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45 Capitolo 2 LA CONFIGURAZIONE CANONICA DELLA CHIESA PARTICOLARE E LE SUE ATTUAZIONI STORICHE Sommario: 1. LA TERRITORIALITÀ DELLA CHIESA PARTICOLARE. 1.1 La territorialità quale criterio di base per l’organizzazione. 1.2 La territorialità della Chiesa antica. 1.3 Il principio del territorio canonico. 1.4 Il principio territoriale oggi. 1.5 I diversi aspetti della questione territoriale. – 2. LE CIRCOSCRIZIONI ECCLESIASTICHE DELLA CHIESA LATINA. 2.2 La circoscrizione diocesana paradigma della Chiesa particolare. 2.3 Figure assimilate alla diocesi. 2.4 Una circoscrizione personale: l’ordinariato militare. - 3. I RAGGRUPPAMENTI DI CHIESE PARTICOLARI . 3.1 La provincia ecclesiastica e la sede metropolitana. 3.2 La regione ecclesiastica e la conferenza regionale. 3.3 I concili provinciali. - 4. LE CONFERENZE EPISCOPALI . 4.1 Cenni storici e dibattito recente sulle conferenze episcopali. 4.2 La lettera apostolica Apostolos suos. 4.3 Status teologico delle conferenze episcopali. 4.4 Status giuridico delle conferenze episcopali. 4.5 Materie affidate alla conferenza episcopale. – 5. ORGANISMI DI PARTECIPAZIONE ALLA FUNZIONE PASTORALE DEL VESCOVO. – 6. CURA PASTORALE NELLA CHIESA PARTICOLARE: LA CURIA DIOCESANA. 6.1 Conferimento degli uffici e loro coordinamento. 6.2 I collaboratori principali del vescovo. 6.3 Il consiglio per gli affari economici e l’economo. 6.4 Il consiglio episcopale di governo. 6.5 Il principio di giustizia e di legalità. – 7. IL DECENTRAMENTO DELLATTIVITÀ PASTORALE. Nota: LA CHIESA PARTICOLARE E LA SOCIETÀ. 1. LA TERRITORIALITÀ DELLA CHIESA PARTICOLARE La territorialità della diocesi non è una questione marginale. In un determinato spazio antropologico-geografico la Chiesa particolare deve realizzarsi in modo tale da manifestare chiaramente la natura della Chiesa. Le implicanze sono di gran rilievo. Sono in gioco la missione della Chiesa e la sua attendibilità. Stabilisce il concilio Vaticano II nel decreto Christus Dominus: 22. «Perché si possa raggiungere il fine proprio della diocesi è necessario che nel popolo di Dio ad essa appartenente si manifesti chiaramente la natura della Chiesa; che i vescovi possano in essa compiere efficacemente i loro doveri pastorali ; che finalmente si possa il più perfettamente possibile provvedere al bene spirituale del popolo di Dio . Ciò comporta non solo una conveniente determinazione dei confini territoriali della diocesi, ma anche una razionale distribuzione del clero e dei beni corrispondente alle esigenze dell'apostolato. (…)». 23. «Nella revisione delle circoscrizioni diocesane si abbia cura di salvaguardare l'unità organica di ciascuna diocesi riguardo alle persone, agli uffici, alle istituzioni, a mo' di un corpo vivo. Nei singoli casi, poi, esaminate attentamente tutte le circostanze si osservino i seguenti criteri più generali: 1) Nello stabilire la circoscrizione diocesana , per quanto è possibile si tenga presente la varia composizione del popolo di Dio, perché ciò può rendere molto più agevole l'esercizio dell'azione pastorale. Nello stesso tempo si faccia in modo che questi agglomerati demografici possibilmente si mantengano uniti agli uffici e alle istituzioni sociali, che ne costituiscono la struttura organica. Perciò il

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Capitolo 2

LA CONFIGURAZIONE CANONICA DELLA CHIESA PARTICOLARE E LE SUE ATTUAZIONI STORICHE

Sommario: 1. LA TERRITORIALITÀ DELLA CHIESA PARTICOLARE. 1.1 La territorialità quale criterio di

base per l’organizzazione. 1.2 La territorialità della Chiesa antica. 1.3 Il principio del territorio canonico. 1.4 Il principio territoriale oggi. 1.5 I diversi aspetti della questione territoriale. – 2. LE CIRCOSCRIZIONI ECCLESIASTICHE DELLA CHIESA LATINA. 2.2 La circoscrizione diocesana paradigma della Chiesa particolare. 2.3 Figure assimilate alla diocesi. 2.4 Una circoscrizione personale: l’ordinariato militare. - 3. I RAGGRUPPAMENTI DI CHIESE PARTICOLARI. 3.1 La provincia ecclesiastica e la sede metropolitana. 3.2 La regione ecclesiastica e la conferenza regionale. 3.3 I concili provinciali. - 4. LE CONFERENZE EPISCOPALI. 4.1 Cenni storici e dibattito recente sulle conferenze episcopali. 4.2 La lettera apostolica Apostolos suos. 4.3 Status teologico delle conferenze episcopali. 4.4 Status giuridico delle conferenze episcopali. 4.5 Materie affidate alla conferenza episcopale. – 5. ORGANISMI DI PARTECIPAZIONE ALLA FUNZIONE PASTORALE DEL VESCOVO. – 6. CURA PASTORALE NELLA CHIESA PARTICOLARE: LA CURIA DIOCESANA. 6.1 Conferimento degli uffici e loro coordinamento. 6.2 I collaboratori principali del vescovo. 6.3 Il consiglio per gli affari economici e l’economo. 6.4 Il consiglio episcopale di governo. 6.5 Il principio di giustizia e di legalità. – 7. IL DECENTRAMENTO DELL’ATTIVITÀ PASTORALE. Nota: LA CHIESA PARTICOLARE E LA SOCIETÀ.

1. LA TERRITORIALITÀ DELLA CHIESA PARTICOLARE La territorialità della diocesi non è una questione marginale. In un determinato spazio antropologico-geografico la Chiesa particolare deve realizzarsi in modo tale da manifestare chiaramente la natura della Chiesa. Le implicanze sono di gran rilievo. Sono in gioco la missione della Chiesa e la sua attendibilità. Stabilisce il concilio Vaticano II nel decreto Christus Dominus:

22. «Perché si possa raggiungere il fine proprio della diocesi è necessario che nel popolo di Dio ad essa appartenente si manifesti chiaramente la natura della Chiesa; che i vescovi possano in essa compiere efficacemente i loro doveri pastorali; che finalmente si possa il più perfettamente possibile provvedere al bene spirituale del popolo di Dio.

Ciò comporta non solo una conveniente determinazione dei confini territoriali della diocesi, ma anche una razionale distribuzione del clero e dei beni corrispondente alle esigenze dell'apostolato. (…)».

23. «Nella revisione delle circoscrizioni diocesane si abbia cura di salvaguardare l'unità organica di ciascuna diocesi riguardo alle persone, agli uffici, alle istituzioni, a mo' di un corpo vivo. Nei singoli casi, poi, esaminate attentamente tutte le circostanze si osservino i seguenti criteri più generali:

1) Nello stabilire la circoscrizione diocesana, per quanto è possibile si tenga presente la varia composizione del popolo di Dio, perché ciò può rendere molto più agevole l'esercizio dell'azione pastorale. Nello stesso tempo si faccia in modo che questi agglomerati demografici possibilmente si mantengano uniti agli uffici e alle istituzioni sociali, che ne costituiscono la struttura organica. Perciò il

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territorio di ciascuna diocesi deve sempre essere ininterrotto. Se le circostanze lo permettono, si osservino i confini delle circoscrizioni civili e le particolari condizioni, ad es. psicologiche, economiche, geografiche e storiche delle persone e dei luoghi.

2) Generalmente, l'estensione del territorio diocesano e il numero dei suoi abitanti sia tale che da una parte il vescovo, sebbene aiutato da altri, possa agevolmente celebrare i riti pontificali e compiere debitamente le visite pastorali, dirigere e coordinare adeguatamente nella diocesi tutte le opere di apostolato, e specialmente conoscere i suoi sacerdoti come pure i religiosi e i laici che partecipano in qualche modo alle attività diocesane; d'altra parte ne risulti un campo sufficiente e idoneo ove sia il vescovo sia i sacerdoti possano utilmente spendere tutte le loro forze nel ministero, avendo presenti le necessità della Chiesa universale.

3) (…) Dove si trovano fedeli di rito diverso il vescovo provveda alle loro necessità sia per mezzo di sacerdoti oppure di parrocchie dello stesso rito, sia per mezzo di un vicario episcopale munito delle necessarie facoltà, e se del caso insignito del carattere episcopale, sia da se stesso come ordinario di diversi riti. (…).

In analoghe circostanze, ai fedeli di diversa lingua si provveda sia per mezzo di sacerdoti oppure di parrocchie della stessa lingua, sia per mezzo di un vicario episcopale che conosca bene la lingua e sia anche, se del caso, insignito del carattere episcopale; o con altri opportuni sistemi».

1.1 – La territorialità quale criterio di base per l’organizzazione. La Chiesa cattolica latina, assume il principio territoriale come criterio di base per l’organizzazione delle strutture ecclesiastiche e per l’attenzione pastorale dei fedeli cristiani. Stabilisce il Codice di diritto canonico nel can. 372, § 1: «Di regola la porzione del popolo di Dio che costituisce una diocesi o un'altra Chiesa particolare, sia circoscritta entro un determinato territorio, in modo da comprendere tutti i fedeli che abitano in quel territorio». Il territorio è il criterio generale e principale per circoscrivere le comunità cristiane e per determinare, nello stesso tempo, gli obblighi e le potestà dei rispettivi pastori (can. 381, § 1). Il territorio ha, però, un ruolo soltanto funzionale nella delimitazione delle comunità ecclesiali, le quali possono essere anche disegnate nella Chiesa sulla base del rito dei fedeli o d’altri fattori idonei a circoscrivere una porzione del popolo di Dio (la cooperazione in opere pastorali, la rilevanza giuridica di un carisma, la nazionalità, la pastorale delle forze armate, ecc.). Stabilisce il Codice nel can. 372, § 2: «Tuttavia, dove a giudizio della suprema autorità della Chiesa, sentite le conferenze episcopali interessate, l'utilità lo suggerisca, nello stesso territorio possono essere erette Chiese particolari distinte sulla base del rito dei fedeli o per altri simili motivi»1. La contemporanea presenza di circoscrizioni2 territoriali e personali pone ovviamente questioni tecniche di coordinamento pastorale, d’interrelazione tra ordinamenti giuridici, di rilevanza giuridica della volontà del fedele, o più semplicemente di semplice ottimizzazione dell’organizzazione ecclesiastica. 1.2 – La territorialità nella Chiesa antica. Nella Chiesa antica era stato affermato il principio, sancito nel c. 8 di Nicea, che non potevano esserci due vescovi per città. Questo principio è stato accolto e sempre osservato, con rigorosa fedeltà anche oggi, dalle Chiese pre-calcedonesi o vetero-orientali3. Le Chiese ortodosse l'hanno mantenuto fino al 1920, con l'inizio della diaspora. Nella

1 Per la territorialità delle conferenze episcopali cf. c. 447, della parrocchia c. 518, delle leggi cc. 12, 13, ecc. 2 Per “circoscrizione ecclesiastica” intendo un gruppo di fedeli cristiani delimitato in modo certo, relativamente autonomo, nei confronti dei quali svolgono il loro servizio ministri sacri dotati di sacra potestà. 3 Sono dette pre-calcedonesi o veteroorientali le Chiese che non hanno riconosciuto il concilio di Calcedonia o per motivi storici (si sono trovate fuori dell'impero romano e non hanno conosciuto gli sviluppi dei patriarcati): cf.

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Chiesa cattolica non ci sono obiezioni né teologiche né pratiche a mantenere in un solo luogo più giurisdizioni ecclesiastiche distinte per il rito, la lingua e la nazionalità, perché il criterio dell'unità deve essere cercato a Roma, fuori da queste giurisdizioni4. 1.3 – Il principio del «territorio canonico». Per le Chiese ortodosse, invece, la pienezza cattolica si realizza in ciascuna Chiesa locale nella misura in cui è "ortodossa", vale a dire persevera nella pienezza e totalità della verità e della fede. Per le Chiese ortodosse la pienezza del Cristo nella Chiesa è garantita dal vero raduno in nome suo, nell'unità della vera fede e in conformità con la vera tradizione e non da una sottomissione ad un qualche centro universale5.

Per la Chiesa ortodossa russa la Chiesa universale vive nel mondo suddivisa in diverse Chiese particolari. Il concetto di Chiesa particolare è, però, dilatato nel senso di “Chiesa nazionale autocefala”. Ogni Chiesa nazionale autocefala possiede un suo territorio, che resta circoscritto entro i confini della nazione. Ogni Chiesa autocefala ha il dovere di rispettare l’integrità territoriale delle altre e di applicare il principio della Chiesa antica, secondo cui in una città ci dev’essere un solo vescovo. “Territorio canonico” per la Chiesa ortodossa significa un solo vescovo in uno stesso luogo. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, a seguito del sorgere di una serie di nuovi stati, per la Chiesa ortodossa russa si sono posti nuovi problemi per il suo radicamento sociale nei diversi paesi6. 1.4 - Il principio territoriale oggi. Oggi, nei confronti del principio territoriale, vengono sollevate diverse obiezioni, soprattutto da parte di numerose Chiese della Chiesa occidentale latina. Si sottolineano i mutamenti avvenuti: le migrazioni interne, la libera scelta della comunità da parte dei fedeli dove approfondire e vivere la fede, l'andamento demografico, lo spopolamento di zone un tempo abitate, la nuova configurazione della vita urbana. Altro mutamento riguarda il modo di intendere il rapporto tra centro e periferia: non si tratta più di distribuzione burocratica di decisioni e amministrazioni centrali, ma di incontro fra elaborazione e creatività locale in rapporto con il dato regionale e nazionale. Tutto ciò, si afferma, obbliga a superare la concezione rigida del principio territoriale per una progettazione anche strutturale più adeguata. Certamente vanno approfonditi gli elementi che caratterizzano l'omogeneità di un territorio e le sue variabili, e di conseguenza è necessario trovare un territorio abbastanza vasto per assumersi i compiti propri, abbastanza compatto per mettere in azione relazioni di prossimità7. Quello di cui c’è bisogno è un calibrato intreccio fra ambiti di vita territoriale e la costruzione di rapporti tra le persone nello spazio della fede cristiana. Un cattolico che vive in un determinato territorio e dentro determinati spazi, deve sapere dove può trovare istituzioni, organismi e anche persone che possono essere per lui un punto di riferimento. Un punto va tenuto presente: il territorio si rivela uno strumento prezioso, forse unico, per realizzare la cattolicità della Chiesa diocesana. Se la Chiesa si organizzasse su un principio diverso da quello territoriale, potrebbe apparire come un club i cui membri si cooptano secondo la razza, la JOHANN-ADAM-MÖHLER INSTITUT (ed.), Le Chiese cristiane nel duemila, (Giornale di teologia, 259), Queriniana, Brescia, 1998, pp. 106-112; P. SINISCALCO, Le antiche Chiese orientali. Storia e letteratura, Città Nuova editrice, Roma 2005. 4 Cf. H. LEGRAND, «La Chiesa si realizza in un luogo», in Iniziazione alla pratica della teologia. III. Dogmatica 2, Queriniana, Brescia, 1986, p. 176. 5 Cf. P. A. BOTSIS, Che cos'è l'ortodossia? Breve spiegazione dell'essenza dell'Ortodossia e delle differenze fra le Chiese, Atene s.d. (ma 1998), pp. 8-9. 6 Sulla questione del “territorio canonico” nel dibattito tra Chiesa cattolica latina e Patriarcato di Mosca cf. Card. W. KASPER, «Le radici teologiche del conflitto tra Mosca e Roma», in La Civiltà cattolica I (2002), pp. 531-541. Per le prese di posizione da parte degli ortodossi cf. «Un’eclisse di fiducia», in Regno attualità, 47 (2002), p. 515; F. STRAZZARI (a cura di), «Una pazienza operosa. Intervista a Nicolas Lossky», in Regno attualità, 47 (2002), pp. 693-696. 7 Cf. COMMISSION SOCIAL DES ÉVEQUES DE FRANCE, Èglise et société face à l'aménagement du territoire, Centurion-Cerf, Paris 1998. Sono gli atti dell'incontro avvenuto al Senato francese fra esponenti ecclesiali e politici per riflettere sulle modifiche nella gestione del territorio.

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lingua, la classe sociale o qualsiasi altra caratteristica comune. Al contrario: il territorio obbliga a comprendere nella Chiesa diocesana (ma ciò vale anche per la parrocchia) "tutti i fedeli che abitano in quel territorio" (CIC, c. 372, § 1), siano essi praticanti, oppure solo credenti. L’azione missionaria deve riguardare anche i non battezzati presenti in quel territorio. La Chiesa locale non può accontentarsi di riprodurre in sé, sacralizzandole, le divisioni umane di ordine culturale, sociale e politico. Per sua natura le deve affrontare secondo il Vangelo che raduna un popolo da ogni tribù lingua e nazione (cf. LG 13).

La territorialità non è il principio primo o ultimo della pastorale; è segno e insieme garanzia di cattolicità. La legislazione canonica vigente, accogliendo il principio della territorialità, ha introdotto anche molti adattamenti, da attuare con equità.

Così per esemplificare, fuori del proprio territorio parrocchiale o diocesano, non si possono celebrare il battesimo (can. 862), la confermazione (can. 887), l'ordinazione (can. 1017), il matrimonio (can. 1115). Sono però previste delle deroghe (licenza, concessione di dispensa) per il battesimo (cann. 857, 859, 860), la cresima (cann. 885, 886), per il luogo dove sposare (can. 1115), per l'ordine (cann. 1017, 1021), per il luogo della celebrazione delle esequie (can. 1177). Entro i confini del proprio territorio l'ordinario del luogo può proibire (vetare) temporaneamente e in casi singoli il matrimonio (can. 1077 § 1), dispensare dagli impedimenti matrimoniali (cann. 1078, 1079), assistere al matrimonio (can. 1109) e delegare (can. 1111 § 1). In questi casi la territorialità svolge un ruolo fondamentale. Il luogo ha importanza rilevante per i procedimenti giudiziari (can. 1407 ss.).

La territorialità, come si può costatare, ha implicanze molteplici ed è un fattore fondamentale per la realizzazione di un’ordinata convivenza ecclesiale nella comunione. 1.5 – I diversi aspetti della questione territoriale. Resta agevole parlare del territorio in riferimento alla Chiesa particolare quando la questione viene impostata con chiarezza da diverse angolature: a) dal punto di vista sociologico, vedendo nel territorio la possibilità di aggregazione in uno spazio multidimensionale; b) dal punto di vista teologico, evidenziando nel territorio uno strumento a servizio della cattolicità della Chiesa; c) dal punto di vista pastorale, individuando i luoghi dove fare Chiesa; d) dal punto di vista giuridico, stabilendo i criteri oggettivi di appartenenza e le competenze (obblighi e diritti) degli operatori.

2. LE CIRCOSCRIZIONI ECCLESIASTICHE 2.1 – Tipologia delle circoscrizioni ecclesiastiche della Chiesa latina. Secondo la legislazione canonica latina vigente (cann. 368, 369, 370, 371 §§ 1-2, 372), si possono distinguere tre diverse categorie di circoscrizioni ecclesiastiche:

a) circoscrizioni territoriali di regime ordinario, giuridicamente dipendenti dalla

Congregazione per i Vescovi: - le diocesi di regime ordinario, - le prelature territoriali, - le abbazie territoriali, - l’amministrazione apostolica (che però non è specifica del regime ordinario)8;

b) circoscrizioni territoriali di missione, dipendenti dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli:

- le diocesi di missione – strutture diocesane che si trovano in particolare situazione di dipendenza rispetto alla sede apostolica -,

8 L’Annuario Pontificio 2005 (Città del Vaticano, 2005), contiene questi dati: prelature territoriali 49, abbazie territoriali 12, amministrazioni apostoliche 7 (di cui una personale).

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- i vicariati apostolici, - le prefetture apostoliche e, infine, - le missioni sui iuris (queste ultime non sono menzionate dal Codice di diritto

canonico)9; c) circoscrizioni personali, che possono essere di regime ordinario o di missione, e quindi,

dipendenti, secondo i casi, dalla Congregazione per i Vescovi o da quella per l’Evangelizzazione dei popoli:

- le diocesi personali, - le prelature personali, - gli ordinariati militari, e - gli ordinariati latini per la cura dei fedeli di rito orientale (detti “ordinariati

apostolici”)10. In queste circoscrizioni si raggruppa il popolo di Dio. Ciascuna circoscrizione concorre alla realizzazione dei fini della società ecclesiale. Le differenze dipendono: a) dal diverso sviluppo della comunità cristiana, b) dalla maggiore o minore autonomia di governo della comunità, c) dalla differente configurazione dell’ufficio episcopale, d) dalla diversa configurazione del presbiterio. L’erezione di una Chiesa particolare e di qualsiasi genere di circoscrizione ecclesiastica, implica la configurazione di una porzione del popolo di Dio attorno ad un legittimo pastore, costituendo un ente comunitario a struttura gerarchica, vivificato dalla Parola, dai sacramenti e in particolare dall’Eucaristia (CD 11). La procedura per l’erezione delle circoscrizioni ecclesiastiche si sviluppa in cinque fasi: a) la fase di informazione e di proposta; b) la fase di studio; c) la fase deliberativa (la Congregazione competente presenta la proposta al romano pontefice); d) la fase risolutiva (decisione del romano pontefice, nella forma solenne di bolla costitutiva); e) fase di esecuzione. Le circoscrizioni ecclesiastiche formalmente erette dalla Suprema Autorità della Chiesa hanno ipso iure personalità giuridica pubblica nell’ordinamento canonico per il conseguimento delle loro finalità istituzionali. Nota – Articolazione delle Chiese di diritto proprio (sui iuris) secondo la legislazione delle Chiese Cattoliche Orientali. Nella legislazione orientale (Codice dei canoni delle Chiese Orientali) le Chiese di diritto proprio (sui iuris) sono distinte in quattro classi11:

- le Chiese patriarcali (Tit. IV: cann. 55-150: il patriarca è eletto dal sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale e resta in carica per tutta la vita; la sua elezione è comunicata al papa);

- le Chiese arcivescovili maggiori (Tit. V, cann. 151-154: l’arcivescovo, una volta eletto, deve ottenere la conferma dal romano pontefice);

- le Chiese metropolitane sui iuris (Tit. VI, cann. 155-173: il metropolita è nominato dal romano pontefice);

9 L’Annuario Pontificio 2005 (Città del Vaticano, 2005), contiene questi dati: vicariati apostolici 78, prefetture apostoliche 45, missioni “sui iuris” 11. La Guida delle Missioni Cattoliche, pubblicata dalla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (Urbaniana University Press, Roma 2005, pp. 28-29, 1512-1513) contiene i seguenti dati globali del mondo missionario: circoscrizioni dipendenti (totale: 1069): - arcidiocesi 180, diocesi 750, abbazie territoriali 1, vicariati apostolici 72, prefetture apostoliche 45, missioni “sui iuris” 11, amministrazioni apostoliche 4, ordinariati militari 6, arcivescovi coadiutori autoctoni 6, vescovi ausiliari autoctoni 52, vescovi ausiliari missionari 7. 10 Le prime esperienze di ordinariati latini risalgono al 1930, e al momento della celebrazione del Vaticano II, ne erano già stati eretti cinque. L’ordinariato latino rappresenta un’ulteriore evoluzione degli esarcati apostolici, configurati nell’attuale forma giuridica con la creazione nel 1912 dell’esarcato ruteno del Canadà. L’Annuario Pontificio 2005, elenca 35 ordinariati militari, 22 “esarcati apostolici e ordinariati per fedeli di rito orientale”, 1 prelaltura personale. 11 Cf. M BROGI, «Strutture delle Chiese orientali sui iuris secondo il CCEO», in Apollinaris 65 (1992), pp. 298-311; G. NEDUNGATT, «Sinodalità nelle Chiese cattoliche orientali secondo il nuovo Codice», in Concilium 28 (1992), fascicolo 5, pp. 90-111[796-817].

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- le altre Chiese sui iuris (Tit. VI, cann. 174-176) affidate ad un gerarca (ordinario). Può trattarsi di un’eparchia, o anche di un esarcato apostolico, dove l’esarca, non necessariamente insignito del carattere vescovile, lo regge in nome del romano pontefice (cann. 311-321).

Le quattro classi corrispondono, in modo decrescente ai quattro gradi di autonomia ecclesiale da un

punto di vista canonico (Chiesa sui iuris significa Chiesa autonoma). A capo di ognuna di queste Chiese c’è un solo gerarca12: a) patriarca, b) arcivescovo maggiore, c) metropolita, d) vescovo o esarca o vicario apostolico, ecc. a capo di una diocesi o di un esarcato, ecc., che non fa parte di nessuna delle tre chiese precedenti. 2.2 - La circoscrizione diocesana, paradigma della Chiesa particolare. La diocesi rappresenta, dal punto di vista strutturale, la pienezza di una comunità ecclesiale. Essa è una stabile portio populi Dei, di regola circoscritta territorialmente, consolidata come gruppo ecclesiale, e quindi capace di raggiungere in modo relativamente autonomo le finalità e gli obiettivi che, nella communio ecclesiarum, sono lasciati alle strutture particolari. Nella diocesi la funzione di pastore risulta attribuita ad un vescovo diocesano in qualità di pastore proprio, assistito da un coetus presbiterale proprio della diocesi.

a) Il termine diocesi - Il termine greco "di-oikein", da cui deriva la parola 'diocesi', significa amministrare

(propriamente la casa), governare, curare. "Dioíkesis" significa amministrazione, governo, direzione, ma anche distretto, provincia, prefettura e, in senso canonico, diocesi, giurisdizione episcopale.

Nel linguaggio giuridico romano il termine diocesi designava una circoscrizione amministrativa soggetta ad un ufficio o ad una autorità locale, ma di dimensioni diverse: dapprima indicò una regione urbana, parte di una provincia, in seguito, a partire dalla divisione dell'impero in 12 diocesi sotto Diocleziano (a. 297), indicò l'unità maggiore comprendente più province.

Nel linguaggio giuridico della Chiesa orientale diocesi fu sempre usato nell'ultimo significato del diritto romano: indica una grande circoscrizione ecclesiastica composta di più province ecclesiastiche, presieduta da un esarca, in seguito denominato patriarca. Per indicare l'ambito territoriale della giurisdizione del vescovo si sono usate le voci prima paroichía, più tardi eparchía.

In occidente il termine diocesi conosce una evoluzione diversa. L'ambito territoriale del vescovo è detto parochia o parœcia (parrocchia), termine con cui si indicava la comunità urbana e, a partire dal secolo IV, il territorio comprendente la città e la campagna. Il primo a usare il termine diocesi nel senso di ambito territoriale, urbano e di campagna, della giurisdizione di un vescovo è il papa Innocenzo I (401-417)13. Per lungo tempo parrocchia (lat. parochia) e diocesi (lat. diœcesis) furono usati come sinonimi. Solo nel secolo XIII la voce diocesi si impose come termine tecnico per indicare l'ambito territoriale della giurisdizione del vescovo. Anche oggi, il termine diocesi è usato con il significato appena segnalato di territorio soggetto alla giurisdizione di un vescovo. Ciò accade soprattutto nell'ambito amministrativo, da dove il termine proviene. Il contenuto è corretto, ma è estremamente riduttivo rispetto a quello del Codice vigente14. La descrizione del c. 369 è ad un tempo teologica e giuridica, perché questa è la realtà della diocesi e questo è, dunque, il significato da attribuire al termine diocesi.

b) La definizione – Già abbiamo esaminato la definizione di diocesi contenuta nel decreto Christus Dominus, n. 11. La stessa definizione si trova nel Codice di diritto canonico, can. 369: «La diocesi è la porzione del popolo di Dio che viene affidata alla cura pastorale di un vescovo con la cooperazione del presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e da lui riunita nello Spirito Santo mediante il Vangelo e l’Eucaristia, costituisca una Chiesa particolare in cui è veramente presente e operante la Chiesa di Cristo una santa, cattolica e apostolica».

Mi soffermo sui diversi elementi della definizione, limitandomi a poche annotazioni, complementari a quanto già sviluppato nel capitolo primo. 12 Il gerarca è un ecclesiastico investito di potere sacro (hierarchia), con rango di vescovo o con un rango superiore (CCEO c. 984); in genere equivale a ordinarius (CIC c. 134). 13 Patrologia Latina, 20, 602 s. (Ep. 40). 14 Il termine diocesi fa riferimento primariamente a concetti giuridico-amministrativi e territoriali. Per questa ragione un gruppo di padri del concilio Vaticano II aveva chiesto che si evitasse l'uso del termine diocesi e che lo si avesse a sostituire con Chiesa particolare. Nel decreto Christus Dominus, nel titolo del capitolo II, compaiono ambedue i termini, Chiese particolari e diocesi [De episcopis quoad Ecclesias particulares seu dioeceses], per indicare che l'argomento è su quelle Chiese particolari, che oggi sono chiamate diocesi.

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- La diocesi è la porzione del popolo di Dio: la diocesi non è una "frazione della Chiesa" che si aggiunge ad altre "frazioni" per formare la Chiesa universale, né può essere concepita come una Chiesa autarchica, giuridicamente completa in se stessa, contrapposta a un altro soggetto giuridicamente completo e indipendente, la Chiesa universale. La diocesi è espressione autentica e ad un tempo originale della Chiesa una e unica, autorizzata e garantita con la compagine organica e gerarchica e con l'animazione dello Spirito Santo di cui vive l'intera Chiesa. È ancora assai diffusa la concezione di diocesi intesa come “una porzione di territorio sottoposta alla giurisdizione di un vescovo” 15. Una simile definizione non corrisponde a quella dettata dal concilio Vaticano II (CD 11), ripresa dal Codice latino vigente (can. 369). Va superata. La diocesi è costituita da una porzione di popolo di Dio concreta, determinata, normalmente circoscritta territorialmente. La Chiesa particolare deve essere Chiesa in un luogo, confessare la propria identità di fede in una concreta realtà umana, assumendone le capacità, le risorse e le consuetudini di vita, purificandole, se necessario, consolidandole ed elevandole16. La Chiesa particolare nasce dall’annuncio di un avvenimento soprannaturale (la morte e la resurrezione del Signore Gesù) e determina effetti soprannaturali: la comunione che unisce i credenti con Cristo in Dio. La celebrazione eucaristica manifesta pienamente questo evento: «La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo di Dio… alla medesima eucaristia… cui presiede il vescovo circondato dal suo presbiterio e dai suoi ministri» (SC 41). Nel definire l'incorporazione del fedele alla Chiesa occorre distinguere l'incorporazione alla Chiesa nella sua dimensione cattolica dall'incorporazione alla Chiesa particolare (diocesi). La prima si realizza, avendo lo Spirito di Cristo, mediante i vincoli della professione di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico (LG 14); la seconda si attua attraverso il domicilio o quasidomicilio (CIC, can. 102, ove è contemplata anche la parrocchia). - Affidata alla cura pastorale del vescovo con la cooperazione del presbiterio: il Signore ha istituito nella Chiesa vari ministeri per il bene di tutto il popolo. La presenza di ministri dotati di potestà è testimoniata da tutta la tradizione a partire dal Nuovo Testamento. Il vescovo è principio visibile e fondamento dell'unità della sua Chiesa particolare, la rappresenta e insieme agli altri vescovi e al romano pontefice rappresenta tutta la Chiesa. Anche il legame vescovo-presbiterio è un dato ampiamente documentato nella Chiesa delle origini e in tutta la Chiesa antica. Il concilio Vaticano II ha ricuperato questo dato affermando che i vescovi "hanno nei presbiteri dei necessari collaboratori e consiglieri nel ministero e nel compito di istruire, santificare e pascere il popolo di Dio"17. La valorizzazione del presbiterio diocesano in quanto presbiterio, e l'istituzione del consiglio presbiterale, sono, assieme ad altre istituzioni che vedremo più avanti, le scelte concrete compiute dal concilio Vaticano II per permettere la reviviscenza delle Chiese particolari. - Costituisca una Chiesa particolare: la Chiesa particolare ha la finalità di realizzarsi come porzione del popolo di Dio in quel luogo. In essa deve manifestarsi chiaramente la natura della Chiesa (Chrisitus Dominus, n. 22).

c) Costituzione della diocesi. Nei primi tempi ciascun vescovo aveva il potere di creare altre diocesi. Nel secolo IV gli imperatori, soprattutto in oriente, fecero pesare la loro autorità nell'organizzazione delle circoscrizioni ecclesiastiche. In occidente l'autorità del vescovo di Roma nella costituzione e delimitazione delle diocesi si afferma progressivamente. Con la riforma

15 In uno dei più affermati commenti al Codice del 1917 si leggeva: "Diœcesis nostra aetate in Ecclesia Occidentali intelligitur territorium Episcopo subiectum" (F.X. WERNZ-P. VIDAL, Ius canonicum, 3, Romae 1943, pp. 458, 716 [nota 8]). 16 Cf. Lumen gentium, n. 13: EV 1/319. 17 Presbyterorum ordinis, n. 7: EV 1/1264.

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gregoriana è formulato il principio che spetta solo al romano pontefice erigere, dividere o unire le diocesi. A partire da Giovanni XXII (1316-1334) l'erezione, la soppressione, la divisione o unione delle diocesi è compiuta o dal papa o in suo nome. Il Codice del 1917 raccoglie questa tradizione (c. 215 § 1), che riconosce e afferma la libertà della suprema potestà della Chiesa rispetto sia all'autorità civile sia alle autorità interne della Chiesa.

Secondo la legislazione vigente, spetta unicamente alla suprema autorità erigere Chiese particolari, modificare o estinguere quelle già costituite (CIC, can. 373; Pastor bonus, artt. 75-78).

Il nome delle diocesi normalmente è dato dalla città della sede del vescovo. 2.3 – Una circoscrizione ecclesiastica personale: l’ordinariato militare18. L'ordinariato militare o castrense è una peculiare circoscrizione ecclesiastica assimilata giuridicamente alla diocesi, retta da un proprio statuto emanato dalla sede apostolica (Spirituali militum curae, I, § 1).

Il coetus fidelium dell'ordinariato militare è definito in rapporto alla giurisdizione militare della nazione, seguendo, però, un criterio ampio, aperto al maggior numero possibile di fedeli in qualche modo collegati con l’ordinariato. Per la legge canonica appartengono all'ordinariato militare e si trovano sotto la sua giurisdizione i fedeli che sono militari, coloro che sono al servizio delle forze armate, i famigliari dei militari, coloro che frequentano scuole militari o si trovano degenti o prestano servizio negli ospedali militari, nelle case per anziani o in altri simili istituti (Spirituali militum curae, X).

I chierici formano il presbiterio dell’ordinariato con un proprio consiglio presbiterale e possono essere in esso incardinati, se lo prevedono gli statuti. E’ consentito all’ordinario castrense di erigere un seminario e di promuovere gli alunni ai sacri ordini (Spirituali militum curae, VI).

L’ordinario militare di norma è vescovo e per l'esercizio della potestà è equiparato al vescovo diocesano; ha giurisdizione personale, ordinaria, propria, ma cumulativa con quella del vescovo diocesano, in modo suppletivo, poiché le persone appartenenti all'ordinariato non cessano di essere fedeli di quella Chiesa particolare del cui popolo, in ragione del domicilio o del rito, costituiscono una porzione. L'ordinario militare fa parte di diritto della conferenza episcopale della nazione in cui l'ordinariato è eretto (Spirituali militum curae, III; IV; V).

I cappellani militari sono equiparati ai parroci, ma esercitano le loro facoltà cumulativamente con il parroco (Spirituali militum curae, VIII; c. 569).

A partire dal 20 novembre 1997, per disposizione pontificia, all’ordinario militare non è più assegnata una sede titolare; il suo titolo è: “Arcivescovo ordinario militare per… (con l’aggiunta del proprio paese)”. Agli ordinari militari in carica al momento dell'entrata in vigore del rescritto pontificio, è stata lasciata facoltà di conservare il titolo vescovile o di rinunciarvi in favore della nuova denominazione19. 3. I RAGGRUPPAMENTI DI CHIESE PARTICOLARI Una delle principali caratteristiche della vigente struttura organizzativa della Chiesa è quella di avere sviluppato in maniera originale le istanze pastorali di governo a livello sopradiocesano. Sono stati introdotti nuovi organismi (conferenze episcopali, regioni ecclesiastiche), sono stati modificati istituti di antica tradizione (provincia ecclesiastica, concili provinciali e plenari,

18 Cf. GIOVANNI PAOLO II, cost. ap. Spirituali militum curae, del 21 aprile 1986, in AAS 78 (1986), 481-486: EV 10/345-370; CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Dieci anni dopo la promulgazione della cost. ap. “Spirituali militum curae”. Atti del simposio internazionale degli ordinariati militari (Buenos Aires, Argentina – 4-8 settembre 1996), Città del Vaticano (s.d.); E. BAURA, Legislazione sugli ordinariati castrensi, Giuffrè Editore, Milano 1992. 19 Testo del rescritto (Congregazione per i Vescovi, Vaticano 20 novembre 1997, Prot. N. 552/97) in Pastoralis Militum Curae, 1997, n. 2, p. 3 (periodico edito a cura della Congregazione per i vescovi, ufficio centrale degli ordinariati militari).

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metropolita). Questo sviluppo è dovuto all’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che, se da una parte ha meglio formulato la posizione strutturale del vescovo diocesano nella propria Chiesa, dall’altra ha anche delineato modalità di esercizio della funzione pastorale di governo derivante dalla struttura collegiale dell’episcopato non solo a livello universale della Chiesa, ma anche a livello regionale20. La dottrina ecclesiologica antecedente il concilio Vaticano II e la stessa disciplina canonica consideravano gli istituti che componevano l’organizzazione sopradiocesana allora esistenti – i concili particolari e la struttura provinciale con a capo il metropolita – strutture derivanti dalla suprema potestà del Romano Pontefice, e quindi venivano accostate alla curia romana e ai legati pontifici. L’approfondimento del concilio Vaticano II sulla communio episcoporum ha portato a modificare la precedente impostazione, considerando gli istituti sopradiocesani istanze di governo che realizzano il vincolo di comunione inerente all’ordine episcopale. Il capitolo III del decreto Christus Dominus prende in esame gli istituti appartenenti all’organizzazione sopradiocesana. Il titolo del capitolo è assai significativo: «I vescovi che cooperano al bene comune di più Chiese - De episcopis in comune plurium ecclesiarum bonum cooperantibus». Le quattro istituzioni prese in considerazione dal decreto – due già presenti e regolate nel precedente Codice di diritto canonico, la provincia ecclesiastica e i concili particolari, e due esistenti prima del Vaticano II, ma da questo ridefinite, la regione ecclesiastica e le conferenze episcopali – non sono collegate con il collegio episcopale, ma sono considerate manifestazioni della sollecitudine dei vescovi verso le altre Chiese (sollicitudo omnium ecclesiarum: LG 23). Dopo il Vaticano II, nella fase di revisione del Codice di diritto canonico, si è compiuto uno sforzo di armonizzazione e istituzionalizzazione di tutte queste figure, ora regolate nei cann. 431-459 del CIC. Si tratta di istituti diversi tra loro:

- alcuni sono circoscrizioni territoriali: la provincia e la regione ecclesiastica; - altri sono uffici ecclesiastici: il metropolita, il patriarca, il primate; - altri sono organismi collegiali di natura episcopale: concili particolari, conferenze

episcopali. 3.1 – La provincia ecclesiastica e la sede metropolitana. Il raggruppamento delle diocesi vicine in province ecclesiastiche ha origine in oriente alla fine del secolo II, in occidente verso il secolo IV, sul modello dell’organizzazione provinciale dell’impero romano e in seguito all’espansione della fede cristiana dalle comunità urbane ai territori circostanti21. Le nuove comunità autonome aventi propri pastori, si sentivano parte integrante della Chiesa una e mantenevano uno speciale legame con la loro Chiesa-madre (sede metropolitana) alla quale riconoscevano un certo numero di diritti sulle Chiese suffraganee. Da questo modello organizzativo è sorta la provincia ecclesiastica, che ha conservato nei secoli i suoi tre elementi caratteristici: a) unione di più diocesi vicine; b) distinzione tra sede metropolitana e sedi suffraganee; c) posizione di supremazia della sede metropolitana. Nel ribadire la necessità della provincia ecclesiastica, il concilio Vaticano II ha sottolineato la rilevanza dell’istituto per la cooperazione pastorale tra i vescovi, riducendo il ruolo gerarchico dei metropoliti sulle diocesi suffraganee (CD 39-40). Nel vigente Codice la provincia ecclesiastica è una circoscrizione risultante dall’unione di varie diocesi geograficamente vicine, denominate diocesi suffraganee, attorno ad una sede chiamata metropolitana, stabilmente costituita dalla Santa Sede per raggiungere un’adeguata cooperazione pastorale.

Nella provincia ecclesiastica hanno autorità, a norma del diritto, il concilio provinciale e il metropolita. Sono previsti anche la riunione dei vescovi della provincia e il tribunale di seconda

20 Tengo presente ARRIETA, o.c., pp. 471-490. 21 Cf. V. GROSSI E A. DI BERARDINO, La Chiesa antica: ecclesiologia e istituzioni, Edizioni Borla, Roma 1984, pp. 146-153; J. MEYENDORFF, Unité de l’Empire et divisions des Chrétiens, Les Editions du Cerf, Paris 1993, pp. 70-75.

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istanza. Della provincia ecclesiastica devono fare parte tutte le Chiese particolari esistenti nel territorio, per cui di regola non possono esservi diocesi esenti22.

Metropolita23 è il vescovo che presiede ad una provincia ecclesiastica ed ha sotto di sé altri vescovi detti "suffraganei" (perché hanno diritto di suffragio nel concilio provinciale). A lui compete il titolo di arcivescovo e il suo ufficio è congiunto con una sede episcopale, determinata o approvata dal romano pontefice.

L'istituto dei metropoliti è molto antico. I diritti e i doveri del metropolita, fino al medioevo molto estesi, conobbero in seguito numerose restrizioni, sia per il rafforzarsi della dignità e indipendenza dei vescovi suffraganei, sia soprattutto con gli interventi dei romani pontefici che revocarono i poteri acquisiti dai metropoliti. Il concilio di Trento riformò tutta la disciplina, che fu accolta sostanzialmente nel Codice del 191724.

Il concilio Vaticano II sollecitò norme più appropriate sui diritti e gli obblighi dei metropoliti, auspicando che l'ufficio avesse ad assumere un ruolo più efficiente nell'ambito della provincia (Christus Dominus, n. 40, 1).

In realtà la potestà del metropolita sulle diocesi suffraganee nel Codice di Giovanni Paolo II risulta limitata a funzioni di vigilanza. Spetta infatti al metropolita: 1° vigilare perché la fede e la disciplina siano accuratamente osservate; 2° fare la visita canonica alle diocesi suffraganee per cause particolari approvate dalla Santa Sede e trascurate dal vescovo suffraganeo; 3° nominare l'amministratore diocesano, qualora o non sia stato eletto legittimamente o non abbia i requisiti canonici previsti dal diritto.

Al metropolita spetta il pallio: consiste in una fascia di lana bianca a forma di stola con sei croci nere ed esprime la potestà che, in comunione con la Chiesa di Roma, il metropolita acquisisce di diritto nella propria provincia. Il pallio è legato alla sede metropolitana e non può essere usato al di fuori della provincia ecclesiastica.

3.2 – La regione ecclesiastica e la conferenza regionale. Si tratta di una circoscrizione ecclesiastica di nuovo stampo, che nasce dal raggruppamento di più province ecclesiastiche vicine. Si legge nel vigente Codice, al can. 433 §§ 1-2 che, per ragioni di opportunità, specialmente nelle nazioni dove sono più numerose le Chiese particolari, le province ecclesiastiche più vicine, su proposta della competente conferenza episcopale, possono essere congiunte dalla Santa Sede in regioni ecclesiastiche. La regione ecclesiastica può essere eretta in persona giuridica.

Importante organismo della regione ecclesiastica è l'assemblea dei vescovi della regione: ad essa spetta favorire la cooperazione e l'attività pastorale comune nella regione. All'assemblea non competono i poteri attribuiti alle conferenze episcopali, a meno che alcuni di essi non le siano stati concessi in modo speciale dalla Santa Sede25. 3.3 – I concili provinciali (CIC, cann. 439-446). Tra le forme di cooperazione sinodale vanno ricordati i concili particolari. Si tratta di un'istituzione molto antica, che ha valore solenne e straordinario. Si parla di concili particolari, per distinguerli dai concili ecumenici26.

22 Sul ruolo della provincia ecclesiastica nel procedimento della designazione dei vescovi, cf. can. 377, § 2. 23 Cf. F. CLAEYS BOUAERT, «Métropolitain», in Dictionnaire de Droit Canonique, VI, Paris 1957, coll. 875-877; L. SPINELLI, «Metropolita», in Enciclopedia del diritto, XXVI, Giuffré Editore, Milano 1976, pp. 196-197. 24 CIC 1917, cc. 272-280; 432, § 3; 434, § 3. 25 Nello Statuto della Conferenza episcopale italiana, all'art. 4 si legge: "La Conferenza rispetta e valorizza la presenza e le attività delle Conferenze episcopali regionali esistenti in Italia, espressione istituzionale della ricchezza di storia e di impegno cristiano delle diverse Regioni ecclesiastiche": Notiziario della Conferenza episcopale italiana, n. 9, 20 ottobre 1998, p. 283. I rapporti tra Conferenza episcopale italiana e Conferenze episcopali regionali sono regolati negli artt. 43-44 del medesimo Statuto. 26 Cf. J. B. D'ONORIO, «Les conciles particuliers après dix ans d'application du Code de Droit Canonique», in PONTIFICIUM CONSILIUM DE LEGUM TEXTIBUS INTERPRETANDIS, Ius in vita et in missione Ecclesiae. Acta Symposii internationalis iuris canonici occurrente X anniversario promulgationis Codicis iuris canonici, diebus 19-24 aprilis 1993, in Civitate Vaticana celebrati, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, pp. 593-603. Sui concili

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Il Codice di Giovanni Paolo II distingue due tipi di concili particolari: - il concilio plenario: è la riunione dei vescovi di tutte le Chiese particolari della medesima

conferenza episcopale (can. 439, § 1); - il concilio provinciale: è la riunione dei vescovi delle diverse Chiese particolari della medesima

provincia ecclesiastica (can. 440, § 1). Il concilio plenario viene celebrato per tutte le Chiese particolari della medesima conferenza

episcopale indipendentemente dal fatto che questa comprenda uno o più paesi. Si compie ogni volta che risulti necessario o utile alla stessa conferenza con l'approvazione della Sede Apostolica.

Il concilio provinciale viene celebrato ogni volta che risulti opportuno a giudizio della maggioranza dei vescovi diocesani della provincia. Le due figure di concili sono regolate da norme comuni e proprie (cann. 443-446, 441-442). Al nostro scopo è utile ricordare la funzione dei concili particolari. Compete ad essi provvedere, nei propri ambiti territoriali, alle necessità pastorali del popolo di Dio con un esercizio di potestà di governo soprattutto legislativa. In virtù di questa potestà è compito dei concili particolari prendere quelle decisioni che risultino opportune per l'incremento della fede, per ordinare l'attività pastorale comune, per conservare, introdurre e difendere la disciplina ecclesiastica. Gli atti dei concili particolari debbono essere trasmessi alla Sede apostolica; ad essa spetta rivedere, prima della promulgazione, i decreti emanati dal concilio27. 4 – LE CONFERENZE EPISCOPALI

La comunione tra le Chiese si esprime in atteggiamenti molteplici, quali l'ascolto vicendevole, la solidarietà e la fraternità, la sollecitudine ad aiutarsi (cf. Ad gentes, n. 38b). Si traduce anche in strutture precise (LG 23), quali il concilio ecumenico, i patriarcati, le conferenze episcopali e i loro raggruppamenti, i concili particolari, i sinodi presso il papa. Con riferimento alle conferenze episcopali la Lumen gentium al n. 23d, alla fine della trattazione dei patriarcati, dopo aver rilevato che la concorde armonia della varietà di Chiese locali dimostra con più evidenza la cattolicità della Chiesa indivisa, afferma: "In modo simile le conferenze episcopali possono oggi dare un contributo molteplice e fecondo, perché lo spirito collegiale (collegialis affectus) passi a concrete applicazioni". Mi soffermo sulle conferenze episcopali (abbr. CE), con la preoccupazione non di dire tutto, bensì di attirare l'attenzione su alcuni punti teologici e canonici maturati dopo il concilio Vaticano II, facendo riferimento al motu proprio Apostolos suos, firmato da Giovanni Paolo II il 21 maggio 1998 e promulgato il 1° settembre 198828. La lettera apostolica ha come oggetto la natura teologica e giuridica delle CE, e offre un'integrazione normativa al fine di assicurare che la loro prassi sia teologicamente fondata e giuridicamente sicura29. Il rapporto tra conferenza episcopale e Chiesa

provinciali post-tridentini cf.: G. ZARRI, «Note sui concili provinciali post-tridentini», in P. PRODI (a cura di), Forme storiche di governo nella Chiesa universale, CLUEB, Bologna 2003, pp. 127-141. 27 Sulle manifestazioni sinodali successive al concilio Vaticano II si veda: A.MELLONI, S. SCATENA (edd.), Synod and Synodality. Theology, History, Canon Law and Ecumenism in new contact. International Colloquium Bruges 2003, Lit Verlag Münster, 2005 (sinodi nazionali della Chiesa cattolica tedescca, pp. 315-344; pratiche sinodali in Canadà, India, Africa, pp. 345-435). 28 Cf. IOANNES PAULUS II, Litterae apostolicae motu proprio datae Apostolos suos, de theologica et iuridica natura Conferentiarum Episcoporum, in AAS 90 (1998), pp. 641-658: EV 17/808-850. 29 A meno di un anno dalla promulgazione del motu proprio, un'identica Lettera della Congregazione per i vescovi e della Congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli, è stata distintamente inviata ai presidente delle CE per fornire elementi utili alla revisione dei loro statuti: cf. L'Osservatore Romano, 20 giugno 1999, p. 6 e Regno documenti 44 (1999), pp. 536-537.

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particolare è molto intenso. Anche per questa ragione va attentamente studiata la natura teologica e giuridica delle conferenze episcopali.

4.1 - Cenni storici e dibattito recente sulle conferenze episcopali 4.1.1 - Cenni storici. Le origini delle CE risalgono alla metà del secolo XIX, quando la costituzione degli stati nazionali, la secolarizzazione delle istituzioni, la crescente socializzazione della vita suggerirono consultazioni sistematiche tra i vescovi appartenenti ad una stessa nazione in funzione della realizzazione di iniziative comuni dirette a far fronte alle nuove esigenze dell'evangelizzazione30. Le CE nascono dapprima per spontanea iniziativa degli episcopati, poi si diffondono rapidamente con l'appoggio della Santa Sede. Il primo organismo stabile di collegamento dei vescovi di uno stesso paese comparve in Belgio, nel 1830. La Germania e l'Austria lo ebbero nel 1848. In Italia i vescovi cominciarono a riunirsi a base regionale nel 1849. Più tardi seguirono gli episcopati di altri paesi europei ed extra europei31. Ma è soprattutto nel secolo XX° che le CE si sono sviluppate in modo notevole ed hanno assunto il ruolo di organo preferito dai vescovi di una nazione o di un determinato territorio per lo scambio di vedute, per la consultazione reciproca e per la collaborazione a vantaggio del bene comune della Chiesa. Al presente esistono in tutto il mondo 107 CE giuridicamente costituite32. Il concilio Vaticano II, rendendo comprensibile la dottrina della comunione e della collegialità, ha riconosciuto l'opportunità e la fecondità delle CE ritenendo "sommamente utile che in tutto il mondo i vescovi di una stessa nazione o regione confluiscano in un unico organismo e si radunino periodicamente tra loro, affinché da uno scambio di esperienze pratiche e dal confronto di pareri sgorghi una santa collaborazione per il bene comune delle Chiese" (Christus Dominus, n. 37; cf. Lumen gentium, n. 23). Nel 1966 Paolo VI, con il motu proprio Ecclesiae sannctae, emanava le norme di attuazione delle decisioni del concilio sulle CE, prescrivendone la costituzione nei paesi che ancora non le avessero33. Qualche anno dopo, nel 1973, il direttorio pastorale dei Vescovi Ecclesiae imago ricordava che "la CE è stata istituita affinché possa oggigiorno portare un molteplice e fecondo contributo all'applicazione concreta dell'affetto collegiale"34. 30 Cf. G. FELICIANI, Le conferenze episcopali, Il Mulino, Bologna1974; IDEM, Le conferenze episcopali, in Storia della Chiesa. XXV/2. La Chiesa del Vaticano II (1958-1978), a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello, parte II, Edizioni S. Paolo, Roma 1994, pp. 7-16; J. MANZANARES, «Las conferencias episcopales en tiempos de Pio IX - un capítulo inédito y decisivo de su historia», in Revista Española de derecho canonico, 36 (1980), pp. 5 ss.; TH. J. REESE (ed.), Episcopal Conferences. Historical, Canonical & Theoloogical Studies, Washington D.C., 1989; L. MISTÒ, «Le conferenze episcopali dalle origini al nuovo Codice di diritto canonico», in La Scuola Cattolica 117 (1989), pp. 415-451; M. FAGIOLI, «Prassi e norme relative alle conferenze episcopali tra concilio Vaticano II e post-concilio (1959-1998)», in A.MELLONI, S. SCATENA (edd.), Synod and Synodality. Theology, History, Canon Law and Ecumenism in new contact. International Colloquium Bruges 2003, Lit Verlag Münster, 2005, pp. 265-296; P. NOËL, «Le débat théologique-juridique sur les procédures de décision des conférences épiscopales après Vatican II: l’enjeu pour la synodalité», ivi, pp. 297-314. 31 La denominazione "conferenze episcopali" appare in un'istruzione della Sacra Congregazione dei vescovi e regolari del 24 agosto 1889: SACRA CONGREGATIO EPISCOPORUM ET REGULARIUM, Instructio Alcuni arcivescovi de collationibus quolibet anno ab Italis Episcopis in variis quae designantur Regionibus habendis, 24.8.1889, in Leonis XIII Acta 9 (1890), p. 184. 32 L'Annuario Pontificio 2005 (Città del Vaticano 2005, pp. 1079-1097 ) elenca 111 conferenze episcopali. Nel 1962 erano 44, nel 1967 erano 61, per raggiungere, nel 1970, il numero di 70 e, nel 1976, il numero di 96 conferenze. 33 Cf. Cf. PAOLO VI, Motu proprio Ecclesiae sanctae, 6.8.1966, I. Normae ad exsequenda decreta ss. Concilii Vaticani II "Chistus Dominus" et "Presbyterorum ordinis", n. 41, in AAS 58 (1966), pp. 773-774: EV 2/833-835. 34 Cf. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio Ecclesiae imago sul ministero pastorale dei vescovi, 22.2.1973, n. 210: EV 4/2310-2311.

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Il Codice di diritto canonico del 1983, infine, stabiliva una specifica normativa con la quale era definito lo "status" giuridico delle CE: erano regolate le competenze delle CE, la loro erezione e composizione e, anche se a grandi linee, il loro funzionamento (cf. cc. 447-459). Il Codice non disciplinava il modo di esercizio del magistero autentico da parte dei vescovi riuniti in conferenza, riconosciuto, in termini molto generali, nel c. 75335. Passaggio importante nella storia delle CE è stata l'assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi del 1985, chiamata a valutare l'attuazione del concilio vent'anni dopo la sua chiusura. Nei confronti delle CE erano lamentati diversi inconvenienti. Ne segnalo alcuni. In primo luogo si faceva notare che la forte organizzazione delle CE, con l'apparato decisionale di tipo burocratico che era richiesto, oltre che allontanare i vescovi dalle loro diocesi, limitava la loro libertà e tendeva a sostituirsi ad essi nel governo pastorale del popolo di Dio a loro affidato. In secondo luogo veniva rilevato che le CE, con la loro spiccata tendenza a darsi una precisa identità, sarebbero state all'origine e avrebbero favorito il nazionalismo religioso e l'autocefalia, a scapito della comunione con le altre Chiese particolari e con il romano pontefice. Altro inconveniente veniva ravvisato nella vasta competenza normativa attribuita alle CE, da più parti invocata come generale, mentre assai debole era il loro fondamento teologico e giuridico anche rispetto ad altre istituzioni maggiormente fondate non solo storicamente ma anche teologicamente, quali i sinodi e i concili particolari36. Il Sinodo dei vescovi prese atto dei problemi, ma non esitò a riconoscere gli aspetti positivi delle CE. Chiese, pertanto, un approfondito studio del loro "status" teologico e giuridico, in particolare della loro autorità dottrinale. Ecco il pronunciamento sinodale:

"Lo spirito collegiale ha un'applicazione concreta nelle CE (LG 23). Nessuno può dubitare della loro utilità pastorale, anzi della loro necessità nella situazione attuale. Nelle CE i vescovi di una nazione o di un territorio esercitano congiuntamente il loro servizio pastorale (CD 38; CIC, c. 447). Nel loro modo di procedere, le CE devono tenere presente il bene della Chiesa ossia il servizio dell'unità e la responsabilità inalienabile di ciascun vescovo nei confronti della Chiesa universale e della sua Chiesa particolare" (EV 9/1805). Il Sinodo formulava, poi, la seguente richiesta:

"Poiché le CE sono tanto utili, anzi necessarie, nell'odierno lavoro pastorale della Chiesa, si auspica che venga più ampiamente e profondamente esplicitato lo studio del loro 'status' teologico e soprattutto il problema della loro autorità dottrinale, tenendo presente quanto è scritto nel decreto conciliare Christus Dominus n. 38 e nel Codice di diritto canonico, cc. 447 e 753" (EV 9/1809, b).

4.1.2 - La ricerca dottrinale dopo il Sinodo dei Vescovi del 1985: l'Instrumentum laboris. Giovanni Paolo II, accogliendo l'invito del Sinodo, già nel 1986 affidava lo studio delle questioni riguardanti le CE alla Congregazione per i vescovi, in collaborazione con le Congregazioni per le Chiese orientali e per l'Evangelizzazione dei popoli. Nell'iter dei lavori era prevista la consultazione delle Chiese locali e la collaborazione di organi rappresentativi della Curia romana. In data 12 gennaio 1988 la Congregazione per i vescovi inviava alle CE un Instrumentum laboris intitolato: "Le conferenze episcopali: sullo "status" teologico e giuridico delle conferenze episcopali" (1° luglio 1987) [EV 10/1844-1913]. Il documento era presentato come un testo non definitivo, ma aperto a tutte quelle osservazioni che lo studio e la discussione avrebbero potuto

35 Stabilisce il c. 753: "I vescovi, che sono in comunione con il Capo del Collegio e con i membri, sia singolarmente sia riuniti nelle conferenze episcopali o nei concili particolari, anche se non godono dell'infallibilità nell'insegnamento, sono autentici dottori e maestri della fede per i fedeli affidati alla loro cura; a tale magistero autentico dei propri vescovi i fedeli sono tenuti a aderire con religioso ossequio dell'animo". 36 Cf. «Conferenze episcopali e corresponsabilità dei vescovi» (editoriale), in La Civiltà Cattolica II (1985), pp. 417-429; H. DE LUBAC, Pluralismo di Chiese o unità della Chiesa?, Morcelliana, Brescia 1973, pp. 80-84; P. GOUYON, «Les relations entre le diocése et la Conference épiscopale», in L'année canonique 22 (1978), pp. 1-23; G. CAPRILE, Il Sinodo dei vescovi. Prima assemblea straordinaria (11-28 ottobre 1969), La Civiltà Cattolica, Roma 1970.

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offrire. Sul testo proposto venivano richiesti pareri e suggerimenti in vista di un documento definitivo. L'Instrumentum laboris considera le CE muovendo da due diverse prospettive: in rapporto alla costituzione divina della Chiesa e in rapporto alla missione pastorale. Considerate in rapporto alla costituzione divina della Chiesa - che ha i suoi titolari nel papa e nel collegio dei vescovi, per la Chiesa universale, nei singoli vescovi, per le Chiese particolari loro affidate - le CE restano al di fuori. Non sono istanze intermedie. Secondo l'Instrumentum laboris le CE non acquistano titolarità nell'ordine costituzionale della Chiesa, nemmeno per il fatto di essere costituite da più vescovi e quindi di essere, in qualche modo, un collegio episcopale. Tale collegio - ammesso, ma non concesso, che di collegio si possa parlare - non è attuazione parziale del collegio dei vescovi. Il collegio dei vescovi attua la collegialità soltanto in due modi: 1° attraverso il concilio ecumenico approvato e accettato dal romano pontefice; 2° attraverso l'azione collegiale dei vescovi sparsi nelle varie parti del mondo indetta e ascoltata dal papa (cf. LG 22b; CD 4b; CIC, c. 337 §§ 1-2). La conclusione per l'Instrumentum laboris è chiara: le CE non hanno alcun fondato riferimento dogmatico con la costituzione divina della Chiesa. Non sono strutture di istituzione divina. Le CE non sono istanze intermedie tra i pastori delle Chiese particolari e il collegio dei vescovi né direttamente né indirettamente. I singoli vescovi mantengono la propria autonomia nei confronti della CE alla quale appartengono. Le decisioni della CE che hanno forza giuridica vincolante per il singolo vescovo, divengono tali (vincolanti) non per autorità intrinseca della CE, ma per autorità conferita dalla suprema autorità della Chiesa. Le CE sono una creazione del diritto ecclesiastico e la loro autorità deriva da norme giuridiche positive (EV 10/1879-1882). Anche se non richieste dalla costituzione divina della Chiesa e non fondate in essa, le CE - afferma sempre l'Instrumentum laboris - si vanno rivelando non solo utili, ma necessarie per la missione pastorale della Chiesa. Insegna il concilio Vaticano II che i singoli vescovi, ben governando la propria Chiesa come porzione della Chiesa universale, contribuiscono efficacemente al bene di tutto il corpo mistico, che è anche un corpo di Chiese (LG 23ab). Insegna ugualmente che la ragion d'essere delle CE risiede appunto nel promuovere congiuntamente il ministero pastorale dei vescovi di una determinata nazione o territorio, al fine di incrementare il bene che la Chiesa offre agli uomini cf. LG 23d; CD 38; CIC, c. 447). Questo ordinamento della CE alla promozione del ministero dei vescovi che compongono, e quindi alla promozione e alla custodia dell'unità di fede e della disciplina comune della Chiesa intera (LG 23), ne stabilisce il significato teologico e l'importanza ecclesiale. La CE è proiezione o meglio affermazione concreta di quell'unione collegiale (affectus collegialis = sentimento collegiale) che è insita nelle mutue relazioni dei vescovi con le Chiese particolari e con la Chiesa universale. E' in questa prospettiva che vanno comprese ecclesiologicamente, e quindi teologicamente, le CE: esse possono dare un contributo molteplice e fecondo perché il sentimento della collegialità sia completamente applicato. L'Instrumentum laboris, mentre riconosce alle CE competenza legislativa secondo quanto stabilito nel diritto vigente, nega che esse godano del munus magisterii. Esse hanno soltanto mete operative, pastorali e sociali e non direttamente dottrinali. "Le CE - afferma perentoriamente l'Instrumentum laboris - non costituiscono un'istanza dottrinale intermedia, non hanno competenza per stabilire contenuti dogmatici e morali" (EV 10/1888). La conclusione è chiara: le CE sono strutture contingenti, regolate dal diritto e prive di quei fondamenti dogmatici di cui godono invece le strutture d'istituzione divina, tra le quali va certamente annoverato il collegio episcopale. Una struttura contingente, di carattere collettivo, non collegiale, non può sostituirsi al singolo vescovo, che nella consacrazione episcopale è stato costituito maestro autentico della fede per la sua Chiesa particolare. Le CE come tali non possiedono, propriamente parlando, il munus magisterii.

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4.1.3 - I pareri dei teologi e dei canonisti. Presento i pareri espressi nel periodo compreso tra l'invio dell'Instrumentum laboris per la consultazione (1987) e la promulgazione del motu proprio Apostolos suos (1998). La proposta di valorizzare teologicamente e canonicamente le CE è avanzata da numerosi teologi e canonisti, convinti che in esse è possibile far diventare realtà la teologia della comunione del concilio Vaticano II. A loro avviso le CE devono essere considerate un elemento strutturale della Chiesa, certamente condizionato dal punto di vista storico, ma costitutivo da quello teologico, che si colloca tra il papa e il singolo vescovo. Qualche autore sostiene che solo una struttura ecclesiale triadica, che si realizzi negli ambiti della Chiesa diocesana (con il suo vescovo), delle unità ecclesiali regionali (le Chiese principali) e della Chiesa universale (con il papa), è in grado di garantire, da un lato, che la communio della Chiesa universale non si frantumi in una molteplicità di Chiese locali, come è avvenuto per le Chiese d'oriente sfociate nell'autocefalia e ormai praticamente incapaci di unità d'azione, e, dall'altro, che la communio, articolata soltanto sul papa, per la Chiesa universale, e sul vescovo, per la Chiesa particolare, porti a dissoluzione la communio Ecclesiarum, fino ad assorbire la Chiesa particolare nella Chiesa universale e a inglobare il ministero del vescovo in quello del papa. Se si vuole per la Chiesa una struttura di communio duratura e vitale, si devono rafforzare, sostengono questi autori, le 'istanze intermedie' sinodali; in caso contrario, ogni discorso di teologia della communio risulta privo di credibilità37. Walter Kasper, descrive in sintesi il carattere teologico delle CE nel modo seguente: "Esse sono iure ecclesiastico, ma cum fundamento in iure divino"38. Per il domenicano H. Legrand i raggruppamenti di Chiese particolari sono necessari perché alcuni elementi vitali di diritto divino della Chiesa possano crescere e fiorire. Questi elementi sono: l'inculturazione del Vangelo, la realizzazione della koinonia, la manifestazione della cattolicità39. Anche H. Teissier sostiene il fondamento teologico delle CE: "L'istituzione delle CE - scrive - è, con tutta evidenza, contingente. E' una forma di organizzazione della comunione, come le visite ad limina o i viaggi pastorali del papa. Ma è necessario riconoscere, al di là della struttura contingente, una realtà teologica che appartiene alla natura stessa della Chiesa, la cui comunione universale è vissuta, in modo particolare, mediante la comunione dei vescovi"40. Alcuni autori sostengono che le CE non godono del munus magisterii41. Altri, invece, sulla base dell'insegnamento conciliare, in particolare di Christus Dominus nn. 8 e 36, sostengono che alle CE va riconosciuta l'autorità magisteriale, da esercitare in comunione con il romano pontefice e con l'episcopato universale42. I pareri espressi sull'Instrumentum laboris furono piuttosto critici. Sulla loro base fu formulato un secondo testo, completamente nuovo, il quale, con profonde modifiche e rifacimenti, condusse al documento finale.

4.2 - La lettera apostolica Apostolos suos (abbr. AS)

37 Cf. G. GRESHAKE, «Zwischeninstanzen' zwischen Papst und Ortsbischöfen», in H. MÜLLER - H.J. POTTMEYER (edd.), Die Bischofskonferenz. Theologischer und juridischer Status, Düsseldorf 1989, pp. 88-115. A sostengo della proposta, è da segnalare l'antichissima tradizione canonica delle Chiese orientali cattoliche, in base alla quale, tra il vescovo locale (eparca) e il papa, si trova il patriarca, che presiede come padre e capo (tamquam pater et caput) la sua Chiesa patriarcale e ha potestà su tutti i vescovi, non esclusi i metropoliti, e su tutti gli altri fedeli (CCEO, cc. 55-56); c'è poi il metropolita, che presiede una provincia entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale, con diritti e doveri definiti dal diritto comune, dai sinodi metropolitani e dalle consuetudini (CCEO, cc. 133, 137ss.). 38 W. KASPER, «Der theologische Status der Bischofskonferenzen», in Theologische Quartalschrift 167 (1987), p. 3. 39 Cf. H. LEGRAND, «Risposta alla relazione di H. Müller», in Natura e futuro delle Conferenze episcopali. Atti del colloquio internazionale di Salamanca (3-8 1gennaio 1988) a cura di H. Legrand, J. Manzanares e A. García y García, Edizioni Dehoniane, Bologna 1988, p. 144. 40 H. TESSIER, «Le conferenze episcopali e la loro funzione nella Chiesa», in Conciliuum, 22 (1986), pp. 968-978. 41 Cf. J. Ratzinger, G. Ghirlanda, ecc. 42 Cf. A. ANTON, Le conferenze episcopali. Istanze teologiche? Lo stato teologico della questione, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1992.

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Il motu proprio è una risposta alle richieste del sinodo dei vescovi del 1985. La finalità è di approfondire e sviluppare più ampiamente lo studio sulla natura teologica e giuridica delle CE. Il documento non intende riprendere l'intera problematica ecclesiologica relativa al rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare, che costituisce lo sfondo entro il quale si pone la questione della natura della CE, né ha l'intenzione di rispondere a tutti i numerosi quesiti che la teologia ha sollevato intorno alle CE. Su molti punti la ricerca rimane aperta.

La lettera apostolica Apostolos suos è divisa in quattro parti43. La prima è un exordium, che richiama sommariamente la dottrina conciliare sulla

collegialità (nn. 1-2); quindi ricorda lo sviluppo delle diverse forme di manifestazione storica della collegialità, tra le quali quella delle CE (nn. 3-5); infine esplicita lo scopo del documento (nn. 6-7).

La seconda parte, intitolata Collegialis episcoporum coniuntio (L'unione collegiale dei vescovi) vuole dare i principi basilari teologici della collegialità, per poter comprendere la natura e l'azione del collegio dei vescovi come tale (nn. 8-9); la natura dell'ufficio episcopale e l'esercizio di esso a livello della singola Chiesa particolare affidatagli (n. 10); la natura dell'azione pastorale congiunta dei vescovi nelle CE, in rapporto al collegio dei vescovi e al singolo vescovo (nn. 11-13).

La terza parte, dal titolo Episcoporum conferentiae (Le conferenze dei vescovi) delinea la natura delle CE (nn. 14-16) e la loro composizione, dando anche delle disposizioni circa l'azione dei membri (nn. 17-18); chiarifica il rapporto tra l'autorità e l'azione del singolo vescovo diocesano e dei presuli a lui equiparati, e l'esercizio congiunto del ministero episcopale nelle CE sia nell'ambito legislativo che magisteriale, nonché la relazione con la Santa Sede (nn. 19-24).

La quarta parte, Normae de Episcoporum Conferentiis completivae (Norme complementari sulle conferenze dei vescovi), è composta da quattro articoli di legge: modo di procedere perché le dichiarazioni dottrinali di una conferenza costituiscano magistero autentico (art. 1); solo la riunione plenaria della conferenza ha il potere di porre atti di magistero autentico e non può concederlo a nessun altro organismo (art. 2); per atti diversi da quelli di cui all'art. 2 la commissione dottrinale dev'essere autorizzata esplicitamente dal consiglio permanente della conferenza (art. 3); le CE debbono rivedere i loro statuti perché siano coerenti con i chiarimenti e le norme del motu proprio ed essere inviati alla Santa Sede per la recognitio a norma del c. 451 del Codice.

Nell'introduzione del documento, il n. 7 indica il fine di esso: "esplicitare i principi basilari teologici e giuridici riguardo alle CE, e offrire l'indispensabile integrazione normativa, per aiutare a stabilire una prassi delle medesime conferenze teologicamente fondata e giuridicamente sicura". Infatti, nella stessa introduzione, al n. 6, dopo aver sottolineato che le CE "contribuiscono efficacemente all'unità tra i vescovi, e quindi della Chiesa, essendo uno strumento assai valido per rinsaldare la comunione ecclesiale", precisa che "l'evoluzione della loro sempre più vasta attività ha suscitato alcuni problemi di natura teologica e pastorale, specialmente sul loro rapporto coi singoli vescovi diocesani".

Il documento AS si colloca nell'ambito propriamente disciplinare. Sua Eccellenza Mons. Julian Herranz, Presidente del Pontificio consiglio per l'interpretazione dei testi legislativi, nel suo intervento alla conferenza stampa di presentazione del motu proprio (23 luglio 1998), diceva che "la specifica finalità del documento (esporre cioè i principi dottrinali che sono alla base del vigente statuto canonico delle CE, le cui norme inoltre vengono confermate e opportunamente integrate con nuove disposizioni) colloca il documento pontificio nell'ambito propriamente disciplinare"44. Si tratta, dunque di un documento legislativo, integrativo della disciplina codiciale riguardo alle CE. La disciplina vigente non viene abrogata, ma confermata e fondata teologicamente. Il documento non preclude una diversità di pareri sia teologico che canonico, anzi incoraggia un approfondimento della ricerca nei due ambiti, così da consentire ulteriori chiarificazioni.

4.3 - Status teologico delle CE 43 Una lettera apostolica motu proprio data, è lo strumento ordinario con cui il romano pontefice promulga delle leggi, per sua iniziativa (motu proprio), anche se, generalmente, su una previa consultazione. 44 L'Osservatore Romano, 24 luglio 1998, p. 6.

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Il motu proprio AS riconosce un fondamento teologico alle CE, in quanto esse sono

considerate "una forma concreta dello spirito collegiale" (n. 14). Questa affermazione è la conclusione di quanto il documento afferma nei numeri precedenti, riprendendo la dottrina del concilio Vaticano II circa l'unione collegiale dei vescovi45.

La prospettiva da cui il documento parte è la dimensione universale dell'episcopato, per questo viene stabilito un parallelismo tra la Chiesa una e universale, quindi indivisa, e l'episcopato uno e indiviso, perciò universale. Principio e fondamento visibile di tale unità è il romano pontefice, capo del corpo episcopale (AS 8a).

Il motu proprio ricorda poi che l'ordine dei vescovi è collegialmente soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, insieme con il suo capo, il romano pontefice, e mai senza di lui. Tale suprema potestà viene esercitata dai vescovi soltanto collegialmente, nelle modalità stabilite (concilio ecumenico o atto collegiale approvato o accettato dal papa) (AS 9). Una pari azione collegiale non si ha né a livello di singole Chiese particolari né a livello dei loro raggruppamenti. Il vescovo a questi livelli non esercita la potestà suprema propria del collegio episcopale (AS 10). A livello di singola Chiesa, l'agire del vescovo diocesano è strettamente personale, non collegiale, anche se animato dallo spirito comunionale.

Il punto fondamentale è quello di inquadrare correttamente e di meglio comprendere l'unione collegiale che si manifesta nell'azione pastorale congiunta dei vescovi di una determianta zona geografica.

I nn. 11-12-13 del motu proprio approfondiscono le differenze che si hanno tra i raggruppamenti territoriali di Chiese particolari e il collegio dei vescovi, tra gli atti posti dai vescovi negli organismi dei raggruppamenti territoriali e gli atti posti all'interno del corpo collegiale dei vescovi.

Vediamo innanzitutto le caratteristiche proprie del collegio dei vescovi: a) Il collegio dei vescovi è un soggetto unitario indivisibile dotato di suprema e piena

potestà su tutta la Chiesa, esercitata solo collegialmente secondo le modalità stabilite. b) La peculiare configurazione del collegio dei vescovi e le relazioni al suo interno sono di

diritto divino. c) Nel collegio il vescovo appare come vescovo della Chiesa universale ed esercita un

potere supremo che gli è proprio per il bene dei suoi fedeli e di tutta la Chiesa. I suoi atti sono vincolanti in quanto atti posti nel collegio e con il collegio. La collegialità degli atti del corpo episcopale è legata al fatto che la Chiesa universale non può essere concepita come la somma delle Chiese particolari né come una federazione di Chiese particolari, e che il collegio dei vescovi non può essere inteso come la somma di vescovi preposti alle Chiese particolari.

d) Il vescovo concorre al bene della Chiesa universale non solo con gli atti posti collegialmente con l'intero corpo episcopale, ma anche con la sollecitudine per essa, anche se non esercitata con atti di giurisdizione. Il vescovo contribuisce al bene sia della Chiesa universale sia dei raggruppamenti di Chiese particolari nei quali si trova inserito, con il buon esercizio della funzione di governare, ma anche con l'esercizio delle funzioni di insegnare e santificare.

45 Sulla natura teologica delle CE cf.: A. ANTON, «La carta apostólica MP "Apostolos suos" de Juan Pablo II: se reafirman algunos puntos claves, mientras muchos otros quedam abiertos a la investigación teológica y canónica», in Gregorianum 80, 2(1999), pp. 263-297; IDEM, «La lettera apostolica "Apostolos suos" di Giovanni Paolo II», in La Civiltà Cattolica I (1999), pp. 119-132; J. FORNES, «Autoridad y competencias de la Conferencia episcopal. Un comentario al M.P. Apostolos suos de 21 de mayo de 1998», in Ius Canonicum 39 (1999), pp. 733-759; A. BETTETINI, «Collegialità, unanimità e "potestas". Contributo per uno studio sulle conferenze episcopali alla luce del M.P. Apostolos suos», in Ius Ecclesiae 11 (1999), pp. 493-509.

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e) Il vescovo diviene membro del collegio in forza della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica con il capo e con i membri del collegio. Nel collegio permane ininterrottamente il corpo apostolico.

f) Il rapporto tra la Chiesa universale espressa dal collegio dei vescovi e le Chiese particolari rappresentate dai singoli vescovi, è un rapporto di mutua interiorità della Chiesa universale con la Chiesa particolare.

Vediamo ora le caratteristiche proprie dei raggruppamenti di Chiese e dei loro organismi di

vescovi. aa) A livello di singola Chiesa, il vescovo diocesano pasce il gregge a lui affidato come pastore proprio, ordinario e immediato e il suo agire è strettamente personale, non collegiale, anche se animato dallo spirito comunionale. A questo livello il vescovo non esercita la potestà suprema propria del collegio e del romano pontefice. Elementi interiori ad ogni Chiesa particolare. bb) A livello di raggruppamento di Chiese particolari per zone geografiche (nazione, regione, ecc.), i vescovi ad esse preposti non esercitano congiuntamente la loro cura pastorale con atti collegiali pari a quelli del collegio episcopale. cc) L'efficacia vincolante degli atti posti congiuntamente dai vescovi in seno al raggruppamento di Chiese particolari e in comunione con il romano pontefice, deriva dal fatto che la Sede apostolica ha costituito l'organismo e ha affidato ad esso, sulla base della potestà dei singoli vescovi, precise competenze. dd) L'esercizio congiunto del ministero episcopale da parte dei vescovi di un territorio traduce in applicazione concreta lo spirito collegiale (affectus collegialis: LG 23), il quale è l'anima della collaborazione tra i vescovi in campo regionale, nazionale e internazionale. ee) Il vescovo diviene membro di un organismo territoriale di vescovi per determinazione della Sede apostolica. I raggruppamenti di Chiese particolari possono mutare o anche estinguersi. Solo nel collegio dei vescovi in quanto tale permane ininterrottamente il corpo apostolico. Il vescovo riunito in conferenza non può limitare la propria potestà in favore della CE, né tanto meno in favore di una sua parte, sia essa il consiglio permanente, o una commissione o lo stesso presidente. ff) I raggruppamenti di Chiese particolari si fondano su legami di comuni tradizioni di vita cristiana e di radicamento della Chiesa in comunità umane unite da vincoli di lingua, di cultura e di storia.

Il documento pontificio fa propria una precisa dottrina sulla collegialità. Occorre distinguere tra azione collegiale in senso stretto e attività collegiale derivante dall'affectus collegialis, dall'unione collegiale, dalla sollecitudine per tutte le Chiese. Si tratta di modalità d'attuazione della collegialità oggettivamente distinte, ma ambedue derivanti dalla stessa realtà sacramentale46. L'attività collegiale in senso lato, fondata sull'affectus collegialis, si esprime sia nella collaborazione tra i vescovi in tutte le loro funzioni ministeriali (insegnare, santificare e governare), sia nei diversi raggruppamenti di vescovi (regionali, nazionali, internazionali). Trova il suo fondamento nell'evento sacramentale dell'ordinazione e non è riducibile ad un mero sentimento. Soggetto dell'affectus collegialis è ogni vescovo che, in quanto membro del collegio dei vescovi, governa la sua Chiesa diocesana come porzione della Chiesa universale ed estende la sua sollecitudine al bene di tutta la communio ecclesiastica, anche nei "raggruppamenti di vescovi" di un territorio o di una nazione che "esercitano congiuntamente il loro ministero pastorale" (CD 38a).

46 La collegialità non è qualcosa di indivisibile, che o si dà, o non si dà. Se così fosse, l'unico soggetto dell'azione collegiale sarebbe soltanto il collegio dei vescovi. Questa posizione dottrinale è ormai superata. E' da approfondire la collegialità che si attua nei raggruppamenti di vescovi. Non può essere considerata come qualcosa di meramente analogico e teologicamente improprio. Il suo fondamento è l'affectus collegialis.

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Sulla potestà di magistero il motu proprio compie un sostanziale progresso, rispetto l'Instrumentum laboris del 1987. Al n. 21 espressamente afferma: "L'esercizio congiunto del ministero episcopale concerne pure la funzione dottrinale". Seguono una serie di disposizioni che disciplinano l'esercizio del munus magisterii e stabiliscono le condizioni secondo le quali le dichiarazioni delle CE sono da considerarsi magistero autentico obbligante tutti i vescovi e i fedeli delle Chiese particolari che fanno parte della CE (22; 23, artt. 1-3).

4.4 - Status giuridico delle CE

4.4.1 - Natura delle conferenze episcopali. Le conferenze episcopali costituiscono una forma concreta d'applicazione dello spirito collegiale. Il Codice, attingendo al concilio Vaticano II, ne dà una precisa descrizione: "La conferenza episcopale, organismo di per sé permanente, è l'assemblea dei vescovi di una nazione o di un territorio determinato, i quali esercitano congiuntamente alcune funzioni pastorali per i fedeli di quel territorio, per promuovere maggiormente il bene che la Chiesa offre agli uomini, soprattutto mediante forme e modalità d'apostolato opportunamente adeguate alle circostanze di tempo e di luogo, a norma del diritto" (can. 447).

Nella conferenza i vescovi esercitano congiuntamente (non collegialmente) alcune funzioni pastorali. Il motu proprio Apostolos suos, al n. 15 offre un elenco di materie che richiedono la cooperazione dei vescovi: la promozione e la tutela della fede e dei costumi, la traduzione dei libri liturgici, la promozione e la formazione delle vocazioni sacerdotali, la messa a punto di sussidi per la catechesi, la promozione e la tutela delle università cattoliche e di altre istituzioni educative, l'impegno ecumenico, i rapporti con le autorità civili, la difesa della vita umana, della pace, dei diritti umani, la promozione della giustizia sociale, l'uso dei mezzi della comunicazione sociale, ecc.

In pratica i vescovi esercitano congiuntamente la potestà legislativa, esecutiva e di magistero secondo quanto stabilito dal diritto.

Il can. 447 qualifica la conferenza dei vescovi come un organismo "permanente", in quanto è stabile e rimane, anche se i suoi membri cambiano, si riunisce e agisce in tempi determinati, e non è sempre in atto. Ogni conferenza episcopale ha i propri statuti, che essa stessa elabora Questi tuttavia devono ottenere la revisione (recognitio) della sede apostolica (can. 451).

Si pone il problema se la CE sia da considerarsi un "soggetto collettivo" capace di agire come tale nel quadro delle norme stabilite oppure sia una semplice somma di vescovi di un determinato territorio che operano congiuntamente. Tutto fa ritenere che la CE debba essere considerata un collegio come previsto dal can. 115, § 2, nel quale viene attuata la dimensione collegiale del ministero episcopale, anche esercitando congiuntamente, a modo di collegio a norma dei cann. 119 e 455, § 2, la potestà ordinaria e propria che i vescovi hanno per l'ufficio di pastori delle Chiese loro affidate, ricevuto con la provvisione canonica47.

Altra questione concerne la natura della potestà esercitata dalle CE, se ordinaria o delegata. Il motu proprio Apostolos suos, al riguardo non dice niente espressamente. E' una questione aperta.

4.4.2 - Specie di conferenze episcopali. Le conferenze episcopali possono essere: - nazionali: quelle che si hanno come regola generale e comprendono i vescovi di una nazione

(can. 448 § 1; Apostolos suos, n. 16); - sopranazionali: quelle che comprendono i vescovi delle Chiese particolari che si trovano in più

nazioni (can. 448 § 2; Apostolos suos, n. 16); - infranazionali: quelle che comprendono solamente i vescovi di alcune chiese particolari

costituite in un determinato territorio (can. 448 § 2; Apostolos suos, n. 16). La Santa Sede stabilisce norme peculiari per le conferenze sopranazionali e per quelle

infranazionali, riservandosi di valutare le singole situazioni48. 47 Cf. G. GHIRLANDA, «Il M.P. Apostolos suos sulle conferenze dei vescovi», in Periodica 88 (1999), pp. 609-657, 634. 48 L’Annuario Pontificio 2005 (Città del Vaticano 2005), elenca: 18 “Sinodi dei vescovi delle Chiese patriarcali e Arcivescovili maggiori e Assemblee dei gerarchi di Chiese sui iuris”, 9 “riunioni internazionali di conferenze

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4.4.3 - Membri della conferenza. Ogni singola conferenza deve comprendere tutti i vescovi diocesani del territorio e quelli che nel diritto sono loro equiparati, nonché i vescovi coadiutori, i vescovi ausiliari e gli altri vescovi titolari che esercitano in quel territorio uno speciale incarico affidato dalla Sede Apostolica o dalla stessa conferenza episcopale (can. 450, § 1).

Nelle riunioni plenarie della conferenza episcopale ai vescovi diocesani e a quelli che nel diritto solo loro equiparati, nonché ai vescovi coadiutori, compete il voto deliberativo, e ciò per il diritto stesso, non potendo prevedere altrimenti gli statuti della conferenza (can. 454, § 1).

Per quanto concerne i vescovi ausiliari e gli altri vescovi titolari membri della conferenza episcopale, resta alla determinazione degli statuti della conferenza che il loro voto sia deliberativo o consultivo (can. 454, § 2). Gli statuti, oltre che creare una giusta proporzione tra vescovi diocesani, vescovi ausiliari e altri titolari, devono prevedere la presenza dei vescovi emeriti con voto consultivo (Apostolos suos, n. 17). L'obbligo di partecipare all'assemblea è morale, non giuridico. Attesa la natura della conferenza episcopale, la partecipazione del membro della conferenza non è delegabile. 4.4.4 - Assemblea plenaria. L'assemblea plenaria, alla quale partecipano tutti i membri, si riunisce almeno una volta l'anno e ogni volta che lo richiedano speciali circostanze, secondo quanto stabiliscono gli statuti (c. 453), ed è presieduta dal presidente o, se legittimamente impedito, dal propresidente. Il presidente e il vicepresidente della conferenza episcopale devono essere scelti soltanto tra i membri che sono vescovi diocesani (can 452. §§ 1-2). L'assemblea plenaria, è l'unico organo in grado di esercitare il potere legislativo ed è la sede nella quale si esprime pienamente l'esercizio della potestà dei vescovi che fanno parte della conferenza. Gli atti dell'assemblea plenaria vanno distinti in atti giuridicamente vincolanti (decreti generali legislativi, decreti generali esecutivi, decreti singolari amministrativi, elezioni) e atti giuridicamente non vincolanti (sono quelli non previsti dal diritto né concessi dalla Santa Sede, perciò la decisione spetta al singolo vescovo diocesano). La conferenza episcopale può emanare decreti generali solamente nelle materie in cui lo dispone il diritto universale, oppure lo stabilisce un mandato speciale della sede apostolica (c. 455, § 1)49. Per la validità di questi decreti è necessario che l'assemblea plenaria si pronunci favorevolmente almeno con i due terzi dei voti di quanti sono membri della conferenza con voto deliberativo (ivi, § 2). Le materie affidate alle CE riguardano: - la formazione dei ministri sacri, sia candidati al sacerdozio che al diaconato permanente; - l’ecumenismo; - l’istruzione cattolica; - l’istruzione superiore cattolica e la pastorale universitaria; - i mezzi di comunicazione sociale; - la tutela dell’integrità della fede e dei costumi del popolo cristiano.

Sono settori nei quali è necessario collegare le competenze proprie delle CE con la responsabilità di ciascun vescovo nella sua diocesi.

episcopali”, cui seguono: il “Consiglio dei Patriarchi cattolici d’oriente”, il “Consiglio delle conferenze dei vescovi d’Europa”, il “Consiglio episcopale latino-americano”, il “Segretariato episcopale dell’America centrale e Panama”, la “Commissione degli episcopati della comunità europea” (pp. 1098-1104). 49 Nel Codice i seguenti canoni prevedono che le conferenze episcopali emanino decreti generali obbliganti: cc. - 236 (diaconato permanente); - 496 (consiglio presbiterale); - 502, § 3 (capitolo cattedrale); - 533, §1 e 538, § 3 (parrocchie e parroci); - 772, § 2 (predicazione); - 788, § 3 (catecumenato); - 804, § 1 (istruzione religiosa nelle scuole); - 851,1° / 877, § 3 / 895 / 1031, § 3 / 1062, § 1 / 1067 / 1083, § 2 / 1120 (sacramenti); - 1733, § 2 (ufficio per i ricorsi contro i decreti amministrativi). Elenco alcuni canoni nei quali è prevista la competenza amministrativa delle conferenze episcopali: c. 230, § 1 (ministeri laicali), 377, § 2 (nomina dei vescovi), 402, § 2 (vescovi emeriti), 452, § 1 (provvista di uffici), 766 (predicazione), 522 (provvista dell'ufficio di parroco), ecc.

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4.4.5 - Organi della conferenza episcopale. La conferenza episcopale si articola nei seguenti organi: a) l'assemblea generale; b) il consiglio permanente dei vescovi; c) il presidente e il vicepresidente ; d) la segreteria generale e il segretario generale; e) le commissioni episcopali (Christus Dominus, n. 38, 3). 4.4.6 - Funzione dottrinale della conferenza episcopale. L'esercizio congiunto del ministero episcopale concerne anche la funzione dottrinale. Il codice vigente, oltre alla norma generale del can. 753, stabilisce, più in concreto, alcune competenze dottrinali delle conferenze dei vescovi, come sono "il curare che vengano pubblicati catechismi per il proprio territorio, previa approvazione della Sede Apostolica" (can. 775, § 2), e l'approvazione delle edizioni dei libri delle sacre Scritture e delle loro versioni (can. 825). I vescovi riuniti in assemblea svolgono congiuntamente la loro funzione dottrinale. Perché le loro dichiarazioni dottrinali costituiscano un magistero autentico e possano essere pubblicate in nome della conferenza stessa, è necessario che siano approvate all'unanimità dai membri vescovi oppure che, approvate nella riunione plenaria almeno dai due terzi dei presuli che appartengono alla conferenza con voto deliberativo, ottengano la revisione (recognitio) della sede apostolica (Apostolos suos, IV, art. 1). Il potere di magistero è esclusivo della conferenza episcopale e non può essere delegato (ivi, art. 2). Ecco il testo della normativa complementare contenuta nel motu proprio: "IV. Norme complementari sulle conferenze dei vescovi. Art. 1. - Perché le dichiarazioni dottrinali della conferenza dei vescovi con riferimento al n. 22 della presente lettera costituiscano un magistero autentico e possano essere pubblicate in nome della conferenza stessa, è necessario che siano approvate all'unanimità dai membri vescovi oppure che, approvate nella riunione plenaria almeno dai due terzi dei presuli che appartengono alla conferenza con voto deliberativo, ottengano la revisione (recognitio) della Sede Apostolica. Art. 2. - Nessun organismo della conferenza episcopale, tranne la riunione plenaria, ha il potere di porre atti di magistero autentico. Né la conferenza episcopale può concedere tale potere alla commissione o ad altri organismi costituiti al suo interno. Art. 3. - Per altri tipi di intervento diversi da quelli di cui all'articolo 2, la commissione dottrinale della conferenza dei vescovi deve essere autorizzata esplicitamente dal consiglio permanente della conferenza. Art. 4. - Le conferenze episcopali devono rivedere i loro statuti perché siano coerenti con i chiarimenti e le norme del presente documento oltreché con il Codice di diritto canonico, e inviarli successivamente alla Sede Apostolica per la revisione (recondito), a norma del can. 451 del CIC": Le CE sono diventate una realtà concreta, viva ed efficiente in tutte le parti del mondo. Esse contribuiscono all'unità tra i vescovi e quindi all'unità della Chiesa, essendo uno strumento valido per rinsaldare la comunione ecclesiale. La normativa che le riguarda mira a illuminare e a rendere ancora più efficace la loro azione per incrementare il bene comune e delle singole Chiese. Si è detto che la ricerca sulle CE è aperta. Certamente c'è da fare, per esprimere al meglio le potenzialità di questo strumento della comunione.

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5. ORGANISMI DI PARTECIPAZIONE ALLA FUNZIONE PASTORALE DEL VESCOVO In questo articolo elenco gli organismi che la dottrina suole denominare istituti di corresponsabilità, in quanto esprimono, ognuno a suo modo, la partecipazione dei componenti della porzione di popolo di Dio alle funzioni direttive della comunità diocesana. Alcuni di questi istituti sono di lunga tradizione nella Chiesa, altri sono di recente creazione. I vari istituti possiedono una diversa fondazione teologica e una specifica normativa che li regola. Alcune di queste istituzioni sono oggetto di studio in appositi capitoli del nostro programma. Gli istituti in questione sono da considerare come ausiliari della funzione episcopale di guida della comunità. Vanno perciò inquadrati nella struttura della Chiesa. Gli organismi di partecipazione presi in considerazione fondano il loro titolo di partecipazione alle funzioni di governo sia nel sacramento dell’ordine sia nel sacramento del battesimo. Essendo i due sacramenti di diversa natura (LG 10), diversa sarà, di conseguenza, la rilevanza giuridica degli istituti che poggiano sull’uno e sull’altro sacerdozio: il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale. Si tratta di istituti di natura consultiva in rapporto all’ufficio del vescovo, che nella diocesi è titolare della potestà di governo. Il voto consultivo di questi istituti può assumere differente portata: precettivo o non precettivo, vincolante o non vincolante. In ogni caso va sottolineata la rilevanza che il parere consultivo assume in un contesto ecclesiale di comunione e di corresponsabilità nella missione della Chiesa. I pareri consultivi manifestati nel contesto istituzionale di questi organismi, indipendentemente dal loro carattere vincolante dal punto di vista giuridico, sono pareri giuridicamente rilevanti, fondati su posizioni riconosciute dalla legge (CIC, can. 127). Di conseguenza, il vescovo è tenuto a rispettare tali pareri e li deve tenere nella dovuta considerazione. Da essi non dovrebbe discostarsi senza ragionevoli motivi. In ogni caso, va ribadito che soltanto al vescovo spetta, in modo insostituibile, la responsabilità della decisione da prendere. E’ utile ricordare quanto scrive Giovanni Paolo II nella lettera Novo millennio ineunte (06.01.2001):

n. 45. «Gli spazi della comunione vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, ad ogni livello, nel tessuto della vita di ciascuna Chiesa. La comunione deve qui rifulgere nei rapporti tra vescovi, presbiteri e diaconi, tra pastori e intero popolo di Dio, tra clero e religiosi, tra associazioni e movimenti ecclesiali. A tale scopo devono essere sempre meglio valorizzati gli organismi di partecipazione previsti dal Diritto canonico, come i Consigli presbiterali e pastorali. Essi, com’è noto, non si ispirano ai criteri della democrazia parlamentare, perché operano per via consultiva e non deliberativa; non per questo tuttavia perdono di significato e di rilevanza. La teologia e la spiritualità della comunione, infatti, ispirano un reciproco ed efficace ascolto tra pastori e fedeli, tenendoli, da un lato, uniti a priori in tutto ciò che è essenziale, e spingendoli, dall’altro, a convergere normalmente anche nell’opinabile verso scelte ponderate e condivise.

Occorre a questo scopo far nostra l’antica sapienza che, senza portare alcun pregiudizio al ruolo autorevole dei pastori, sapeva incoraggiarli al più ampio ascolto di tutto il popolo di Dio. Significativo ciò che san Benedetto ricorda all’abate del monastero, nell’invitarlo a consultare anche i più giovani: “Spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore” (Reg. III, 3). E san Paolino di Nola: “Pendiamo dalla bocca di tutti i fedeli, perché in ogni fedele soffia lo Spirito di Dio” (Epist. 23, 36: CSEL 29, 193).

Se dunque la saggezza giuridica, ponendo precise regole alla partecipazione, manifesta la struttura gerarchica della Chiesa e scongiura tentazioni di arbitrio e pretese ingiustificate, la spiritualità della comunione conferisce un’anima al dato istituzionale con un’indicazione di fiducia e di apertura che pienamente risponde alla dignità e responsabilità di ogni membro del popolo di Dio».

Sono organismi di natura consultiva:

1) il sinodo diocesano 2) il consiglio presbiterale

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3) il collegio dei consultori 4) il capitolo dei canonici 5) il consiglio pastorale.

6. CURA PASTORALE NELLA CHIESA PARTICOLARE: LA CURIA DIOCESANA La curia diocesana è l'insieme degli organismi e delle persone "che aiutano il vescovo nel governo di tutta la diocesi, soprattutto nel dirigere l'attività pastorale, nel curare l'amministrazione della diocesi, come pure nell'esercitare la potestà giudiziaria" (can. 469). Il Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi Apostolorum successores, afferma: "La curia diocesana consta di quelle persone ed uffici che più da vicino collaborano col vescovo nel suo ufficio pastorale e con lui formano quasi una cosa sola" (n. 177). Strettissimo è il rapporto tra il vescovo diocesano e la curia: devono formare una cosa sola. La curia ha carattere pastorale dovendo provvedere non solo all'amministrazione della diocesi, ma anche all'esercizio delle opere d'apostolato. Per questo la curia diocesana è retta, oltre che dalle norme del Codice, anche dal diritto particolare. Ogni attività svolta nell'ambito della curia, a qualsiasi livello e con qualsiasi grado di responsabilità, è sempre di natura sua pastorale, orientata cioè alla realizzazione della salvezza per mezzo della Chiesa di Cristo. Il fine di ogni attività svolta dagli uffici della curia è quello di sostenere e promuovere la nuova evangelizzazione seguendo gli indirizzi del programma pastorale diocesano e di porsi a servizio di tutti i soggetti e realtà ecclesiali, per far crescere la loro comunione e l'unità pastorale, in vista di un più incisivo e permanente impegno missionario. Gli ambiti operativi della curia diocesana sono tre: 1° l'attività pastorale; 2° l'amministrazione dei beni; 3° l'ambito giudiziario. La curia non esercita potestà legislativa. 6.1 - Conferimento degli uffici e loro coordinamento. La nomina di tutti coloro che svolgono un ufficio nella curia diocesana spetta al vescovo, il quale, ove ne ravvisi l'opportunità, soprattutto se la diocesi è molto vasta e popolosa, può nominare un moderatore di curia, con l'incarico di coordinare le attività che riguardano la trattazione degli affari amministrativi e curare che gli altri addetti della curia svolgano fedelmente l'ufficio loro affidato. La consultazione degli organismi diocesani nella provvisione degli uffici ha sempre carattere consultivo. Trova qui applicazione il principio annunciato nel Direttorio Apostolorum successores: «la persona giusta al posto giusto» (n. 61). Il Codice insiste sulla necessità del coordinamento della curia diocesana (can. 473, § 1). Un primo strumento di coordinamento è il consiglio episcopale, composto dai vicari generali e dai vicari episcopali. Altro strumento è il moderatore di curia50.

50 Cf. P. BUX, Direzione e coordinamento delle attività nella curia diocesana, Ecumenica Editrice, Bari, 1995; Statuto della curia arcivescovile di Milano, Centro Ambrosiano, Milano 2002. Il Vicariato di Roma, organo della Santa Sede dotato di personalità giuridica ed amministrazione propria, svolge la funzione di curia diocesana caratterizzata dalla peculiare natura della diocesi di Roma. Ha un ordinamento proprio. Si deve fare riferimento a quanto stabilito da Giovanni Paolo II nella costituzione apostolica Ecclesia in Urbe (1.1.1998) circa il nuovo ordinamento del vicariato (AAS 90 [1998], pp. 177-193). Nella diocesi di Roma il ministero episcopale è esercitato, in nome e per mandato del papa, dal cardinale vicario, coadiuvato dal vicegerente e dai vescovi ausiliari (artt. 10, 14, 15, 17). Gli uffici del vicariato sono moderati da un prelato segretario, di nomina pontificia. Al prelato segretario spetta di coadiuvare il cardinale vicario ed il vicegerente nell'esercizio delle loro funzioni, come pure di coordinare le attività connesse alla trattazione degli affari amministrativi e di curare che gli altri addetti del vicariato svolgano fedelmente l'ufficio a loro affidato (art. 18). Il consiglio episcopale è presieduto dal cardinale vicario ed è composto dal vicegerente, dai vescovi ausiliari e dal prelato segretario (art. 19). Sono previsti gli altri organismi diocesani: il collegio dei consultori, il

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6.2 - I collaboratori principali del vescovo. Si legge nella costituzione apostolica Ecclesia in Urbe circa il nuovo ordinamento del vicariato di Roma: "Pur nella distinzione dei compiti e nella responsabilità propria di ciascuno, tutti coloro che lavorano a qualsiasi titolo negli uffici del vicariato dell'Urbe, scelti in base a pietà, competenza, zelo ed esperienza pastorale, prestino la loro valida collaborazione in spirito di servizio, guardando alla diaconia di Cristo che è venuto a servire e non ad essere servito" (art. 3). La direttiva è estensibile ai collaboratori del vescovo di tutte le curie diocesane. Vanno tenuti presenti e resi operativi i principi generali sul governo pastorale della Chiesa particolare descritti nel Direttorio Apostolorum successores, nn. 55-62.

I principali collaboratori del vescovo sono: - il vicario generale e i vicari episcopali, - il cancelliere e gli altri notai della curia, - il tribunale diocesano: vicario giudiziale, giudici diocesani, promotore di giustizia e

difensore del vincolo.

Il vicario generale è un ufficio di costituzione obbligatoria nella diocesi. Mentre il vicario generale appare già nel secolo XI per definirsi, nel secolo XIV, come vicario che fa le veci del vescovo, il vicario episcopale nasce con il concilio Vaticano II (cf. decreto Christus Dominus, n. 27a) sulla scia del vicario generale. Sia il vicario generale sia il vicario episcopale sono liberamente nominati dal vescovo, non debbono essere suoi consanguinei, debbono essere presbiteri (cann. 477, § 1; 478). Hanno potestà ordinaria, vicaria, amministrativa; non è né legislativa, né giudiziale. Il loro ufficio ha carattere pastorale.

Il vicario generale e il vicario episcopale sono ordinari del luogo (can. 134, §§ 1-2). 6.3 - Il consiglio per gli affari economici e l'economo. La Chiesa sente l’impegno di destinare i beni che possiede «per gli scopi per il cui raggiungimento è lecito alla Chiesa possedere beni temporali, ossia: l’ordinamento del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il sostentamento delle opere di apostolato e di carità, specialmente per i poveri» (PO 17: EV 1/1301).

Si noti, nel testo citato, il nesso tra il diritto ai beni e i fini: i beni devono essere destinati effettivamente ai fini per i quali la Chiesa li possiede. La misura dei beni dipende anche dal modo con cui la Chiesa deve perseguire i propri fini (Gaudium et spes, n. 76: EV 1/1582).

Tra le Chiese di deve realizzare una intensa solidarietà. La costituzione Lumen gentium, n. 13, fa derivare la comunione dei beni temporali dalla stessa natura della Chiesa e dalla comunione:

«Tra le diverse parti della Chiesa si creano legami di intima comunione riguardo alle ricchezze spirituali, agli operai apostolici e alle risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono infatti chiamati a condividere i loro beni; anche per le singole Chiese valgono le parole dell’apostolo: “Ognuno metta al servizio degli altri il dono che ha ricevuto, da bravo amministratore della multiforme grazia di Dio” (1 Pt 4.10)» (EV 1/320; cf. anche LG n. 23: EV 1/340).

Una Chiesa particolare per raggiungere gli scopi che le sono propri si avvale di beni

temporali. La comunione e la comunicazione dei beni viene attuata prima di tutto all’interno della diocesi (cf. Presbyterorum ordinis, n. 21), sia per il sostentamento dei ministri che per le altre necessità della stessa diocesi. Ma la comunione deve aprirsi alla stessa Chiesa universale, dal momento che le singole diocesi sono parti dell’unica Chiesa di Cristo (CD 6).

consiglio presbiterale e il consiglio pastorale (art. 21). E' previsto anche il Consiglio dei parroci prefetti per l'elaborazione e la verifica del programma pastorale diocesano e per la formulazione delle linee direttive dell'immediata azione pastorale (art. 20).

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In ogni diocesi deve essere costituito il consiglio diocesano per gli affari economici, presieduto dallo stesso vescovo diocesano o da un suo delegato. Esso è composto da almeno tre fedeli, esperti in economia e nel diritto civile ed eminenti per integrità.

Il compito del consiglio è duplice: da una parte, aiuta il vescovo nella gestione del patrimonio della diocesi, e, a questo titolo è sottomesso al vescovo, dall'altra, esercita una funzione di controllo su talune decisioni che toccano il patrimonio diocesano.

La prima funzione consiste nel predisporre ogni anno il bilancio preventivo delle entrate e delle uscite con riferimento alla gestione generale della diocesi, e inoltre approvare il bilancio economico di fine anno. Si tratta di atti del consiglio, che avranno forza vincolante con l'approvazione del vescovo.

La seconda funzione si rende concreta in tutti quegli atti per i quali l'organismo è richiesto del suo parere. Il vescovo è tenuto a consultare il consiglio per gli affari economici: - per la nomina dell'economo, come pure per la sua eventuale rimozione; - prima di imporre un tributo alle persone giuridiche pubbliche a lui sottomesse; - per porre atti di amministrazione ordinaria di maggiore importanza; - per la determinazione degli atti di amministrazione straordinaria; - per approvare la collocazione più sicura del capitale delle fondazioni; - per ridurre gli oneri delle fondazioni.

Il vescovo deve avere il consenso del consiglio per gli affari economici: - per porre validamente atti di amministrazione straordinaria; - per le alienazioni di beni della diocesi o di altre persone giuridiche a lui sottomesse.

Il vescovo nomina l’economo, dopo aver sentito il collegio dei consultori e il consiglio per gli affari economici. L’economo deve essere veramente esperto in economia e distinto per onestà.

6.4 – Il consiglio episcopale di governo. Si tratta di un semplice suggerimento contenuto nel Codice di diritto canonico al can. 473 § 4, lasciato alla prudente valutazione del vescovo diocesano e al modello organizzativo della diocesi. Può essere costituito un consiglio episcopale di governo, con funzioni di coordinamento dei diversi settori della curia diocesana, allo scopo anche di promuovere l’attività concorde di coloro che dirigono i vari settori organizzativi. La composizione del consiglio e le modalità organizzative sono lasciate alla legislazione particolare. 7. IL DECENTRAMENTO DELL’ATTIVITÀ PASTORALE La cura pastorale dei fedeli affidata al vescovo diocesano, risulta successivamente trasferita in maniera subordinata ai titolari di altri uffici e istituti costituiti stabilmente nella Chiesa particolare per provvedere alle concrete necessità spirituali dei fedeli. Si tratta di circoscrizioni ecclesiastiche minori, che prendono varie denominazioni. La Chiesa particolare deve essere divisa in parti distinte o parrocchie. Per favorire la cura pastorale mediante un’azione comune, più parrocchie possono essere riunite in peculiari raggruppamenti, quali sono i vicariati foranei o decanati. In molte Chiese le parrocchie sono oggi organizzate sotto forma di unità pastorali.

E’ prevista l’istituzione delle quasi-parrocchie. Quando una comunità non può essere eretta come parrocchia o quasi-parrocchia, il vescovo diocesano deve provvedere in altro modo alla sua cura pastorale.

A questo vasto argomento riguardante la vita interna della Chiesa particolare sarà dedicato un apposito capitolo.

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NOTA - Chiesa particolare e società51 Il concilio Vaticano II nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes, introduce la descrizione dell'aiuto che la Chiesa intende dare alla società con queste parole: "La missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di ordine politico, economico e sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è di ordine religioso" (n. 42b). L'affermazione non vuole negare la possibilità di un intervento della Chiesa negli ambiti politico, economico e sociale (è sufficiente pensare alla Dottrina sociale della Chiesa che riguarda proprio questi ambiti!), ma si vuole connettere tale intervento con la missione religiosa. Aggiunge infatti il testo conciliare: "Eppure proprio da questa missione religiosa scaturiscono dei compiti, della luce e delle forze, che possono contribuire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina" (ivi). Una Chiesa particolare non può non interrogarsi sul suo rapporto con la società considerata non solo nei tre ambiti indicati dalla Gaudium et spes (ordine politico, economico e sociale), ma in tutte le sue dimensioni (culturale, religiosa, ecc.). Il vangelo non ha carattere solo spirituale o escatologico: ha necessariamente delle ricadute sul piano sociale. Si pensi al comandamento che ogni uomo è "prossimo" (Lc 10,25-37), al principio che tra gli uomini, in Cristo, vi è una fondamentale uguaglianza (Gal 3,28), al forte invito che sull'odio prevalgano la misericordia e il perdono (Lc 6,36), alla direttiva che l'autorità è servizio. Lo Spirito di Gesù, che è lo spirito delle beatitudini, è spirito di libertà, di giustizia, di pace: questi termini non si lasciano privatizzare. Una Chiesa non può stare alla finestra, né chiudersi nel privato di fronte ai problemi della società. Non potendo trarre dal vangelo soluzioni economiche o politiche, è compito dei cristiani mediarne le luci e la forza, in un dialogo continuo con ogni uomo. L'evangelizzazione, asseriva Paolo VI nell'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, comporta "un messaggio esplicito, adatto alle diverse situazioni, costantemente attualizzato, sui diritti e sui doveri di ogni persona umana, sulla vita familiare senza la quale la crescita personale difficilmente è possibile, sulla vita sociale, sulla vita internazionale, la pace, la giustizia, lo sviluppo; un messaggio infine, particolarmente valido e vigoroso nei nostri giorni, sulla liberazione" (n. 29). Si tratta di riflettere sulla dimensione sociale e politica del vangelo e della missione della Chiesa in un determinato luogo, e svilupparne tutte le potenzialità. Le varie correnti teologiche sentono sempre più urgente il compito, nella logica dell'incarnazione e della redenzione, di porsi a difesa e a servizio dell'uomo52. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del proprio paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili del vangelo, attingendo principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione anche nell'insegnamento sociale della Chiesa. "Spetta alle comunità cristiane - ribadiva Paolo VI nella lettera apostolica Octogesima adveniens - individuare, con l'assistenza dello Spirito santo, in comunione con i vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà - le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi" (n.4)53. Sul modo di sviluppare i rapporti con la società civile un notevole contributo viene, per le singole Chiese, dalle conferenze episcopali. Operando in modo congiunto, i vescovi promuovono in maniera più efficace il bene che la Chiesa offre agli uomini.

51 In termini più generali cf. S. PIÉ-NINOT, Eclesiología. La sacramentalidad de la comunidad cristiana, Ediciones Sigueme, Salamanca 2007, pp. 577-598. 52 Cf. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992. 53 PAOLO VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens, nell'80° anniversario dell'enc. "Rerum novarum" (14.5.1971), in AAS 63 (1971), pp. 401-441: EV 4/717.

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Dal concilio Vaticano II, gli episcopati dei diversi continenti si sono sempre più interessati dei problemi della promozione umana, della politica, dell'economia e dello sviluppo - fattori strategici delle società contemporanee - e della loro incidenza sociale, sottoponendo i diversi ambiti della vita sociale ad un giudizio etico non solo in funzione dell'efficacia, ma anche e soprattutto in funzione della giustizia. La Chiesa "giudica" le cose temporali, in quanto sono implicati il senso e la salvezza dell'uomo, adoperandosi per la centralità dell'uomo dentro la società.

Quando si parla di insegnamento sociale della Chiesa si guarda, in genere, all'insegnamento sociale dei papi. Gli studi comparati sempre più mettono in luce che i vescovi, in dialogo con le proprie Chiese, non sono venuti meno alla loro inalienabile missione d'insegnamento nelle questioni sociali, politiche, economiche e di sviluppo dei propri paesi. Emerge un insegnamento attento ai problemi locali (regionali oltre che continentali), fine nelle analisi, coraggioso negli orientamenti da prendere. Ampliando la visione, oltre all'insegnamento dei papi e dei vescovi, occorre valorizzare anche l'insegnamento dei laici. Importanti si rivelano, in questo orizzonte, le settimane sociali che vengono celebrate in diversi paesi54.

Il popolo di Dio partecipa della funzione profetica di Cristo e offre una viva testimonianza di lui anzitutto con la sua vita di fede e di carità. Ciò avviene in una concreta Chiesa particolare, nella quale e a partire dalla quale esiste l'una e unica Chiesa cattolica.

54 Cf. ISTITUTO INTERNAZIONALE JACQUES MARITAIN, Etica, economia e sviluppo. L'insegnamento dei vescovi dei cinque continenti, a cura di R. Berthouzoz, R. Papini, R. Sugranyes de Franch, Edizioni Dehoniane, Bologna 1994; IDEM, Etica ed economia. Il contributo della Chiesa in Africa, a cura di V. Buonomo e R. Papini, Edizioni Dehoniane, Bologna 1995; IDEM, Etica ed economia. Religioni sviluppo e liberazione in Asia, a cura di V. Buonomo e R. Papini, Edizioni Dehoniane, Bologna 1998 (esistono le versioni in lingua inglese e/o francese). Per questa materia strumento di lavoro assai prezioso è l'opera: Economie et développement. Répertoire des documents épiscopaux des cinq continents (1891-1991), Editions Universitaires Fribourg, Suisse - Editions du Cerf, Paris, 1997, pp. 810.