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1 La “macchina packaging” Una sfida complessa per il marketing e per il design strategico Di Enrico Viceconte 1. Premessa In ogni manuale di marketing si parla di marketing mix, un modello d’analisi volto a scomporre le decisioni strategiche (e le relative azioni di progetto) in quattro ambiti: 1) creare un prodotto che abbia valore per una certa parte del mercato potenziale (P roduct); 2) farne conoscere l’esistenza e le caratteristiche (P romotion); 3) distribuirlo laddove il mercato potenziale può trovarlo e acquistarlo (P lace); 4) fissarne il prezzo ad un livello che il mercato giudicherà adeguato al valore fornito (P rice). Alle quattro “P” del marketing mix, le cosiddette “leve” del marketing, qualcuno ne ha aggiunto una quinta, il P ackaging. L’aggiunta, dettata dall’esigenza di rendere più analitico il modello e di dare il giusto peso alla confezione (ma forse anche dall’irresistibile voglia di proseguire il gioco delle iniziali) è, in fondo, superflua. Il packaging, infatti, 1) è certamente parte integrante del prodotto e della sua qualità intrinseca; 2) ne segnala l’esistenza e ne comunica le caratteristiche e l’identità; 3) ne determina le possibilità distributive per quanto riguarda la logistica e la gestione dello scaffale; 4) influisce, attraverso la dimensione della confezione, sul prezzo unitario. Il packaging, piuttosto che essere la quinta P, è dunque un elemento del progetto che riassume le decisioni strategiche espresse dalle quattro leve del marketing mix. Il prodotto deve, in primo luogo, “essere buono”, cioè deve essere in grado di soddisfare le promesse che verranno fatte. Se questa pre-condizione è realizzata esso dovrà anche “sembrare buono”; perché il valore creato e non percepito nel momento dell’acquisto, non esiste. Poi il prodotto dovrà essere reperibile e avere un prezzo adeguato al valore percepito. In questi quattro stadi progressivi di realizzazione del valore il packaging ha, per molte merci, un ruolo determinante. Progetto del prodotto (e del servizio che ad esso si accompagna), progetto di comunicazione, progetto distributivo e commerciale (con gli aspetti di servizio connessi), definiscono un “sistema prodotto” di cui il packaging costituisce un sottosistema di crescente importanza lungo la catena del valore. Il packaging è una macchina logistica, in quanto progettata per contenere, conservare, trasportare e consumare, vale a dire progettata per essere una parte della supply-chain, (catena logistica) che porta il prodotto e i benefici attesi fino al cliente, ma è anche una macchina per comunicare, oppure, potremmo anche dire, una macchina simbolica. Lo stimolo all’innovazione della catena del valore, determinato dalla ipercompetizione e dalla spinta continua alla differenziazione, è dunque anch’esso crescente nel progetto della “macchina packaging” sia per la funzione logistica sia per quella comunicativa.

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La “macchina packaging” Una sfida complessa per il marketing e per il design strategico Di Enrico Viceconte 1. Premessa In ogni manuale di marketing si parla di marketing mix, un modello d’analisi volto a scomporre le decisioni strategiche (e le relative azioni di progetto) in quattro ambiti: 1) creare un prodotto che abbia valore per una certa parte del mercato potenziale (Product); 2) farne conoscere l’esistenza e le caratteristiche (Promotion); 3) distribuirlo laddove il mercato potenziale può trovarlo e acquistarlo (Place); 4) fissarne il prezzo ad un livello che il mercato giudicherà adeguato al valore fornito (Price). Alle quattro “P” del marketing mix, le cosiddette “leve” del marketing, qualcuno ne ha aggiunto una quinta, il Packaging. L’aggiunta, dettata dall’esigenza di rendere più analitico il modello e di dare il giusto peso alla confezione (ma forse anche dall’irresistibile voglia di proseguire il gioco delle iniziali) è, in fondo, superflua. Il packaging, infatti,

1) è certamente parte integrante del prodotto e della sua qualità intrinseca; 2) ne segnala l’esistenza e ne comunica le caratteristiche e l’identità; 3) ne determina le possibilità distributive per quanto riguarda la logistica e la gestione dello scaffale; 4) influisce, attraverso la dimensione della confezione, sul prezzo unitario.

Il packaging, piuttosto che essere la quinta P, è dunque un elemento del progetto che riassume le decisioni strategiche espresse dalle quattro leve del marketing mix. Il prodotto deve, in primo luogo, “essere buono”, cioè deve essere in grado di soddisfare le promesse che verranno fatte. Se questa pre-condizione è realizzata esso dovrà anche “sembrare buono”; perché il valore creato e non percepito nel momento dell’acquisto, non esiste. Poi il prodotto dovrà essere reperibile e avere un prezzo adeguato al valore percepito. In questi quattro stadi progressivi di realizzazione del valore il packaging ha, per molte merci, un ruolo determinante. Progetto del prodotto (e del servizio che ad esso si accompagna), progetto di comunicazione, progetto distributivo e commerciale (con gli aspetti di servizio connessi), definiscono un “sistema prodotto” di cui il packaging costituisce un sottosistema di crescente importanza lungo la catena del valore. Il packaging è una macchina logistica, in quanto progettata per contenere, conservare, trasportare e consumare, vale a dire progettata per essere una parte della supply-chain, (catena logistica) che porta il prodotto e i benefici attesi fino al cliente, ma è anche una macchina per comunicare, oppure, potremmo anche dire, una macchina simbolica. Lo stimolo all’innovazione della catena del valore, determinato dalla ipercompetizione e dalla spinta continua alla differenziazione, è dunque anch’esso crescente nel progetto della “macchina packaging” sia per la funzione logistica sia per quella comunicativa.

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Ogni impresa migliora continuamente la propria catena del valore affinché il valore fluisca sempre meglio verso il mercato e lo fa in tre modi diversi: 1) migliorando ogni singolo anello della catena; 2) sviluppando un valore distintivo, unico, differenziato da quello offerto dagli altri concorrenti e riconosciuto da specifici segmenti del mercato; 3) riconfigurando la catena del valore (spesso trasformandola in qualcosa che non assomiglia a una “catena” lineare e sequenziale ma a una complessa “costellazione” di attività e “fornitori” di valore) in modo da far fluire il valore in modo completamente nuovo, come ha fatto Ikea quando ha creato un nuovo modo di soddisfare il bisogno di acquistare l’arredo per la casa. La macchina packaging può svolgere un ruolo determinate in tutte e tre queste strategie, come mostreremo con una serie di esempi. 1) Un packaging, come quello dei tortellini Rana, che ha introdotto in Italia nel settore caratteristiche tecnologiche innovative che consentono di mantenere il prodotto in atmosfera modificata, ha migliorato la conservazione del prodotto, dalla fabbricazione al consumo domestico, riducendo i costi e i vincoli logistici (ad esempio quelli legati alla catena del freddo) e aumentando la qualità al consumo (consentendo la riduzione dei conservanti e le caratteristiche del prodotto fresco). Il successo di Rana non esisterebbe senza l’innovazione del packaging. 2) Un packaging (come in un prodotto cosmetico che si riposiziona su un target più giovanile, oppure più salutista) può soddisfare nuove esigenze e valori nella presentazione, assunzione o erogazione di un certo prodotto riuscendo a sedurre un nuovo target di consumatori. Il gelato Solero Ice definisce, ad esempio, un nuovo gesto di consumo del “ghiacciolo”, assunto a palline da un erogatore, e le Pringles si presentano come un prodotto più sofisticato della patatina: entrambe i prodotti usano un packaging più complesso e costoso di quelli usuali nella categoria, ma con una spiccata originalità, per rivolgersi a un target più adulto ed esigente con la promessa di nuovi stimoli. 3) Un prodotto/servizio/packaging come quello delle pizze congelate che si vendono da Blockbuster è un esempio di come sia possibile entrare in nuove catene o costellazioni di valore creando nuovi modi di definire il proprio business (sia quello delle pizze sia quello dell’intrattenimento a domicilio). In alcuni settori, come quello alimentare, l’innovazione del contenitore procede più rapidamente di quella dei prodotti contenuti, soprattutto se teniamo conto del ruolo del packaging nella preparazione, nella conservazione, nella modalità di assunzione, nella presentazione del prodotto e nel livello di servizio offerto al consumatore finale e agli operatori logistici e commerciali. In questi settori la funzione logistica è di primaria importanza. In altri settori, come quello dei cosmetici, la ricerca si concentra soprattutto sulle caratteristiche espressive ed emozionali del packaging capaci di connotare, ad esempio, il lusso: una ricerca espressiva che, come mostra l’archeologia, parte da molto lontano. In questi settori la funzione comunicativa diventa prevalente. 2. Le funzioni produttivo-logistiche Gli esempi Rana, Solero Ice e Blockbuster, rendono evidente il ruolo del packaging nell’innovazione della supply-chain (Supply Chain Management) e dei modi di creare valore. Tra le funzioni logistiche/operative che il packaging sviluppa c’è anche l’identificazione del prodotto affidata all’etichettatura, ai codici a barre e, in futuro, anche alle smart labels a radiofrequenza, che consentono di identificare a distanza il

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prodotto ed eventualmente l’abbinamento prodotto-consumatore, nell’ottica della relazione personalizzata col cliente (Customer Relationship Managment). Ma la funzione logistica e operativa non si esaurisce alla cassa del supermercato. Trasportare il prodotto dal carrello all’automobile, immagazzinarlo nel frigorifero di casa o nell’armadio, aprirlo e chiuderlo, erogare il prodotto, utilizzare il packaging per preparare il prodotto o per assumerlo direttamente, sono funzioni di produzione e logistica in cui operazioni come la cottura o il mescolamento o la pulitura possono essere più o meno facilitate o trasferite a monte o a valle della supply-chain. La macchina packaging è in grado dunque di assolvere funzioni elementari del processo produttivo (contenimento, dosaggio, trasporto, estrusione, mescolamento, trattamento termico ecc.) in stretta collaborazione con operatori umani che, per la riuscita del processo, dovranno essere ergonomicamente e cognitivamente facilitati nelle operazioni. I farmaci da iniettare già contenuti nella siringa modificano il processo di produzione e logistica volto a soddisfare il bisogno “iniezione di un farmaco” che prevedeva due flussi e due catene del valore, quello del preparato e quello delle siringhe. L’operazione dell’iniezione del farmaco, che fornisce il beneficio della cura, viene ridefinito completamente dalla macchina packaging. Un cibo precotto, una verdura di IV gamma (vale a dire selezionata, lavata, asciugata, tagliata e confezionata), un cocktail pre-miscelato, grazie ad appositi packaging, non fanno che spostare a monte, lungo la supply-chain, operazioni creatrici di valore. Per quanto riguarda il trasferimento di operazioni a valle della supply-chain, l’esempio Ikea è di un packaging piatto dei mobili smontati, che facilita il trasporto sul portabagagli rendendo conveniente trasferire a valle, a casa del cliente, l’operazione di montaggio. Le funzioni logistiche non si esauriscono al ciclo produzione-consumo ma si estendono allo smaltimento e alla riciclabilità nelle diverse fasi della supply-chain. In questo caso la logica del marketing deve individuare, realizzare e rendere evidenti benefici in termini di smaltimento dei contenitori. Beneficiari di un migliore progetto di packaging saranno: 1) gli operatori della distribuzione, per il packaging secondario (ad esempio il cartone che contiene più confezioni) e per il packaging terziario (il pallet che contiene più cartoni); 2) il cliente finale alle prese con il contenitore che ha esaurito la sua funzione. 3. La funzione comunicativa Parlare del packaging come di una macchina per comunicare significa rilevare tutte quelle funzioni comunicative e simboliche che sono un fattore determinante non solo nella visibilità del prodotto, intesa come la capacità, grazie ad una vistosa e gradevole “differenza”, di attrarre lo sguardo sul singolo articolo nello scaffale, come fa il fiore per l’ape o la coda del pavone per la femmina (Anceschi, 1999), ma anche nella percezione della differenza del “concept” che sta dietro un certo prodotto rispetto ad altri concept in competizione, nell’individuazione della sua “personalità”: qualcosa che ha ancora a che fare, in modo più sofisticato, coi processi di attenzione, percezione e comprensione, spostati sul progetto e sulla marca, che sono “tipi logici” diversi dal prodotto. Riprendendo il paragone del fiore con l’ape, c’è un processo di comunicazione che riguarda l’individuo (la singola confezione) e un processo che riguarda la specie (il concept, il progetto e la marca). La semiotica applicata al packaging continua a dare risultati di grande interesse a proposito delle domande cruciali per il marketing: a chi comunico? cosa comunico? e in

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che modo? E’ un campo di studi sul quale non ci soffermeremo, se non con qualche esempio, in questa sede. Rimandiamo agli ottimi testi che hanno affrontato il tema della comunicazione del packaging in chiave semiotica (Bucchetti, 1999 - Ferraresi, 1999 -Semprini, 1993). Uno dei classici problemi che la semiotica può risolvere nel marketing è quello dell’analisi dell’identità visiva del packaging di un prodotto e degli interventi di restyling necessari per l’eventuale riposizionamento. Usiamo come esempio il ridisegno della bottiglia di un liquore tradizionale come il Caffè Sport Borghetti (Franzosi, 2002). Il prodotto era consumato prevalentemente da un pubblico maschile, italiano, di età superiore ai 35 anni e di reddito medio e nasceva con l’intento, che il brand name suggeriva, di essere usato, in inverno, come bevanda corroborante allo stadio. Il problema di marketing era quello di valorizzare una serie di punti di forza non pienamente sfruttati: una buona ricetta, la leadership indiscussa del mercato nella categoria “liquori alcolici al caffè”, tanto che il “brand name” si identifica con la categoria (come capita alla Nutella e al Rimmel), un sistema distributivo, quello della Fratelli Branca, capace di servire un mercato molto largo, anche all’estero, un crescente interesse per il consumo di caffè italiano nel mondo, e infine un “carattere italiano” capace di connotare, in un mercato internazionale, un mindstyle orientato alla qualità della vita. A fronte di questi punti di forza, puntare ad un allargamento del mercato era un obiettivo realistico. Si trattava di estendere la fascia d’età dei consumatori, interessare anche un pubblico femminile e un pubblico di reddito e di ”status” superiore, ridurre la stagionalità, moltiplicare le funzioni e le occasioni d’uso e di acquisto, interessare il mercato internazionale. Il problema semiotico conseguente agli obiettivi di marketing era di comunicare diversamente sia i valori tradizionali dalla marca sia i nuovi mantenendo la continuità e l’heritage del prodotto. Sulle “mappe di posizionamento” si trattava di spostarsi verso un posizionamento “premium”, movendosi secondo alcune direzioni che si possono riassumere nello schema:

• il consumo funzionale (corroborante) diventa consumo edonistico (piacevole, intrigante);

• l’immagine rassicurante, domestica, “tradizionale” diventa un’immagine interessante, originale, elegante, innovativa;

• il prodotto si “veste da sera” lasciando la dimensione domestica e personale del consumo per diventare oggetto sociale, di relazione e di dono;

• le evocazioni e le connotazioni riconoscibili dagli adulti diventano riconoscibili da un pubblico più giovane;

• l’immagine italiana del prodotto si adatta alla percezione dell’Italia che ha il mercato estero;

• dalla categoria degli “amari” (coi quali può essere confuso) il prodotto si sposta più chiaramente in una categoria a parte (liquori al caffè) in cui è praticamente da solo.

La bottiglia viene ridisegnata: il vetro diventa scuro, quasi nero, a promettere, più che a mostrare, la profondità densa e liquorosa dell’elisir, un’ oscurità che esalta, per effetto della luce sul vetro, i fianchi arricchiti, ma non appesantiti, da nuovi di punti di flesso: flessuosità e anamorfosi quasi inevitabili nelle trasformazioni “manieriste”, come lo sono tutte quelle di restyling; sigillo e stella del marchio in rilevo sul vetro per impreziosire la superficie di riflessi e per gratificare il tatto. Tappo serigrafato nero e oro invece che giallo. Si conserva l’elemento caratterizzante del collo a costolature

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orizzontali, citazione di vecchie bottiglie delle nostre credenze. Scompare la scritta “Caffè Sport” in stile art-déco, e si valorizza la posizione della scritta claim: “di vero caffè espresso”. Lasciando invariato il lettering originale del marchio, la stella e la mezzaluna tradizionali sono stati riletti in chiave più attuale. L’etichetta ravviva la componente rossa e la luminosità alla ricerca di una connotazione di energia e vitalità. Il “vestito da sera”, che accresce i costi di produzione senza modificare il contenuto, opera sul piano del valore svolgendo due tipi di discorso retorico: 1) la cura dedicata al contenitore è la stessa che il produttore dedica al contenuto; 2) il superfluo è il valore per la classe agiata ed è proprio del dono. Osservando il flusso di valore lungo le diverse fasi della supply chain, le stesse funzioni simboliche, attivate da figure retoriche di “trasferimento di valore”, verranno assolte dal packaging, nella relazione tra l’industria e il trade, tra il trade e il cliente, tra il cliente e l’eventuale destinatario della bottiglia regalata. Una catena metonimica in cui il packaging è il “testimone”, il token, che accompagna il prodotto.

Dal punto di vista semiotico l’operazione più complessa è stata l’abbandono dell’evocazione esotica a favore di una più mediterranea, ovvero più tipicamente italiana, almeno così come l’Italia viene identificata. Il posizionamento di un prodotto è, in qualche modo, inscritto nella “mitologia” di un paese (secondo l’accezione di mitologia usata da Roland Barthes), ovvero, in termini di marketing, nelle percezioni diffuse di un mercato locale. Il caso di un mercato globale pone indubbi problemi di definizione della “mitologia” di riferimento, tema di cui parleremo in seguito. La mitologia del liquore amaro appartiene all’Italia come quella del vino appartiene alla Francia, ed è sostanzialmente quella espressa da un mercato locale. Essa può essere enunciata così: se il risultato del processo di fermentazione è euforico e salutare (“il vino fa buon sangue”) e quello della distillazione è psicoattivo, il risultato dell’infusione è invece curativo: un rimedio, un antidoto. Riferendosi a questa mitologia (che abbiamo assimilato a un macro-posizionamento) e perseguendo un proprio micro-posizionamento e una propria identità, le marche italiane di liquore amaro hanno creato dei “mondi” in cui incorniciare i propri valori distintivi: mondi monastici (per preparati con funzioni salutari, ad esempio digestive e anti-stress), mondi alpestri (per funzioni energetiche, anti-freddo, sportive e corroboranti), mondi orientali (facendo intravedere la magia esotica di miracolosi elisir, con effetti sulla sfera sensuale). La tradizione secolare, come garante della comprovata efficacia delle componenti erboristiche impiegate, colloca quei mondi, e lo stile con i quale vengono raffigurati, in un passato

utopico. L’enciclopedia alla quale le figurazioni vengono attinte è quella posseduta dal mercato di riferimento che sa riconoscere quei segni che stanno per “orientale”, oppure “fine ottocento”, oppure “alpestre” e che sanno tradurre quei valori come benefici

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derivanti dal consumo. L’ipercodifica (uomo con barba e tonaca → frate → erboristeria → rimedio naturale → benessere) è parte di una cultura. Di conseguenza sorge un problema di progetto ogni volta che il target di riferimento cambia. Il nuovo target potrebbe non essere in grado di seguire, se non in modo aberrante, il percorso che va dalla figura della zingara da lunapark (presente sulla vecchia etichetta) al piacere promesso dal liquore. Trasformare una zingara misteriosa in una donna tipicamente italiana con pochi tratti, mantenendo un certa continuità nell’identità visiva, è il compito che l’illustratore dell’etichetta ha svolto utilizzando la sua competenza sui processi di decodifica di un target più giovane, più internazionale, più femminile, più agiato (Viceconte, 1984). Un secondo esempio, sempre nel settore dei liquori italiani, mostra una strategia di marketing e un percorso progettuale diversi. La produzione dei limoncelli è molto polverizzata, con la presenza forte di marche artigianali e dell’autoproduzione. Il successo di questo prodotto è forse basato sulla mitologia dell’effetto sgrassante e disinfettante del limone o dei principi vitaminici naturali connessi con la “freschezza”. Le parole fresco e rinfrescare (fresh e refresh) si riferiscono non solo a un piacere sensoriale ma a un principio di conservazione dei tessuti organici, di rigenerazione e rinnovamento, di eliminazione dei “grassi”. La freschezza rappresenta oggi uno stato superlativo del benessere e il limoncello promette di attingere freschezza alle sue fonti mediterranee. Il caso di Limoncè è quello di un prodotto che non nasce da un restyling ma affronta il mercato da zero confrontandosi con una concorrenza affollatissima seppur polverizzata. La strategia adottata è stata di infrangere le regole di comunicazione della categoria presentandosi, in modo congruente con il piano di comunicazione, con un packaging che rinuncia alla decorazione, ai riferimenti agli agrumeti della costiera sorrentina, alle ricette tradizionali e all’evocazione di una produzione artigianale. Il logotipo è scritto in caratteri moderni molto grandi e disposto in verticale. Di fronte al disorientamento dell’abbondanza di opzioni sullo scaffale (che richiamano tutte un mondo artigianale e tradizionale) e alla molteplicità dei canali, Limoncè si presenta con caratteristiche di “differenza”, e quindi di visibilità e riconoscibilità elevate, e riesce a penetrare il mercato proponendosi come consumo moderno e adatto a un target di trenta-quaranta anni evoluto. Nei due casi di liquori osservati il packaging viene apprezzato non solo per la sua conformità al compito di contenere e informare e alla sua funzione estetica (attrarre piacevolmente) ma anche per la su funzione timica vale a dire per la sua capacità euforizzante /evocata, ad esempio, nello spot di Limoncé che mette in scena con umorismo il tête-à-tête un po’goffo di due trenta-quarantenni su una terrazza. Il packaging, combinando il suo messaggio con quello degli altri media, infatti non agisce solo sull’apparenza ma anche sull’esperienza che, in questi casi, deve essere di relax e di moderata euforia conviviale. Nel paragrafo che segue ci dedicheremo, con altri strumenti, all’analisi del progetto di packaging nell’ambito del progetto di comunicazione. 4. La comunicazione e il packaging nel libero servizio Poiché il comportamento del consumatore nel punto di vendita è finalizzato alla ricerca di informazioni e suggestioni, particolare importanza deve essere attribuita, in fase progettuale, all’efficacia con cui il packaging comunica all’interno del mix di comunicazione. Usiamo il termine “progetto delle apparenze” introdotto da Valeria

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Bucchetti (Bucchetti, 1999) per definire quell’ “sembrare buono” di cui abbiamo parlato nel primo paragrafo. Il valore percepito si costruisce come immagine mentale, sostanzialmente attraverso l’esperienza di consumo e il progetto di comunicazione. Vogliamo ora analizzare schematicamente il modo in cui il packaging integra la sua funzione comunicativa con gli altri media che contribuiscono a informare e a creare conoscenza e identità del prodotto (e della marca). Questo è ovviamente un caso particolare di analisi, in quanto molte marche e prodotti non hanno un consistente budget pubblicitario e quindi non hanno altra visibilità che quella legata al packaging. Un’altra semplificazione che faremo è di non specificare la tipologia di acquisto: infatti un aspetto importante da considerare è se l’acquisto è (prevalentemente) programmato (o ricorrente), come il latte, la “fettina” di carne, il burro, la birra, i biscotti per la prima colazione, il detersivo, oppure è “d’impulso” come la frutta secca, un particolare taglio di carne, un accessorio “divertente” per la casa. Cercheremo di prescindere da questo aspetto, che influenza in modo decisivo la ricerca di informazioni e quindi il ruolo comunicativo del packaging, per fare considerazioni di tipo generale. Un’indagine, tra le tante, sulla capacità del packaging di promuovere il prodotto mostra che esperti e consumatori concordano sul fatto che è questo è la fonte principale di informazioni sul prodotto grocery (alimentari e bevande confezionati, pulizia della casa, igiene e bellezza): più efficace della pubblicità su stampa e molto più efficace dei passaggi televisivi che risultano al terzo posto. Facendo una distinzione tra la ricezione di contenuti informativi e la decisione d’acquisto, secondo l’indagine, l’efficacia del packaging nel determinare la scelta del prodotto sullo scaffale è superiore a quella della pubblicità per quanto riguarda il ri-acquisto; è invece inferiore alla pubblicità televisiva per il primo acquisto (Italiaimballaggio, 2003). Se consideriamo invece l’attenzione come variabile determinante nella promozione del prodotto, la stessa ricerca riporta che alla domanda "Attraverso quale mezzo un prodotto può attirare maggior attenzione?" la maggior parte dei consumatori e degli esperti ha indicato il passaggio pubblicitario in TV. Per i consumatori, poi, al secondo posto si sono attestati i cartelloni pubblicitari e al terzo il buon posizionamento delle confezioni sugli scaffali, lasciando in quarta posizione l’attrazione del packaging (32%). Gli esperti hanno invece conferito un’importanza maggiore all’imballo, ponendo al secondo posto una vestizione attraente della confezione e al terzo il posizionamento sugli scaffali. La confezione sembra dunque avere il ruolo decisivo nell’ “aggancio visivo” (Bucchetti, 1999), nel risvegliare cioè l’immagine costruita, ad esempio dalla televisione, senza deludere o confondere le aspettative create e le promesse della marca. In questo caso i fattori critici di successo sono il riconoscimento del prodotto e la coerenza tra l’immagine mentale della marca e del prodotto determinata dagli altri media e l’immagine reale colta nel punto di vendita. La resa dei conti della strategia di marketing è nel momento in cui la confezione è nelle mani del cliente. Come vedremo meglio nel seguito, l’aspetto cruciale dell’interazione col packaging è dunque nel confronto tra l’esperienza-conoscenza del prodotto posseduta e il prodotto, fisicamente e sensorialmente presente. La creazione, normalmente affidata al potere della marca, di una giusta cornice nella quale percepire il prodotto e predisporsi al consumo, è altrettanto importante della qualità intrinseca del prodotto. In altre parole, poiché la capacità di promettere della marca è di non minore importanza della capacità di mantenere la promessa del prodotto, il packaging, che racchiude in sé promessa e prodotto, è un punto critico, sul quale il marketing deve concentrare un’attenzione

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elevatissima. Con la possibilità di ottenere successi come quello descritto nel caso del Limoncè. I dati che commentiamo sono relativi alla vendita non assistita che avviene, ad esempio, in un supermercato, in cui il consumatore organizza autonomamente il suo processo di ricerca informazioni e di gestione dell’attenzione. L’analisi dei dati suggerisce che la “resa dei conti”, il momento del contatto fisico e multi-sensoriale con il prodotto confezionato e di ricezione degli stimoli da esso veicolati, è un momento di riflessione e di comprensione piuttosto profonda e razionale; una ricezione, sembra, meno emotiva e più razionale di quella attivata dal messaggio pubblicitario che, invece, sembra più adatto a creare attenzione generica sul prodotto, a suggestionare e a creare mondi immaginari e percorsi di senso. Nel paragrafo che segue ci sposteremo sui beni in cui il valore simbolico ed emozionale (feel) prevale su quello funzionale (think). 5. Il packaging nella shopping experience La ricerca descritta fa comprendere come il ruolo promozionale del packaging nel libero servizio sia complementare e integrato al ruolo della pubblicità e del brand management da una parte, al livello di servizio lungo la catena del valore dall’altra (conservazione, logistica, uso, eventuale riuso, smaltimento). Per queste tipologie di beni il valore della confezione ha un’incidenza molto elevata sul valore del bene. Più complesso è il discorso per i “beni problematici”, gli specialty e per gli shopping good in cui i diversi media, tra cui il packaging, interagiscono in maniera meno prevedibile e per i quali l’imballo ha un ruolo secondario (anche in termini relativi di costo, ovvero non esiste affatto una confezione, o esiste il pacchetto o lo shopper fornito dal negoziante). Pubblicità, esperienza del punto di vendita, narrazioni intorno al prodotto e alla marca, sono fattori che interagiscono per creare non solo un posizionamento esclusivo ma, estendendo il termine benjaminiano, un’ “aura” del prodotto, un fascino, rispetto al quale il packaging diventa ancillare. Oggi si parla di retail experience o di shopping experience quando si indaga sui meccanismi psicologici e di senso che contribuiscono alla percezione del valore del prodotto e della marca nel luogo dell’acquisto. In questa prospettiva lo spazio commerciale, alla funzione di canale di distribuzione (in cui la comunicazione ha un ruolo accessorio), aggiunge in modo crescente la funzione di canale di comunicazione. Un canale particolarmente denso per la possibilità di sviluppare livelli di coinvolgimento sensoriale e di interattività impensabili per altri canali. Nel punto di vendita il cliente è esposto non solo alle informazioni utili all’apprezzamento delle caratteristiche dei prodotti ma anche a suggestioni legate ai mondi evocati dalle marche. Nel punto di vendita il cliente può mettere in atto strategie di esplorazione e ricerca personalizzate e/o affidarsi al personale di servizio e all’apparato testuale e multimediale sempre più ricco e articolato che viene progettato con criteri di lettura dell’offerta. Quella della lettura è più di una metafora, e si adatta a descrivere non solo il processo di scansione dello scaffale, che viene progettato come un testo impaginato (Bucchetti, 1999), ma anche il processo di esplorazione del punto di vendita che viene allestito sempre di più come ipertesto (prevedendo la “lettura” dell’offerta in maniera sempre meno sequenziale), come apparato paratestuale e peritestuale (con gli equivalenti di titolazioni, note, allegati), come luogo di riferimenti intertestuali (ad esempio foto tratte da film, che presuppongono una competenza intertestuale), e infine come sistema interattivo.

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Il retail moderno si orienta, oltre che alla vendita, alla relazione duratura con il cliente concedendogli informazioni, esperienza personalizzata e intrattenimento in cambio di interazione, e quindi in cambio di informazione specifica e mirata di interesse dell’azienda (Viceconte, 2003). L’ottica centrata sulla relazione col cliente libera così il negozio dal compito esclusivo di “macchina per vendere”, che in alcuni casi potrà essere delegato anche ad altri canali, compreso quello “virtuale”, e lo trasforma in un ambiente sensorialmente denso in cui si sviluppa interazione con i prodotti, con le marche, col personale di contatto, con gli altri clienti. Una cornice e un palcoscenico per la spettacolarizzazione delle merci, in cui l’attività di progetto, interessandosi alla scenografia e alla regia dell’esperienza d’acquisto, intesa come shop-tainment (shopping+entertainment), potrebbe trascurare le qualità del “primo attore” in scena: il prodotto. L’attenzione del marketing, spostata dal prodotto al brand e dal brand all’atmosfera e alla performance del punto vendita, alla scena in cui il brand viene celebrato, rischia di relegare in secondo piano le considerazioni di marketing relative al progetto del prodotto e del suo packaging rispetto a quelle rivolte al brand management, al retail management, alla comunicazione nel punto vendita, al visual merchandising, alle scelte di allestimento e di layout. Eppure, come nel modello del largo consumo, nella grande maggioranza dei casi il momento della verità nella sceneggiatura d’acquisto, quello in cui la decisione viene presa, coincide con un’interazione sensoriale forte con il prodotto, quasi sempre mediata dalla confezione. Il gesto d’appropriazione, la finalizzazione improvvisa del girovagare senza meta che colpisce anche il flâneur più svagato, è pur sempre l’ingrediente principale del piacere dello shopping. Un’interazione e una potenzialità di ricavare piacere e utilità che non si limita al momento dell’acquisto ma si estende al consumo e a quella fase della relazione col cliente che va sotto il nome di post-vendita. L’esperienza del prodotto, che al primo acquisto e fino al consumo è completamente determinata dal suo packaging, continua ad essere fortemente influenzata dal modo in cui la confezione, parte integrante del progetto, svolge il suo ruolo di servizio e di comunicazione. Il nostro tentativo è di “tornare al prodotto” riconducendo al concetto di “esperienza” gli aspetti progettuali e di marketing relativi al packaging. 6. Lo shopping come processo di conoscenza-esperienza Spiamo un individuo appoggiato al carrello di fronte al banco frigo di un supermercato: stiamo osservando l’homo erectus, che ha liberato le mani per raccogliere, strappare, impugnare ed esplorare. Attraverso le mani, l’uomo ha affrancato la testa e la “maschera

facciale” da compiti meccanici, con la possibilità di guardare avanti e aprendo la strada alla parola e al pensiero complesso (Leroi-Gourhan, 1977). Il consumatore di oggi è il frutto di quell’evoluzione e delle sue conseguenze culturali e tecnologiche. Il diffondersi dell’idea che l’esperienza sia alla base dell’apprezzamento del valore di un prodotto o di un servizio (e quindi del comportamento d’acquisto) rende molto interessante assumere un punto di vista antropologico che vada alla radice dei processi di acquisizione dell’esperienza (Viceconte, 2003). Per

comprendere la “filogenesi” del compratore-consumatore è utile dunque guardare

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indietro, osservando quanto ci sia di primitivo o, se preferite, di infantile nella figura dell’homo sapiens davanti alla panoplia dei prodotti esposti in un supermercato. Nella presentazione in Mark Up di una ricerca della Marketing & Trade sul comportamento del cliente nella grande distribuzione Daniela Ostdich scrive: “ Nulla o poco si conosce di quanto succede di fronte agli scaffali: quali processi mentali e comportamentali si avviano e come la propensione verso una marca o un’insegna venga influenzata dalle modalità di esposizione, di layout e di ambiente.” (Ostdich, 2002). Guardare i prodotti, toccare, prendere, girare e rigirare la confezione, leggere l’etichetta, annusare, mettere nel carrello; questi sono i gesti che sono stati campionati e analizzati nella ricerca M&T svolta in ipermercati, superstore e supermercati. La ricerca dimostra che sono variabili le modalità, i tempi, le sequenze e gli esiti dell’interazione (mette nel carrello/non mette nel carrello) a seconda della categoria di prodotto (frutta, carni, formaggi, biscotti ecc.), del tipo d’acquisto (programmato o d’impulso), della presenza di promozioni e della novità del prodotto. Quello che non cambia è il fatto che tutta l’interazione è sostanzialmente un processo di ricerca di informazioni, di una durata che varia dai 5 minuti dedicati ai biscotti ai 10 minuti necessari all’esplorazione del banco della carne. Un iter conoscitivo che consiste in numerosi “toccamenti”, manipolazioni, annusamenti, letture di etichette. Davanti allo scaffale il consumatore attiva dunque un processo di “comprensione” in cui spesso l’atto di comprendere è tutt’uno con quello di prendere, dove il “prendere” si intende come atto preliminare allo scegliere e al riporre nel carrello. Non è un caso che i buoni progettisti di interfacce per l’e-commerce, per la necessità di ricostruire questi meccanismi in termini di usabilità di oggetti simbolici, hanno approfondito a dovere la sequenza cognitiva e operativa dell’acquisto, anche se il “carrello” è virtuale e tutto l’ambito di interazione non è che una metafora, raffigurata sul piano dello schermo, del processo fisico. Il latino comprehensio significa letteralmente presa, atto dell'afferrare. Il pensiero umano ha qualcosa di “prensile” e, come per il bambino sul seggiolone, la manipolazione “ludica” è alla base della conoscenza, tanto che sono numerose le metafore che assimilano il pensiero all’attività della mano (Black, 1983). Il passaggio metaforico dall'idea di prendere fisicamente a quella di prendere con la mente, dunque capire, è molto diffuso nelle lingue del mondo: quasi ovunque “afferrare” significa anche comprendere. La parola Begriff , “concetto”, che i filosofi tedeschi usano in senso molto astratto, significa letteralmente e concretamente “afferrato” e begreifen significa comprendere come, d’altra parte, l’inglese to grasp. Anche capire (capere) o leggere (legere), in latino volevano dire prendere, raccogliere. I gesti delle mani che accompagnano la parola, pur nelle diverse varianti culturali, non fanno che visualizzare la “manipolazione” di concetti astratti: come il gesto delle dita per esprimere la sottigliezza di un’argomentazione, il gesto della mano per separare due aspetti di un problema, o per condensare, stringendo il pugno, un concetto. Da un punto di vista fisiologico, la mano tocca e sente sommando alle stimolazioni cutanee le sensazioni interne originate dall’attività dei muscoli, dei tendini e delle articolazioni (propriocezione) e attivando un’area della corteccia somatosensoriale essenziale all’esperienza e alla comprensione del mondo esterno (Genatz, Hatwell 2002). Temperatura, scambio termico, umidità, texture, peso e consistenza meccanica sono elementi di quell’esperienza “aptica” (tattile e propriocettiva) della mano che i progettisti di interfacce uomo/computer immaginano di poter simulare in futuro. Ma la mano è al servizio anche degli altri sensi consentendo di sottoporre l’oggetto afferrato

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alla scansione della vista, all’olfatto, al gusto, all’udito. Come nel caso del consumatore al supermercato. La sceneggiatura (“frame”) della vendita non assistita, quella cioè che avviene nella grande distribuzione organizzata, ci riporta dunque, in un certo senso, a una condizione primitiva e felice del consumo, quella del cacciatore-raccoglitore che esplora l’ambiente naturale e mette in moto i suoi sensi e le capacità manipolatorie per acquisire esperienza-conoscenza sulle potenziali fonti di nutrimento, di utilità, di piacere. Se il prodotto è nuovo per il consumatore il processo sarà di scoperta, se il consumatore ne ha esperienza l’incontro sarà un’occasione di ulteriore valutazione (incremento dell’esperienza-conoscenza) e, in caso favorevole, di appropriazione. Una sequenza di operazioni e decisioni che, per selezione darwiniana, abbina l’utilità al piacere, come nel caso del gioco e del sesso (Gehlen, 1983, 1987). Il vantaggio di osservare questa sorta di regressione piacevole ad una modalità primordiale (o addirittura subumana) di conoscenza può risiedere, per gli addetti al marketing, nella possibilità di approfondire i meccanismi percettivi e le “concatenazioni operazionali” (per dirla con Leroi-Gourhan) messe in atto dal cliente per poi definire alcuni requisiti del packaging e del display delle merci (Leroi Gourhan, 1977). Antropologicamente lo shopping nel largo consumo è dunque un’esplorazione dove vengono attivati, come in tutti i processi ludici-esplorativi, moduli di comportamento finalizzati spesso più che al soddisfacimento immediato di un bisogno o di un impulso isolati, all’acquisizione di conoscenza secondo un processo “epistemico” in cui vengono messe alla prova alcune ipotesi circa la capacità di certe marche e di certi prodotti di essere in grado di soddisfare bisogni ovvero di fornire esperienze piacevoli. Ma non c’è solo un modo antropologico per guardare al processo di selezione del prodotto. Come dice Bateson “la percezione opera solo sulla differenza. Ricevere informazioni vuol dire sempre e necessariamente ricevere notizie di differenza. Ciò a cui il ricevente (ad esempio un organo di senso terminale) reagisce è una differenza o un cambiamento. (Bateson, 1984). La semiotica, studiando i segni, studia in fondo ciò che, “segnando”, marca e rende possibile percepire una differenza (creando informazione) e, successivamente, darle un significato (trasformarla cioè in conoscenza ed esperienza). Come scrive Valeria Bucchetti “produzione di varietà e iperscelta hanno determinato, come è stato messo in evidenza, una condizione magmatica nel panorama dei prodotti. All’interno di esso è alla componente comunicativa che viene affidato il compito di guidare, di orientare – come sottolinea Benjamin – il destinatario nelle proprie scelte e di divenire elemento persuasivo e parte differenziante del prodotto, quindi fattore discriminante per la scelta.” (Bucchetti, 1999). Il problema della differenziazione è strettamente legato sia alla differenza tra le scelte possibili sia al cambiamento. La novità di un prodotto, un restyling, o semplicemente la scritta “NUOVO!” su un prodotto generano un “movimento” rispetto allo sfondo che rende il prodotto più percepibile (ma con il rischio di perdere riconoscibilità, identità e fiducia). Ma anche non cambiare quando tutto cambia è un comunque un “movimento relativo”. Si pensi all’esempio, fatto da Valeria Bucchetti, del packaging del Bitter Campari e del flacone di Chanel n°5, ma potremmo aggiungere Nivea e Nutella, che, restando stabili su uno sfondo in movimento, marcano comunque una differenza alla quale il mercato attribuisce valore. (Bucchetti, 1999) Ovviamente il modello antropologico spiega solo in parte quello che avviene durante l’acquisto. Il fenomeno del consumo è molto più complesso. Il gesto d’acquisto, basato sulla “valutazione”, cioè sulla percezione del valore della merce, ha una componente

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più propriamente logico-analitica (think), una componente estetica, emozionale, sensoriale, affettiva e “simbolica” (feel) e un “riflesso” operativo (do) strettamente combinati fra loro in vario modo a seconda della categoria del prodotto, del livello di prezzo, del layout e del display, della precedente esperienza-conoscenza del prodotto e dell’effetto della comunicazione (Daccò, 1999). Non sfuggirà, date queste premesse, il ruolo cruciale che il marketing attribuisce al packaging in un gesto d’acquisto così modellizzato. 7. Esperienza e dimensione narrativa del consumo Il racconto dell’esplorazione del supermercato da parte dell’homo erectus, alla ricerca di esperienza-conoscenza prima ancora che di soddisfacimento di bisogni, rende evidente la dimensione temporale del consumo e la necessità di studiarne la fenomenologia ragionando in termini di storie (Viceconte 2002, 2003). Per ottenere una corretta risoluzione di tale strumento di analisi abbiamo proposto di utilizzare sette scale di tempo, dalla scala che ci permette di osservare fenomeni che si esauriscono in pochi secondi alla scala, misurabile anche in secoli, in cui alcuni fenomeni, ad esempio culturali, evolvono. 1) Ogni interazione con un prodotto può essere pensata come una mini-storia che racconta un’esperienza. Ad esempio l’esperienza progettata per i consumatori di Pringles: la storia di un’euforia (che i progettisti definiscono in termini di curva del piacere/umore) (Cusi, Boffa 2000, Shapiro, 2000) che si mantiene costante dal momento della visione della scatola, all’apertura, fino all’ultima patatina. Una storia, assurta alla gloria dei case studies della Harvard Business School, che vuole svolgersi diversamente da quella delle patatine normali per le quali subentra la frustrazione delle mani unte e del prodotto sbriciolato in fondo al sacchetto. Potremmo raccontare micro-storie del genere per telefoni, scatole di profumo o di tonno, videoregistratori, automobili, barche, cibi, bevande eccetera. Il click di un tasto è un’esperienza puntiforme ma fondamentale per giudicare la qualità del feedback dell’interfaccia. Un click che “suona bene” è una buona esperienza ed è valore per il cliente. 2) Su scala maggiore, c’è la storia più lunga della relazione che la singola occorrenza di prodotto (se durevole) intrattiene col cliente; dalla scelta al service fino alla dismissione (compreso lo smaltimento) e all’eventuale riacquisto dello stesso articolo. 3) Passando da una storia che riguarda il singolo cliente a storie che riguardano quella moltitudine di clienti che chiamiamo mercato, c’è la scala dei tempi in cui si svolgono il ciclo di vita del prodotto e il ciclo di adozione della tecnologia. 4) Poi c’è la storia del rapporto con la marca (o con l’insegna commerciale); una storia (come quelle sentimentali) caratterizzata da fedeltà sincere/apatiche o tradimenti passionali/dispettosi, da innamoramenti e disinnamoramenti e che può essere raccontata sia dal punto di vista del cliente che dell’azienda (l’azienda orientata al CRM, al Customer Relationship Management, ne parla, più o meno, in termini di “ciclo di vita della relazione col cliente”). 5) E ancora c’è una storia della marca su una scala misurabile a decenni, delle sue trasformazioni, posizionamenti e riposizionamenti. Qualcosa che, al tempo delle marche sempre verdi, oltrepassava le generazioni e oggi può essere raccontata come lo sbocciare e l’appassire dei fiori. Ovunque trattiamo di storie trattiamo di tempo: la linea

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del tempo è essenziale per definire un percorso esperienziale; dimenticarlo, pensare che un prodotto è solo qui e ora, significa non avere una base su cui progettare l’esperienza. La sensazione di vuoto che proviamo di fronte ad una confezione di prodotto “unbranded”, è forse la mancanza di storia, di heritage, che comunica l’etichetta con la marca sconosciuta. 6) La sesta scala di tempo è quella nella quale si può apprezzare “la vita della forma”, così come la chiamava Kubler, l’emergere, come onde lunghe, degli stili. Kubler parlava di arte ma anche di storia delle cose (Kubler, 1976). Immaginiamo le onde degli stili delle cose come le linee curve nelle carrozzerie o la lunghezza delle gonne (indipendenti dalla lunghezza dei cicli di vita dei prodotti, che, in questa scala, sono brevi come eventi, come sassi nell’acqua); e immaginiamo ora le onde degli stili di vita, dei gusti, delle preferenze. Il valore estetico dell’esperienza di interazione coi prodotti e i servizi è l’incontro tra l’onda dell’offerta e quella della domanda. Le “oscillazioni del gusto”, descritte da Gillo Dorfles, oggi accrescono ampiezza e pulsazione. Un mare che si agita sempre di più per la moltiplicazione e la mutevolezza degli stili di vita e delle identità degli individui, creando non poche minacce all’uomo di marketing (che ragiona ancora in termini di ciclo di vita del prodotto e di segmenti di mercato) e non poche opportunità all’industrial designer (che invece ragiona in termini di ciclo di vita delle capacità espressive e simboliche del prodotto e di mindstyles). 7) La settima scala di tempo riguarda quei processi che creano, diffondono, o esauriscono, sistemi di valori e che rendono possibili quelle “mitologie” che abbiamo trovato alla base, ad esempio, di decisioni di marketing e di comunicazione. Più avanti, con alcuni esempi relativi alle “culture pop” americana e giapponese, chiariremo come molti consumi trovino il fondamento di valore in culture capaci di diffondere nel mondo le proprie narrazioni1. In un modello “per storie”, punto di vendita, prodotto, packaging, possono essere considerati “attanti” di una narrazione che prosegue dopo l’acquisto: una “superette” in cui si incontra l’anima gemella, un sofficino che piace ai figli o ai nipotini, come artefice di una riconciliazione generazionale, un pasto confezionato per il “single” che racconta: “mangerai da solo, ma ti tratterai bene, stasera”, una confezione di verdura lavata e selezionata che racconta il tempo risparmiato e le routine evitate, un abito che racconta di trasformazioni e seduzioni, e così via. Il packaging, che ha accompagnato il prodotto lungo tutta la catena logistica è pronto, nel momento in cui finisce nel carrello o nello shopper, a essere protagonista della storia raccontata al cliente. 8. Il packaging nella storia di un dono

“… la scatola tiene il ruolo di segno: come involucro, schermo, maschera, essa vale per ciò che nasconde, protegge e pertanto designa: essa dà il cambio, se si vuole intendere quest’espressione nel doppio senso monetario e psicologico.” Roland Barthes, L’Impero dei segni

1 Si potrebbe, a questo punto, parlare del ciclo di vita delle fonti di autorità e di certezza, ad esempio le religioni e le grandi ideologie, o di quei progetti filosofici orientati in senso temporale nell’ottica del “progresso”, quelle che Lyotard chiamava “grandi narrazioni” dichiarandole declinate insieme alla modernità. Ma, considerandole spacciate, non le resusciteremo proprio ora, per parlare semplicemente di prodotti e di confezioni. Potremo solo ipotizzare, senza prove, che le infinite narrazioni in cui si articola il discorso dei prodotti e sui prodotti sono forse il tentativo di ritrovare particelle di autorità e di certezza (ed elementi di semplificazione) nella frammentata “condizione postmoderna”.

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Abbiamo parlato del “vestito da sera” che una bottiglia indossa per essere donata. Alla fine della catena del valore c’è spesso l’offerta di un dono che, in sé, contiene un’esuberanza di valore rispetto alla natura della merce (…conta il pensiero! Ho un pensiero per te… è solo un pensiero!). Il pacchettino giapponese descritto da Barthes racchiude spesso un oggetto insignificante di cui “rimanda a un dopo” improvviso, la scoperta, esaltandone il valore attraverso la promessa che l’involucro fa. Il monumento viene svelato lasciando cadere la tela che lo “impacchetta” come si fa spesso oggi per un’auto consegnata a un cliente. Se la motivazione d’acquisto (ludico, esperienziale, consolatorio) non è più il bisogno ma l’autogratificazione, possiamo ricondurre anche l’acquisto che ciascuno fa per sé stesso alla logica del dono e immaginare di poter inscrivere molti consumi (almeno in chiave retorica) nell’economia del dono - Regàlati l’esperienza del prodotto X! -. Il caffè Borghetti si veste da “dono” non solo perché può essere donato agli amici prima della cena, ma anche perché ciascuno può donarlo a sé stesso. Nelle società in cui i bisogni primari sono facilmente soddisfatti, ogni cosa che è acquistata, poiché in qualche modo superflua, è in fondo un oggetto di regalo. Tale prospettiva mette nuove premesse alla logica di creazione e di scambio del valore e induce nuove strategie di marketing certamente più attente a quegli aspetti del progetto che significano e sottolineano (a livello connotativo) la volontà di reciprocità nello scambio e a incorporare poi, effettivamente, una componente di valore che il cliente percepisca come “regalata”. La relazione col cliente contiene sempre più un principio di reciprocità, di dono incrociato: il dono e l’obbligo che esso crea, il surplus di valore offerto in cambio della fedeltà della relazione. Un principio di reciprocità che riguarda tutta la catena del valore: fornitori, produttori, distributori, acquirenti e destinatari. Il flusso che scorre tra il vertice strategico dell’impresa e il mercato tende a configurarsi come una concatenazione di scambio: al suo interno non si mette in gioco solo valore monetario (sul quale difficilmente si potrebbe fondare la stabilità delle relazione) ma si mettono in gioco (attraverso la reciprocità) una serie di meccanismi d’obbligo reciproco. Non c’è solo lo scambio tra fornitore e cliente, tra il datore di lavoro e il dipendente, ma qualcosa di più. La gratuità dei servizi che si possono prendere da internet, dello spettacolo televisivo, dell’intrattenimento nello spazio commerciale, non sono che elementi inscritti in un’economia della reciprocità e della relazione prima ancora che in un business model volto alla vendita di contatti commerciali. 9. Il packaging nella storia delle origini (e della fine) Si definisce tracciabilità la possibilità di risalire, lungo la supply chain, alle origini del prodotto leggendone le diverse fasi di realizzazione. Questa informazione, che assume un’ importanza crescente per il mercato, è assolta dal packaging e dall’etichettatura. Si tratta di un’informazione precisa e legalmente definita. Ma il senso di tracciabilità si estende, in qualche modo più indefinito, diventando la storia (più o meno romanzata) che il prodotto racconta del suo procedere lungo la catena del valore: verso l’alto raccontandoci come il prodotto è stato fatto e da chi e se chi lo ha prodotto condivide certi miei valori e certi miei umori; verso il basso chiedendosi cosa farà succedere quel prodotto a me che acquisto, alle persone con le quali ho relazione, a chi eventualmente riceverà quel prodotto come dono. Giovanni Rana, il bonario imprenditore che impersona il flusso euforico e benefico che si propaga metonimicamente tra il vertice strategico dell’azienda e il mercato,

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rappresenta retoricamente la tracciabilità del prodotto, spingendo l’uso retorico della sua persona fisica fino a dichiarare in pubblico che lui stesso, in fondo, somiglia a un tortellino. In questo caso (di marca personificata, secondo la figura retorica della prosopopèa), come nel caso della firma di un dipinto o della griffe di un accessorio di moda, si interviene sulla tracciabilità del progetto estetico con un criterio “autoriale”: risalire all’origine del processo ideativo prima ancora di quello produttivo. La tracciabilità, cioè la possibilità di ricostruire la storia delle origini del prodotto assume un duplice significato: 1) la tracciabilità “legale” che racconta e garantisce la qualità “anagrafica”, chimica, fisica, biologica, etica, geografica, etnica ed estetica del progetto, del processo e, di conseguenza, del singolo prodotto; 2) la ricostruzione della vita del prodotto raccontata attraverso l’uso, nei processi di comunicazione, di strumenti informativi, descrittivi e narrativi. Il risultato è una rassicurazione complessiva che il flusso di valore abbia veramente incorporato alcuni valori che noi riteniamo importanti (la sicurezza, l’affidabilità, l’impegno per la qualità, la responsabilità verso le persone e l’ambiente). Un processo che noi svolgiamo, nel punto di vendita, con crescente uso della razionalità (e delle informazioni oggettive e fattuali) attraverso la nostra sempre più ampia competenza di consumatori prudenti e di lettori attenti di storie. C’è una qualità del prodotto di cui noi ci rendiamo consapevoli, attraverso un processo di abduzione, osservando i comportamenti e le scelte dell’azienda. Ad esempio, la strategia di comunicazione dei prodotti e degli spazi commerciali Muji (Bucchetti, 2004), ma potremmo anche estendere ad Ikea, può essere anche letta come visibilità di un processo di creazione del valore che, in termini di operations, definiremmo “snello” (lean production) e che, in termini di marketing, definiremmo come concentrato su quelle cose, e solo quelle, che costituiscono valore “reale” per il cliente. Una storia di saggia frugalità e una filosofia di onestà e concretezza molto leggibile dal progetto e in grado di generare adesione da parte del consumatore. Ma esiste anche una sorta di “tracciabilità” che riguarda la destinazione e la sorte del prodotto dopo l’acquisto e dopo l’uso. Se ci concentriamo sul momento della comprehensio, nell’istante cruciale per le strategie di marketing, quello in cui il prodotto è nelle mani del consumatore e viene valutato, ci accorgiamo che, sull’asse dei tempi esiste un prima e un dopo a cui il packaging si riferisce retoricamente in termini anaforici (ricapitolando il prima) e cataforici (anticipando un dopo). La storia del dopo-acquisto oggi non racconta solo di tavole imbandite e festose e di pavimenti brillanti, ma anche di una serie di operazioni logistiche legate allo smaltimento del prodotto, da casa al cassonetto (per quanto riguarda la parte della catena del valore di competenza del consumatore) e dal cassonetto all’ambiente (che riguarda il sistema che dovrà gestire i rifiuti solidi). Anche in questo caso c’è una componente di valutazione e decisione più strettamente legata ad una razionalità economica di breve raggio, e una componente più “lungimirante”, che attribuisce crescente importanza a vantaggi non immediati e non diretti. Una ricerca (Finzi, 2003) dimostra che se venti anni fa il 50 % delle persone apprezzava un packaging per la sua possibilità di essere riusato (come il cofanetto delle caramelle Sperlari), entrando a far parte delle “piccole cose di pessimo gusto” nella storia familiare, o come minute provviste d’utilità per un futuro incerto, oggi ancora il 31% pensa che la storia di una confezione possa anche finire così, nella credenza o sul comò. La fine imminente della convenienza alla conservazione del residuo di funzione d’uso e del residuo di funzione estetica della confezione per certi versi ha interrotto bruscamente la storia post-consumo del packaging (trasformandolo interamente in

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scoria fisica e semiotica), per altri versi ha generato l’opportunità di raccontare al consumatore un nuovo tipo di storia che ha due esiti: 1) il ritorno del lato solido del prodotto alla natura dalla quale, attraverso un processo artificiale, si è originato e si è distaccato; 2) la scomparsa del prodotto per “fare posto” ad altro. Un “fare posto” che ha anche un aspetto immateriale: l’azzeramento del lato simbolico del prodotto, il refresh del contenuto e del suo potere estetico, informativo, attentivo, per fare spazio a nuovi stimoli: la liberazione dello spazio nella mente, per nuovi consumi, che corrisponde esattamente al liberare lo spazio domestico dalle cose inutili e delle riviste illustrate della settimana prima. Lo spazio nello scaffale (quello del supermercato e quello della credenza di casa) e lo spazio nella mente, sono due risorse scarse e costose che il packaging ha l’obbligo di garantire attraverso la continua “rotazione” dei prodotti, delle immagini e dei significati che essi evocano. Il progetto del packaging si propone oggi molto spesso di raccontare, in modo persuasivo e avvincente, la storia di un ciclo di generazione, annullamento e rigenerazione. Forse anche per questo è frequente il riferimento alla natura organica delle cose. Una narrazione che si serve di figure retoriche efficaci per accostare la rigenerazione del prodotto e la rigenerazione della persona attraverso il consumo. La rappresentazione del mito della selvatichezza (frutti di bosco, foglie di menta, fiori tropicali), del mito della texture “naturale” (che è tessuto: superficie e struttura, legni, fibre, pietre, ma è anche, etimologicamente, testo, quindi superficie e profondità allo stesso tempo, in qualche modo storia), del mito dell’Oriente come luogo di ricomposizione della mente, del corpo e della natura, del lato solido e di quello immateriale secondo il topos del ciclo eterno di rinascita. Il canale di distribuzione “organic”, che adotta spazi commerciali, prodotti e packaging che fanno di questa mitologia il prevalente orientamento alle scelte di progetto, scaturisce dalla ridefinizione strategica del business e della catena del valore, ma anche dalla volontà di raccontare una storia diversa, più interessante, più rassicurante, più rilassante. L’estetica e la “visione” Muji, diventano una strategia capace di conseguire tre risultati: 1) creare visibilità della marca attraverso la rarefazione decorativa che la contraddistingue dalle altre marche (Muji in giapponese significa “senza marca”), 2) offrire questa parsimonia rarissima come dono (creando relazione e obbligo), 3) esprimere, in modo nuovo ed efficace per il mercato mondiale, il mito degli oggetti wabi-sabi (sempre nuovi perché sempre vecchi), dei templi di legno continuamente rigenerati, della fioritura del glicine e dei ciliegi cara ai poeti giapponesi. Un modo diverso di raccontare la storia delle origini e della fine dei prodotti e marcare un esclusivo posizionamento estetico e di valore. Su scale di tempo maggiori, tra le sette scale indicate nel paragrafo 7., la tracciabilità del prodotto si traduce nella possibilità di individuare l’heritage, cioè le origini e la storia delle marche (quando la storia è autentica e non di pura fantasia), le tecniche produttive (che possono aver valore per la tradizione che incorporano oppure per la novità che sviluppano), le culture in cui il prodotto si origina (il valore di tipicità, etnicità eccetera). Tutte funzioni che la macchina packaging può assolvere con maggiore o minore efficacia informativa e narrativa, esaltando l’heritage e/o la novità, scegliendo di rafforzare la patina del tempo (nella logica vintage), o di proporre le nuove tendenze espressive. Il packaging dunque svolge spesso la funzione di rappresentare simbolicamente e rendere leggibile al consumatore da una parte la catena del valore (da un punto di vista anche logistico e legale), dall’altra il processo ideativo legato a un autore, a una

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tradizione, a un processo di ricerca scientifica o a tutte e tre le cose insieme. A questo scopo il packaging ha funzioni sia di denotazione sia di connotazione. A livello denotativo può “descrivere” sia il processo logistico-produttivo indicando provenienza e natura del prodotto e dei suoi componenti principali, luogo di produzione e di confezionamento, anni di invecchiamento, data di fabbricazione, processi di trasformazione e lavorazione subiti (ad esempio “cotto a vapore”, “fermentato”, “cucito a mano” ecc.) sia il processo di ideazione e sviluppo indicando ad esempio il designer, l’origine della ricetta, il principio di lavorazione o costruzione, il laboratorio di ricerca ecc.. L’uso della connotazione, invece, tenderà a creare effetti di senso e a influenzare la lettura di queste informazioni enfatizzando ciò che è desiderabile dal consumatore modello (il valore), in modo congruente alle sue aspettative (proponendo ad esempio una carta rustica per un prodotto “contadino”, le parole “valle” o “orto” per dei legumi in vasetto, l’evocazione cromatica del sole per dei biscotti per la prima colazione, la figura di un nostromo con la barba per un tonno in scatola) e infine accompagnando la decodifica delle informazioni sulla confezione con messaggi euforizzanti e rassicuranti. Raccogliendo gli spunti degli ultimi tre paragrafi e volendo adottare fino in fondo il modello di packaging come testo possiamo concludere che siamo in presenza di un testo narrativo e potremmo riferirci ad un approccio di analisi del tipo di quello utilizzato da Greimas (Greimas, 1985). Nel progetto di packaging, come nel testo, sono in atto una serie di strategie centrate sul far credere e sul far fare: al concetto di verità si sostituisce quello di efficacia. Invece della verità si parla di veri-dizione cioè il far sembrare vero. Un “contratto di veridizione” si instaura tra i due attanti della struttura della comunicazione, l’enunciatore (il packaging) e l’enunciatario (il consumatore). Quando acquisisco le informazioni del punto di vendita non sto semplicemente elaborando una serie di comparazioni tra prezzo e beneficio, tra gusto e nutrimento eccetera ma sto inquadrando le informazioni che ricevo in una “razionalità paradigmatica” (quali prodotti sto comparando con lo stesso criterio?) e in una “razionalità sintagmatica” che mi fa accettare una serie di nessi causali e mi fa passare dal sapere (l’esistenza di un certo ingrediente o di un certo processo di lavorazione) al credere (che questo ingrediente mi faccia bene o mi dia un’esperienza piacevole di consumo o che questo processo che precede il consumo sia propedeutico al miglior risultato). In questo senso il “progetto delle apparenze” riguarda non solo la forma ma anche la storia raccontata dal prodotto. Il valore del prodotto (il beneficio atteso) è dunque oggetto di una narrazione svolta dalla confezione che sto leggendo, appoggiato al carrello, dopo aver tolto la confezione dallo scaffale. In cerca di uno “statuto semiotico del valore”, Greimas ha analizzato nella prospettiva del valore un corpus di fiabe e noi ci sentiamo autorizzati a farlo con i prodotti che raccontano fiabe di orti incantati e di doni magici. “Abbiamo scoperto del valore (nella natura, nei “Laboratoires Garnier”, nella cultura contadina ecc.) lo abbiamo coltivato, colto, difeso, portato fino a te che lo meriti” (“perché io valgo”, claim de L’Oréal): questa è la sequenza degli enunciati narrativi (o delle funzioni) nella narrazione svolta, come riassunto, riepilogo, resoconto e anche come pura invenzione, da alcuni packaging. Lo scambio sarà il momento in cui, mettendo il prodotto nel carrello, la fiaba raggiunge il suo culmine. Nel saggio “La zuppa al pesto o la costituzione di un oggetto di valore”, Greimas analizza una ricetta di cucina come una particolarissima narrazione che possiamo definire come un programma generativo di valore (in Greimas, 1985). Ogni operazione descritta dettagliatamente nel testo contribuisce al valore finale della zuppa. Il valore posseduto dal cuoco (saper fare la zuppa) è trasferito al lettore attraverso la ricetta.

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Persino la provenienza degli ingredienti (basilico italiano e aglio provenzale) tendono a mostrare che ogni prodotto che venga da altrove “implichi per questo delle operazioni di trasporto che gli conferiscono già un valore” entro uno “statuto culturale delle spezie”. Il packaging dunque contiene in sé e rende leggibile il programma generativo del valore. In ottica greimasiana allargata, la decisione di acquistare o meno il prodotto discende dall’efficacia (performance di vendita) della narrazione di cui si incaricano la marca e il packaging. Un’efficacia che dipende, come si diceva in precedenza, dalla capacità di utilizzare, sull’asse dei tempi in cui “ora” è l’istante della valutazione del prodotto, una retorica persuasiva basata sull’anafora (quando si riepiloga la storia precedente, portandosi indietro nel tempo) e sulla catafora (quando si anticipa la storia futura, portandosi in avanti). Nel caso delle istruzioni presenti sulla confezione l’esempio della zuppa di Greimas è da prendere alla lettera. In questo caso non si descrive la storia passata ma si pre-scrive quella futura del prodotto e, cataforicamente, se ne anticipa l’esperienza piacevole del consumo. La raffigurazione del piatto guarnito e pronto al consumo, le scritte “conservare in luogo fresco”, “consumare entro un mese”, “per aprire sollevare la linguetta”, “aggiungere latte e mescolare”, “cuocere per otto minuti”, “servire freddo”, e “…buon appetito”, sono prescrizioni presenti sulla confezione volte a trasferire al consumatore-produttore la capacità di creare valore, o di preservare il valore esistente, o, addirittura di confondersi con esso nello scambio (come nel claim “perché io valgo”) insomma la capacità di essere l’anello finale della catena del valore, dispositivo vivente di produzione e logistica. Una coppia di ruoli (il prodotto e il consumatore) improntata alla cooperazione. Volendo insistere sull’economia delle esperienze è in questa fase che si sviluppa l’esperienza di consumo del prodotto, quella che determinerà la percezione del valore nei successivi ri-acquisti. Un processo tutto interno al consumatore, che lo coinvolge sia a livello operativo sia interpretativo. Se da una parte il ruolo cooperativo del consumatore sarà rigidamente prescritto dalle istruzioni d’uso o dalla ricetta di preparazione, dall’altra godrà di una certa apertura e di una gamma più sfumata di interpretazioni e di esiti possibili, soprattutto riguardo al significato e al peso che questi darà all’esperienza e al piacere che ne verrà tratto. Se, come diceva Barthes, il pacchetto “rimanda a un dopo”, questo dopo è nello sprigionarsi, dall’esperienza, della soddisfazione e del piacere. 10. Mimicry design Abbiamo definito il packaging come una “macchina”, vale a dire come un artefatto in grado di interagire con l'utente e svolgere una serie di attività e operazioni nella logica del congegno. Queste caratteristiche hanno condotto spesso i progettisti allo sviluppo nella confezione di ingegnose funzioni intenzionalmente ludiche. Si configura un gioco ogniqualvolta l'ingegno del progettista concepisce gradi di libertà nell'utilizzo di un artefatto, sequenze operative meccanicamente predeterminate, giochi, intesi nel senso meccanico, sensoriale e, infine, concettuale. Gli obiettivi che si vogliono perseguire nella progettazione del meccanismo di apertura della confezione possono, ad esempio, oscillare tra due polarità opposte. Da una parte si può puntare alla spiccata ergonomia cognitiva, basata sulla prevedibilità di una sequenza di operazioni standardizzate e sulla sua interiorizzazione come routine (ad esempio il verso in cui si svitano i tappi); dall’altra il progetto può puntare alla sorpresa, con il fun che ne consegue. Il meccanismo di chiusura/apertura della confezione di un farmaco sarà dunque improntato all’ergonomia e alla standardizzazione (cosa spesso dimenticata proprio

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dalle case farmaceutiche), e/o alla funzione di impedirne l’apertura da parte di bambini, mentre, con una logica opposta, quella di un profumo potrà essere oggetto di divertente scoperta durante il gioco di esplorazione della confezione. Esiste dunque un’ interfaccia uomo-macchina che si presta ad essere progettata con i criteri dell’ergonomia, ma anche tenendo conto della jongleurie dell’utente, secondo l’accezione che ne hanno dato Maldonado e Dorfles (Dorfles, 1965), vale a dire un fruizione basata sul gusto dell’applicazione della “destrezza”, sull’esperienza sensomotoria, sulla gratuità di alcune interazioni, eseguite solo per il piacere di interagire. La dialettica tra aspettativa e scoperta, tra ergonomia e gioco, tra ingegneria ed ingenium, diventa parte dell’esperienza e del godimento estetico del prodotto. Il packaging come forma di intrattenimento ed esperienza di gioco. D’altra parte, ricordando quanto detto da Barthes, il meccanismo di svelamento del prodotto, che può consistere in numerosi livelli di imballaggio, in modo da ritardare il piacere, può essere visto come gioco di amplificazione dell’effetto attesa-sorpresa. Che il packaging abbia la funzione di intrattenere è evidente quando, assonnati durante la colazione del mattino, ci intratteniamo leggendo la scatola dei biscotti. In quel caso è l’apparato testuale ed iconico del packaging ad intrattenerci. Altre volte questa funzione è assolta dalla parte meccanica del prodotto. Come si diceva a proposito della scala dei tempi in cui si sviluppa l’esperienza (par. 7), il click con cui si apre e si chiude una confezione può avere una funzione di micro intrattenimento (pensate alla gratificazione dello scatto ripetuto di una penna biro o al tic-tac dell’apertura delle pastiglie omonime). Nello script di consumo della Pringles è previsto di tamburellare sul tappo della confezione; una funzione che viene indicata esplicitamente nello spot pubblicitario come accade per il tic tac delle pastiglie. Il rumore dello stappare una bottiglia, dell’effervescenza che si sprigiona, del versamento sono amplificati e messi in scena sullo schermo televisivo, per evocare la festa o l’estinguersi della sete (“Dai! stappa un Crodino!”). Un packaging che esegue bene questo copione (mantenendo la promessa della pubblicità audiovisiva) avrà un elevato impatto sull’esperienza del prodotto e sulla curva di piacere-umore legata al consumo. Pensate come può rovinare la festa il rumore che fa un tappo per il vino in silicone invece che in sughero. Ma c’è una dimensione più concettuale del fun che può essere ricavato dal packaging. Per analizzarla ricorreremo alla sistematizzazione delle diverse tipologie di giochi che dobbiamo a Roger Caillois. Secondo Caillois, le fonti di quell’esperienza che chiamiamo “gioco” possono essere classificate in quattro categorie: alea, agon, ilinx, e mimicry. Il piacere dell’alea è negli esiti imprevedibili del caso, quello dell’agon è nella competizione, quello dell’ilinx è nella vertigine (come nelle giostre) e, infine, quello della mimicry è nella simulazione o, come dice la parola, nel mimetismo. In ogni gioco le quattro esperienze sono spesso mescolate insieme come i colori di una tavolozza. Sono giochi mimicry quelli che ci divertono per l’imitazione, più o meno deformante, che un artefatto (o una rappresentazione) fa della realtà o di altri artefatti o rappresentazioni: è mimicry il teatro ma anche il modellino o la bambola. Sono giochi mimicry quelli in cui siamo noi stessi a far finta di essere qualcuno o qualcosa di diverso. C’è un divertimento mimicry anche nell’uso della retorica nel linguaggio, quando ad esempio usiamo l’ironia (affermare una cosa intendendo dire l’opposto), l’iperbole (ingigantire le proporzioni), e tutte le diverse tipologie di discorso metaforico. Nel design è mimicry un prodotto in cui notiamo (quasi sempre con divertimento) che qualcosa si è trasformato in qualcos’altro (ad esempio un’automobile vera in un

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giocattolone, come nel caso delle sport utility o del Maggiolone, un cibo povero in una raffinatezza, uno straccio in un vestito da sera, una fattoria in un albergo, una fabbrica in un museo, uno scalo portuale in quartiere alla moda). È mimicry indossare un diverso lifestyle e un abito diverso quando cambiano le circostanze oppure ogni volta che ci piace. Il concetto di mimicry design, che abbiamo introdotto parlando di design delle esperienze nello sviluppo di nuovi prodotti (Viceconte, 2003), fa riferimento a quei progetti in cui si cerca di contribuire all’esperienza del fun, attraverso una trasformazione mimetica. Esiste sicuramente una ragione retorica se una bottiglia di latte in plastica imita la vecchia bottiglia di vetro, anche se non esistono motivi tecnici per questa scelta e anche se le ultime generazioni di consumatori hanno perso la memoria di quella forma, e se la carta delle fette biscottate imita quella della panetteria. Tale forzatura retorica, oltre al desiderio di connotare dei valori tradizionali e rendere riconoscibili dei prodotti attraverso delle convenzioni, contiene in sé un gioco mimicry in cui il consumatore ha piacere di essere coinvolto. Nella cosmetica tale approccio progettuale è più spinto, e il gioco è più libero. In questo caso il packaging, trattandosi di prodotti informi, è la componente del progetto che meglio si presta al gioco mimicry. Rispetto ai prodotti alimentari (anch’essi spesso informi) il packaging cosmetico 1) ha minori vincoli di costo, 2) può spostare decisamente la proposizione di valore verso il lusso e il superfluo, 3) ha meno obblighi da assolvere nel garantire al consumatore (attraverso la stabilità) l’affidabilità, l’igiene, la tradizione, l’origine del prodotto ecc.. 4) contiene e può liberamente ed esplicitamente interpretare dei valori di trasformazione, 5) è più strettamente legato ad altri “giochi”, ad esempio quello della seduzione e quello del travestimento, 6) la metafora della cosmesi può essere forzata in diverse direzioni assiologiche interpretando di volta in volta valori estetici, curativi, nutritivi, igienici e, all’interno di questi mondi, la promessa del packaging può spostarsi dalla trasformazione (diventare più interessanti) alla conservazione (restare giovani, esaltare la propria personalità), dal detergere al nutrire, dall’aggiungere (colore, segni seduttivi) al levare (grasso, rughe, macchie, “inestetismi”). E’ dunque nel packaging cosmetico, così legato al concetto della “metamorfosi”, che troviamo l’applicazione sistematica del mimicry design. Il packaging, come la corazza degli insetti, assume non solo una funzione strutturale, consentendo al prodotto che esso secerne di svolgere le sue funzioni, ma anche le stesse valenze mimetiche o attrattive degli esoscheletri degli insetti. Come le iridescenze di uno scarabeo, o la trasformazione in foglia della mantide, il progetto del packaging

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cosmetico assolve una serie ben precisa di funzioni sul piano delle apparenze. Un esempio evidente di mimicry design è l’imitazione, da parte dei cosmetici, dei prodotti farmaceutici. Come per gli insetti, c’è sicuramente una prima motivazione legata alla corrispondenza tra funzione e forma. Come due specie animali diverse tendono ad assomigliarsi se si trovano ad affrontare lo stesso tipo di problemi di adattamento (come i delfini e i tonni), prodotti cosmetici e farmaceutici si trovano molto spesso ad avere problemi comuni di dosaggio, applicazione, conservazione, igiene. Le confezioni monouso, ad esempio, nascono da problemi di deperibilità e di trasporto (ad esempio in viaggio). Le garze termali tonificanti, come quelle prodotte da Collistar, rispondono ad esigenze di progetto simili a quelle per il rilascio di principi curativi attraverso la pelle e sulle lesioni. Mimano invece le confezioni di farmaci omeopatici, ma con l’aggiunta di diluitissimi colori della natura, i prodotti della Korres, azienda giovanissima che prende vita da una farmacia omeopatica di Atene (Pedrazzini, 2004). Alla motivazione funzionale del mimetismo si aggiunge un secondo tipo di motivazione che potremmo riferire all’identità e al riconoscimento: con il mimetismo una specie può essere confusa con un’altra o con una pianta o con una roccia e questo può costituire un vantaggio evolutivo. La confusione viene provocata a livello di decodifica delle apparenze. Il packaging cosmetico, nel momento in cui vuole promettere effetti curativi (pay off) e, in un impeto scientista, il ricorso a tecnologie sofisticate di processo e di prodotto (reason why), troverà ispirazione nelle apparenze dei prodotti che derivano dalla ricerca farmacologia e dai principi scientifici e tecnologici che in quei prodotti vengono applicati. Inoltre nell’ambito di un’ideologia in cui l’“inestetismo” è una malattia, la “cura” si baserà su principi chimici, sintetici o meglio naturali e, nei casi ostinati, sulla chirurgia. Alla ricerca di legittimazione per i principi attivi utilizzati, si sviluppano progetti di packaging che prevedono sacche per il plasma, blister, fiale, boccette di capsule, tubetti, per contenere ed erogare bagni schiuma al plancton, gel rassodanti, creme idratanti, sostanze ristrutturanti. Qualche volta i colori si adattano allo scaffale della profumeria,

altre volte il mimetismo è completo, nella forma, nei colori e nella riduzione al minimo

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della decorazione. Per chi sa prendere le distanze dall’ideologia corrente il gioco mimicry può essere ironico quanto basta per considerare il packaging medicale “divertente”. Quasi cinquanta anni fa Roland Barthes ha scritto pagine esemplari sulla mitologia dei cosmetici affermando che: “la medicina permette (…) di dare alla bellezza uno spazio profondo (derma e epiderma) e di persuadere le donne che esse sono il prodotto di un circuito germinativo in cui la bellezza delle efflorescenze dipende dal nutrimento delle radici”(Barthes, 1957). Lungo un’altra direzione, i progettisti di oggi fingono di cogliere in senso letterale la suggestione di Barthes che il cosmetico possa essere assimilato retoricamente al nutrimento e sviluppano packaging mimicry che simulano prodotti alimentari. La retorica “olistica” sottostante è quella del benessere e della naturalità in tutti gli

aspetti della vita (cibo organic per il corpo e per la mente). Il latte per il corpo della linea Miss Milkie di Pupa è contenuto nella bottiglia del latte e le creme in erogatori per la panna e in vasetti di yogurt (inevitabile una simpatica mucca nel marchio); i sali da bagno della nuova linea di Benetton, che vengono proposti ai bambini (non si sa per risolvere quale bisogno) sono come zollette di zucchero, il sapone è un pacchetto di burro, l’immagine sulla confezione è la simpatica pecora Benny, garante della “genuinità e freschezza del prodotto” (Capelli, 2004). Anche la confezione di acqua di colonia della linea Lei/Lui di Emporio Armani è impacchettata, con carta bianca, come un panetto di crescenza, ma senza animali simpatici nell’illustrazione. Nascono capsule cosmetiche che imitano medicinali o caramelle o tutte e due le cose insieme come nel caso di quelle ristrutturanti per il seno di Collistar che suggeriscono la ricongiunzione naturale di salute, bellezza, bontà e divertimento. Il mito dei valori germinativi e metamorfici legati a certi nostri consumi trova nelle forme dei baccelli continua ispirazione mimicry, anche nelle forme minimaliste dei blister: una metafora “organic” sia della rinascita che del potenziale nutritivo e vitale perfettamente dosato secondo una saggezza naturale imitata dalla scienza e dalla tecnologia. Baccelli, bozzoli, ghiandole, carapaci e, di conseguenza, la cellulosa, la seta,

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l’epitelio, la chitina, diventano oggetto di design mimicry delle forme e dei materiali non solo per i cosmetici ma anche per gli esoscheletri o le valve che rivestono i prodotti dell’elettronica, atti a contenere e inviluppare, più che meccanismi e circuiti, quei principi generativi immateriali (il software, il codice). Si tratta di un mimetismo con la natura entomologica e botanica che riscontriamo anche nel “guscio” o nella “buccia” che contengono le attività di servizio: un centro commerciale, un museo, un terminal aeroportuale. Edifici progettati come blister di funzioni di servizio, per definizione “informi”, come dosatori di flussi di passeggeri, come erogatori di flussi di informazioni, conoscenze ed esperienze, come elaboratori di processi di trasformazione, come contenitori attraenti e funzionali sullo scaffale dello spazio urbano. Spesso si tratta di zoomorfismo che trae le forme, come nel barocco, anche da valve, columelle, spugne o altre strutture atte ad ospitare organismi e tessuti “molli” creando, non importa se nella scala minuta della confezione o in quella monumentale dell’edificio, suggestioni sensoriali che sarebbero piaciute allo sguardo del poeta “morfologo” Francis Ponge. Il gioco mimicry della scala dimensionale (che fa godere Sant’Ivo alla Sapienza di Borromini come archi-scultura, e che diverte l’immaginazione con l’amplificazione o la miniaturizzazione dei volumi esterni) si applica anche al gioco comune a tutti i bambini di amplificare con l’immaginazione la scatola-giocattolo fino alla scala dell’edificio, divertendosi all’idea di poter abitare lo spazio interno. Partendo dall’assunto che la spinta a sviluppare identità e riconoscibilità di un prodotto sullo scaffale non differisce molto da quella che spinge a immaginare un edificio nel paesaggio e nella skyline di una città, si può intravedere dunque la convergenza tra le forme del packaging e quelle dello spazio costruito, forzando la metafora “infantile” della scatola già comunemente usata per gli edifici. Dal Crystal Palace ai musei contemporanei nati per il marketing territoriale, molti edifici, vengono poi progettati per contenere e mostrare merci: questo non fa che accorciare le distanze tra le forme del packaging delle merci e quelle architettoniche. Oggi che il contenuto di un centro commerciale può essere definito un’ iper-merce (Codeluppi, 2000) possiamo a buon motivo parlare dell’edificio che lo contiene come di un iper-packaging. Se la funzione di contenere può essere svolta da cofani e cofanetti che hanno tratto ispirazione monumentale mimicry da edifici (come il cofano della Rolls Royce) o da certi flaconi, come succede spesso per i profumi che sembrano sontuosi micro-monumenti, come i rossetti-grattacielo Electric della Estée Lauder, oggi possiamo credere che un centro polifunzionale sia simile a una cassetta per gli attrezzi, un grattacielo possa in fondo nascere dalla stessa scelta generativa organica di un flacone di bagno schiuma Vidal, uno spazio fieristico dalla stessa opportunità di riuso e di refill di un erogatore, dagli stessi vincoli di costo/valore di un tubetto di dentifricio, dalla spinta alla riduzione dello spessore del rivestimento e alla trasparenza (intesa come dialogo tra interno ed esterno, come schermatura della luce, come sparizione), dalla ricerca di un microclima interno e di un’ “atmosfera modificata” ideali per la natura organica del “contenuto”, dalla tensione dell’involucro a conformarsi al contenuto e ad aderirvi, come accade a una pellicola termoretraibile, dall’ancillarità rispetto alla funzione di servizio contenuta, dalla necessità di essere richiamo visivo e attentivo, di fornire informazione dettagliata, e, infine, di fungere da macchina logistica. Il tramonto dell’era vitruviana, annunciato ad esempio dalla Biennale di Venezia 2004, intitolata Metamorph, significa che declina, nell’architettura, la priorità della stabilità, della firmitas, della durata. Una progettazione per la breve durata che accomuna lo

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spazio costruito al packaging e determina esiti morfologicamente somiglianti (e piacevolmente mimicry) dei due processi di generazione. La spinta imitativa, che esiste da sempre presente in architettura (Brusacco, 1992), è oggi fortemente presente nella cultura del progetto soprattutto per quanto riguarda la biomimicry (Langella, 2003). L’obiettivo dell’imitazione non è solo la ricerca della soluzione tecnico-economica ed estetica migliore, o la connotazione, ma anche, nell’ottica di Caillois, il gioco. Nel paragrafo che segue affronteremo un tema che è conseguenza diretta della progettazione mimicry: l’ambiguità come strumento di marketing e il riferimento a del prodotto e della marca a mondi infantili o adolescenziali.

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11. Casi di studio 11.1. Al bar La scena è ambientata in un bar del centro, alle cinque del pomeriggio: due ragazze di circa tredici anni e di buona famiglia ordinano un Bacardi Breezer. Sono poco più che adolescenti e sono ben truccate. Frutto di un “progetto di restyling dell'identità visiva con l’obiettivo di ottenere un’immagine di marca attraente per il target di riferimento principale (18-24 anni) e nello stesso tempo adatta a fidelizzare il target più maturo” (Italiaimballaggio, 2002) la bottiglia fa parte della scena che le ragazzine, stanno interpretando con la complicità del barista. Gli alcopop, come il Bacardi Breezer e lo Smirnoff Ice, sono bevande alcoliche premiscelate, dal colore invitante, dal sapore dolce e gradevole, anche per le ragazze che normalmente stanno lontane da vino e birra. Uno studio inglese commissionato dai produttori di birra ha rilevato che l’85% dei ragazzi e l’87% delle ragazze tra 15 e 16 anni ha assunto alcopop. Il mix di superalcolico e succo di frutta (5,6 gradi alcolici) non è solo una ricetta ma anche qualcosa che si colloca, a livello di significato, tra “artificio” e “natura”, in una zona immaginaria, un locus amoenus, identificabile da palmizi e spiagge bianche, in cui l’artificio (trasgressivo, chimico, moderno, urbano, notturno) e la natura (salutare, originaria, tropicale, solare) si compensano e si rinforzano in un crescendo euforico retoricamente, stilisticamente e ideologicamente ipercodificato negli spot commerciali, nei videoclip e nei cataloghi delle agenzie di viaggio. L’esperienza evocata è definibile in termini di “free”, di “cool”, di “fun”, e di “fresh”, e si compie nel gesto dell’assunzione della bibita in un contesto amicale e complice, prevalentemente urbano. La campagna pubblicitaria avvalora l’effetto del prodotto che riesce a liberare, dentro ogni brava ragazza, quello “spirito” libero e trasgressivo (con il gioco di parole “free spirit”) in cui sensualità e gioco infantile si fondono. Un’esplosione di “monelleria” al femminile a cui fa riferimento anche lo stereotipo di molti profumi, che pretendono di essere euforicamente liberatori. Il profitto di distinzione (cioè il sentirsi “giusti”) si accompagna, immediatamente e sensorialmente, alla gratificazione del dolce, del freddo, del dissetante; qualche minuto dopo anche all’effetto inebriante dell’alcool. Parallelamente, durante tutta l’esperienza di consumo che si snoda tra l’ingresso nel bar e l’uscita, avvolge i gesti l’aura di distinzione che la marca è riuscita a creare, comunicando chiaramente “il proprio posizionamento nella fascia alta di un mercato sempre più agguerrito e segmentato” (Italiaimballaggio, 2002). Le scelte stilistiche del packaging, che tende a connotare lusso “notturno” con l’uso del nero e dell’oro nella grafica, rinforzano i segnali che suggeriscono che quella bottiglia è fonte di un’esperienza “esclusiva”. Associata alla sceneggiatura descritta, c’è una “curva del piacere/umore” lungo la quale evolve l’effetto euforico attivato, nelle ragazze, dal consumo: a partire dal prodotto e dalle sue caratteristiche organolettiche e chimiche, dalla bottiglia, dall’etichetta e dall’ambientazione in cui viene consumato (Viceconte, 2003). Lo sdoganamento, per le ragazze, del gesto di consumo di alcolici, “consentito” sinora a maschi adulti e letto da sempre dalle ragazze con connotazioni negative, è affidato alla messa in scena del prodotto e al sito web che, oltre a strumenti di

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community e di chat, propone esplicitamente come “giusta” l’assunzione della bevanda direttamente dalla bottiglia in pomeriggi assolati, oppure prima di notti “scatenate”2. Dal punto di vista progettuale la bottiglia è frutto di un processo che si può riassumere in questa sequenza: 1990, lancio del prodotto negli Stati Uniti con pochi gusti, un posizionamento non bene identificabile, e una bottiglia somigliante a quella di una birra o di un sidro. 1992, lancio in Gran Bretagna. 1996 primo restyling con maggiore identità del prodotto. 2001, lancio in Italia con un restyling che si rivolge ad un mercato potenziale, completamente nuovo, in un target al di sotto dei 25 anni, anche femminile (progetto Robilant&Associati) e con l’obiettivo di “creare un design moderno che conferisca longevità e status all'immagine del prodotto e di assicurare una forte connotazione di marca leader”. 2001-2003, ampliamento della gamma dei gusti (grapefruit, pesca), sviluppo del sito web orientato alla community (www.bacardi-breezer.it). Il messaggio trasgressivo del “pay off”, sostanzialmente libertario (free spirit!), ha in sé la meccanica del doppio legame, teorizzata da Gregory Bateson e studiata clinicamente da Milton Erickson e da Paul Watzlawick. Nel momento in cui si prescrive la disobbedienza alle prescrizioni (- trasgredisci! -), il risultato può essere l’induzione nel ricevente, incapace di risolvere il paradosso, di un’instabilità cognitiva: un ingorgo che può abbassare i filtri razionali. In questo caso l’abbandono al consumo può fornire un’esperienza di sollievo e di leggera vertigine. Quest’effetto, ben noto nello studio dell’ipnosi, è sicuramente più sensibile negli adolescenti, inevitabilmente in crisi di identità. Tornando al packaging, l’ambiguità tra la forma della bottiglia (alcolica, dura, maschile, adulta), e i colori pastello del contenuto (naturali, fruttati, morbidi, femminili, infantili) contribuiscono a creare una tensione irrisolta ed intrigante. L’uso deliberato dell’ambiguità nel marketing, invece di essere una minaccia al posizionamento del prodotto, sembra essere uno strumento per addensare energie, nel momento della scelta, e per scaricarle nel gesto di consumo. Se il marketing classico, adottando il paradigma della stabilità, operava sul target (inteso come bersaglio) cercando di colpire al centro, il marketing attuale mira invece al margine, nelle scissure e nelle linee di instabilità e discontinuità del mercato, col beneficio di scardinare posizioni di mercato della concorrenza consolidate in statiche “nicchie”. Il “sistema prodotto” tende dunque, anche attraverso un effetto “a frammentazione” che disperde schegge semiotiche un po’ a caso, a conformarsi al compito di incunearsi nelle fenditure, con strategie coerenti con l’instabilità e la discontinuità: si pensi a uno spot televisivo di Bacardi Breezer (che potete scaricare dal sito web) che rappresenta una seduta psicoanalitica in cui una giovane donna in tailleur scuro fa emergere associazioni mentali molto trasgressive. Nella stessa categoria, una scelta di marketing diversa, quella del Campari Mixx, ha fatto indossare al prodotto un “body” integrale termoretraibile, scuro, aderente e metallizzato (la tecnologia si chiama “shrink sleeve”), senza nessuna ambiguità nel posizionamento peccaminoso (a cui provvedono anche le due X del nome e la X sul collo). Il roseo succo di pompelmo è nascosto e, a proposito della bottiglia inguainata, la Finpack, che ha sviluppato la tecnologia, dice testualmente: «una particolarità unica, questa, che ha trasformato un semplice contenitore di vetro dalle geometrie essenziali in un packaging capace di imporsi, perché diverso, intrigante da toccare e dai molti sottintesi. Abbiamo, per esempio, lavorato molto sulla pre-perforazione della sleeve, in

2 “Breezer si adatta perfettamente ad un pomeriggio assolato, al preserata e alle notti più scatenate Ready to Breezer? Allora sappi che va bevuto ghiacciato e direttamente dalla bottiglia” (dal sito www.bacardi-breezer.it/)

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senso trasversale e longitudinale, che viene effettuata direttamente in macchina e che consente due modalità distinte di apertura. L'una è indicata per un consumo veloce “da bar” grazie alla quale, agendo direttamente con l'apribottiglie, la sleeve viene rimossa insieme al tappo. L'altra, agevolata dalla perforazione longitudinale, consente invece un gesto dal sapore più intimo e seduttivo, dato che la sleeve viene parzialmente “sfogliata”, rivelando a poco a poco (al pari di un dono da scoprire) tappo, contenitore e prodotto, e sottolineando così l'unicità del momento». Un linguaggio sicuramente più esplicito rispetto al Bacardi Breezer: e un minore successo commerciale sui giovanissimi. Torniamo alla scena delle ragazzine al bar, che esemplifica il risultato di un processo di “progettazione delle esperienze” che potremmo inscrivere nel mimicry design: le due ragazzine, alla fine della storia, si allontanano dal bar in motorino, con circa 12 grammi di alcol nel sangue.

11.2. In profumeria Incontriamo di nuovo le due ragazzine in profumeria, in cerca del piacere di nuove retail-experiences. In questo settore la distribuzione sta rapidamente cambiando: la vendita assistita e il piccolo negozio sono in via d’estinzione a favore del libero servizio e delle superfici più grandi. L’allestimento sensorialmente stimolante, il layout libero e l’illuminazione invitano dunque al gioco conoscitivo del girovagare e dell’esplorazione della mano e dei sensi. La commessa è quasi sparita: per i costi, certamente, ma anche perché il cliente cerca sempre maggiore “libertà” e perché la strategia e gli strumenti di comunicazione dei produttori hanno sempre meno bisogno di un mediatore, di un

consigliere, di un venditore. Man mano che la strategia di comunicazione diventa più finemente calibrata deve crescere il livello di controllo dell’azienda sullo standard con cui la marca e il prodotto comunicano, e un intermediario umano può introdurre variabilità indesiderate. La scomparsa della vendita assistita (che promuove, informa, mostra, consiglia, indirizza l’attenzione) ha rivoluzionato non

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solo l’allestimento ma anche il packaging al quale è richiesta una maggiore capacità di interazione e di attrazione. Una funzione che si estende anche a quella sorta di “macro packaging” che è lo spazio monomarca: la “gondola” o lo scaffale progettato per ospitare i prodotti di una marca. La profumeria è un negozio che progressivamente ha incluso segmenti di mercato un tempo impensabili: adolescenti, salutiste, sportive, uomini. Ogni linea di prodotto e ogni marca ha il suo mood e i suoi riferimenti immaginari. Ma c’è qualcosa che accomuna target così diversi: al centro della mappa percettiva, tra valori delle marche e delle linee di prodotto che spesso si posizionano come polarità opposte (ad esempio bellezza/salute, sobrietà/trasgressione, giovanile/adulto, morbido/deciso, minimale/eccessivo) esiste, come nel caso del Bacardi Breezer, un’area indistinta di convergenza che rende possibile l’uso retorico e persuasivo dell’ambiguità. La stessa distinzione tra maschile e femminile e tra giovane e adulto che troviamo nelle immagini fotografiche scelte nelle campagne dei prodotti, sembra non essere completamente individuabile e sembra mostrare, più che le contrapposizioni, le cose in comune: la raffigurazione dei corpi di un uomo e di una donna nella pubblicità di un profumo abbandona il vecchio cliché basato sulla differenza tra soggetto e oggetto del fascino, mettendo al centro e tentando di rappresentare, in set metafisici, il fascino “in sé” che il mondo della marca rende possibile al di là del singolo prodotto. Le confezioni dei prodotti, parte essenziale della retail experience, e riscontro tangibile e sensibile del mondo creato dalla marca, si contendono l’attenzione delle ragazze e catturano, ora l’una ora l’altra, lo sciame dei loro pensieri. Il gioco delle storie raccontate dalle marche arricchisce di piani di lettura e di emozioni il vecchio spettacolo (puramente sensoriale) delle merci così ben descritto da Zola alla fine dell’ottocento in Au bonheur des dames. Le ragazze si soffermano infine su uno scaffale in cui occhieggiano, angioletti, diavoletti, pinocchietti. Gusci di plastica rossa e trasparente che coprono piccoli giardini fioriti, trottole che si aprono come un robot trasformer giapponese o come le casette Polly Pocket, piene di ingegnosi cassettini. Francamente sembrano prodotti troppo infantili per le “ragazze del Bacardi”, ma a casa hanno già diverse di quelle confezioni, sull’armadio della cameretta assieme alla Barbie e all’orso di pezza. Qual è il target di quei packaging giocattolo sviluppati da Pupa? Qual è il target del profumo di Moschino a forma di Olivia di Braccio di Ferro, l’antesignano dei cosmetici giocattolo? Quale relazione lega quei pack alieni agli oggetti-esserini della Alessi creati da Stefano

Giovannoni per coppie “dink” (double income no kids)? Siamo in presenza di un gioco mimicry che può essere interpretato, a questo punto, con maggiore profondità. C’è probabilmente anche in questo caso il tentativo di attaccare le rigidità con cui ciascun segmento di mercato tende a sentirsi autorizzato

a procurarsi determinate esperienze piuttosto che altre. Lo sdoganamento degli alcolici e del trucco vistoso per le adolescenti, il piacere primitivo della suzione che i lollipop chupa chups hanno autorizzato agli adulti, la regressione di una donna nel gioco coi cassettini di una confezione colorata, o dell’uomo al videogame sono altrettante

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manifestazione di una logica comune e spregiudicata di progettazione delle esperienze. Una logica di promesse che giocano continuamente tra l’ascesa euforizzante verso uno stato di “perfezione” adulta (caratterizzata da indipendenza, reddito, efficienza, forma fisica, gratificazione sessuale e di status, cultura “alta” ecc.) e la discesa rassicurante e regressiva verso uno stato di potenzialità infantile (caratterizzata da dipendenza, coccole, innocenza, ozio giocoso, futilità). Non neghiamo che le pulsioni di cui parliamo siano sempre esistite e che ci siano sempre stati bambini che fumano di nascosto, uomini che giocano col trenino elettrico e donne con le bambole, ma quello che è nuovo è che l’operazione, fondata su nuove mitologie, e su una “deregulation” diffusa, abbia assunto dimensioni di un’industria. Ancora nel settore della cosmetica, Borella produce e distribuisce la linea “Gli elementi delle Terme di Salice” in cui il fango per i massaggi diventa una pallina, “con cui giocare oltre che smaltire la cellulite, che ricorda quella dei distributori di premi dell'infanzia. La sorpresa è un fango profumato che ringiovanisce, a partire dallo spirito” (Capelli, 2004). Il classico kit da borsetta per il trucco, è interpretato da Kiko con una forma goccia della confezione che combina colori vivaci con effetti perlati luminosi. All'interno prodotti per occhi e labbra per un target molto giovane. La promessa di trasformazione, affidata ad una targhetta assicurata alla confezione con una catenella, è “Be what you want”. Quasi una prescrizione paradossale da “doppio legame” rivolta alla donna-ragazzina: quella di trasformarsi in sé stessa. Serge Mansau firma invece il design della boccetta del nuovo profumo di Hermes, brand lontanissimo dal target giovanile. “Il flacone di vetro ha una faccia piana e una bombata per dare un effetto lente. Rappresenta una palla di cristallo attraverso cui vedere il mondo con gli occhi di bambino” (Capelli, 2004). La serigrafia del vetro è sia sulla parte anteriore in quella posteriore; i due motivi si sovrappongono con un divertente effetto di profondità e un movimento caleidoscopico. Nel caso dei cosmetici, come in quello degli alcopop, l’attacco del marketing al confine che separa un segmento di mercato dall’altro si serve di tutto un armamentario che la cultura pop mette a disposizione. Ed è nell’ambito di una definizione della “cultura pop” che conviene fare una riflessione utile alla comprensione delle attuali tendenze del packaging, lo faremo anche con l’esempio di prodotti cosmetici che non troveremmo in quella profumeria ma in un famoso flagship store di Prada. Lasciamo, per ora, le due ragazze a giocare nella profumeria a proprio agio tra un’algida confezione di Chanel e un flacone-cappuccetto-rosso della Pupa.

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11.3. Prada Store, Soho New York Un’elegantissima quarantenne dai tratti orientali esplora il grande e luminoso spazio sotterraneo progettato da Rem Koolhaas: guarda una parete di scatole di cartone, bianche come tutto il resto. Tra le scatole quasi perfettamente impilate qualcuna mostra il contenuto: confezioni monodose di cosmetico, con la parsimonia di segni delle confezioni farmaceutiche ospedaliere (progetto di Karim Rashid). Una citazione clinica non infondata: i “campioncini” monodose “sono in EVOH, una speciale resina usata nell’industria farmaceutica per la sua assoluta impermeabilità agli agenti esterni. Per evitare qualunque intromissione di ossigeno durante il riempimento, ogni pezzo è stato messo in pressione con argon. La busta poi è stata ulteriormente sigillata” (Italiaimballaggio, 2001). La donna orientale sembra adorare quell’atmosfera da interno di astronave, carica di pace e trascendenza, e l’aspetto organico delle capsule contenenti principi attivi purissimi. Almeno a me sembra così, leggendo la storia rappresentata nel punto di vendita attraverso la mia competenza intertestuale in science fiction e in “cultura pop”. Il punto di vendita-astronave-clinica sembra scaturire dall’ossessione per la purezza. Purezza fisico-chimica dell’assenza di contaminazione dell’aria, che la confezione monodose garantisce ai principi attivi purissimi per la pelle, ma anche la purezza della siderale distanza che sembra separare il ventre luminoso e ovattato dell’astronave di Koolhaas dalle strade di New York sporche e chiassose (il flusso continuo di immagini incoerenti del mondo esterno è visualizzabile solo attraverso lo schermo di monitor e di spioncini elettronici). Infine purezza semiotica: design per sottrazione di segni. Il segno come imperfezione della pelle del prodotto e di chi lo utilizza. Retoricamente la macchina packaging (e possiamo ben dire in questo caso che tutto il negozio è un grande packaging, oltre ad essere una camera sterile) si fonda sulla mitologia della purezza per giustificare la sua proposizione di valore: mentre la ricchezza è superabile dall’aggiunta di ulteriore ricchezza, la purezza è uno stato limite non superabile, e quindi lo stato perfetto del lusso. 11.4. Aubonpain Seguiamo per le strade di New York la signora che esce da Prada con le preziose scatoline. E’ l’ora del brunch e la donna entra in un negozio della catena Au Bon Pain. Si tratta di locali definiti “urban bakery café” che dichiarano di differenziarsi dai concorrenti per aver ridisegnato completamente l’esperienza del “café” (www.aubonpain.com). Una competizione contro Starbucks e i suoi cloni, che Au Bon

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Pain affronta trasformando lo spazio del consumo in un “vivace, animato mercatino urbano” dove il cliente sceglie autonomamente il proprio menu da banchi sparsi nel locale, come le bancarelle di un mercato. L’heritage e l’atmosfera evocata stanno a una panetteria francese come Starbucks sta a un bar italiano (cioè in modo mimicry un po’arbitrario ma gradevole). L’illuminazione, realizzata con faretti di Philippe Starck, è intensa e scenografica e dominano il giallo girasole, il legno chiaro e l’acciaio inossidabile dei banchi frigo. La mitologia del luogo è quella dell’organic, della freschezza e della leggerezza, intesa anche come minimalismo nello stile. La donna cerca un’insalata pronta come al supermercato, una baguette croccante e un succo d’arancia, poi si siede a un tavolino pensato più per una sosta brevissima che per indugiare a lungo, come accade invece agli Starbucks. Se uno dei benefici dei concept all’europea dei “café” all’americana è la socialità (che significa anche fare amicizia), Starbucks la intende come lunga sosta al tavolino corredata da libri, computer e moleskine; Au Bon Pain invece la intende come breve incrocio di sguardi e scambio di consigli dietetici al banco frigo. L’ibridazione mimicry del luogo di ristoro con la superette di quartiere è compiuta; e anche con la mensa aziendale (molti Au Bon Pain sono cafeterie di ospedali, come si vede in alcuni episodi di E.R.). Le conseguenze sul packaging del pensionamento delle rosticcerie cariche di unto, dei camerieri e delle borse della spesa, sono evidenti. Da una parte nasce l’esigenza di creare un contenitore per il “pronto fresco” da consumare sul posto (al supermercato o alla cafeteria, non importa), dall’altra di coniugare la freschezza e la leggerezza della preparazione e degli ingredienti, la filosofia del crudo e del naturale all’attrattività dei packaging sullo scaffale, al desiderio di prendere i prodotti come si spicca un frutto dall’albero. Il conto alla cassa è modesto (value for money!) e il tempo impiegato brevissimo: la signora può riprendere subito la sua shopping experience a New York. 12. Packaging e cultura pop Abbiamo invocato la “cultura pop” per spiegare alcune tendenze del marketing e della comunicazione d’impresa e i riflessi sul progetto del prodotto e del suo packaging. Cerchiamo ora di dare un’idea di cosa sia la cultura pop nell’economia delle esperienze e come molte delle mitologie “globali” d’oggi siano il frutto di quella cultura.

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Alcuni dati del Dipartimento del Commercio Estero, commentati dal Washington Post nel 1998, mostrano che il cinema, i programmi televisivi, la musica, i libri e il software di intrattenimento hanno ormai sorpassato tutte le altre voci di export degli Stati Uniti (Farhi, Rosenfeld, 1998). Il valore complessivo dell’export in questi settori supera i 60 miliardi di dollari ai quali, se vogliamo capire la portata del fenomeno più che le cifre commerciali, dobbiamo aggiungere due voci importanti che sfuggono a una contabilità precisa: 1) il valore della “proprietà intellettuale” contenuta nel design di prodotti, servizi,

concept, format e marche: ad esempio McDonald’s, Nike e le merendine Mars che Saddam Hussein consumava nel suo rifugio prima di essere preso;

2) il valore delle copie illegali dei prodotti simbolici nell’era della loro “riproducibilità tecnica”: uno sconfinato e beffardo mondo parallelo del valore molti miliardi di dollari.

“Il collasso del comunismo ha incrementato del 94% i ricavi per la vendita di proprietà intellettuale”, nota il Washington Post che aggiunge un commento di Todd Gitlin della Columbia University che definisce la cultura pop americana “l’ultima di una lunga serie offerte di unificazione globale; dopo il latino imposto dall’Impero Romano e dalla Chiesa e il marxismo leninismo imposto dai regimi comunisti”. Il Presidente di MTV, Tom Fraston, intervistato dal Washington Post afferma con una punta d’orgoglio che “oggi i giovani hanno i passaporti per due mondi differenti – la propria cultura e la nostra”. L’articolo del Washington Post, scritto nel 1998, concede “generosamente” l’onore delle armi ai film di Bollywood, alle telenovelas e al pastore tedesco Rex, che difendono ringhiosamente le posizioni dall’avanzata dell’Impero, ma dimentica completamente di guardare al di là del Pacifico verso l’”Impero dei segni” e, ancora più in là nel futuro, al rinascente e sconfinato “Impero Celeste”. La miopia di questa visione, probabilmente basata sull’ipotesi della lingua inglese come unico veicolo dei “contenuti”, come fu per il latino, nasconde che la cultura pop giapponese è il fenomeno più importante che sta emergendo nella produzione del nuovo e che la Cina è pronta ad assimilarne i prodotti e le idee e a generare nuovi prodotti e nuove idee sorprendenti. La sofisticazione attuale nel trattamento delle immagini, e quindi la possibilità di utilizzare la figurazione con la stessa flessibilità, riproducibilità e diffusione della scrittura e della parola spostano sicuramente i termini del problema linguistico. Nel

2003, il Washington Post scopre infatti che, nonostante la lingua, i ricavi dalla produzione giapponese di cultura pop ammontano a circa 12,5 miliardi di dollari: un sesto dell’export culturale degli Stati Uniti ma con un tasso di crescita che in dieci anni ha triplicato il fatturato e con il mercato cinese che si spalanca anche ai “consumi simbolici”. L’Oriente che si sviluppa e si trasforma sembra mostrare una preferenza per gli stili e i prodotti culturali “mutanti” del Giappone: molti giovani orientali, e non solo, in cerca di identità nuove nella attuale fase di instabilità e transizione, trovano più “cool” i prodotti della cultura giapponese rispetto a quelli americani (Gomarasca, 2001). L’estetica del grazioso (kawaii), diffusa nel mondo dal gruppo Sanrio, la curiosità per la trasformazione e la

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mutazione dei corpi, il collezionismo autistico e monomaniaco degli “otaku” (i giovanissimi che si isolano nella loro stanzetta tecnologica), l’erotismo ambiguo dei manga, lo schema narrativo dei videogames, la dimensione avventurosa di gruppo nel quale si manifestano un eroismo e un erotismo fragili e sessualmente incerti, contrapponendosi a valori quasi sempre diametralmente opposti espressi dalla cultura popolare americana, stanno scardinando i presupposti mitologici sui quali molti brand americani hanno costruito la loro strategia e il loro successo. L’immaginario giapponese contrappone la dipendenza all’autonomia, il gruppo all’individuo, il minuto al grandioso, la trasformazione al viaggio, la collezione alla conquista, il dubbio alla certezza e, attraverso la sua plasticità, sarà forse in grado di determinare le scelte di fondo della produzione di cultura popolare. La trasformazione, propria del gioco mimicry, è dunque inscritta con facilità nella cultura pop giapponese e i prodotti che giocano con l’ambiguità ricevono continua linfa da quell’immaginario. Le confezioni giocattolo di Pupa, o quelle siderali di Prada devono alle immagini, alle performance e alle istallazioni di Mariko Mori, artista-modella giapponese, più che a riferimenti occidentali la propria capacità di essere “afferrate”, come segni, come oggetti e come esperienze. E il racconto che quelle confezioni fanno contiene in sé quell’instabilità del significato e quell’ambiguità (anagrafica, sessuale, sociale) che si adatta perfettamente alla natura del mercato globale e alla fragile identità della nostra prolungata adolescenza. La poetica dell’esoscheletro (che accomuna agli insetti i robottoni transformer e i packaging mutanti), arricchisce poi in chiave mimicry l’immaginario e le inquietitudini legati alla tecnologia futura. 13. Conclusioni Intorno alla “macchina packaging”, capace di trasportare nel tempo e nello spazio il prodotto e la nostra immaginazione, ruotano la decisione e l’atto d’acquisto, come se la confezione nella nostra mano fosse il fulcro di una leva sulla quale le strategie d’impresa spingono per elevare il valore del prodotto. Il terreno culturale in cui si sviluppano le mitologie che orientano i processi di significazione è in movimento: una “deriva dei continenti” accelerata che rende instabile il punto d’appoggio di ogni strategia di marketing per cui allo sforzo di rendere razionali i ragionamenti economici che sottostanno al progetto si oppone l’imprevedibilità degli esiti del mercato. In altre parole tutto può capitare nel funzionamento del congegno che chiamiamo “sistema prodotto”. Se un prodotto sarà “cool” dipende in maniera crescente dalla fortuna e dal budget a disposizione per promuovere la marca e il prodotto. Per correggere la miopia del marketing (che spesso si concentra sui casi di successo piuttosto che sui fallimenti, che tende a verificare delle teorie piuttosto che a falsificarle), si deve provvedere con nuovi e più sofisticati metodi di visione e di analisi. Il problema della progettazione del packaging va affrontato con strumenti critici affilati: vanno esplorate tutte le scale e tutte le risoluzioni possibili con cui osservare i fenomeni che gravitano intorno al prodotto.

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Abbiamo citato il caso delle Pringles come esempio, ritenuto esemplare dalla Harvard Business School, di analisi dei requisiti del prodotto e del packaging svolta da un’agenzia di marketing: il risultato è un prodotto che non unge le dita in una confezione rigida. Ad un risultato opposto sono giunti, con uguale successo commerciale, i Fonzies che invece invitano all’esperienza di leccarsi le dita unte (“Se non ti lecchi le dita godi solo a metà!”) e che permettono il comodo smaltimento del sacchetto. In un altro lavoro (Viceconte, 2003) abbiamo citato il caso di Gatorade, progettato da un’altra agenzia con colori solari d’agrumi e una bottiglia di vetro dal collo largo (come quella del latte) per suggerire un consumo nutriente e naturale. Lo stesso prodotto è stato poi riprogettato secondo un concept diametralmente opposto: colori sintetici e notturni, bottiglia di plastica floscia con erogazione a spruzzo. Insomma “tutto e il contrario di tutto”, a testimonianza della difficoltà di trovare oggi nel marketing e nel design strategico un “metodo” per la progettazione. Lo sviluppo di princìpi adatti per i problemi progettuali di oggi, in sostituzione di un “metodo”, così com’era ad esempio concepito dalla Scuola Superiore di Ulm, presenta indubbie difficoltà. Mancano oggi strumenti adeguati di riduzione della complessità e di ragionamento analogico e l’approccio del design strategico, inscritto nel management di stampo anglosassone, risulta spesso troppo “discorsivo”, troppo lontano dalla pratica della progettazione, più adatto a comunicare e giustificare euforicamente un concept (all’interno e all’esterno dell’azienda) che a trasformare tale concept in un buon prodotto. Una difficoltà che si accresce se si applicano, in modo superficiale e meccanico, procedimenti analitici di riduzione di complessità (ad esempio quello della segmentazione) e procedimenti di sintesi, basati sul ragionamento analogico (ad esempio quello del posizionamento) e se si ignora il carattere “aperto” del gusto: un’apertura che consente ampi margini di variabilità dello svolgimento e dell’esito del processo volto alla creazione di un’esperienza positiva del prodotto e della marca. Consapevoli di tali difficoltà, abbiamo dunque tentato di fornire molteplici punti d’osservazione e diverse angolazioni senza la presunzione di aver esaurito il compito. Restano moltissimi problemi teorici aperti: crediamo che siano però da risolvere più con la pratica del progetto che con la teoria e la critica, e che non ci si debba affidare con troppa fiducia agli strumenti del marketing. La “comprensione” di un prodotto è, come abbiamo visto, un comportamento esplorativo-epistemico molto legato alla “fisicità” con cui “prendiamo” e manipoliamo concetti e immagini mentali. In questo senso sarà necessaria una sempre maggiore integrazione tra chi “manipola” modelli di marketing e chi “manipola” modelli fisici e visibili del prodotto; tra specialisti di marketing e industrial designer. Conviene liberarsi della “vergogna” per un codice “non discorsivo”, come chiedeva Gui Bonsiepe nel 1974 (Bürdek, 1992), e anche dalla possibile subordinazione del design al marketing. È necessario anche che operatori della produzione, della logistica, della distribuzione, della fornitura di tecnologie per il packaging lavorino di concerto intorno al consumatore con approccio interdisciplinare sempre più guidato dalle logiche della creazione di valore. Il team di sviluppo dei nuovi prodotti dovrà tenere conto che il fenomeno del consumo è molto complesso e coincide in parte con un processo di ricerca e apprendimento (acquisizione di conoscenza-esperienza). Aspetto, questo, che dovrebbe spingere verso strategie di differenziazione volte alla “crescita” del consumatore: in altre parole verso una progettazione “educativa”. La prospettiva del design “strategico” non potrà essere che quella del lungo periodo, in cui il consumatore

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sarà, in qualche modo trasformato (si spera in meglio). Il design strategico, tenendo conto di questo processo di crescita, dovrà orientarsi alla responsabilità per l’ambiente, non solo fisico, in cui viviamo. Difatti emerge con evidenza la disponibilità del mercato a riconoscere come valore la correttezza nel progetto etico dei processi economici. Chi ha la responsabilità di stabilire il quadro normativo dovrà fare la sua parte con chiarezza e decisione, svolgendo, come contrappeso del mercato, un ruolo di tutela, di indirizzo, di regolazione, di compensazione, di riequilibrio e di educazione al consumo.

Enrico Viceconte, 11 settembre 2004

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