado tutte le incertezze epistemologiche sullo statuto della città e le “dissonanze cognitive” dell’esperienza urbana, il senso comune, al fondo, non è afflitto da molti dubbi. Se domandassimo a chiunque, anche a un bambino, “che cosa è, secondo te, la città?”, ne avremmo risposte pronte e, seppur variamente segnate da entusiasmo o disagio, in larga misura univoche: luci, negozi, folla, movimento, velocità, macchine. La stessa risposta che diede all’inizio del XX secolo il futurismo italiano, anticipando provocatoriamente, in una prospettiva desiderante e apologetica, i primi segnali dello sviluppo metropolitano. Richiamiamo alla memoria i quadri di Giacomo Balla (Velocità d’auto + luce + rumore, 1913), di Umberto Boccioni (La città che sale, 1910-11; La strada che entra nella casa, 1911), del primo Carlo Carrà (Ciò che mi ha detto il tram, 1910-11). Rileggiamo le prime pagine del Manifesto del futurismo pubblicato nel 1909 da Filippo Tommaso Marinetti su “Le Figaro”: “Una città che deve nascere e crescere contemporaneamente alla nuova ideologia del movimento e della macchina. Una città che perde la sua staticità ed è messa in movimento dalle luci, dai tramvai, dai rumori che ne moltiplicano i punti di visione”. Anche se alla nostra coscienza di contemporanei gli elementi esaltati nella visione futurista sono proprio quelli che suscitano maggiore insofferenza, non vi è dubbio che essi forniscano una rappresentazione della città ben radicata nell’immaginario collettivo.

Sembra che la maggior difficoltà nel tentativo di definizione della città nasca dal fatto che la conoscenza di essa si muove su piani diversi: la “città di pietra”, la città costruita, l’organizzazione fisica dello spazio; la “città delle relazioni e degli scambi”, i flussi materiali e immateriali che hanno luogo nello spazio e attraverso lo spazio; la “città percepita”, l’insieme dei segni e dei significati che consentono di comprendere e di descrivere l’esperienza urbana nella sua quotidianità; la “città disegnata”, le invenzioni sociali, tecnologiche, ideologiche, normative che guidano la produzione e il governo dello spazio urbano. Questi diversi piani provocano una pluralità di rappresentazioni e consentono di identificare diversi meccanismi generatori ed evolutivi. La città è “il sistema d’idee, più o meno coerente, di coloro che fanno la città, la disegnano, le danno una struttura o perlomeno aggiungono la loro pietra a quelle del passato” (v. Roncayolo, 1988, p. 105); è “uno stato d’animo, un corpo di costumi e di tradizioni, di atteggiamenti e di sentimenti” (v. Park, 1925, p. 105), ma è anche l’immagine pubblica che gli abitanti della città o coloro che la frequentano si costruiscono, attingendo alla propria esperienza, alle diverse eredità di memorie, componendo e socializzando le percezioni individuali prodotte frammentariamente nella vita quotidiana; la città è il risultato (e, nello stesso tempo, l’incubatrice) di processi produttivi e riproduttivi, del loro successo o della loro crisi; è l’insieme delle tecnologie in essa incorporate (materiali e tecniche di costruzione, trasporti, mezzi di comunicazione, ecc.), il ritmo innovativo che esse sollecitano e i costi di manutenzione che impongono; è infine la quantità e la qualità (la potenza e la forma) di governo urbano, la sua capacità di controllare la varietà sociale, di gestire i conflitti, mantenendo tendenzialmente la città come un sistema aperto e come un laboratorio di cittadinanza.

Naturalmente queste diverse rappresentazioni e questi differenti meccanismi non costituiscono realtà separate, ma si connettono attraverso processi circolari specifici che si aggiungono all’eventuale spessore storico e costruiscono l’identità di ogni città, facendone un unicum.

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È da dire, infine, che “le città rappresentano e in qualche modo prolungano i processi di lunga durata che stanno all’origine della storia europea e che si misurano in molti secoli” (v. Benevolo, 1993, p. 217). Questa “lunga durata” della città entra a far parte di una sorta di inconscio urbano collettivo, naturalizzando un modello di città rispetto al quale ogni mutamento e ogni diversità vengono percepiti come un segno di alterità o come un sintomo di degenerazione. Questo imprinting della città occidentale riguarda anche tutti i territori urbani toccati dalla civilizzazione europea: così che le città del Nuovo Continente o del Terzo Mondo hanno finito con il riprodurne i caratteri e i miti, magari ingrandendone ed esasperandone le contraddizioni. lb. Le trasformazioni della forma e del significato della città. Il secolo appena concluso ha visto una profonda trasformazione della città su tutti i piani, da quello materiale della città di pietra, della distribuzione dei suoi valori fondiari e della sua base produttiva, a quello immateriale del significato della città nell’immaginario collettivo e delle scelte intenzionali nelle analisi, nel disegno e nel governo urbano. Il rapporto tra questi due piani si rivela dialettico o, almeno, asimmetrico e l’urbanistica moderna si è affermata - ed è entrata in crisi - esprimendo appunto l’ambizione di governare ideologicamente e tecnicamente questo rapporto. Tale ambizione ha cercato la sua realizzazione in diversi momenti che sembra opportuno ripercorrere, fosse anche per cogliere, con uno sguardo disincantato, il complesso ruolo che fattori materiali e strategie cognitive e progettuali hanno giocato nella trasformazione della città.

L’intervento di Georges-Eugène Haussmann su Parigi, iniziato nel 1853, può essere considerato l’atto di nascita della moderna urbanistica “amministrata”, con il suo continuo compromesso tra pianificazione urbana “di comando” e iniziativa privata, con i suoi interessi di valorizzazione della rendita fondiaria. Il XX secolo è vissuto ancora per molto tempo sull’eredità haussmanniana, non soltanto perché la pratica dello sventramento, sostenuta da “una retorica tendenziosa che esagera la fatiscenza, l’insalubrità, lo squallore delle parti più antiche della città” (v. Benevolo, 1993, p. 183), prosegue - dopo Bruxelles, Firenze, Vienna, Barcellona - con i più tardi interventi di “risanamento” a Napoli, Roma, Palermo; ma soprattutto perché Haussmann, anticipando la futura egemonia della nuova protagonista della vita cittadina, l’automobile, predisporrà lo spazio urbano alla velocizzazione della mobilità. Non solo: egli troverà il modo di proporre una soluzione dei complessi problemi di una metropoli moderna concepita come un “affare’, concorrenziale nell’ambito degli affari consentiti dalla produzione industriale, e questo modello eserciterà la sua influenza economica in gran parte del Novecento. Con Haussmann nasce l’industria fondiaria, l’alloggio di massa (come di massa sarà l’automobile di Henry Ford); il suolo urbano diventa la materia prima, l’edificio per abitazioni, studi professionali, esercizi commerciali, diventa il prodotto finito: nelle parole di Italo Insolera, “il mercato del prodotto finito coincide con il luogo di esistenza della materia prima” (cit. in Villani, 1987, p. 455).

L’espansione della città diventerà nel XX secolo - per alcuni paesi ancora fino alla crisi degli anni Settanta - il pendant del mito della crescita continua proprio dei paesi industrializzati, provocando l’emergenza critica dei centri storici, la verticalizzazione edilizia, la crescita impetuosa delle periferie, la congestione urbana. Ma il Novecento vedrà anche la reazione delle culture d’avanguardia e dei movimenti collettivi di organizzazione e di rappresentanza degli interessi sociali degli attori più deboli della scena urbana: le classi lavoratrici. A queste reazioni faranno riferimento la nascita del Movimento moderno e quel più variegato fenomeno che ha preso il nome di urbanistica razionalista.

Nel XX secolo si rivela pienamente la crisi della città industriale, risultato di un rapporto conflittuale tra organizzazione produttiva, organizzazione sociale, qualità dell’ambiente costruito e allocazione delle risorse naturali. La città razionalista è in qualche modo la riproposizione nel mondo industrializzato del ruolo aristotelico della città come strumento per raggiungere la perfezione dell’esistenza umana.

Il razionalismo è stato portatore di una forte convinzione, quella che la scienza (e le diverse

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prospettive disciplinari scientificamente utilizzabili, dalla biologia alla psicologia, alla sociologia), la tecnologia, l’attività normativa e pianificatrice delle istituzioni pubbliche potessero avere la meglio sulle condizioni di disordine proprie del processo di crescita urbana.

Nel Movimento moderno confluiscono diverse spinte: esso “coglie con estrema tempestività il momento in cui le molteplici fila da annodare sono aperte e disponibili: l’esaurimento della ricerca pittorica postcubista, il desiderio di una nuova integrazione di valori dopo la tragedia della Prima guerra mondiale, i grandi programmi di ricostruzione del dopoguerra, l’inizio di una comprensione scientifica dei comportamenti individuali e collettivi” (v. Benevolo, 1993, p. 102). Ma coglie anche l’istanza di riconciliazione tra arte e industria di cui si era fatto testimone attivo William Morris e che Victor Horta e Henry van de Velde avevano concretamente tradotto - con 1’Art nouveau - in progetto architettonico a Bruxelles, la capitale del paese più industrializzato d’Europa a cavallo tra i due secoli.

Il terreno culturale del Movimento moderno è preparato anche dalla riflessione sociologica sulla città, da Georg Simmel, che nel 1903 pubblica Die Grosstadt und das Geistesleben, a Max Weber (Die Stadt, 1920), a Robert E. Park, Ernest W. Burgess e Roderick D. McKenzie, che nel 1925 pubblicano The city, in cui vengono sviluppati i principi della teoria sociologica della città.

Sul piano più specificamente architettonico e urbanistico il Movimento moderno esprime la sua più forte presenza nel periodo tra le due guerre mondiali, e precisamente tra il 1929, anno in cui venne fondato il CIAM (Congrès International d’Architecture Moderne) e il 1933, anno del suo quarto congresso, le cui conclusioni - elaborate da Le Corbusier nella Carta d’Atene - costituiranno negli anni successivi, forse proprio per la forza suggestiva assicurata dalla loro schematicità e astrattezza, il riferimento fondamentale della cultura urbanistica. Il Movimento avrà vita breve, ma lascerà una profonda impronta nella cultura europea (e non soltanto europea) della città; dal Bauhaus di Walter Gropius, che costituisce in qualche misura l’incubatrice del movimento, usciranno le più straordinarie “firme” dell’architettura del secolo: Ludwig Mies van der Rohe, Le Corbusier, Alvar Aalto. L’utopia dell’urbanistica razionalista si esprime nel tentativo di coniugare le qualità dell’ambiente naturale (o naturalizzato) e la qualità del costruito - reintroducendovi a varie scale l’invenzione artistica - di creare spazi urbani che siano visibili secondo modalità di appartenenza aperte a tutti, di promuovere, attraverso nuove forme e modi di edificazione e di integrazione tra residenza e servizi, uno stato di socialità più avanzato e più coerente con le promesse di uno Stato sociale sempre più sviluppato. Da qui diverse opzioni, dalla garden-city alla Ville radieuse, dalla new town ai quartieri CEP italiani, ma anche realizzazioni diverse a seconda degli ordinamenti normativi e dei sistemi politici ed economici. A puntuale dimostrazione che le soluzioni tecniche non sono mai neutrali, l’urbanistica razionalista troverà accoglienza, assumendo forme diverse, nel regime sovietico o nei regimi fascisti e nazisti. Anche nei regimi democratici occidentali si realizzerà efficacemente, ma soltanto in quei paesi in cui un più avanzato ordinamento dei suoli - eliminando l’ostacolo dei confini di proprietà e la pressione della rendita fondiaria - ha consentito una equilibrata divisione del lavoro tra l’amministrazione pubblica e gli operatori privati.

Perché entra in crisi - a partire dagli anni Settanta - l’urbanistica razionalista? Perché si rivela progressivamente inefficace il progetto di modernizzazione fordista cui essa era ancora implicitamente ispirata, sia pure attraverso la traduzione keynesiana, socialdemocratica, assistenzialista. La grande industria manifatturiera e di base esce fuori dalla città e da gran parte del territorio urbanizzato, si deverticalizza, si smaterializza; l’economia, almeno nei paesi svi-luppati, si terziarizza sempre di più, spostando il suo asse centrale verso i servizi, l’informazione, la ricerca, la promozione e la diffusione delle innovazioni tecnologiche. Una molteplicità di nuovi attori economici, piccoli secondo le dimensioni tradizionali, ma forti e aggressivi nel know how, nelle strategie globali di marketing, nell’approvvigionamento finanziario, occupa porzioni sempre più estese del mercato, portando con sé una cultura di rinnovata egemonia del privato. Le conseguenze si sono avvertite anche nella drastica riduzione del ruolo della pianificazione urbana: il

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governo Thatcher abolirà nel 1985 le forme di governo metropolitano che pure avevano assicurato all’esperienza inglese di pianificazione su scala metropolitana-regionale una funzione pilota.

Un secondo fattore di crisi matura negli stessi ambienti tecnici e scientifici, con la constatazione che la complessità e l’elevato dinamismo della società postindustriale “avevano raggiunto ormai livelli tali da frustrare ogni velleità di controllo e regolazione centralizzati, ogni possibilità di previsione e pianificazione razionale e comprensiva” (v. Strassoldo, 1998, p. 50).

Infine, peserà sull’urbanistica razionalista il generalizzato clima di sfiducia sulla razionalità scientifica che comincia a permeare il mondo occidentale, principalmente con la crisi dei regimi socialisti e con l’esplosione della questione ambientale.

Alla fine del XX secolo si afferma così un nuovo movimento di idee, ma anche di realizzazioni concrete, destinato a mutare ancora una volta realtà e immagine della città, un movimento che si definisce, con una semplificazione semantica, “postmoderno”. Esso non nasce però come pura negazione del moderno, poiché è stato preceduto e preparato dalle culture metropolitane degli ultimi vent’anni: nei significanti elettronici del cinema, della televisione, dei video, dei megaconcerti; nella moda e negli stili giovanili, in tutti quei suoni e immagini che ogni giorno vengono missati in quella sorta di schermo gigante che la città è ormai diventata.

Stiamo vivendo un cambiamento radicale: “Il principio del piacere sta prendendo il posto di quello dell’utilità che aveva segnato l’esperienza urbana per almeno centocinquanta anni [...] colpendo al cuore i principi fondamentalmente ascetici e puritani del CIAM e del razionalismo” (v. Amendola, 1998, p. 42); a condizione, però, di sottolineare che nel postmoderno il “piacere” finisce con il produrre nuova “utilità” e, conseguentemente, nuova competizione e nuovi conflitti.

È proprio nell’ambito dell’architettura che il concetto di postmoderno ha fatto le sue prime prove, diffondendosi poi in altri universi del sapere e del fare. Nella città postmoderna l’architettura-chiave non è più quella tradizionale delle grandi istituzioni civili e religiose, dei grandi santuari del commercio e della finanza (le banche, la borsa, ecc.): estese attrezzature espositive e museali, centri direzionali, aerostazioni, centri commerciali, stadi sportivi, macrostrutture alberghiere, città della scienza risaltano per dimensioni, originalità e qualità formali, per soluzioni tecnologiche innovative, imponendosi come le cattedrali di una nuova religione, quella del marketing urbano. “I luoghi più caratteristici dell’architettura e urbanistica postmoderna possono essere raggruppati in tre grandi categorie. La prima comprende le nuove città del tempo libero e del divertimento; la seconda le cattedrali del consumo materiale e culturale, la terza i vecchi centri storici rinnovati” (v. Strassoldo, 1998, p. 59). A volte l’architettura si misura con una distribuzione specialistica dei luoghi rispetto alle tre categorie-funzioni; più spesso deve rispondere alle esigenze di concentrazione nello stesso luogo di più funzioni (rafforzando la capacità competitiva della città), magari attraverso simulazioni della funzione assente o riconversione accelerata e fantasiosa di preesistenze fisiche ed economiche verso le nuove funzioni.

L’architettura postmoderna esprime la volontà di usare le tradizioni e gli stili del passato, ma, con un grande eclettismo stilistico, riscopre il valore dell’ornamento e ricorre ai colori anche più inusuali, ostenta la propria fragilità e precarietà, cerca di coinvolgere l’intero apparato sensoriale degli abitanti e dei visitatori facendone degli “spettatori”.

Sotto l’espressione di città postmoderna sembra intessersi un patchwork di sensazioni, di immagini, di punte tecnologiche, di nuovi prodotti e di nuovi consumi urbani che affascina, ma nello stesso tempo si rivela tanto sfuggente quanto privo di qualsiasi logica organizzativa.

Ma forse è proprio questo il “possibile” della città contemporanea, una possibilità di destino metropolitano che ci offre l’ipotesi di un’ulteriore trasformazione dell’urbano.

1c. Tra città e urbano: è già metropoli. Partiamo dall’etimo di metropoli, città-madre, dal quale si potrebbero ricavare, seguendo le suggestioni di una improbabile “sociologia della maternità”, le sue vocazioni contraddittorie. Insieme captativa e oblativa, la metropoli attira e cattura risorse demografiche, economiche,

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tecnologiche, culturali; ma dal suo cuore pulsante, dal suo ventre fertile fluiscono fiumi di vita: idee, immagini, nuovi stili di comportamento, innovazioni tecniche, mode, progetti politici destinati a fecondare territori sempre più estesi. Grande parassita e grande nutrice, la metropoli offre rispo-ste molteplici e mutevoli ai bisogni individuali e collettivi ed è perciò di volta in volta, dagli uni o dagli altri, amata e odiata, desiderata e temuta. D’altra parte è proprio il suo volto cangiante ad aiutare l’uomo metropolitano ad accettare il vortice di mutamenti nel quale è sempre coinvolto, a farsi esso stesso mobile nella residenza, nel lavoro, nei consumi, nella cerchia delle relazioni sociali per affrontare più facilmente la situazione di instabilità e di insicurezza nella quale la Grande Madre lo sfida a vivere. Secondo le anticipatrici osservazioni di Simmel, i tanti stimoli proposti dal gran numero di individui e di gruppi sociali con cui viene a contatto l’individuo urbano, provocano in lui la progressiva formazione di una co-razza di distacco intellettuale che lo conduce ad accettare l’instabilità e l’insicurezza generale.

Così come non è facile definire la città, altrettanto difficile da definire è la metropoli; anche perché il problema della città metropolitana è affrontato spesso con le categorie mentali del passato (città e campagna, urbano e suburbano, ecc.). Non troviamo la metropoli se continuiamo a cercarvi i “luoghi centrali”, i luoghi dello “stare” e dello “struscio”, le piazze-simbolo dell’identità storica e dei modi antichi dell’aggregazione sociale, i negozi opulenti e ben allineati, le vetrine allestite con gusto a tipizzare una strada o un quartiere. La metropoli costituisce una radicale discontinuità rispetto alla forma-città della società moderna.

Non soltanto il senso comune, ma anche la riflessione teorica tende a privilegiare la dimensione quantitativa individuando la metropoli soprattutto attraverso la variabile demografica. La soglia demografica di una metropoli è fissata convenzionalmente tra 1 e 1,5 milioni di abitanti, un numero, però, che sembra soltanto un indicatore simbolico e che non tiene conto dell’organizzazione urbanistica e del moltiplicatore tecnologico. Rimane certamente evidente che la metropoli rappresenta la più recente configurazione del fenomeno di concentrazione urbana così come esso si è venuto sviluppando sia nei paesi industrializzati, sia nelle società sottosviluppate più popolose e colpite traumaticamente dalla rottura degli equilibri economici tradizionali. La fine del XIX secolo inaugura, nel mondo occidentale, l’epoca della million city che, nei paesi più intensamente industrializzati e terziarizzati, perverrà alla formazione di aggregati urbani di molti milioni di abitanti o a “sistemi metripolitani”, costituiti da un tessuto urbano esteso a volte senza soluzione di continuità (si pensi a Los Angeles) in cui risiedono decine di milioni di abitanti e in cui appaiono ambigui i confini tra metropoli e area metropolitana. L’effetto di trascinamento della concentrazione metropolitana si è verificato a livello globale in tutti i continenti, travolgendo nel suo concretizzarsi ogni ipotesi sulle condizioni che l’avrebbero potuto favorire o, al contrario, ostacolare. La disomogeneità di condizioni sociali ed economiche, la preesistenza di vocazioni storiche dell’organizzazione del territorio, la diversificazione di ambienti culturali non impediscono l’affermarsi di una tendenza univoca al trionfo della metropoli. Tra città e metropoli non c’è soltanto una differenza di quantità, ma anche di qualità: “stare” e “attraversare” costituiscono gli attributi dell’una e dell’altra e corrispondono a una forma di vita, se non, addirittura, a una forma di pensiero.

La concentrazione demografica urbana è, però, soltanto uno dei fattori caratterizzanti della metropoli; infatti, se proviamo a privilegiare il grado di apertura verso l’esterno, l’internazionalità, troviamo città medie o piccole come Montecarlo, Las Vegas o Venezia che svolgono una pluralità di funzioni urbane od offrono servizi rari e che sono, quindi, manifestazioni di globalità quanto o più di una metropoli di molti milioni di abitanti. “La metropoli [...] nasce [...] dalla società industriale e dalle innovazioni tecnologiche che modificano la forma e la struttura urbana, influenzano il mercato, incidono sulla struttura sociale, provocano interdipendenze tra attività, gruppi, funzioni. Non è soltanto la dimensione fisica, ossia la disposizione spaziale e la densità della popolazione, a distinguere la metropoli di oggi, ma una complessa serie di fenomeni che investono tra l’altro la produzione, i servizi, i modelli culturali e le relazioni dei soggetti nello spazio” (v. Elia, 1993, p. 24).

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La trasformazione metropolitana accompagna flessibilmente il passaggio dalla società industriale alla società postindustriale, inventando nuove soluzioni per rispondere ai bisogni di residenza, di lavoro, di consumo, di tempo libero, di comunicazione. La metropoli contemporanea è segnata da una frattura netta rispetto alla città industriale: “il territorio urbano non è più ordinabile per funzioni corrispondenti a spazi prestabiliti [...] le funzioni fondamentali così come sono state sistematizzate per la città industriale dal Razionalismo [...] non solo non sono più individuabili chiaramente, ma si è creato uno squilibrio interno, dovuto al fatto che le funzioni dell’abitare e del lavorare sono state perifericizzate, mentre quelle del circolare e del ricrearsi hanno acquisito una tale importanza da incidere pesantemente sullo spazio urbano ed extraurbano complessivamente inteso” (v. Mazzette, 1998b, p. 91). Ancora più radicalmente: “In realtà non c’è più territorio per la metropoli. Lo spazio non produce più l’abitare. Bauen, wohnen, denken, costruire, abitare, pensare si dissociano, si contraddicono, si combattono” (v. Tronti, 1998, p. 42). Meno drasticamente si può osservare che all’identità fondata sui luoghi - luoghi dell’abitare, del lavorare, del rappresentarsi - si sostituisce via via un’identità fondata sulle modalità specifiche del proprio consumo; e ogni struttura di localizzazione sfuma nell’urgenza e nella criticità dei problemi di attraversamento, di spostamento, di fruizione dei servizi nei nuovi tempi della quotidianità urbana.

Nel nuovo ciclo capitalistico di produzione/distribuzione, la rete di sostegno della forma urbana è assicurata dal consumo e questo è movimento, variabilità, mutamento, perché implica traffici e traffico. Così “la metropoli nelle sue dimensioni spaziali e temporali è sottoposta a un’alta flessibilità e a processi dinamici in continuo mutamento, non prevedibili e non ordinabili a priori” (v. Mazzette, 1998b).

In questi termini nuovi - così diversi da quell’immagine di città-fabbrica su cui si è attardata una riflessione sociologica di antiche memorie - la metropoli contemporanea contiene ogni possibilità di conflitto e, insieme, di libertà. Il territorio metropolitano è il prodotto continuamente rinnovato dei desideri o dell’indifferenza del vivere di nuove figure sociali; è, nello stesso tempo, la forma spaziale che assume il conflitto tra i diversi percorsi individuali che attraversano la metropoli; è la forma irriducibile della contingenza del presente di fronte al culto delle origini, delle identità storiche che possono essere reinventate secondo tracce e mappature che a esse conferiscono nuovi significati e valori d’uso.

I grandi conflitti antagonistici incubati nella prima città industriale restano sullo sfondo della metropoli contemporanea, occultati, se non rimossi, dalla molteplicità e dalla volubilità dei conflitti che aggrediscono il tessuto sociale, incapaci di lacerarlo irrimediabilmente, ma al contempo non più governati da quel patto tra politica e spazio che aveva fondato la città come luogo della “legge” e della “conmenzione”: nella metropoli postmoderna il noto aforisma citato da Weber, “L’aria della città rende liberi”, sembra assai lontano o, almeno, va interpretato in termini assai diversi. Metropoli è, nell’epoca posturbana, il regno del solo ‘urbano’ possibile, un urbano che anche sotto il profilo del progetto architettonico, del disegno fisico, ha scambiato la ricerca di senso con la provocazione dei sensi. L’architettura urbana sembra seguire - e vedremo in seguito che ciò rappresenta ben più che un’apparenza - le sorti della moda: abbandona le proprie categorie fondative tradizionali e si ridefinisce continuamente gettando sullo spazio sguardi obliqui e compositi come luci taglienti su un set cinematografico, cercando effetti, anche involontari, nel fantastico, nel visionario, nell’esaltato, nell’irrazionale. Global city (v. Sassen, 1991) e città diffusa come unica “città possibile” (v. Indovina, 1992) appaiono i due fenomeni emergenti dalla dissoluzione della metropoli tradizionale.

Si può dire per la metropoli quello che si è detto per l’urbano, anche se su scala diversa: “Persino la metropoli con il suo skyline prevalentemente verticale, con i suoi eccezionali tetti demografici, con i suoi più elevati coefficienti di occupazione del suolo, si distende su spazi sempre più ampi e abbraccia orizzonti sempre più estesi: fino al punto di generare una nuova forma urbana. L’area metropolitana - delimitata da zone limitrofe, anche extraurbane, collegate e interdipendenti per le

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attività economiche e sociali che in esse si svolgono” (v. Elia, 1993, p. 16). L’area metropolitana condivide con altre forme di città diffusa - la conurbazione, la città-

regione, ecc. - una certa accentuazione della divisione territoriale del lavoro e un certo grado di correlazione tra centri maggiori o minori o di uguale rango. Anche le aree metropolitane si evolvono e si differenziano: la dominanza, quale principio ordinatore di un’area metropolitana, viene sostituita da un più complesso sistema di interazioni tra le parti interne all’area e, in una prospettiva di globalizzazione, tra sistemi metropolitani complessi.

A partire dagli anni Settanta la metropoli si affranca dalla variabile della concentrazione urbana. I nuovi scenari territoriali, caratterizzati dalla diminuzione della fruizione dello spazio e da nuove possibilità di localizzazione del lavoro, della residenza, dei servizi commerciali e delle attrezzature ricreative, mutano profondamente identità e ruolo delle metropoli. “Il nuovo scenario, o quello del futuro prossimo, costituito dalle reti urbane, dalla moltiplicazione dei punti di accesso ai reticoli di comunicazioni e transazioni, dalla crisi dei vecchi fattori di localizzazione, rende la piccola e media città storica un punto privilegiato di accesso tanto ai networks metropolitani e planetari che ai vi-cini luoghi di produzione, di scambio e di tempo libero allocati nel cuore delle grandi città e delle aree metropolitane” (v. Amendola, 1993, p. 32). La metropoli crea effetti dimostrativi; così che in Italia, in Francia, in Germania, in Olanda alcune medie e, a volte, piccole città dotate di urban-appeal , di capitale storico-culturale, a volte anche soltanto appropriatrici monopolistiche di un “evento” globale (v. Sgroi, 1998), si “metropolizzano”, assumono i modelli di vita metropolitana, si organizzano per riprodurre, in scala, funzioni e fascini metropolitani. Questo processo può essere un tentativo intenzionalmente diretto a entrare nella competizione globale o, più semplicemente, la risposta a una domanda di metropoli che i mass media inducono ormai negli abitanti financo dei centri più piccoli, alla ricerca inquieta di una percentuale di “glocal” (una combinazione, dall’alchimia misteriosa e mutevole, di globale e di locale).

Le tecnologie avanzate, quella di “rete” in modo specifico, provocano un ulteriore passo avanti nel ridurre le differenze tra le diverse scale della concentrazione urbana: la piccola città è oggi sempre più programmata con gli stessi mezzi fisici ed elettronici della metropoli. Si potrebbe dire, in conclusione, che il mondo si è fatto metropoli e che fuori di questa condizione ormai rimane poco o nulla.

2. L’egemonia urbana.

2a. Un mondo urbanizzato. La città, intesa come grande agglomerazione demografica, continua a crescere; non è soltanto una crescita in assoluto, resa visibile dai picchi delle megalopoli: infatti è il ritmo di crescita della popolazione urbana (della quota di popolazione residente in centri classificati come urbani) a rivelarsi molto più veloce di quello della popolazione mondiale in complesso. Nel 1955 nel mondo vi erano già 22 grandi città con più di cinque milioni di abitanti ciascuna - senza contare le rispettive aree metropolitane - otto delle quali localizzate nelle regioni economicamente più sviluppate.

Anche se si è già verificato - ed è prevedibile che il fenomeno sarà più accentuato nel prossimo futuro - un rallentamento della crescita demografica complessiva, nel periodo tra il 2001 e il 2005 la popolazione urbana crescerà ancora di 91 milioni. Ma la previsione è probabilmente calcolata per difetto, perché bisogna tener conto che le nuove migrazioni dall’Est e dal Sud del mondo - specialmente quelle in corso nel bacino del Mediterraneo - hanno come loro punto d’approdo le grandi aree metropolitane europee o contribuiscono a rafforzare sistemi urbani in formazione, come nel caso del nordest italiano. Se nel 1975 il 39% della popolazione mondiale viveva in centri urbani, la popolazione urbana - già salita al 45% nel 1995 - nelle aree più sviluppate si attesta ormai intorno al 75%, nelle aree a più lento sviluppo scende al 38%, mentre arriva al 22% nelle aree ancora chiuse nella morsa del sottosviluppo. Alcune proiezioni al 2025 indicano che la popolazione urbana raggiungerà l’83% nei paesi più industrializzati e il 61% in quelli sottosviluppati, con un incremento relativo ben maggiore nel secondo caso, quindi, che nel primo (v. Vallin, 1986).

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Tuttavia, le rilevazioni dell’ONU indicano che il tasso di crescita della popolazione urbana si muove in senso inverso: nei paesi più sviluppati è fermo attorno allo 0,7%, mentre sale rispettivamente al 3,3% e al 5,7% nelle altre due aree indicate.

Le analisi sulla crescita urbana tendono a sottolineare, a volte anche con accenti allarmistici, come la sua esplosione (da cui la definizione di exploding cities) caratterizzi proprio le aree meno sviluppate. “Si valuta che nel mondo nel 1975 fossero 5 le agglomerazioni urbane con più di 10 milioni di abitanti, tre delle quali localizzate nei paesi in via di sviluppo, dove entro il 2015 queste megacittà dovrebbero diventare ben 22, mentre altre 4 (su un totale di 26) dovrebbero essere localizzate nel Nord del mondo” (v. Golini, 1999, p. 118). Nel 1985 la più grande metropoli del mondo era l’agglomerazione Tokyo-Yokohama, con 19 milioni di abitanti, seguita da Shanghai (17 milioni), Città di Messico (16,6 milioni), New York (15,6 milioni) e San Paolo (15,5 milioni). Nel 2000 salgono ai primi posti Città di Messico (con 24,4 milioni) e San Paolo (23,6 milioni). L’elemento che colpisce di più è che le due metropoli avevano già quasi raddoppiato la loro popolazione dal 1970 al 1985, arrivando a triplicarla nel 2000. Agli attuali ritmi di incremento, nel 2025 Città di Messico potrebbe raggiungere i 35 milioni di abitanti.

La letteratura tende a considerare la crescita delle megalopoli nel Terzo Mondo l’effetto della fuga dalle campagne impoverite dalla desertificazione o dal crollo dei prezzi delle materie prime. Ma la spiegazione, pur contenendo molti argomenti condivisibili, non è sufficiente. C’è una ‘promessa’ nella città che esercita un forte richiamo sulla popolazione extraurbana, specialmente sulla componente più dotata di spirito di iniziativa, più giovane, più provvista di risorse soggettive. D’altra parte, ben sappiamo che anche chi è ancora lontano dalla città definisce ormai i suoi orizzonti esistenziali in rapporto costante con essa, magari inventandosi una città che forse non esiste, ma che è un sogno capace di trasmettere promesse e di indurre speranze. Le stesse bidonvilles delle megalopoli del Terzo Mondo - così come certi quartieri degradati delle grandi città europee lo sono stati nel recente passato per gli immigrati dal sud dell’Europa e lo sono, oggi, per i nuovi immigrati delle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo – costituiscono una tappa “pedagogica” per i nuovi inurbati, il mezzo per progredire e assimilare il modo di vita urbano.

Bisogna evitare di associare il fenomeno del gigantismo urbano con il sottosviluppo e con la bassa qualità della vita. E ciò tenendo conto di almeno due variabili: Tokyo, New York, Osaka, Londra, Hong Kong, Los Angeles sono metropoli densamente popolate, ma anche centri di affari di rilievo mondiale. Tra le 21 città del mondo in cui si vive meglio (v. RUR, 1997), le due aree metropolitane di Tokyo e di Osaka si collocano rispettivamente all’undicesimo e tredicesimo posto con un punteggio di 94 (su 100); Dallas e Atlanta, che fanno registrare in questa graduatoria il più alto tasso di incremento demografico (oltre a essere già in partenza città fortemente popolate), si collocano rispettivamente al settimo e quarto posto (con 96 e 98 punti). La possibilità di destini diversi si ritrova anche nelle metropoli congestionate del sottosviluppo: nella graduatoria delle 19 città con il più basso standard di qualità della vita, Città di Messico si mantiene al quarto posto (con un punteggio di 44), mentre Il Cairo si colloca al sesto posto (con un punteggio di 42); non si trovano, quindi, malgrado la loro sovrappopolazione, al fondo della graduatoria.

La prospettiva della globalizzazione induce a inserire nella valutazione delle relazioni tra sovrappopolazione urbana e sviluppo la distinzione tra sistemi di città equilibrati e sistemi di città cosiddette “primaziali”: nei primi le attività produttive e i servizi sono distribuiti tra diverse città; nei secondi, in una città, solitamente la capitale, sono concentrati disordinatamente popolazione, attività economiche e servizi (v. Sassen, 1994). Di consueto i primi tipi di sistemi sono propri dell’Europa occidentale e, in generale, delle aree economicamente sviluppate, mentre l’America Latina, i Caraibi, ampie parti dell’Asia e, in una certa misura, l’Africa sono caratterizzati dalla presenza egemonica o isolata di città primaziali. Lo status di città primaziale è certamente legato alla crescita della popolazione urbana, ma questo legame non può essere inteso in senso deterministico: se rientrano a pieno titolo tra le città primaziali San Paolo, che assorbe il 36% del prodotto nazionale e il 48% del prodotto industriale netto del Brasile, e Santo Domingo, dove ha

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luogo il 70% delle transazioni commerciali e finanziarie e il 56% della produzione industriale della Repubblica Dominicana, New York, viceversa, malgrado sia una delle cinque metropoli più popolate del mondo, non può essere inclusa in questa categoria a causa del carattere multipolare del sistema urbano degli Stati Uniti. Né, d’altra parte, la presenza di città primaziali - tra le quali si annoverano ad esempio anche Tokyo e Londra - può essere considerata un carattere esclusivo dei paesi poco sviluppati.

Infine, un elevato tasso di urbanizzazione non è necessariamente l’esito perverso delle condizioni dei paesi sottosviluppati. “Nel 1985, ad esempio, un paese come l’Argentina aveva un tasso di urbanizzazione dell’84,6 per cento che è molto vicino a quello dei paesi più sviluppati; per contro i tassi di urbanizzazione dell’Algeria (42,6 per cento) e della Nigeria (31 per cento) rinviano a un livello di urbanizzazione piuttosto distante da quello dei paesi sviluppati” (v. Sassen, 1994, p. 48).

Formazione di megalopoli e urbanizzazione del territorio sono, quindi, fenomeni ciascuno indipendente dall’altro e che si collegano piuttosto alle caratteristiche dello Stato nazionale di appartenenza. L’unico aspetto certo è che lo sviluppo economico amplifica il processo di urbanizzazione: da qui la facile previsione che - salvo il verificarsi di eventi catastrofici naturali o umani - l’urbanizzazione del mondo è destinata a proseguire.

Un ultimo elemento da prendere in considerazione nella valutazione del ciclo che attraversa il processo di urbanizzazione riguarda le metropoli del mondo industriale. Si è

rilevata a partire dagli anni Settanta una progressiva deconcentrazione delle aree urbane e metropolitane a proposito della quale si è usato il termine “eurbanizzazione”, accompagnandolo con quello ben più impegnativo di “controurbanizzazione”: in altre parole, contrazione della popolazione residente nelle grandi città e relativa crescita della popolazione in aree non urbane. In effetti il fenomeno rivela una ben più complessa dinamica della trasformazione metropolitana: “La diminuzione della popolazione residente nelle aree centrali dei sistemi urbani e la sua crescita nelle zone periferiche metropolitane o nei comuni esterni sub-metropolitani” (v. Melis e Martinotti, 1998, p. 168). In sostanza, diminuisce la popolazione residente metropolitana, ma nello stesso tempo centinaia di migliaia di famiglie devono adottare - o portare con sé nelle aree dove si trasferiscono - stili di vita metropolitani, riorganizzando radicalmente i meccanismi d’uso del tempo e dello spazio.

C’è da aggiungere, peraltro, che negli ultimi anni - negli anni Novanta - si è verificato al contrario un processo di “riurbanizzazione”, di una parziale ripresa demografica nel nucleo centrale delle aree metropolitane: “la spinta centrifuga e la riurbanizzazione rappresentano due tendenze coesistenti e non necessariamente contraddittorie, legate a diverse convenienze localizzative delle funzioni urbane e a una diversa redistribuzione spaziale dei gruppi sociali” (v. Mela, 1996, p. 174).

Il dubbio che la “fuga dalla città” fosse più un’invenzione letteraria e giornalistica che una realtà è fortemente suggerito dall’esperienza comune della realtà urbana; mai le grandi città ci sono apparse più affollate di uomini e di mezzi, fitte di edifici e di beni. Le ragioni per cui le analisi statistiche rischiano di essere fuorvianti per l’interpretazione del fenomeno dell’urbanizzazione crescente sono state spiegate da Guido Martinotti (v., 1993), secondo il quale la metropoli contemporanea vive con l’apporto di quattro popolazioni diverse: 1) gli abitanti veri e propri, che risiedono nella città, in gran parte vi lavorano e vi trovano i beni e i servizi per i loro bisogni; è questa la popolazione tradizionalmente censita come popolazione ufficiale; 2) i pendolari, soggetti che non risiedono nella città, ma vengono quotidianamente a lavorarvi e fruiscono part-time delle sue opportunità di consumo (trasporti urbani interni, pasti, ecc.); 3) i city users, soggetti che non risiedono né lavorano in città, ma vi fanno riferimento per alcune classi di beni e di servizi da essa offerti; 4) i metropolitan businessmen, segmento di crescente importanza per effetto dei processi di globalizzazione, presente nella città per determinati periodi di tempo, per affari o per congressi scientifici, con domande di ospitalità, di consumo, di svago a elevato standard di qualità. Le ultime tre popolazioni vivono - e fanno vivere - la città in misura non inferiore a quella degli abitanti e sono spesso attori strategici nell’orientarne lo sviluppo e il governo.

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Attraverso tutti questi percorsi cresce l’appartenenza al mondo urbano, un’appartenenza non più siglata dalla fisicità o dalla condizione giuridica e fortemente variegata, che presuppone, richiede, legittima un’offerta urbana largamente diversificata e flessibile.

2b. La città che cambia. “La città è un grande successo dell’uomo: essa oggettivizza il sapere più sofisticato in un

paesaggio fisico di complessità, potenza e splendore straordinari, e contemporaneamente unisce forze sociali capaci delle più stupefacenti innovazioni sociotecniche e politiche. Ma è anche luogo di squallido fallimento esistenziale, parafulmine dello scontento disperato, arena del conflitto sociale e politico. È un luogo misterioso, dove l’inatteso è di casa, pieno di agitazione e di fermento, di libertà, opportunità e alienazione; pieno di passione e repressione, di cosmopolitismo e campanilismo estremi; di violenza, innovazione e reazione. La città capi-talista è l’arena dei massimi disordini sociali e politici, ed è insieme testimonianza monumentale e forza propulsiva nella dialettica dello sviluppo ineguale capitalista” (v. Harvey, 1989; tr. it., p. 266). Pur scontando il ricorso alla retorica marxista, questa frase di Harvey può essere utilizzata come un buon incipit per un’analisi del successo urbano e del suo bilancio - ambivalente come quello di qualsiasi successo - di risultati e di costi. Occorre però entrare nello specifico, identificando i fattori del successo e tracciando, pur se per accenni, una tipologia delle “città di successo”.

Il successo urbano è legato nel mondo contemporaneo a due variabili che possiamo definire rispettivamente “la città che cambia” e “la pluralizzazione dell’offerta urbana”. La città del XX secolo è sottoposta a un tasso di cambiamento ben più accelerato di quanto non sia stato quello a cui da sempre sono stati sottoposti i fenomeni urbani: si tratta di processi spontanei, ma anche di mutamenti intenzionali e governati, la cui misura è rappresentata dalla rapidità, dall’efficacia, dalla potenza moltiplicatrice, ma anche dalla capacità di mantenere un certo rapporto con i sentimenti di appartenenza e di preservare la cultura e l’identità.

Il ritmo di mutamento di molte città contemporanee, di quelle storiche così come di quelle di più recente impianto, contraddice il principio affermato tradizionalmente nelle scuole di architettura che le città siano entità “lente” rispetto all’economia e alla scienza. Non sono soltanto la quantità e la qualità della popolazione, le funzioni, la loro localizzazione nelle diverse aree urbane, le attrezzature tecnologiche a cambiare: cambia anche la città di pietra, nell’estendersi in determinate direzioni, nel rapporto tra spazi pubblici e spazi privati, nel suo prolungarsi verso l’alto o nel suo sprofondare sotto il livello del suolo, e cambia rapidamente anche nelle caratteristiche dei suoi manufatti.

Dentro la città e verso la città si sviluppa un continuo movimento che è anche mutamento continuo delle dimensioni spaziali e temporali della città. Prendiamo un caso limite come Shanghai. Per modernizzarsi (o per “occidentalizzarsi”) la più popolosa città cinese sembra aver ingaggiato una lotta contro il tempo. È un cantiere globale e permanente in cui si demoliscono a tappe forzate e con spregiudicata disinvoltura begli edifici di inizio secolo, sostituendoli con centinaia e centinaia di palazzi alti e moderni, anche se di dubbia qualità. A Shanghai, come in altre città dell’Estremo Oriente, il processo di trasformazione è così rapido che le mappe urbane sono continuamente ristampate e rimangono comunque assai approssimative. Le città in quanto espressione della società e dell’economia sono percepite come beni di consumo e non come documenti della storia, e tanto meno come opere d’arte. Basti pensare che nel centro di Shanghai manca ormai qualsiasi elemento riconoscibile come “cinese” e che recentemente si è arrivati al paradosso di costruirvi una Chinatown con finalità prevalentemente commerciali (ristoranti, sale da tè, antiquari, souvenir, ecc.) in modo da offrire ai turisti qualcosa di coerente con le loro aspettative. Così come accade, al contrario, che in città nuove si recuperi un “passato” storico-artistico appartenente ad altre realtà: a Las Vegas, sulle ceneri del glorioso Hotel Sands, imbottito di dinamite e fatto saltare in aria, è sorta una installazione multifunzionale, The Venetian, completa di giochi acquatici, Canal Grande, Ponte di Rialto e relativi gondolieri d’importazione, mentre già si stanno apprestando le repliche di

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Tour Eiffel, Arc de Triomphe e Opéra. Ma anche Berlino, Londra, Milano, Parigi, Torino hanno mutato o stanno mutando radicalmente il

loro aspetto, non soltanto attraverso la progettazione e la realizzazione di opere architettoniche di grande richiamo, ma riscattando interi patrimoni edilizi e aree urbane: fabbriche dismesse, vecchie e meno vecchie, diventano sale da concerto o spazi espositivi o luoghi di ricerca e di alta formazione; aree industriali sono convertite in zone residenziali; quartieri degradati ricevono nuova popolazione con culture differenziate e più elevato potere d’acquisto.

Intere città vengono sottratte al declino o a un’immagine caratterizzata in senso negativo. Ritorniamo al caso di Las Vegas. Una volta era soltanto una città per giocatori e per turisti in cerca di emozioni forti, tra il gioco d’azzardo e il sesso facile. Intorno alla fine degli anni Ottanta i maggiori azionisti dell’“affare Las Vegas” si resero conto che il gioco d’azzardo, per il progressivo ingresso nel mercato della maggior parte degli altri Stati confederati, non aveva più avvenire e che l’immagine della città era sempre più legata a falliti alcolizzati e a prostitute, come nel film Leaving Las Vegas di Mike Figgis. Partirono così i primi progetti di rinnovamento per trasformare la città del vizio in una vera e propria stazione turistica multidimensionale, rivolta a una più ampia fascia di utenti: famiglie con bambini, pensionati con un certo reddito, professionisti e personaggi importanti. Un progetto ambizioso: la costruzione di 24 mila ap-partamenti l’anno a prezzi concorrenziali rispetto alla vicina California, 125 mila camere d’albergo, servizi offerti a basso costo, spazio e verde a volontà. Las Vegas si sta trasformando in una delle principali metropoli degli Stati Uniti e la sua popolazione è passata dai 200 mila abitanti degli anni Ottanta a circa un milione e duecentomila di oggi, fino alla previsione di oltrepassare i 2 milioni entro il 2005.

Ma anche città più piccole manifestano la volontà di proiettarsi nel futuro, trasformando il proprio volto e dotandosi di nuove funzioni urbane avanzate. Un caso esemplare può essere quello di Lille, situata in una povera regione: una città di appena 180 mila abitanti che, sfruttando la propria collocazione strategica al centro di un territorio sovranazionale (che va da Londra a Bruxelles, da Colonia e dal bacino della Ruhr ad Amsterdam e Rotterdam) dotato di un sistema integrato di trasporti avveniristico e cogliendo l’occasione della propria candidatura alle Olimpiadi del 2004 (assegnate poi ad Atene), si è proiettata nel XXI secolo. A poche centinaia di metri dalla vecchia Lille fiamminga è sorta una città nuova di zecca, Eurolille: 275 mila metri quadrati per un investimento pari a 5,3 miliardi di franchi (per due terzi investiti da privati), una Manhattan in miniatura, una parata di cattedrali high-tech disegnata e realizzata da uno staff internazionale di architetti, coordinato dall’olandese Rem Koolhaas.

Sembra che si faccia strada nel mondo urbano europeo - pur con le differenze imposte dalla presenza in molte città di estesi centri storici ricchi di memoria e di arte - qualcosa di simile alla tendenza propria a molte città degli Stati Uniti di rinnovare periodicamente il proprio patrimonio edilizio, cambiandone il design, ma anche facendo ricorso, come in qualsiasi industria, alla ricerca e all’utilizzazione di nuovi materiali e di nuove tecnologie. A volte il cambiamento può consistere soltanto in una più attenta manutenzione o in interventi di abbellimento che, però, se accompagnati dall’accorta azione di un’amministrazione capace di dare e produrre fiducia, come nel caso di Napoli, promuovono un nuovo clima che può sostenere l’impulso al mutamento della città.

La città contemporanea è una realtà composita che offre tanto ai suoi abitanti come ai suoi utilizzatori molti volti, molti processi, differenti forme di vita urbana. Ciò avviene non soltanto in una metropoli scissa tra occidentalizzazione esasperata e persistente peso delle tradizioni come Tokyo, in cui basta addentrarsi in una stradina dietro i grattacieli tutto vetro e alle sopraelevate dal sofisticatissimo di segno architettonico per ritrovare case di legno a due piani, botteghe, venditori ambulanti di patate dolci, ecc. Anche città come Parigi offrono luoghi che hanno forme e fruitori diversi: dai luoghi consacrati dal turismo di massa (Champs-Élysées e Montmartre) alla rassicurante quotidianità di Place de Vosges, al futuribile della Defense, fino all’intensità relazionale della Belleville immaginata da Daniel Pennac e dei quartieri in trasformazione al di là della

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Bastille descritti nel film Chacun cherche son chat di Cédric Klapitsch. Ma anche la “Grande Mela” ci offre una realtà variegata nelle forme edificate e negli stili di vita, dal cuore della Fifth Avenue al Greenwich Village, alla Brooklyn plurietnica, eppure ancora capace di conservare una forte identità, così come ci viene proposta dai film di Wayne Wang e Paul Auster (Smoke e Blue in the face). Questi ultimi due documenti della fantasia rilevano con l’intuizione dell’arte un microcosmo di interazioni calde tra le due popolazioni di un quartiere metropolitano, gli “attraversanti’ e gli abitanti, non indifferenti gli uni agli altri, ma anzi capaci di venire in contatto e di riconoscersi con le loro diversità, con i tic dei loro atteggiamenti e dei loro comportamenti, facendo di essi - anche se per un momento - comuni abitanti del villaggio metropolitano.

Regioni di ribalta e regioni di retroscena (v. Goffman, 1956), luoghi ad alta e a bassa vitalità (v. De Carlo, 1995), luoghi di quiete quasi provinciale e luoghi di frenetica e convulsa attività si succedono nello stesso tessuto metropolitano e, spesso, si scambiano ruoli e funzioni. Via via che i soggetti urbani, vecchi e nuovi, modificano i loro linguaggi, questi modificano le forme urbane; nello stesso tempo i vincoli fisici o le risorse spaziali emergenti dalla crescita e dalla trasformazione urbana mutano comportamenti e stili di vita urbani in un continuo processo circolare.

2c. I fattori del successo urbano. Il fattore di successo per una città e, ancor di più, per una metropoli, è la qualità, sia del prodotto-città e della sua immagine, sia del governo locale, ma anche la capacità di accettare la sfida della globalizzazione, di entrare cioè come partner attivo ed efficace in una rete urbana, in un club di città in cui interagiscono virtuosamente relazioni competitive e cooperative.

Ragionare in termini di prodotto-città (e, quindi, in termini di marketing urbano) è coerente con il modello di città-impresa imposto dalla competizione globale, perché è quello che esalta le componenti e le potenzialità spaziali e contenutistiche del fenomeno urbano in un processo espansivo aperto, nel confronto senza confini proprio di un’impresa. La qualità del prodotto-città ne fa un luogo strategicamente vincente: per la localizzazione, in forme diverse, di élites internazionali, di determinate imprese e servizi high-tech, di istituzioni e impianti di rango nazionale e sovranazionale capaci di produrre ricchezza e lavoro, di attirare intelligenze e generare conoscenze; per la produzione di eventi che richiamino flussi di visitatori e trasmettano immagini e messaggi di eccezionalità; ma anche per garantire qualità della vita ai suoi abitanti e utenti e per promuoverne identità e patriottismo civico.

Il sogno della qualità urbana sarebbe quello di ottenere, secondo la felice sintesi di Colin Rowe, una città in cui ci fosse un centro storico europeo, ricco di valori estetici storicamente consolidati, e una grande periferia nordamericana, linda, efficientissima e funzionale. Rimane un sogno sia per le città nordamericane, che hanno assunto con ottimistica baldanza il carattere simulativo della società postmoderna, ricostruendo, con la logica del souvenir del turismo di massa, pezzi di storia monumentale e architettonica importati dall’Europa, sia per molte città europee, che non riescono a sottrarre le loro periferie a uno stile architettonico anonimo e sciatto, quando non le abbandonano a un destino di degrado. Ma, al di là dei sogni, l’accresciuta at-tenzione all’estetica della città è una realtà che si impone con evidenza.

La città del XIX secolo e di buona metà del XX doveva essere funzionale, rispondere a criteri di utilità nella localizzazione delle funzioni e nella solidità del suo patrimonio edilizio; poteva anche essere bella, ma questo requisito rimaneva un effetto secondario. Oggi, al contrario, la città postmoderna si misura attraverso la sua capacità di rispondere a una “domanda di bellezza” (v. Amendola, 1997) ancora tutta da esplorare nel suo contenuto sostanziale, nella tipologia e nella capacità dei cittadini di rispecchiarsi nel “bello urbano”, ma anche nelle alterazioni provocate sulla domanda dalle concrete manifestazioni dell’offerta urbana così come determinate dai poteri del mercato e delle ideologie. “La voga, la voglia di inserire ‘arte’, ‘attrazioni artistiche’, eventi, lusinghe e distrazioni estetiche negli spazi urbani è un complemento dell’aspirazione

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contemporanea a recuperare vita, ambienti e funzioni della città: cioè a ricostruire modelli di convivenza, vagheggiati da un generico senso comune, in siti dall’aspetto gradevole” (v. Fabbri e Greco, 1995, p. 7).

La “estetizzazione” della città supera la tradizionale distinzione tra città dal cuore antico e città pulsanti proposte dal nuovo urbanesimo, tra città d’arte e città delle funzioni. In ogni città opera un “sindaco Chirac” che azzarda un restyling dei monumenti e della grande edilizia civile e reli-giosa inventando colori e scolorimenti adatti a migliorarne la “confezione”; l’arredo urbano diffuso richiama abitanti sulle strade e sulle piazze, anche là dove le condizioni meteorologiche sono mediamente sfavorevoli (Stoccolma) o recuperando luoghi alla socializzazione intergenerazionale (il progetto “Centopiazze” a Roma); cresce l’attenzione alla tutela, al restauro e alla valorizzazione dei centri storici, visti nella loro unità, superando, cioè, la concentrazione estetica sul singolo episodio artistico-monumentale che dominava nel passato; il patrimonio museale viene ricollocato al centro dell’offerta urbana, non soltanto aprendolo con supporti logistici e tecnologici a una fruizione più ampia, articolata e flessibile, ma anche progettando via via nuovi “contenitori” dotati di attrattiva estetica propria; una molteplicità di artisti, oscillando tra l’happening urbano (gli impacchettamenti di Christo) e la land art, distribuiscono oggetti e avvenimenti estetici negli spazi della città.

Nelle città storiche della vecchia Europa le vie dell’estetizzazione dell’ambiente urbano possono diversificarsi da realtà di più recente urbanizzazione come quelle del Nordamerica e dell’Estremo Oriente. In queste ultime la ricerca artistico-monumentale si verticalizza, dando luogo alla tipologia edilizia e architettonica del grattacielo, testimonianza enfatizzata della modernità, connubio, a volte felice, di ricerca formale e di tecnologia, simbolo di potenza e di storia che rinnova l’ambizione che nelle città dell’Italia medievale spingeva le grandi famiglie a costruire torri sempre più alte per affermare il prestigio del proprio casato.

Come immaginare Manhattan senza il profilo dell’Empire State Building e delle Twin Towers, spazio emozionale non per nulla destinato a innovare il motivo del paesaggio nella pittura americana (Georgia O’Keeffe, Thurman Rotan)? Ed è l’Asia a raccogliere il testimone della speri-mentazione dell’architettura verticale in una rincorsa ambiziosa che con le Torri Petronas in Malaysia - 450 metri di altezza e ricettività per 60 mila persone - si lasciano dietro il più alto grattacielo americano, la Torre Sears di Chicago (443 metri), mentre Tokyo progetta la Torre Millennium che con i suoi 840 metri - se e quando sarà realizzata - conquisterà il primato .e aggiungerà un altro segno di eccezionalità al volto multiforme della metropoli nipponica.

E intanto matura una nuova generazione di grattacieli, sottoposti a nuove, originali tensioni e a nuovi trattamenti di materiali, per opera di Philip Johnson, di Helmut Jahn, di Michael Graves. Il grattacielo, con le sue lisce superfici vetrate che riflettono il cielo e, nel gioco della luce, le forme mutevoli degli spazi costruiti circostanti, si propone come segnale concreto ed emozionante di una città utopica, fatta di libertà creativa, di onnipotente artifizio che manipola illimitatamente lo spazio. Anche le città europee, che per i vincoli posti dal tessuto urbano storico - oltre che per le caratteristiche produttive e commerciali dell’industria della costruzione - non possono certamente riprodurre la struttura serrata e continua dell’architettura verticale delle città americane, sembrano d’altra parte non saper rinunciare al messaggio architettonico che il grattacielo trasmette; ogni grande città europea vi paga il suo tributo, costruendosi il suo simbolico grattacielo.

L’estetizzazione della città ha due esiti estremi che pure, malgrado le reazioni critiche che hanno provocato e continuano a provocare, finiscono con il concorrere al successo urbano. Da una parte tale processo si accompagna con lo sviluppo della signature architecture: molti nuovi manu-fatti urbani, quelli di maggior impegno progettuale e di maggior impatto visivo, sono caratterizzati dalla “firma” che conferisce valore aggiunto a un edificio esattamente come a un abito o a un paio di jeans, a un’automobile come a un profumo. Sono opere che, quale che sia la loro destinazione ufficiale, sembrano realizzate non per un luogo, non per una funzione, ma per essere visitate, fotografate, raccontate. Ad Amsterdam Renzo Piano ha progettato un museo della scienza in forma di nave; a Parigi, Ieoh Ming Pei ha scherzato sul “Louvre-santuario” con

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l’elegante sberleffo di una piramide trasparente e Gae Aulenti con un colpo da fantasiosa illusionista ha trasformato la vecchia Gare d’Orsay in un museo. Più che il prodotto, è la firma a fare la differenza e ad attirare l’attenzione del turista: può sembrare un paradosso, ma è probabile che nell’immediato futuro si vada ad Amsterdam come a Bilbao o a Berlino per conoscere l’ultima moda dell’architettura o dell’urbanistica più che per cogliere il genius loci della città. D’altra parte, la tendenza alla delocalizzazione dell’opera architettonica avanza sempre di più: nel quartiere Schtitzenstrasse di Berlino, nell’area una volta attraversata dal muro, Aldo Rossi, l’architetto italiano recentemente scomparso, ha realizzato un falso d’autore (di gran pregio estetico, certamente) che ci spiazza perché ci rende difficile capire se siamo a New York o a Disneyland o nel Rinascimento romano.

L’altro effetto è la spettacolarizzazione della città. Si parla a questo proposito di una ‘disneylandizzazione’ dell’architettura urbana (v. Zukin, 1995). “Disneyland è un modello perfetto e insuperato non per il suo carattere di straordinario e grandioso parco-gioco, ma per la sua logica totalizzante fondata sulla prevedibilità, sulla coerenza e sulla comprensibilità grazie alle grammatiche e ai codici provenienti dal consolidato mondo dei media e dell’immaginario che permettono alla pluralità dei pubblici, da cui è composta la cosiddetta massa, di vivere l’esperienza del parco” (v. Amendola, 1997, p. 140). È curioso notare che, così come nelle Disneyland si riproducono luoghi e situazioni delle città di grande tradizione storica e artistica, anche le città storiche o d’arte sono indotte a “pensare’ se stesse secondo una lettura massmediologica, trasformandosi di fatto in giganteschi musei o addirittura in parchi dei divertimenti o in centri commerciali globali. Ma la città moderna non gioca soltanto con i parchi tematici. Ispirandosi alla poetica della pop art e manovrando la leva dell’esibizionismo tecnologico, l’architettura americana ha introdotto nel disegno della città caratteri affabulatori e parodistici. L’influenza è andata ben oltre i confini della realtà urbana metropolitana. Se l’Illinois ospita la casa a forma di hot dog di Stanley Tigerman, la piazza del Beaubourg vede contrapporsi i mostri “patafisici” di Niki de St. Phalle alle strutture “macchiniste” del Centro Pompidou; Claes Oldenburg progetta negli Stati Uniti giganteschi edifici a forma di molletta o di forbice e piazza nel parterre de La Villette, a Parigi, la sua bicyclette ensevelie, mentre Jean Dubuffet distribuisce le sue sagome traforate a Parigi come a New York e a Chicago.

È una sorta di trionfante marinismo che applica la poetica della meraviglia al territorio urbano. E la meraviglia si vende, e bene. Non per nulla si va sviluppando impetuosamente il turismo urbano che porta città come Londra e New York in cima alla graduatoria dei luoghi più visitati; non per nulla il turismo dilaga in tutte le direzioni alla ricerca di tutte quelle esperienze che possono produrre emozioni (o, soltanto, essere trendy) e che passano ormai soprattutto attraverso le realtà metropolitane.

Queste considerazioni ci guidano verso un altro fattore di successo, la capacità della città postmoderna di produrre eventi: “la produzione di città è una produzione di eventi, di cui l’architettura, la modellazione dello spazio fisico forma parte integrante ed è manifestazione sensibile: ma sono gli eventi quelli che contano” (v. Fabbri e Greco, 1995, p. 58). È nella città che, per definizione, “accadono le cose”. Se attraverso il suo patrimonio simbolico, materiale e immateriale, la città si rappresenta, attraverso gli eventi la città si racconta. La produzione di eventi culturali, artistici, sportivi, religiosi, esplicitamente ricreativi - siano essi in qualche modo “incardinati” a una città (il Giubileo per Roma), o “catturati” dalla città (le Olimpiadi o i Mondiali di calcio), oppure “inventati” (Expo, grandi mostre capaci di presentarsi come epocali) - si annuncia enfaticamente, trasmette messaggi di forte impatto emotivo, induce il bisogno di esserci, attrae, quindi, centinaia di migliaia, milioni di visitatori nelle città che li ospitano. E, così, produce effetti e ottiene ritorni sul piano dell’aggregazione sociale, pur provvisoria, sul piano economico, sul piano della riorganizzazione e del restyling delle strutture urbane, soprattutto nell’immagine forte che la città attraverso l’evento rinvia a tutto il mondo. E, alla fine, è la stessa città, la metropoli, a farsi evento, “evento totale”: Londra, New York, Parigi, nel prossimo futuro forse la stessa nuova Berlino, rappresentano nell’immaginario collettivo una sorta di grande evento

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permanente di cui è necessario essere o sentirsi - per un giorno, per una settimana, per una volta o per tutte le volte che potremo tornarci - ‘cittadini’, tributandone il successo con il farne una sorta di patria sia pur provvisoria.

Un terzo fattore di successo va ricercato nel ruolo produttivo della città. La crisi della città industriale aveva provocato molte incertezze sul futuro economico delle città e in particolare delle metropoli. Ma la forte spinta verso l’economia immateriale sta assicurando nuove prospettive alla città. Il processo di globalizzazione crea interdipendenze tra le diverse economie locali, promuove lo sviluppo di imprese transnazionali, modifica radicalmente gli assetti del mercato del lavoro. Questi processi esaltano il ruolo di quelle città che presidiano i crocevia dell’economia mondiale, le città globali, le quali conservano o accrescono il proprio peso economico attraverso il controllo delle reti di informazione e di comunicazione.

Accanto alle città globali, dotate di un ruolo strategico di controllo e di innovazione nell’economia del terziario avanzato, si collocano città, magari di dimensioni meno estese, che esercitano la loro globalità attraverso funzioni più specializzate, ma che proprio per questo si propongono come obiettivo a livello mondiale. E il caso delle città turistiche. Infatti, il turismo è un’istituzione “universalizzante” che conferisce senso alla vita e propone una nuova scansione allo spazio-tempo; a esso accedono masse sempre più estese di persone, sottratte dal progressivo innalzamento del tenore di vita alle rigide delimitazioni del loro territorio. Sia le città d’arte sia le città dello svago e degli eventi sono coinvolte dal turismo di massa (e usiamo, finalmente, questa espressione senza valenze negative, ma come possibilità diffusa di accesso alla soddisfazione di bisogni di gratificazione e di autorealizzazione) dentro un sistema di coordinate internazionali in cui l’economia come processo globale ha una forte funzione regolatrice. Il luogo urbano divenuto oggetto di consumo turistico è nello stesso tempo “estero-determinato” e ricomposto nella sua unità e identità a partire proprio dallo sguardo turistico. Anzi, l’identità urbana in quanto tale diventa una risorsa meritevole di offerta, il patrimonio culturale un capitale da contabilizzare, l’etnicità una differenza che consente e rafforza il riconoscimento reciproco. La scommessa della città turistica (come e forse più di ogni altro luogo offerto al turismo) è difficile perché è caratterizzata da un delicato equilibrio tra conservazione e fruizione del patrimonio, tra ricerca di autenticità e offerta serializzata di esperienze omologate o simulate, in definitiva tra l’universalismo dei comportamenti di consumo e il particolarismo del luogo. Nella gestione di questo equilibrio stanno le ragioni del durevole successo di una città turistica.

Un’altra tipologia di città globale con funzioni specialistiche si aggiunge alla lista della nuova economia urbana: la città tecnologica. Ogni città sta diventando in una certa misura una città tecnologica, nel senso che le tecnologie avanzate sono sempre più la cornice all’interno della quale si collocano le attività di servizio, le interazioni tra individui e organizzazioni (città cablate). Ma in questo caso si parla di città che hanno fatto delle tecnologie la risorsa per qualificarsi come milieux innovateurs, aree in cui si assemblano funzioni pregiate di ricerca e di sperimentazione, ma anche incubatrici di nuove potenzialità imprenditrici. Seguendo l’esempio, probabilmente non ancora uguagliato né tanto meno superato, della Silicon Valley, negli Stati Uniti e in altre aree dell’Europa e dell’Asia sono nate città dell’alta tecnologia: Salt Lake City, Seattle, Boston, ma anche Cambridge e Dublino, Sophia-Antipolis in Francia e Helsinki, Xinzhu (Hsinchu) a Taiwan, Singapore, Bangalore e Tel Aviv, pur attraverso percorsi diversi, rappresentano il comune tentativo di non perdere l’appuntamento con il futuro creando uno scambio diretto tra la ricerca per l’innovazione tecnologica e la fertilizzazione del tessuto imprenditoriale, attirando quella che è ormai la materia prima dello sviluppo, l’intelligenza, ma nello stesso tempo garantendo un complesso di servizi e di qualità di vita che promuova un clima di fiducia e di effervescenza intellet-tuale.

La graduatoria delle città metropolitane, ottenuta incrociando volume demografico, capacità produttiva e reddito pro capite, vedeva nel 1990 l’area metropolitana di Tokyo al primo posto con una produzione globale di oltre 800 miliardi di dollari, seguita da New York con oltre 400 miliardi, Parigi con 300 miliardi nella stessa posizione di Osaka e di Los Angeles, infine Londra con 170

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miliardi di dollari. La crisi economico-finanziaria che ha colpito il Giappone e la forte ripresa economica dell’economia statunitense hanno certamente variato in questi ultimi anni le posizioni di queste aree metropolitane, ma i dati, al di là della con giuntura, sottolineano la convergenza tra area metropolitana e capacità produttiva. La globalizzazione determina una profonda ristrutturazione economica e sociale, conferendo un nuovo carattere duale all’economia e al mercato del lavoro urbani. “Da una parte abbiamo la città “quaternaria”, densa di attività produttive sofisticate e complesse ad alto valore aggiunto, con la verticalizzazione del terziario, con la presenza estesa di élites cosmopolite (managers, esperti di finanza, ricercatori scientifici, imprenditori e professionisti dei media, ecc.); dall’altra, abbiamo la città “marginale”, in cui persistono rapporti di produzione precapitalistici (artigianato di servizio, piccola edilizia, basso terziario e commercio ambulante abusivo, spezzoni di agricoltura localistica) e in cui crescono nuove attività economiche di tipo interstiziale o informale, provocate dalla complessità e dalla difficoltà di funzionamento del sistema urbano (dal pony-express ai vigilantes, dai sistemi di vendita “porta a porta” agli interventi di “aiuto sociale” in bilico tra volontariato e lavoro sussidiato)” (v. Sgroi, 1997, p. 94): la maggior parte delle città metropolitane anche nelle società industriali avanzate, mostra un’articolazione composita cui partecipano, in diversa misura da città a città, l’un tipo e l’altro di economia urbana.

Infine, nella valutazione del significato economico della città non bisogna dimenticare che nell’immaginario collettivo la città metropolitana assume le caratteristiche di un supermercato globale in cui si offrono sempre nuovi beni e servizi e tutti i desideri sono appagabili. Sia attraverso i grandi centri commerciali, sia attraverso la trasformazione di certe strade, consacrate tradizionalmente ai consumi di qualità, che creano una sorta di megacentro commerciale diffuso, si sviluppa nelle città una nuova pratica urbana, lo shopping, che, accanto al carattere di comportamento economico che gli è proprio, assume quello di pratica sociale, impiego del tempo libero, occasione di socializzazione. La città del consumo fa suo lo slogan di Harrod’s a Londra - “tutto per tutti dappertutto” - testimoniando la sua funzione di mercato totale. Ma anche attraverso questa sua funzione di capitale del consumo, la metropoli rilancia il suo ruolo competitivo nell’attirare nuovi flussi di utilizzatori.

Nel successo di una città si inserisce anche la capacità di governare il rapporto tra mobilità urbana e fruibilità della città. Un sistema di trasporti integrato e veloce nella città e tra la città e il suo hinterland, il quale - sfruttando una molteplicità di livelli spaziali, dalla metropolitana alle sopraelevate - sottragga larghe aree al traffico automobilistico e le pedonalizzi: con questa formula avviata precocemente (si pensi alla costruzione delle prime linee di metropolitana sotterranea a Londra già nel 1863) alcune metropoli sono riuscite a garantire una certa qualità di vita urbana, pur in presenza di impetuosi processi di crescita.

Le grandi città capaci di raggiungere il successo sono i luoghi dove meglio sembra realizzarsi la promessa urbana, quel progetto di vita pubblica che comprende maggiore libertà di pensiero e di azione per i cittadini, un paniere di entitlements, provisions e chances tendenzialmente disponibile per tutti, un’economia più dinamica e diversificata, occasioni più frequenti di comunicazione sociale e un’offerta culturale più ricca e aggiornata.

Ma questo risultato non è il frutto di processi spontanei o delle sole forze di mercato. Il bilancio tra costi e benefici della crescita urbana è diverso da regione a regione, da città a città, perché dipende anche dalla capacità di governare la complessità metropolitana da parte delle istituzioni pubbliche e dei dirigenti politici.

Gli ultimi anni del Novecento sono stati caratterizzati dalla ricerca di nuove forme di governo locale, capaci di affrontare i problemi di una realtà urbana policentrica e di mantenere l’equilibrio tra l’esigenza di decisioni rapide ed efficaci e la necessità di negoziare continuamente tra inte-ressi e bisogni di una realtà sociale sempre più articolata e differenziata. La ricerca di nuove modalità di governo sostanziale dei fenomeni urbani si muove non soltanto attraverso innovazioni legislative, ma anche attraverso nuove pratiche politiche e tecniche. Si rafforzano i poteri esecutivi nel governo municipale. Non soltanto in Italia, ma anche in altri paesi, il ruolo del

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sindaco diviene più visibile e assume nuovi poteri, fino a sfiorare un profilo monocratico che spesso si traduce in manifestazioni improprie, dall’intervento in prima persona nella politica nazionale (il “partito dei sindaci”) all’assunzione della rappresentanza diretta degli interessi metropolitani a livello sovranazionale (nel rapporto con l’Unione Europea o nell’avvio di procedure transnazionali di cooperazione città/città), fino alla tentazione del sindaco-impresario e del sindaco-sceriffo (v. Sgroi, 1997).

La macchina amministrativa municipale ha di recente adottato in Italia una figura professionale già attiva - anche se con un bilancio ancora incerto (v. Golombiewski e Gabris, 1996) - in altri paesi europei e negli Stati Uniti, il city manager, il quale dovrebbe assicurare, nella prospettiva della città-impresa e della sempre crescente ricerca di autonomia dell’amministrazione rispetto alla politica, la capacità strategica di risolvere problemi e di utilizzare in modo efficiente ed efficace le risorse.

Anche sul piano tecnico si affermano nuovi principi, si propongono nuovi strumenti e metodologie per la gestione urbana. La tradizionale cultura della pianificazione urbanistica è in crisi, forse anche perché, come afferma Jean Daniel, il nostro secolo si è caratterizzato essenzialmente per l’incapacità di prevedere e anticipare il futuro: più oggettivamente, perché i nuovi paradigmi adoperati nell’analisi dei processi decisionali hanno portato al riconoscimento della policy come interazione tra soggetti piuttosto che alla contrapposizione tra piano “disegnato” e piano “strategico” (v. Mazza, 1997).

Il 30 maggio del 1998 il Consiglio europeo degli urbanisti, espressione di undici paesi europei, ha approvato la nuova Carta di Atene, che ribalta i principi ispiratori di quella del 1933: essa afferma la necessità di costruire città multifunzionali superando la pianificazione per zone, di re-digere piani urbanistici attenti alla fattibilità economica e ambientale, di aumentare la collaborazione, anche attraverso forme negoziali, tra amministrazioni pubbliche e soggetti privati, di favorire la partecipazione dei cittadini. Questi concetti si erano diffusi in Europa già da molti anni in conseguenza della fallimentare esperienza di pianificazione che aveva coniugato il massimo di autoritarismo e il massimo di impotenza. La nuova Carta d’Atene è una dichiarazione di principi la cui attuazione è ancora tutta da verificare, perché - come sta contemporaneamente avvenendo con la privatizzazione dei servizi urbani - da una parte sconta i tentativi di fuga verso una deregulation sel-vaggia e dall’altra incontra le resistenze sorde degli apparati politico-amministrativi.

In questa complessa ricerca di nuove modalità di governo dei fenomeni urbani si sta inserendo una prospettiva nuova: di fronte all’urgenza di trovare soluzioni politiche e istituzionali di tipo sovranazionale per molti problemi di una società sempre più complessa, sono paradossalmente le realtà territoriali locali a riconquistare significati e spazi di autonomia e a cercare forme di cooperazione che oltrepassano i confini nazionali. Il successo urbano salda con più forza i legami e le interdipendenze del network metropolitano liberando la città globale da ogni tentazione monopolistica o egemonica. È semmai l’ordinamento istituzionale a essere in ritardo.

3. La coscienza infelice. 3a. La mitologia dell’antiurbanesimo. “Ora l’immensa Roma mi maciulla. / Un giorno mio, qui, quando ce l’ho? / Catapultato nell’oceano urbano / perdo la vita in sterili fatiche”. All’incirca millenovecento anni fa Marziale, inurbato di grande successo ma di pochi quattrini, scriveva parole che, stile a parte, potremmo ritrovare sulla bocca di molti abitanti contemporanei delle metropoli.

“Una delle più antiche immagini della città è quella dell’agglomerato caotico, decadente, corrotto, violento e insicuro; la si ritrova in tutta la letteratura antiurbana, dalla Bibbia a Giovenale a Rousseau ai romanzi ottocenteschi” (v. Strassoldo, 1998, p. 69).

Nella storia del genere umano c’è il “destino” del fare città. Ma anche in questo caso sembra ripetersi l’esperienza del difficile rapporto tra gli uomini e il loro destino, come se gli uomini ne

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prendessero per cautela psicologica le distanze rispetto ai vincoli e ai possibili rischi, rifiutandone la paternità e la responsabilità. E come se la consapevolezza di questo destino, delle sue incognite e delle sue sfide, producesse un forte sentimento di inadeguatezza e la vergogna di fronte a tale inadeguatezza portasse al fatalismo o alla ribelle negazione. Nei confronti della città gli uomini oscillano tra la negazione del successo (la tesi della morte della metropoli) e la sua psicologicizzazione (l’enfatizzazione delle grandi paure urbane).

La mitologia dell’antiurbanesimo nasce sul terreno del continuo conflitto tra natura e cultura di cui gli uomini sono partecipi in maniera ambigua. Socrate nel Fedro risponde all’amico che lo rimprovera di non uscire quasi mai fuori dalle mura della città: “Perdona me, buon uomo: io sono uno che ha amore per imparare; or i paesi, gli alberi, non mi vogliono insegnare nulla; gli uomini sì”. Città-civiltà: Socrate esprime il pensiero fondante di questo percorso. Ma la realtà non è sempre collocabile entro questo rassicurante divenire, non per tutti, almeno; non per coloro che vivono nella paura e nella schiavitù, non per coloro che pagano subito i costi della nascita o della trasformazione della città e che ne avranno, forse molto più in là, i benefici.

L’antichità, che con l’invenzione della città ha sottratto lo spazio al disordine della natura, non può ignorare che il “dentro” della città è sempre aggredito e spesso invaso dal disordine che viene dal “fuori”; non ci sono mura sufficientemente alte e spesse che un cavallo di Troia non possa at-traversare col suo carico di violenza e di distruzione. Da qui l’immagine, tramandata dai testi sacri come dai miti prestorici, delle città sante e delle città maledette: le une prosperano nell’abbondanza e nella felicità, sono governate da sovrani giusti e sapienti offerti all’ammirazione del mondo intero che a esse invia i pellegrini di speranza, gli assetati di sapere, i bisognosi di giustizia; le altre sono inferno di abominio e di corruzione, destinate alla rovina sotto i colpi della collera divina.

Cambia la città nella dissoluzione del mondo antico e cambiano i sentimenti dell’urbano. Alle soglie dell’età moderna si afferma in Europa l’esigenza di una forma permanente, la “città ideale”, in cui geometria e filosofia, accresciuta cultura visiva e potere del principe si saldano in un progetto politico che è insieme organizzazione razionale dello spazio e rappresentazione del mondo, così come sono state fissate nelle categorie senza tempo e senza confini dell’ideale della monarchia assoluta.

Il trauma provocato dalle grandi rivoluzioni - politica, economica, tecnologica, sociale - che accompagnano il passaggio dal XVIII al XIX secolo spiega il rinnovato vigore del pensiero antiurbano. Sono filosofi come Jean-Jacques Rousseau o Johann Fichte, romanzieri come Eugène Sue, Victor Hugo, Honoré de Balzac e Charles Dickens, raffinati critici d’arte e artisti come John Ruskin e William Morris, poeti come William Blake e Ralph Emerson, perfino statisti come Thomas Jefferson, che nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, entrati nell’era urbano-industriale, de-nunciano la città come espressione estrema della rottura con la natura e come sconfitta della piccola comunità integrata e solidale. Alla fine del secolo il tema viene ripreso dalla contrapposizione tra Gemeinschaft (comunità) e Gesellschaft (società): “La città è la forma più alta, cioè più complicata, della convivenza umana in generale. Essa ha in comune con il villaggio la struttura locale in antitesi a quella familiare della casa. Ma entrambi conservano molti caratteri della famiglia - e il villaggio in misura maggiore della città, la città li perde quasi completamente quando si sviluppa in grande città” (v. Tónnies, 1887; tr. it., p. 290).

Nel corso del XIX secolo la visione apocalittica del destino della città non rimane appannaggio soltanto di pochi profeti illuminati, né si affida soltanto a giudizi etici ed estetici. Gli strumenti delle nuove scienze sociali offrono al sentimento antiurbano una provvisoria base scientifica. Thomas Malthus, Friedrich Engels e Charles Booth documentano, in momenti successivi e con strumenti empirici diversi, le condizioni delle classi povere nella città per eccellenza, Londra, denunciandone l’invivibilità. Si fa strada la tesi della morte della città: tesi del tutto compatibile con il suo successo. Anche per l’escatologia materialistica di Marx, la città, che pure ha avuto un ruolo positivo consentendo di superare l’isolamento e l”idiotismo” del mondo rurale, è destinata a sparire con l’abolizione del modello di produzione capitalistico (v. Marx, 1867-94). Robert

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Owen e Charles Fourier offrono una possibile soluzione alla crisi della città prospettando forme di insediamento urbano alternativo, il cui messaggio utopico sarà peraltro raccolto in parte dal successivo Movimento moderno.

I cambiamenti materiali della città provocati dalla rivoluzione industriale sono ingigantiti e deformati dalla forte impressione di novità che domina la riflessione colta degli intellettuali non meno che l’immaginazione popolare. Da qui deriva la nostalgia per una natura elegiacamente rivissuta o per una città bella e ordinata che è sempre quella che ha preceduto la città in cui si è costretti a vivere. Questa visione catastrofista si alimenta di una tendenza più generale che potremmo definire con l’espressione “paura della modernità”. La modernizzazione ha sempre suscitato timori e violente opposizioni nei ceti i cui confini sociali, le posizioni di potere, gli stili di vita rischiavano di essere sconvolti dal mutamento. Nell’Ottocento l’antimodernismo e l’antiurbanesimo sono perciò più facili da ritrovare nell’ambito della cultura conservatrice, non di rado attivando nostalgie e movimenti reazionari. È la lettura catastrofista del Manifesto di Marx che trasferisce successivamente questo sentimento all’interno della cultura politica di sinistra. Ma questa è già storia del XX secolo.

3b. Crisi e critica della città.

Don Martindale, nella sua prefazione all’edizione inglese del saggio di Weber sulla città, afferma che “al suo interno la città è oggi in uno stato di decadenza [...] l’etica della città sembra essere sul finire” (v. Martindale, 1958, p. 62). Oswald Spengler (v., 1918-22), che pure sottolinea il valore della città come fattore di evoluzione culturale, vede nella metropoli lo stadio finale del ciclo di vita urbano, quello che precede la dissoluzione. Anche Lewis Mumford (v., 1961) avanza la stessa previsione: la metropoli è la manifestazione più alta dello sviluppo urbano, ma il suo declino si è già avviato nel nostro secolo e sono molto limitate le possibilità che l’uomo moderno ha per arrestare questo processo, un processo che attraverso la megalopolis sembra portare all’infausto destino di nekropolis.

Malgrado la reazione del Movimento moderno e l’ulteriore reazione della cultura postmoderna, il pessimismo sul presente e sul futuro della città permane, anzi si aggrava, tra noi contemporanei. Emerge, però, da una riflessione e un’analisi concettualmente più ricche ed empiricamente più attrezzate, il tema non più della morte della città, ma quello della crisi urbana. È un’espressione, questa, di successo, perché permette di comprendervi il “molto”, ma porta con sé anche il rischio di stringere il “poco”. “L’idea di crisi, infatti, è diventata altrettanto vaga quanto l’idea di città che porta dietro” (v. De Carlo, 1995, p. 30). Ha ragione Paul-Henry Chombart de Lauwe (v., 1981) quando, domandandosi se la città sia morta, conclude che è morta la teoria tradizionale della città, mentre la città rinasce in forme nuove. Il fatto è che utilizziamo, senza averne sempre consapevolezza, le vecchie metafore della “città-corpo” e della “città-macchina” che si coniugavano più facilmente (non illudiamoci più di tanto: anche nella polis greca, così come nella città rinascimentale italiana, l’ideologia faceva aggio sulla realtà, che era molto meno organica e integrata di quanto volesse la rappresentazione) con la categoria dell’ordine urbano. Ma l’ordine urbano, a sua volta, ha bisogno di una forma compatta; la città è il “dentro”, che ha confini, legittimazioni, funzioni (le mura, la cittadinanza, le risorse, gli stili di vita) suoi propri: si contrappone al “fuori”, da cui deve difendersi (la città medievale) o che deve annettere e dominare (la città moderna). Ma quando il dentro dilaga nel suo fuori, la città diventa confusa, funzioni e luoghi si separano, i confini tra dentro e fuori sbiadiscono. Si determina una forma nuova di città - chiamiamola post-città o ipercittà - che richiama con evidenza la categoria del disordine o, più semplicemente, denuncia la presenza di più ordini apparentemente non componibili e conflittuali.

La qualità essenziale che ci si aspetta dalla città è la sua leggibilità, la facilità con cui le sue diverse parti possono essere visualmente percepite o apprese, riconosciute e organizzate secondo uno schema unitario e coerente di identificazione (v. Lynch, 1960). La riproposizione attuale

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dell’immagine della città come foresta impenetrabile evidenzia la negazione di questa facilità di lettura; forse rivela più un disagio interpretativo delle discipline che si occupano della città che una oscurità oggettiva. Ma le immagini, le rappresentazioni sociali, specie quando sono veicolate da canali forti, diventano più reali di ogni realtà materiale.

Ogni crisi - usiamo questo termine nel significato corrente - ha il suo tempo e a esso appartiene: la Roma metropolitana della decadenza imperiale, la Parigi secentesca delle tante “corti dei miracoli”, la Londra fumosa e crudele di Dickens sono realtà diverse, accomunate dallo sguardo retrospettivo o dalla capacità universalistica dell’invenzione letteraria. In realtà, ci si presentano con indicatori oggettivi diversi. Se c’è una costante nelle crisi sociali è, semmai, quella determinata dal venir meno della corrispondenza tra forme fisiche e comportamenti delle istituzioni da una parte e bisogni, aspettative, comportamenti dei gruppi sociali dall’altra: quando le prime non riescono più a contenere, indirizzare, dare forma coerente alle trasformazioni reali, e gli altri, cioè i gruppi sociali, percepiscono confusamente il mutamento, ma non sono rassicurati dalla presenza di fattori automatici o intenzionali di riadattamento e di riequilibrio, accade che questi ultimi siano costretti ad assumersi soggettivamente il carico delle tensioni trasformative, elaborandolo in termini di disagio, rischio, allarme sociale.

La crisi della metropoli contemporanea è sostenuta - nel senso di una più enfatizzata elaborazione - da due soggetti nuovi, l’urbanistica e i mass media, che trasformano, non intenzionalmente, i problemi urbani in gravi patologie. Cercherò di dimostrare che questo non è affatto un paradosso, come invece potrebbe sembrare.

L’urbanistica è un potente elaboratore di analisi e di terapie che nasce dalla crisi urbana e di questa ha bisogno per crescere e affermarsi come potere tecnico, per alimentare le proprie contraddizioni e offrirle ora all’una ora all’altra manifestazione della coscienza inquieta del vivere urbano. L’urbanistica moderna nasce un po’ farmaco dulcamariano, un po’ tecnica di rigore sperimentale, un po’ proclama utopico, un po’, addirittura, scientia scientiarum di fronte ai mali di una città vista sempre, almeno dall’Ottocento a oggi, come “malata” (v. Choay, 1980); non per nulla il suo linguaggio usa spesso delle metafore (sventramento, demolizione, risanamento, ecc.).

L’urbanistica come sapere e saper fare autonomi rivendica la sua tecnicità politicamente neutra, ma ha sempre portato nel suo seno le due anime contrapposte del pensiero utopico urbano: progressisti contro culturalisti, razionalismo e industrialismo contro comunitarismo e naturalismo. E, malgrado la sua dichiarata oggettività, non può non indurre nelle “proiezioni architettoniche o spaziali, un certo numero di pratiche e di mutamenti sociali” (v. Roncayolo, 1988, p. 112).

La progettazione urbanistica finisce col “muovere società”, proponendo con modalità sostanzialmente autoritarie modelli che implicano nuovi stili di vita o che finiscono anche indirettamente per determinarli. D’altra parte l’invenzione urbana può trasformarsi in formula e questa può essere riprodotta - in un delirio tecnocratico - in contesti temporali e spaziali diversi, senza curarsi della presenza o meno di altri interventi che pur appartengono alla coerenza del piano: la Ville radieuse si trasforma nel Corviale di Roma o nelle sette Vele di Napoli o nello Zen di Palermo; non ci si può aspettare che la new town, anche quando sia realizzata con la giusta dotazione di servizi e di verde, crei necessariamente la comunità.

La crescita dell’urbanistica ha provocato la sua separazione dall’architettura: “Questa (recente) separazione nasconde altre fratture e altre lacerazioni profonde. L’urbanistica si è allontanata dal suolo, dalla città fisica, dalla sua carica simbolica, dalle pratiche sociali, dalle comunità, dalle loro aspirazioni, dalla loro domanda d’identità e di futuro” (v. Pavia, 1996, p. 7). Viene a mancare così la capacità di rispondere alla domanda di qualità simbolica e di rap-presentazione espressa dalla comunità: la grande opera architettonica, come si è ricordato in precedenza, si delocalizza; non è inscrivibile, quindi, all’interno di una possibilità di lettura comune della città. Una città che non si può leggere, che non offre alla maggior parte possibile dei suoi cittadini e dei suoi visitatori codici, anche diversi, di rappresentazione e di appropriazione-appartenenza, è una città che genera alienazione, che evidenzia i suoi costi ma scolora i suoi benefici, che, in altre parole, trasmette immagini di crisi.

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Il tema della crisi urbana è centrale, anche se con accenti diversi e diverse chiamate di correità, nel dibattito più recente tra addetti ai lavori, urbanisti, architetti, geografi urbani; forse perché più cocente appare la frustrazione per chi questa città ha contribuito in qualche misura a costruire e se l’è trovata diversa dal modello che le aspettative ideali e il progetto tecnico avevano disegnato.

Proponiamo, senza pretese di rappresentatività, alcuni esempi di riflessioni tecniche, a volte anche autocritiche. “La crescita della città ha comportato una perdita d’identità e di valori riconoscibili per secoli come attributi degli

spazi insediativi. Il mancato controllo dei processi di espansione dei centri abitati, della qualità oltre che della funzionalità delle reti infrastrutturali, la difficoltà di costruire spazi sociali che avessero la stessa forte identità della città storica e consolidata hanno condotto non solo alla costruzione delle periferie anonime e al degrado dei nuclei urbani antichi, ma anche alla perdita di una diffusa pratica di socialità negli spazi pubblici [...]. La città contemporanea è diventata la realtà dove è massima l’atomizzazione sociale e dove le relazioni conflittuali vedono il predominio dell’homo oeconomicus, il cui comportamento si basa su di una razionalità strumentale che non tiene conto dell’altro in quanto persona con cui cum-vivere [...]. Con la città moderna il processo di identificazione tra spazio e società civile si è disgregato e risulta difficile ristabilire il “patto’ tra urbs (sistema fisico) e civitas (sistema sociale), infranto” (v. Fusco Girard e altri, 1998).

Il dibattito urbanistico scopre la nostalgia del passato perché, come ha sostenuto Piano in un’intervista apparsa su un quotidiano, “il nostro secolo ha fatto degenerare questa grande invenzione dell’uomo che è la città. I suoi valori positivi: la socialità, la miscela delle funzioni, la qualità del costruito, sono tutte presenze di un tempo che fu, e sopravvivono a stento nei centri urbani di oggi”.

La critica si appunta soprattutto sulle città italiane. Esse non soltanto mancano gravemente di infrastrutture e attrezzature, sopravvivendo in pratica con la dotazione assicurata dalle politiche urbane e dalle opere pubbliche del secolo scorso e dell’inizio di questo secolo o con le isolate grandi opere - talvolta inutili e abbandonate al successivo degrado - catturate con qualche grande evento (le Olimpiadi, i Mondiali di calcio); sono anche (o lo sono diventate), se confrontate con altre città europee, faticose da viverci, prive di comfort, brutte, insicure.

Se le città italiane sono criticate per il “meno” che esse offrono quanto a efficienza e qualità dell’organizzazione urbana, le città americane sono investite dalle critiche per il “troppo” che l’architettura postmoderna ha prodotto in loro, muovendosi con arbitrarietà rispetto al contesto fisico e sociale, per il carattere di gioco e di dissipazione che presiede alla progettazione delle nuove realtà architettoniche e urbane, entrate ormai nel regno delle merci e come queste sottoposte a una rapida obsolescenza per consentire altre innovazioni e nuova produzione.

La “atopia” (un mondo staccato dal luogo) viene denunciata nella critica all’architettura postmoderna come fede nella capacità illimitata della tecnica di produrre la città felice, anche a costo di farne una città virtuale per una vita virtuale, come quella descritta da Peter Weir nell’agghiacciante film The Truman show. Argomento, questo, che non è poi soltanto materia di film.

Celebration, la città disneyana, a un quarto d’ora di auto da Orlando (Florida), recentemente inaugurata, potrebbe essere la scenografia per un film su questa “pazza, pazza America”, ma anche sui vezzi di certa signature architecture: il suo centro commerciale è progettato da Rossi, il municipio è firmato da Johnson, l’ufficio postale da Graves, la banca da Robert Venturi e la futura edificazione offre una scelta tra sei stili architettonici a chi vorrà acquistarvi una casa. Eppure, appena nel 1982, è stato demolito il Portland Building, “una delle opere emblematiche di uno dei pionieri del postmoderno, Michael Graves; e con ciò molti dichiararono chiusa, dopo dieci o vent’anni di vita, anche l’epoca del postmoderno” (v. Strassoldo, 1998, p. 77). Ma, come si vede, il successo dell’architettura postmoderna continua e comincia a essere evidente, malgrado le iniziali resistenze, anche nelle città europee e, quindi, anche in Italia (anche se, talvolta, con una traduzione più “popoladresca” che pop).

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Conclude Bernardo Secchi, dopo aver tracciato un quadro impietoso delle città italiane: “Al centro della mia riflessione stanno la grande, pervasiva e sconsolante mediocrità della città italiana, il suo carattere ordinario, dozzinale e banale e l’insoddisfazione nei confronti delle ipotesi esplicative che finora ne sono state fornite: la speculazione edilizia; la corruzione amministrativa; il vincolo urbanistico, la divaricazione tra il campo professionale e ciò che Pierre Bourdieu chiama “campo intellettuale” pertinente, l’occupazione in particolare del primo, da parte di figure dotate di troppo scarso sapere critico; il contributo a ciò fornito dalle stesse scuole di architettura; le responsabilità personali di molti loro docenti” (v. Secchi, 1994, p. 20). Come si vede, una critica a tutto campo che chiama in causa sia i caratteri della committenza pubblica e della sua cattiva mediazione tra i contrapposti interessi privati, sia la risposta progettuale, appiattita nei fatti sulla committenza e fautrice di una modernità intesa soltanto come ricorso a forme, tecniche e materiali vistosi.

A presidiare il progetto, più che l’ispirazione, interviene la tecnica; ma, per citare ancora l’intervista di Piano, “quando l’edificazione si riduce a pura tecnica (un fatto di macchine, organizzazione, denaro) perde ogni valenza espressiva, ogni significato sociale, ogni aderenza alla vita”. Si potrebbe siglare il processo evolutivo della progettazione urbanistica e architettonica come un percorso dall’utopia all’atopia, fino alla tecnoutopia.

L’egemonia della tecnica si congiunge poi con l’innamoramento per i materiali “nuovi”, capaci di portare il messaggio onnipotente della modernità, dal vecchio cemento armato al nuovo vetrocemento; con le tecnologie sempre più sofisticate rese necessarie dal gigantismo edificatorio e dall’iperbole architettonica, gli edifici diventano macchine dal ciclo di vita raccorciato e dai costi di manutenzione elevatissimi.

La critica sembra però poter esorcizzare la crisi. In molti paesi europei si sta prendendo coscienza dei guasti provocati dagli esiti del modernismo imperante fino a pochi anni fa: si cominciano ad abbattere i grands ensembles che hanno imbruttito e rese alienanti le periferie urbane e aumentano gli istituti di credito che concedono mutui vantaggiosi a chi costruisce con moduli e materiali tradizionali. Così come a Roma si riscopre nella ripavimentazione delle strade il vecchio sampietrino (anche se made in China).

Un altro soggetto imperante in questa letteratura sulla crisi della città contemporanea è rappresentato, come abbiamo ricordato, dai mass media. L’idea che sia in atto - anche in Italia - un abbandono in massa della città per tornare in campagna piace molto agli operatori delle comuni-cazioni di massa. La stampa periodica, la televisione di informazione, ma anche quella di intrattenimento (si pensi alla trasformazione della popolare serie Casa Vianello in una più ecologica e accattivante Cascina Vianello; ma, almeno in questo caso, si irrideva alla moda dei personaggi famosi che tornano “in campagna”), offrono titoli in cui ricorrono costantemente - dopo letture affrettate delle statistiche ufficiali - le espressioni “fuga dalla città”, “addio città crudele” e così seguitando (v. Melis e Martinotti, 1998). Il guaio è che questi luoghi comuni, ingigantiti mediaticamente, vengono poi assunti come propri anche da intellettuali di grido improvvidamente pronti ad assecondare le correnti comunicative o spinti ad affermare l’aristocrazia dell’intelligenza contro ogni fenomeno di massa giudicato camp (il che equivarrebbe a plebeo, ma appare meno classista).

I mass media, sospinti dalla spirale inesorabile - una vera, continua fatica di Sisifo - di gettare in pasto ai lettori o agli spettatori una “notizia” capace di emozionare più di quella del giorno prima, non si limitano al tutto sommato poco dannoso rilancio di una bucolica antiurbana (anche se bisognerebbe chiederci quanto questa manipolazione delle informazioni non serva da copertura ai ritardi e ai silenzi sulla normativa relativa alle aree metropolitane); le occasioni più ghiotte sono quelle in cui i mass media possono alimentare un’immagine infernale o di “medioevo prossimo venturo” delle metropoli: la criminalità urbana dilagante, ad esempio. Sono spesso rappresentazioni a corrente alternata, perché una Milano con un picco straordinario di rapine e omicidi in una settimana fa più notizia di una Napoli con uno stillicidio di omicidi che va avanti da mesi o da anni.

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Né si può dimenticare il cinema: da Metropolis di Fritz Lang a Batman di Tim Burton, da Blade runner di Ridley Scott a Nirvana di Gabriele Salvatores, riceviamo - forte dell’immagine di verità della creazione cinematografica - una rappresentazione suggestiva e terribile della metropoli futura, modernissima e decadente, multirazziale e isolante, la cui disperata condizione è alla fine riscattata da un eroe solitario, umano o non umano.

La rappresentazione della crisi urbana nei suoi toni più esasperati e nelle sue forme più efficaci può condurci a due alternative. Può funzionare come una profezia che si autodistrugge, oppure può trasformarsi in un laboratorio di paure e di allarme sociale e fomentare un clima di millenarismo metropolitano.

Ancora una volta, come avviene sempre davanti ai problemi epocali, alle grandi questioni sociali e di civiltà, il genere umano si trova di fronte a un bivio: o accettare la sfida che la situazione di crisi impone ed elaborare strategie progettuali, disegnando e costruendo, per tentativi e ap-prossimazioni, soluzioni razionalmente e tecnicamente appropriate nonché socialmente gestibili; o ripiegare sull’adattamento, elaborando atteggiamenti e comportamenti devozionali, destinati a placare l’ansia collettiva, portando problemi e soluzioni fuori dalla portata dell’intelligenza e dei saperi umani ed elaborando una qualche metafisica della speranza o della rassegnazione (fatalismo, ricerca di un capro espiatorio, attesa messianica di uno straordinario intervento salvifico).

L’atteggiamento devozionale può essere elaborato attraverso meccanismi magico-religiosi, magari aggiornati con contaminazioni affascinanti e di successo (new age); oppure attraverso il pensiero forte dell’ideologia (la convinzione che la città postmoderna sia l’ultimo stadio di un’egemonia capitalistica ormai sfinita; o, su fronti del tutto diversi, che la metropoli sarà l’arena in cui si combatterà l’ultima guerra, quella tra civiltà). L’atteggiamento progettuale, d’altra parte, può ossificarsi in uno scientismo autoreferenziale o nella semplificazione della città salvata dalla tecnologia.

Né è detto che l’elemento, per così dire oggettivo, del problema - nel nostro caso la questione metropolitana - costituisca di per sé, per grave che sia, la componente determinante. Si potrebbe dire che non è tanto la morte della città, quanto la paura della sua morte a caratterizzare l’immagine e la vita urbana, a condizionare l’organizzazione degli insediamenti e delle abitazioni, dei percorsi e dei tempi di uso.

3c. Le grandi paure urbane.

Sovraffollamento, degrado ambientale, povertà ed emarginazione sociale, criminalità: il secolo del successo urbano sembra essersi chiuso con un forte e allarmante passivo. Sono problemi che hanno radici fuori della città, ma che nella città si radicalizzano o comunque diventano più visibili. Sono problemi che rivelano anche esplicitamente l’insufficiente capacità di regolazione sia dello Stato sia del mercato, ma che quanto più provocano allarme sociale, tanto più occultano questa incapacità. Problemi che si intrecciano e fanno massa, provocando il cortocircuito delle grandi paure, anche perché quello che succede nella metropoli è sempre vissuto come un’anticipazione di quel che potrà avvenire - che avverrà - nel resto del mondo.

L’esplosione demografica del pianeta, malgrado le martellanti previsioni, è un’ipotesi che in termini complessivi rimane astratta per l’uomo comune: diventa concreta quando essa si traduce nella congestione urbana che vincola o altera i nostri ritmi di vita, i nostri orari e calendari urbani, che ci fa sentire la massa dei nostri concittadini, dei pendolari, degli utilizzatori, che ci schiaccia nelle metropolitane o negli autobus urbani, che intasa e rende meno fruibili le nostre strade e piazze più preziose, i nostri monumenti, quando diventa fila irrequieta e spesso rissosa che ci precede e ci allontana dallo sportello del servizio pubblico cui abbiamo bisogno di accedere. Oppure, quando la vediamo materializzarsi nei nuovi movimenti migratori che, specialmente nei paesi senza una tradizione di immigrazione, provocano la sindrome della “goccia che fa traboccare il vaso”, dando l’impressione di incombere minacciosamente sugli equilibri già fragili dell’organizzazione urbana

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e della convivenza civile. L’affollamento urbano non è però un fenomeno che si possa valutare al di fuori delle condizioni di

contesto. Nelle città del Terzo Mondo la forte crescita demografica provocata dall’inurbamento di massa e dall’alto tasso di natalità si contrappone all’insufficiente sviluppo della base produttiva, all’inesistenza di politiche pubbliche dell’abitazione, all’assenza di servizi sociali, provocando la formazione di estese masse di inoccupati o di occupati precari, la crescita ai margini della città di estese bidonvilles in condizioni igieniche, sociali e morali drammatiche. Nelle città del mondo industrializzato o postindustriale la pressione demografica si presenta in modi diversi e produce effetti diversi, anche perché vi si è registrato un rallentamento o addirittura un arresto della crescita demografica naturale. Si ha semmai una trasformazione della struttura della popolazione, che pure ha i suoi effetti nell’organizzazione della vita urbana: l’aumento della componente anziana provocata dall’incremento della speranza media di vita. Inoltre, la popolazione si distribuisce su una rete più articolata di centri urbani. Infine, l’acquisizione di nuove funzioni produttive che sostituiscono quelle manifatturiere - decentrate in altre aree dello stesso paese o nei nuovi paesi in via di industrializzazione - e la sopravvivenza o, addirittura, l’espansione dell’economia informale, insieme al ruolo delle politiche di welfare urbano, mantengono un certo equilibrio tra bisogni e risorse.

Non si producono automaticamente quegli effetti che la Scuola ecologica di Chicago pronosticava per la metropoli; neanche nelle metropoli più disperate l’ordine biotico prevale totalmente sull’ordine simbolico e sociale; gli abitanti metropolitani non diventano topi impazziti che lottano ciecamente per la sopravvivenza, ma trovano e inventano forme di adattamento, sviluppano attitudini di destrezza sociale, acquisiscono capacità di negoziazione nel privato quanto nel pubblico.

La sovrappopolazione urbana diventa traino, però, per altri problemi. Tra questi emerge immediatamente la questione dell’aumentato rischio ambientale; per una collocazione più realistica del problema va ricordato che la questione ambientale non si declina oggi soltanto in termini urbani: pensiamo alla desertificazione, alla deforestazione, al dissesto idrogeologico provocato dalla trasformazione delle colture, al depauperamento del patrimonio vegetale e faunistico.

Altrettanto importante è il fatto che l’eccessivo affollamento mette in crisi la capacità di carico dell’ambiente urbano. Una popolazione estesa con le sue esigenze di prelievo e di emissione (pensiamo soltanto all’acqua per il primo e ai rifiuti solidi e liquidi per la seconda); la congestione del traffico urbano e l’aumento dei gas di scarico; gli effetti inquinanti delle tecnologie necessarie per far funzionare abitazioni, uffici, servizi; l’intensificazione edilizia e la cattiva manutenzione di un patrimonio “costruito” in continua crescita; l’inquinamento acustico provocato dall’aumento del traffico aereo e di quello urbano di superficie: sono tutti elementi di una emergenza ambientale che aumenta la complessità del sistema urbano e della sua governabilità.

Malgrado le dismissioni industriali e lo sviluppo delle infrastrutture e attrezzature di igiene urbana (rete fognante, rete idrica, servizi igienici nelle abitazioni, servizi di raccolta di rifiuti solidi, ecc.) quelle deficienze ambientali che sembravano prerogative delle vecchie e insalubri città industriali si ritrovano accentuate, anche se cambiate di segno, nelle metropoli moderne e si ritrovano anche nelle metropoli ancora poco industrializzate: infatti i dati ci informano che Città di Messico e Nuova Delhi sono le due metropoli più inquinate del pianeta.

L’allarme provocato dal crescente degrado ambientale sta determinando reazioni individuali (dalla mascherina di garza antinquinamento a un minor uso dell’autovettura privata, là dove le condizioni dei trasporti pubblici lo consentono, all’uso di autovetture meno inquinanti), reazioni sociali (accresciuta domanda di verde pubblico), politiche ambientali più mirate (nuovi sistemi di raccolta e smaltimento dei rifiuti, risparmio energetico e idrico, vincoli alla circolazione automobilistica privata, adozione di mezzi per il trasporto pubblico meno inquinanti e meno congestionanti). L’offerta urbana deve sempre più misurarsi non soltanto con una domanda di utilità e di bellezza, ma anche di qualità dell’ambiente.

Un altro aspetto della vita metropolitana che desta sorpresa, almeno nelle società economicamente sviluppate - una sorpresa che si converte in scandalo o in allarme, quando invece non costringe il fenomeno in un ghetto di invisibilità, anche se esso si mostra nella quotidianità

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delle strade della città - è quello della povertà e dell’emarginazione sociale. La città metropolitana ha con la povertà un rapporto complesso; da una parte esercita un’attrazione nei confronti dei soggetti poveri o a rischio di povertà provenienti dall’esterno: la sua capacità di promessa provoca un effetto perverso, induce cioè aspettative e speranze in misura maggiore di quanto non sia in grado di soddisfare con le sue risorse di ospitalità, dall’alloggio al lavoro, dall’accettazione delle diversità all’integrazione sociale. Dall’altra, è essa stessa luogo di produzione di povertà: i cambiamenti frequenti nella struttura produttiva e le loro conseguenze sul mercato del lavoro, la restrizione nelle politiche di welfare, la questione abitativa, la presenza di immigrati irregolari o clandestini, privi dei requisiti necessari per accedere al mercato del lavoro istituzionale e ai servizi sociali, hanno provocato in molte città degli Stati Uniti e dell’Europa la formazione di sacche di povertà che tendono a dilatarsi e a cronicizzarsi.

Se la povertà può apparire, pur nella tragicità delle sue dimensioni e delle sue forme, “comprensibile” nelle metropoli del Terzo Mondo in cui sembrano destinati a concentrarsi i “dannati della terra”, spinti dalla modernizzazione senza sviluppo, più difficile è spiegare la presenza massiccia e permanente della povertà nella metropoli opulenta del Primo Mondo coi suoi sistemi assistenziali, società di consumi e di sprechi, di garanzie diffuse e di flussi redistributivi. Dobbiamo invece constatare che la povertà nelle sue molte forme, materiali e immateriali, non è soltanto un fenomeno residuale delle città postindustriali, di natura frizionale, dovuto cioè a fasi di squilibrio nel passaggio da una condizione all’altra (transizione scuola/lavoro, disoccupazione tecnologica, primo impatto nell’inurbamento, nuove forme di handicap non coperte o non adeguatamente coperte da servizi socio-sanitari, ecc.) o di tipo soggettivo (rifiuto o incapacità di inserirsi in un tipo di organizzazione produttiva e in ritmi di vita troppo stressanti e competitivi): tant’è che i processi di impoverimento crescono in misura più che proporzionale rispetto alla stessa crescita della città e alla sua diffusione sul territorio (v. Guidicini, 1998).

I mutamenti continui che caratterizzano la metropoli moderna si incrociano con i mutamenti dell’esperienza esistenziale propri dell’epoca che stiamo vivendo: cambia il ciclo di vita, diminuisce la centralità della famiglia e, soprattutto, delle relazioni di parentela, cambiano i ruoli di genere. Tutto ciò ha effetti sull’appartenenza e sull’identità urbane, genera solitudine e insicurezza, spinge a rifugiarsi nei mondi artificiali dell’alcolismo o della droga.

Alla povertà la metropoli offre luoghi particolari. Il degrado urbano che si manifesta in modo più visibile in certi quartieri della città isola la povertà, la materializza più nelle cose che nelle persone. Il degrado fisico assume in sé il degrado sociale, funziona da filtro o da asilo per i nuovi poveri (immigrati, gruppi sociali in declino, persone dimesse dagli ospedali psichiatrici). Oppure i poveri vengono costretti in luoghi che, come la strada, hanno perduto la caratteristica di ambito relazionale e dove essi pagano la loro insopportabile e ingombrante presenza con l’invisibilità. Nella metropoli contemporanea i barboni escono dall’immaginario collettivo come elemento eccezionale e pittoresco ed entrano nel quotidiano: sono gli homeless, senza-tetto che diventano inesorabilmente anche senza-luogo.

La povertà alimenta così, pur in una società aperta per definizione qual è quella urbana, il grande fiume dell’esclusione sociale. Nelle città questa non è come altrove un percorso individuale, ma può diventare tratto distintivo di un gruppo che condivide condizioni di emarginazione e inse-diamento. Nasce la tribù urbana dei poveri e si crea un tappo che chiude la sacca della povertà e ne rende ancora più difficile la fuoriuscita; nel ghetto urbano si sviluppano “reti informali di carattere apertamente anomico, o parzialmente anomico, che in qualche modo attingono a risorse solidaristiche degradate e offrono sostituti funzionali della solidarietà in particolari situazioni” (v. Mela, 1996, p. 63); oppure, se nel ghetto urbano alla povertà e all’emarginazione sociale si aggiungono fattori come la discriminazione etnica e la presenza di un’estesa popolazione giovanile cui è interdetto l’accesso alla maggior parte delle risorse, maturano le condizioni per l’esplosione della reazione violenta, sia nella forma delle sommosse di quartiere (come quelle verificatesi negli anni Novanta a Newcastle, Hartcliffe, Carlisle in Inghilterra, a Sartrouville e Mantes-la-

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Jolie in Francia, a Los Angeles negli Stati Uniti) sia come violenza collettiva di strada (v. Magnier, 1996). Incremento della violenza e diffusione della criminalità sono al centro della paura urbana per antonomasia e producono un’immagine di città inevitabilmente violenta, “che crea aggressività perché aggressiva” (ibid., p. 280).

Confrontiamoci con alcuni dati: tra le 17 città con un indice di criminalità grave (numero di omicidi per 1.000 abitanti) sono presenti nella fascia alta della graduatoria grossi agglomerati metropolitani dell’Africa (Città del Capo e Il Cairo) seguiti da Manila, Rio de Janeiro, Miami, caratterizzati da un indice a due cifre. Tutte le metropoli europee presentano invece un indicatore a una cifra e si collocano quindi nella fascia più bassa della graduatoria. Sembra perciò determinante, anche per questo problema, piuttosto che la forte concentrazione demografica, il contesto sociale di appartenenza con la sua spietata competitività economica, religiosa, etnica o con il suo troppo rapido e squilibrato processo di modernizzazione.

Nelle città metropolitane la violenza criminale tende ad assumere due diverse dimensioni territoriali. Da una parte possiamo incontrarla come presidio di certi segmenti del territorio: è il caso, ormai assunto a simbolo, del Bronx a New York che comincia ad avere le sue riproduzioni anche in paesi come l’Italia (lo Stadera a Milano, San Salvario a Torino, il Corviale a Roma, Ponticelli a Napoli, lo Zen a Palermo): sono quartieri off-limits non soltanto per gli imprudenti visitatori esterni, ma anche per le forze di polizia che esitano ad avventurarvisi e spesso, se sono costrette a intervenire, divengono oggetto di violente reazioni da parte della popolazione locale a copertura dei criminali ricercati. Dall’altra parte c’è una criminalità diffusa che si distribuisce su tutto il territorio urbano (scippi, rapine, borseggi, risse, ecc.). Questa, malgrado sia spesso eufemisticamente definita “microcriminalità”, è quella che per la sua ubiquità, per la sua quotidianità, per il suo abbattersi spesso sui cittadini più deboli (anziani, donne, piccoli operatori commerciali) e per le insufficienti o inesistenti azioni di contrasto delle forze dell’ordine e delle autorità giudiziarie colpisce di più l’immaginario collettivo e indebolisce il sentimento di sicurezza dei cittadini.

Infine, nelle grandi città e nelle metropoli sembra oggi localizzarsi preferibilmente, con forme più complesse ed efficienti, la criminalità organizzata che si salda con la grande corruzione politico-amministrativa. Anche su questo fenomeno la globalizzazione produce i suoi effetti perversi: la metropoli diventa il crocevia o il terminale politico e finanziario dei più diversi traffici criminali, dalla droga al commercio delle armi, dalla prostituzione all’immigrazione clandestina, sfruttando debolezze o complicità degli apparati amministrativi, capacità delle strutture creditizie, coperture o commistioni tra movimenti politici clandestini e organizzazioni criminali.

Malgrado la sua diffusione e la sua gravità, la criminalità urbana non appare, neanche agli osservatori più pessimisti, un male inevitabile della città o quanto meno un fenomeno non riducibile entro una soglia che ne consenta il controllo tanto da rispondere positivamente alla domanda di sicurezza degli abitanti e degli utenti della città. Il riferimento a New York e alla politica di zero tolerance del sindaco Rudolph Giuliani è ormai rituale nei dibattiti e nelle proposte di nuove politiche dell’ordine pubblico. Può risultare stucchevole, ma si può comprendere proprio perché la “Grande Mela” sia stata spesso al centro di descrizioni catastrofiche: criminalità e violenza dilaganti, scandali politico-finanziari, speculazione, tensioni etniche e razziali, povertà estrema, alcolismo e droga, degrado fisico e sociale di edifici e di interi quartieri. Ma anche in altre metropoli americane ed europee il problema della criminalità tradizionale e delle nuove forme che essa assume è al centro di efficaci risposte politiche, di tipo sia repressivo sia preventivo, le quali dimostrano che esiste la possibilità di governarlo.

3d. L’incubo e la sfida.

Il XX secolo lascia in eredità una realtà urbana e metropolitana in forte crescita; è, però, una realtà carica di problemi che sembrano troppo grandi anche per coloro che allo studio e alla

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progettazione della città hanno dato arte e sapienza e, tanto più, quindi, provocano paure e allarme sociale nel sentimento comune.

Non basta confermare l’esistenza e la validità del successo urbano, bisogna chiedersi perché esso turbi la coscienza degli uomini molto di più di quanto non ne esalti l’orgoglio; perché provochi più incubi che speranze. Forse perché i suoi costi sono manifesti, mentre i suoi benefici sono di-spersi nella crescente differenziazione degli attori urbani e delle modalità di fruizione.

Ancora una volta bisogna ricordare che molti dei problemi che noi imputiamo alla città chiamano in causa scenari ben più generali: uno sviluppo economico il cui ritmo e le cui forme sono sempre meno compatibili con la salvaguardia dell’ambiente (ma anche il non-sviluppo si sta traducendo in una bomba ecologica); istituzioni statuali che si rivelano inadeguate ad affrontare i tempi imposti dalla globalizzazione e dal risveglio in forme nuove del localismo; acquisizioni scientifiche e tecnologiche che corrono troppo rispetto al passo lento dell’etica e del diritto; uno squilibrio tra Nord e Sud del mondo che si esaspera mentre si vanificano le “ricette” di volta in volta imposte dal pensiero occidentale.

Senza cedere alla tentazione intellettuale di allargare i problemi, cerchiamo dunque di tracciare un bilancio puntuale della città nel XX secolo, limitando il campo di osservazione agli elementi specifici della questione urbana.

La città metropolitana è un sistema complesso: chiamata a rispondere a una mutevole pluralità di domande, richiede strutture e azioni capaci di affrontare insieme problemi di lunga durata e l’esplosione continua di emergenze. I bisogni e le aspettative dei suoi abitanti non sono più riferibili alla figura del citoyen della città liberale, né alle forti identità di classe della città-fabbrica. La città si trova di fronte un individualismo di massa; essa stessa si qualifica sempre di più come un complesso di individualità organizzate, portatrici di desideri e di interessi, le quali si compongono e si ricompongono continuamente, di volta in volta si aggregano, cooperano, confliggono per imporre la propria domanda, per ottenere una risposta privilegiata, per influire sui processi decisionali strategici, per contare di più o, magari, per raggiungere una visibilità.

La complessità rende la città contemporanea vulnerabile: basta un black-out di energia, un evento meteorologico eccezionale, lo sciopero in un servizio strategico, il concentrarsi nello stesso giorno di più manifestazioni collettive, senza parlare poi di un eventuale attentato terroristico o più semplicemente di un atto teppistico mirato, perché la funzionalità della macchina urbana si inceppi con effetti traumatici per le vite umane o per l’economia. La sua manutenzione è difficile perché la città richiede insieme livelli tecnologici tradizionali e sofisticati, è usata da una pluralità di popolazioni che hanno modalità e ritmi di fruizione assai diversificati, si serve di apparati tecnico-organizzativi burocratizzati, rigidi, scarsamente efficienti.

Il funzionamento del governo metropolitano e quello del mercato non possono contare sul sostegno silenzioso delle forme primarie di controllo sociale: i mutamenti continui della popolazione, le differenze culturali, la crisi delle tradizionali istituzioni di aggregazione sociale aggredite dalla modernizzazione lo rendono più lasco e precario, così che le relazioni di scambio, le tensioni sociali tra individui o tra gruppi o tra individui e istituzioni d’ordine non possono contare nella loro gestione su uno zoccolo sicuro di norme fortemente interiorizzate.

La fuoriuscita dalla città delle attività industriali ha sottratto alla città la forza suggestiva dell’ordine razionale della fabbrica - con le sue gerarchie professionali, con la sua disciplina, ma anche con le sue solidarietà - così come ha fatto perdere l’ordinata ciclicità dei suoi tempi di lavoro.

Il welfare pubblico non risponde più con il paradigma della crescita continua (inclusione di nuovi bisogni nell’area della protezione sociale, spesa pubblica aggiuntiva, nuovi servizi e prestazioni, maggiore occupazione per la stessa espansione del welfare) all’esigenza di controllo delle tensioni sociali, al sostegno della domanda interna, alle esigenze di redistribuzione sociale del reddito.

Infine, la metropoli cambia troppo rapidamente rispetto alle capacità di adattamento degli individui, dei gruppi, delle organizzazioni. E i cambiamenti appaiono improvvisi, inesplicabili,

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una minaccia che sembra colpire ciascuno di noi, o da cui ciascuno di noi si sente più aggredito rispetto agli altri.

La città non ci garantisce più quello che ci ha promesso: libertà e cittadinanza, centralità della ricchezza pubblica che attenui gli effetti della diseguale distribuzione della ricchezza privata, vitalità economica nell’offerta di redditi e occupazione, pluralismo culturale, promozione di stili di vita e di consumo più aperti e sofisticati. Oppure lo promette a troppi perché non accada che gli altri ci appaiano concorrenti sempre più pericolosi nella fruizione della città. “A Mosca, a Mosca”: lo diciamo ancora, lo facciamo anche, ma senza più crederci molto; viviamo il successo urbano con una coscienza inquieta, pronti a denunciare la nostra infelicità metropolitana.

La promessa urbana è nello stesso tempo una sfida: tutti gli attori sono chiamati ad affrontare il disordine che è l’altra faccia dello sviluppo urbano. Vivere i problemi della città - pur grandi, a volte drammatici - come se fossero incubi non ci porta lontano. Infatti, constatiamo che vi sono città travolte dal mutamento o soverchiate da una massa di problemi che hanno cause geopolitiche assai complesse, ma vi sono anche storie di successo urbano, città che hanno saputo accettare la sfida e rinnovarsi. La capacità di riottenere fiducia sulla promessa urbana è oggi nelle possibilità delle grandi città metropolitane: esse sono già nel futuro con il loro disordine che può sembrare mostruoso e insieme bellissimo, con la durezza con cui impongono i loro costi, ma anche con le immense opportunità che offrono. Nelle metropoli si vince e si perde una sfida che lascerà il segno anche nelle realtà urbane minori che a esse guardano non per un banale processo imitativo, ma perché soltanto entrando “in rete” con esse conserveranno e valorizzeranno la loro identità.

Non c’è mai nulla di definitivo nella storia e, quindi, la metropoli contemporanea non è il punto di arrivo della storia urbana. Altri successi e altre crisi, altre sfide e altre paure si accompagneranno alla città nel futuro. E gli uomini ne saranno sempre protagonisti, ora come produttori, ora come prodotto. Bibliografia.

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