Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una...

12
1 Franco Perrelli Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno Lo scritto che Søren Kierkegaard dedica ad Antigone in Enten-Eller (1843) ha forma di conferenza 1 , ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore – indicato con la lettera A – è infatti membro di una società, i cui accoliti amano denominarsi symparanekrómenoi, cioè quasi come i paranékroi («individui, che come me sono morti») del Dialogo dei morti di Luciano; si tratta peraltro di una società che potrebbe ricordare quella specie di club dei suicidi costituito dai Compagni di Morte, di cui parla Plutarco nella Vita di Antonio (§ 71), morituri o lemuri, quindi, che inducono alla morte ed elettivamente vivono nel segno della notte 2 . Costoro sono una possibile metafora di una collettività umana moderna 3 , che parrebbe concepita all’insegna di quella categoria che Hans Sedlmayr – con le parole di Adalbert Stifter – indicherà come Der Tod des Lichtes spirituale 4 : «Venite a me più vicino, cari symparanekrómenoi» – invita il nostro oratore – «stringetevi a me d’attorno, mentre getto nel mondo la mia eroina tragica, mentre do per corredo alla figlia della pena [Sorgen] 5 la dote del dolore [Smerten]» (pp. 36; 152*) 6 . Sono queste – Sorgen-pena e Smerten-dolore – le categorie fondamentali che guideranno A nella sua elaborazione drammaturgica e che dovremo tenere sempre 1 È importante ricordare che Enten-Eller (in Italia, tradotto di norma con Aut-Aut) è inteso da Søren Kierkegaard come opera dello pseudonimo Victor Eremita, il quale però avrebbe giusto curato l’edizione delle carte che costituiscono il libro, carte nascoste e ritrovate – con effetto teatrale alquanto scribiano – nel cassetto occulto di un vecchio secrétaire. Queste carte si compongono di saggi estetici scritti da A, un cultore o insegnante di estetica [Æsthetiker], e di tre lettere di contenuto etico, indirizzate dal magistrato Wilhelm (B) ad A (ma Forførerens Dagbog ovvero il Diario del seduttore sarebbe stato copiato da A in casa del seduttore Johannes, che l’aveva lasciato incustodito in un altro secrétaire, e una predica di B apparterrebbe in realtà a un pastore di campagna). La conferenza su Antigone, Det antike Tragiskes Reflex i det moderne Tragiske. Et Forsøg i den fragmentariske Stræben (Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno. Un saggio di ricerca frammentaria), appartiene agli scritti di A. L’elemento unitario di Enten-Eller appare il possesso da parte di A di tutte le carte casualmente rinvenute da Victor Eremita in quel sécretaire, che, contenendole, «metonimicamente» diventa «l’animo di A»: «un animo postumo, sopravvissuto a lui in quel sécretaire e in quelle carte segrete e postume» (cfr. in merito il saggio di E. ROCCA, L’Antigone di Kierkegaard o della morte del tragico, in AA. VV., Antigone e la filosofia, a cura di P. Montani, Roma, Donzelli, 2001, p. 75). 2 Cfr. la nota nel vol. IV (Indledninger og Tekstforklaringer), pp. 27-8, di S. KIERKEGAARD, Værker i Udvalg, I-IV, a cura di F.J. Billeskov-Jansen, København, Gyldendal, 1950 (edizione d’ora in poi indicata con la sigla KVIU). Nella seconda delle tre conferenze (Il riflesso è la prima) indirizzate ai symparanekrómenoi, Skyggerids (Silhouettes), in Enten-Eller, troviamo un’esaltazione sia della morte come «bene supremo» sia della vittoriosa «notte oscura», che accorcia «tutto, il giorno, il tempo, la vita, il travaglio del ricordo in un eterno oblio»: «… la notte vince, il giorno s’accorcia, la speranza cresce» (citeremo i testi di Enten-Eller dall’edizione italiana, S. KIERKEGAARD, Enten-Eller. Un frammento di vita, I-V, a cura di A. Cortese, Milano, Adelphi, 1990 3 , pp. 54-5, la cit. è relativa al vol. II, che contiene Il riflesso). 3 I termini che usa Kierkegaard, in vari luoghi, in relazione ai symparanekrómenoi, sono Selskab e, in riferimento allo «spirito d’associazione» che predomina nella modernità, Association (pp. 21; 141*), che, incrociati, non ci sembrano escludere del tutto l’accezione più sociale e collettiva di Samfund. 4 Il riferimento è al libro di H. SEDLMAYR, La morte della luce. L’arte nell’epoca della secolarizzazione, Milano, Rusconi, 1970, p. 19 ss. 5 Il termine Sorg implica comunque anche un elemento di lutto e di cordoglio; sørgespil indica in danese la tragedia. 6 Citeremo la conferenza dalla menzionata edizione italiana di Enten-Eller, riscontrata comunque sul II vol. (Enten-Eller. Første Del) dei monumentali Søren Kierkegaards Skrifter, a cura di N.J. Cappelørn, Gads Forlag, København, dal 1997 in fieri, i cui riferimenti di pagina saranno nello specifico sempre marcati con asterisco. www.turindamsreview.unito.it

Transcript of Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una...

Page 1: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

1

Franco Perrelli Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno

Lo scritto che Søren Kierkegaard dedica ad Antigone in Enten-Eller (1843) ha

forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore – indicato con la lettera A – è infatti membro di una società, i cui accoliti amano denominarsi symparanekrómenoi, cioè quasi come i paranékroi («individui, che come me sono morti») del Dialogo dei morti di Luciano; si tratta peraltro di una società che potrebbe ricordare quella specie di club dei suicidi costituito dai Compagni di Morte, di cui parla Plutarco nella Vita di Antonio (§ 71), morituri o lemuri, quindi, che inducono alla morte ed elettivamente vivono nel segno della notte2. Costoro sono una possibile metafora di una collettività umana moderna3, che parrebbe concepita all’insegna di quella categoria che Hans Sedlmayr – con le parole di Adalbert Stifter – indicherà come Der Tod des Lichtes spirituale4: «Venite a me più vicino, cari symparanekrómenoi» – invita il nostro oratore – «stringetevi a me d’attorno, mentre getto nel mondo la mia eroina tragica, mentre do per corredo alla figlia della pena [Sorgen]5 la dote del dolore [Smerten]» (pp. 36; 152*)6.

Sono queste – Sorgen-pena e Smerten-dolore – le categorie fondamentali che guideranno A nella sua elaborazione drammaturgica e che dovremo tenere sempre

1 È importante ricordare che Enten-Eller (in Italia, tradotto di norma con Aut-Aut) è inteso da Søren Kierkegaard come opera dello pseudonimo Victor Eremita, il quale però avrebbe giusto curato l’edizione delle carte che costituiscono il libro, carte nascoste e ritrovate – con effetto teatrale alquanto scribiano – nel cassetto occulto di un vecchio secrétaire. Queste carte si compongono di saggi estetici scritti da A, un cultore o insegnante di estetica [Æsthetiker], e di tre lettere di contenuto etico, indirizzate dal magistrato Wilhelm (B) ad A (ma Forførerens Dagbog ovvero il Diario del seduttore sarebbe stato copiato da A in casa del seduttore Johannes, che l’aveva lasciato incustodito in un altro secrétaire, e una predica di B apparterrebbe in realtà a un pastore di campagna). La conferenza su Antigone, Det antike Tragiskes Reflex i det moderne Tragiske. Et Forsøg i den fragmentariske Stræben (Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno. Un saggio di ricerca frammentaria), appartiene agli scritti di A. L’elemento unitario di Enten-Eller appare il possesso da parte di A di tutte le carte casualmente rinvenute da Victor Eremita in quel sécretaire, che, contenendole, «metonimicamente» diventa «l’animo di A»: «un animo postumo, sopravvissuto a lui in quel sécretaire e in quelle carte segrete e postume» (cfr. in merito il saggio di E. ROCCA, L’Antigone di Kierkegaard o della morte del tragico, in AA. VV., Antigone e la filosofia, a cura di P. Montani, Roma, Donzelli, 2001, p. 75).

2 Cfr. la nota nel vol. IV (Indledninger og Tekstforklaringer), pp. 27-8, di S. KIERKEGAARD, Værker i Udvalg, I-IV, a cura di F.J. Billeskov-Jansen, København, Gyldendal, 1950 (edizione d’ora in poi indicata con la sigla KVIU). Nella seconda delle tre conferenze (Il riflesso è la prima) indirizzate ai symparanekrómenoi, Skyggerids (Silhouettes), in Enten-Eller, troviamo un’esaltazione sia della morte come «bene supremo» sia della vittoriosa «notte oscura», che accorcia «tutto, il giorno, il tempo, la vita, il travaglio del ricordo in un eterno oblio»: «… la notte vince, il giorno s’accorcia, la speranza cresce» (citeremo i testi di Enten-Eller dall’edizione italiana, S. KIERKEGAARD, Enten-Eller. Un frammento di vita, I-V, a cura di A. Cortese, Milano, Adelphi, 19903, pp. 54-5, la cit. è relativa al vol. II, che contiene Il riflesso).

3 I termini che usa Kierkegaard, in vari luoghi, in relazione ai symparanekrómenoi, sono Selskab e, in riferimento allo «spirito d’associazione» che predomina nella modernità, Association (pp. 21; 141*), che, incrociati, non ci sembrano escludere del tutto l’accezione più sociale e collettiva di Samfund.

4 Il riferimento è al libro di H. SEDLMAYR, La morte della luce. L’arte nell’epoca della secolarizzazione, Milano, Rusconi, 1970, p. 19 ss.

5 Il termine Sorg implica comunque anche un elemento di lutto e di cordoglio; sørgespil indica in danese la tragedia.

6 Citeremo la conferenza dalla menzionata edizione italiana di Enten-Eller, riscontrata comunque sul II vol. (Enten-Eller. Første Del) dei monumentali Søren Kierkegaards Skrifter, a cura di N.J. Cappelørn, Gads Forlag, København, dal 1997 in fieri, i cui riferimenti di pagina saranno nello specifico sempre marcati con asterisco.

www.turindamsreview.unito.it

Page 2: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

2

presenti, seguendolo. La conferenza è, del resto, arrivata al momento più stringente, anche se l’oratore preludia ancora, e in termini, diremmo, pirandelliani, sul proprio rapporto con il personaggio di cui si accinge a trattare: Antigone – afferma da Don Giovanni polarizzato su una possessiva pulsione cerebrale e notturna7 – «è mia creatura, i suoi pensieri sono i miei pensieri…»; anzi è proprio come se, in una notte d’amore, l’eroina gli abbia confessato il «suo profondo segreto» [sin dybe Hemmelighed], per poi fantasmaticamente svanire in quell’amplesso al cui apice e limite si rivela immancabilmente Thanatos (pp. 36; 152*). L’atto drammaturgico qui sorge dalla penetrazione del fantasma del personaggio e ruota attorno alla centrale pregnanza (e dicibilità) di un segreto che giace nella sua interiorità e ne costituisce l’essenza8.

Insomma, proprio come Pirandello per i suoi personaggi, anche A, per Antigone, adesso potrebbe dichiarare: «E voglio penetrare in fondo al [suo] animo con lunga e sottile indagine»9, ma, nel nostro caso, d’indagine frammentaria – nello spirito erratico e di lacerto testamentario di Enten-Eller –10 si tratterà. Si parte così da una certa vaghezza: di questa Antigone ci si potrà fare l’immagine che vogliamo; anche se si tratta di una celeberrima figura che deriva dalla «vecchia tragedia», sarà riscritta e inserita negli schemi sintetici e parziali di un canovaccio, di un «abbozzo drammatico»11, con il quale s’intende – di fronte alla spenta inquietante comunità dei moderni symparanekrómenoi – configurare una dimensione tragica appunto possibile per la modernità. Pertanto, attraverso la sensibilissima cartina di tornasole del genere tragico – anzi di una tragedia sofoclea che Hegel aveva definito «l’opera d’arte più eccellente e più soddisfacente»12 – sarà impostato un discorso mirato sulle categorie spirituali percepibili nella dimensione moderna, che diverrà implicitamente specchio e diagnosi dell’epoca.

Quando, al principio, il conferenziere – deliberatamente all’interno della consapevolezza che «l’epoca [moderna] tutta inclina al comico», un comico pressoché aristofanesco, caratterizzato dalla tenaglia dello sgretolamento dei

7 Vedi, per esempio, Forførerens Dagbog, dove la conquista di Cordelia viene idealmente collocata «allorquando il sole chiuderà il suo occhio indagatore» (S. KIERKEGAARD, Enten-Eller. Un frammento cit., III, p. 219; KVIU, I, p. 150).

8 Sulla base delle considerazioni di Emanuel Hirsch, George Steiner ritiene che, in linea generale, «il discorso di Kierkegaard sia quello di un drammaturgo che oppone una voce all’altra. L’Antigone di Aut-aut costituirebbe poi un dramma frammentario all’interno di un mezzo drammatico-dialettico» (G. STEINER, Le Antigoni, Milano, Garzanti, 20033, p. 63). È anche evidente che il principio di questa drammaturgia del segreto quasi combacia con quello su cui poggia l’intero arco speculativo di Enten-Eller: la violazione di un secrétaire (cfr. n. 1), la casuale rivelazione di ciò che è nascosto e la sua comunicazione. In generale, Kierkegaard dimostra sovente, su temi cruciali (per esempio, la vicenda di Abramo e Isacco), un’attitudine teatrale e quasi registica («Ebbene, se avessimo oggi un poeta, egli ci potrebbe esporre l’argomento dei colloqui fra padre e figlio lungo la strada. Anzitutto immagino che Abramo abbia concentrato nel suo sguardo tutto il suo amore di padre…»; cfr. S. KIERKEGAARD, Diario, a cura di C. Fabro, Milano, Rizzoli, 1975, p. 82). Su queste attitudini a una filosofia teatralizzata – in Kierkegaard come in Nietzsche – cfr. anche G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina, 1997, pp. 12-3; 17 ss.

9 L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, I,1, Milano, Mondadori, 1985, p. 816. 10 Va ricordato che lo stesso sottotitolo di Enten-Eller è Et Livs-Fragment ovvero Un

frammento di vita. 11 «Udkast til et Skuespil» è un’espressione di F.J. Billeskow-Jansen (KVIU, IV, p. 27), che

ritiene giustamente che A di più non saprebbe realizzare, considerata l’inclinazione dei symparanekrómenoi al frammento ovvero alla riluttanza a «produrre opere fornite di nesso o gigantesche totalità», in un’ottica di composizioni incompiute e postume, nella loro strutturale fragilità e inorganicità (pp. 34; 150*).

12 G.W.F. HEGEL, Estetica, a cura di N. Merker, Torino, Einaudi, 19722, p. 1361.

www.turindamsreview.unito.it

Page 3: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

3

valori, anche a causa, da un lato, del dubbio e dell’isolamento e, dall’altro, dello schiacciamento del singolo sotto la pressione del numerus (ma si direbbe pure della sistematicità hegeliana) – si ripromette «di mostrare come le caratteristiche del tragico antico possano venire incorporate nel tragico moderno cosicché il vero tragico arrivi colà a manifestarsi» (pp. 21; 140-1*), si rifà a temi analoghi affrontati da Hegel. Nell’Estetica (1836-8), Hegel aveva infatti evidenziato – muovendosi almeno da un generico spunto individualistico, che aveva di certo attirato l’attenzione di Kierkegaard –13 che, nell’antichità, il conflitto tragico verteva sulla sostanzialità (ovvero ciò che, nella sua irriflessiva naturalezza, è significativo e reale insieme) che trascende l’individuo (nella famiglia, nello Stato), mentre, nella modernità, tale conflitto appariva tutto inerente alla soggettività dell’eroe (pp. 28-9; 146-7*)14.

Subito, il conferenziere di Enten-Eller sviluppa questo spunto, ribadendo che «vera e propria caratteristica» della tragedia greca era che, in essa, «benché si muovesse liberamente, l’individuo restava nell’ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato», e la sua rovina non derivava quindi tanto dalla sua «azione» [Handling], ma si configurava come un «patire» [Liden]. Tale situazione, nella tragedia moderna, quasi si ribalta, attenuandosi il patire e affermandosi l’«atto» [Gjerning] o, talvolta, anche solo un momento (nel caso, decontestualizzato da tutto il resto) della vita dell’eroe, che ne provoca la rovina, mettendo in maggior rilievo gli elementi della situazione e del carattere, tanto più che ormai «l’eroe tragico è soggettivamente riflesso in sé, e questa riflessione non soltanto l’ha riflesso fuori da ogni immediato rapporto con lo stato, la famiglia e il fato, ma spesso l’ha persino riflesso fuori della sua stessa vita precedente». In tal modo: «L’eroe sta e cade completamente sui suoi propri atti» (pp. 24; 143*).

Prendendo le mosse da un passo cruciale della Poetica di Aristotele (cfr. § 13), A considera che, se l’individuo non ha una colpa, non può sussistere un interesse tragico e, di contro, se la sua colpa è assoluta, si verifica la stessa cosa. Nella modernità – abbiamo visto – si tende a trasfondere in individuale e soggettivo ciò che è fatale e a considerare la vita dell’eroe come il risultato di

13 Osserva infatti Hegel che «per l’agire veramente tragico è necessario che sia maturato il

principio della libertà e dell’autonomia individuali o per lo meno l’autodeterminazione di essere liberamente responsabili dei propri atti e delle loro conseguenze» (Ivi, pp. 1347-8).

14 Nell’Estetica, Hegel ritiene che «in generale nella tragedia moderna gli individui non agiscono in vista del lato sostanziale dei loro fini né questo è ciò che si afferma come impulso nella loro passione, bensì è la soggettività del loro cuore ed animo o la particolarità del loro carattere quella che preme per essere soddisfatta», mentre, in Eschilo e soprattutto in Sofocle, «l’opposizione principale […] è quella dello Stato, della vita etica nella sua universalità spirituale, con la famiglia come eticità naturale. Queste sono le potenze più pure della manifestazione tragica, in quanto l’armonia di queste sfere e l’agire armonico entro la loro realtà costituiscono la completa realtà dell’esistenza etica» (Ivi, pp. 1368; 1356 e 1348-9). Kierkegaard, nel saggio sul tragico, sembra prendere meno direttamente in considerazione le notazioni su Antigone riscontrabili nella Fenomenologia dello spirito (1807). In quest’opera, Hegel aveva toccato il tema di Antigone, ma nella cornice di un più ampio discorso sul «mondo etico», per cui «la sostanza etica, secondo il suo contenuto, si [viene a scindere] mediante il suo concetto nelle due potenze […] determinate come il diritto divino e l’umano o come il diritto infero e il supero, – quello la famiglia, questo il potere statale, – dei quali il primo [è] il carattere femminile, l’altro il maschile», con la manifestazione di un paritario dissidio spirituale fra l’individualità femminile, coincidente con l’universale e latrice del diritto del sangue e della famiglia, e la manifestazione virile e legittima dello Stato, ovvero fra amore e legge (cfr. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, I-II, Firenze, La Nuova Italia, 19762, pp. 6 ss.; 243 del II vol.). Sull’interpretazione hegeliana di Antigone, vedi anche P. VINCI, L’Antigone di Hegel, in AA. VV., Antigone e la filosofia cit., p. 31 ss.; P. SZONDI, Saggio sul tragico, Torino, Einaudi, 1996, p. 19 ss.

www.turindamsreview.unito.it

Page 4: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

4

azioni di cui è responsabile15; quella che dovrebbe essere la sua colpa estetica (e il tragico antico è autentico «amore materno», in quanto dolcezza estetica, fondata sulla circostanza che l’eroe greco è insieme colpevole e non colpevole, patendo soggettivamente per colpe della stirpe), a questo punto, si trasforma in colpa etica, sicché «il male diventa il vero e proprio oggetto tragico; ma il male non ha alcun interesse estetico e il peccato non è un elemento estetico».

Per di più, a causa della caratterizzante e generalizzata prevalenza del comico nel moderno, si smarrisce «il vero e proprio crimine tragico nella sua equivoca innocenza», e considerando che l’individuo è responsabile della sua vita, qualora costui si perda, «la cosa non è tragica, ma è male». Da qui un inevitabile smarrimento del contatto con il senso del tragico e le radici metafisiche e, in parallelo, un incremento di «disperazione» [Fortvivlelse]16, ben diversa dalla «melanconia» [Veemod] terapeutica di quel tragico antico che riesce addirittura a rendere felice l’individuo capace di considerarsi relativo e non assoluto (pp. 25-7; 143-5*)17.

Se la diagnosi sulle tendenze della modernità è tale, bisognerà inventare uno spazio di mediazione dialettica fra estetica ed etica ai fini di una reindividuazione del tragico, che però non potrà essere lo stadio terzo o religioso, perché la comparsa dell’individualità di Cristo appare «in un certo senso […] la tragedia più profonda», ma è poi «infinitamente di più», in quanto manifestazione della Grazia (pp. 23: 142*). Nonostante la vicenda del Cristo indubbiamente incapsuli un grumo tragico, nel suo sviluppo prospettico essa fa sì – come noterà pure Karl Jaspers – che «l’essenziale, per il cristiano, non [possa] manifestarsi nella tragedia», giacché, per lui, il peccato si muta «in felix culpa, che ha reso possibile la redenzione»18; e – per Kierkegaard – Cristo, che si assume la colpa in quanto innocente, marca anzi una rottura sia rispetto all’irriflessa sofferenza di cui s’ignora l’origine della pena sia rispetto a quella riflessione soggettiva sulla sofferenza che è il dolore. Cristo spazzerebbe via ogni discorso sul tragico, che in tal senso, concettualmente, si qualifica come pre-cristico19, sennonché il tragico

15 Commenta Bettina Faber che, nella sua adesione ad Aristotele, A ne coglie l’essenza ovvero la centralità nella tragedia dell’azione poiché «in essa si manifesta all’uomo in un’inattesa irruzione, la finitezza del proprio essere», sicché il tragico viene ad attenere alla «relatività insormontabile dell’essere umano» (B. FABER, La contraddizione sofferente. La teoria del tragico in Søren Kierkegaard, Padova, Il Poligrafo, 1998, pp. 76; 81).

16 In Sygdommen til Døden (La malattia mortale, 1849), Kierkegaard indica la disperazione (Fortvivlelse) come un vivere la morte dell’io in una negazione di Dio: «Se si volesse parlare di una malattia mortale nel senso più stretto, questa dovrebbe essere una malattia in cui la fine sarebbe la morte e la morte sarebbe la fine. E questa è precisamente la disperazione» (cfr. S. KIERKEGAARD, Opere, a cura di C. Fabro, Firenze, Sansoni, 1972, p. 628; KVIU, II, p. 245). Va ricordato che altri studiosi preferiscono per questo fondamentale testo kierkegaardiano una traduzione più propria del titolo, cfr. S. KIERKEGAARD, La malattia per la morte, a cura di E. Rocca, Roma, Donzelli, 1999.

17 Diversa invece la dura eticità delle maledizioni del Dio dell’Antico Testamento, che castiga comunque giustamente i peccati. Infatti, «la collera degli dèi [greci] non ha alcun carattere etico, ma equivocità estetica» (cfr. pp. 33; 149-150*).

18 K. JASPERS, Del tragico, Milano, SE, 1987, p. 25. 19 Su questa linea, implicitamente, anche P. SZONDI, Saggio sul tragico cit., p. 46, che

sottolinea come il tragico scompaia negli scritti kierkegaardiani successivi al 1846, ma in assoluto sia dal filosofo considerato «sempre in contrasto, rispetto al suo opposto, a partire dallo stadio religioso». Tanto che, in Frygt og Bæven (Timore e tremore, 1843), il Singolo [den Enkelte], attraverso «la sofferenza, le pene e il paradosso» [«Nøden og Qvalen og Paradoxet»] diventerà il «cavaliere della fede» [Troens Ridder] nella figura di Abramo, che non è «in nessun momento un eroe tragico», ma, «in contrasto al generale», fronteggia solitario Dio, implicando una parallela sminuizione dell’imponente «eroe tragico» Agamennone, il quale «rimane ancora dentro la sfera etica», sacrificando la figlia quantomeno per il bene del popolo. Abramo di contro «ha cancellato

www.turindamsreview.unito.it

Page 5: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

5

può porsi ancora, storicamente, come problema residuale e in qualche modo sussistere come spettrale «riflesso» [Reflex] anche post Cristo, sia nella diffusa estetizzazione religiosa peculiare della modernità20, sia nel suo parallelo definirsi all’insegna di quella «morte della luce» di stifteriana memoria (o riluttanza alla Grazia), che abbiamo sfiorato al principio del nostro discorso, e la cui ombra si proietta sui symparanekrómenoi che popolano la modernità.

Nella prima parte della conferenza, si era quantitativamente e qualitativamente

determinato – rielaborando ancora Aristotele e Hegel – che, essendo la pena «più sostanziale» del dolore, «nella tragedia antica la pena è più profonda» (possedendo la colpa «l’ambiguità estetica»), ma «minore il dolore», mentre «nella tragedia moderna il dolore è più grande» («perché l’eroe patisce tutta la sua colpa, è a se stesso trasparente nella sofferenza della sua colpa») e, di conseguenza, è «minore la pena» (pp. 29-30; 147*)21. Introducendo Antigone, il conferenziere viene quindi a sostenere che un personaggio femminile sembra ideale come esempio del «riflesso» del tragico antico sul moderno, poiché può sia fare emergere, con la sua sostanzialità, la pena, sia, con la sua riflessione, evidenziare il dolore e, a questo punto, A si dedica a mettere mano alla tragedia sofoclea, concedendo «alla figlia della pena antica irriflessa […] la (velenosa) moderna dote di un dolore riflessivo» (W. Rehm)22, tanto che questa nuova Antigone andrà ben oltre l’orizzonte sofocleo o un’interpretazione di tipo hegeliano e sarà vera e propria reinvenzione come pure apertura d’inusitate prospettive drammatiche.

Dunque, Edipo ha ucciso la Sfinge e liberato Tebe; ha assassinato il padre e sposato la madre, da cui ha avuto Antigone. A parte questi minimi presupposti,

con la sua azione tutta l’etica» ed è «grande per una virtù puramente personale», non «morale» come quella di Agamennone che, di fatto, «non si presenta con un rapporto privato alla divinità». Per Kiekergaard, «l’eroe tragico lascia il certo per ciò ch’è ancor più certo e l’occhio dell’osservatore riposa tranquillo su di lui», ma Abramo lascia «il generale per afferrare qualcosa di ancor più alto del generale» e su di lui «non si può piangere», presi come si è da «horror religiosus» di fronte alla «sospensione teleologica dell’etica» (cfr. S. KIERKEGAARD, Opere cit., p. 65 ss.; KVIU, II, p. 58 ss.). In seguito, in Kierkegaard, il tragico si collocherà al confine fra l’etico e il religioso, risolvendosi nello humour (cfr. P. SZONDI, Saggio sul tragico cit., p. 47). Il carattere antitragico del pensiero kierkegaardiano o quantomeno di una tragicità altra è evidenziato anche da E. FRANZINI, Kierkegaard e il senso del tragico, in AA. VV., Tragico e modernità. Studi sulla teoria del tragico da Kleist ad Adorno, a cura di F. Carmagnola, Milano, Franco Angeli, 1985, che spiega come «la necessità della scelta» – che, nel pensatore danese, si coglie «soltanto nell’atto, nel possibile esistenzialmente attuato» – chiami in causa per l’appunto un atto «saturo di una tragicità nuova», ignota al mondo antico perché frutto del cristianesimo (p. 71). Franzini si rifà peraltro largamente alle tesi di H.G. GADAMER, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Milano, Bompiani, 1983, ma andrebbe pure ricordata la divergente interpretazione di Virgilio Melchiorre, che, puntando sulla categoria del pregnante silenzio che caratterizza e nell’essenza accomuna i due personaggi, tende invece a considerare «Abramo come la nuova Antigone» (V. MELCHIORRE, Saggi su Kierkegaard, Genova, Marietti, 19982, p. 78 ss.).

20 Sul carattere oltre-estetico della vita di Cristo cfr. anche p. 32; 149*. Andrebbe altresì rilevato che la modernità è, per Kierkegaard, in preda a tale confusione da tendere a estetizzare e quindi a tragicizzare lo stesso cristianesimo, che è appunto ben altro. Se la colpa [Skyld], però, si fa peccato [Synd] e il dolore pentimento [Anger], il tragico ineluttabilmente sfuma e lo spettatore perde l’essenziale esperienza della «compassione» [Medlidenhed], che è «vera e propria espressione del tragico» (cfr. pp. 31; 148*).

21 Più oltre, Kierkegaard puntualizza: «La vera pena [Sorg] tragica esige dunque un momento di colpa [Skyld], il vero dolore [Smerte] tragico un momento d’innocenza [Uskyldighed]; la vera pena tragica esige un momento di trasparenza [Gjennemsigtighed], il vero dolore tragico un momento d’oscurità [Dunkelhed]» (pp. 34; 150*].

22 W. Rehm, Begegnungen und Probleme, Bern, Francke, 1957, p. 288.

www.turindamsreview.unito.it

Page 6: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

6

però, il conferenziere cassa d’emblée nientemeno che l’intero Edipo re e ci racconta del monarca di Tebe onorato da tutti, mentre i suoi vergognosi delitti risulterebbero noti solo ad Antigone. Come? Essendo «al di fuori dell’interesse tragico» – suggerisce, sempre aleatorio e frammentario, A – ognuno può inventarsi un modo, ma è possibile che, attraverso allusioni, già in tenera età, Antigone fosse colta dalla certezza dei misfatti paterni e precipitata nell’«angoscia» [Angst], che, per quanto tragica possa intendersi, è però diversa dalla pena, dato che «l’angoscia guarda alla pena per bramarla»23. Del resto, se l’angoscia è «una determinazione della riflessione» ha un oggetto e si è angosciati (come Amleto che ha il presentimento del delitto materno) per qualcosa, nel passato o nel futuro, mentre la pena esprime presentemente ciò per cui peniamo quanto il penare medesimo (pp. 38; 153-4*).

Nello specifico, la pena greca (come la vita greca), oltre a contenere meno dolore, appare tutta risolta nel presente. Per questo, in Sofocle, Antigone non si cura del destino del padre; esso irrimediabilmente grava come pena sulla stirpe. Se la colpa tragica di Antigone viene a concentrarsi sul fatto che seppellisce il fratello contro l’ordine di Creonte, la sua non è tanto una «libera azione», ma, nel suo agire, si proietta il destino di Edipo e solo questo induce nello spettatore greco una pena profonda: «il triste destino di Antigone è come l’eco di quello del padre, una pena potenziata». Di contro, se si vedesse il gesto dell’eroina «come un fatto isolato, come una collisione tra l’amore, la pietà di una sorella e un arbitrario divieto umano, Antigone cesserebbe d’essere una tragedia greca, sarebbe un soggetto tragico del tutto moderno» (pp. 39-40; 154-5*), come in effetti accade nello spettacolo del Living Theatre e in tutte le interpretazioni in chiave più o meno politica del suo mito.

La nuova Antigone, secondo il conferenziere, a questo punto, non può essere rivolta all’esterno come la figura della tragedia greca, ma deve ripiegarsi su una scena interiore, anzi «una scena spirituale» [en Aandescene]. Forse, A forza qui proprio lo Hegel della Fenomenologia dello Spirito, che riconduce la sfera degli affetti familiari alla donna (cfr. n. 14)24, per dischiudere lo spazio di un dramma, che, persa l’antitetica dimensione della legge, risulta sostanzialmente intimo, affettivo e psicologico (a prescindere dal fatto che il suo presupposto sarebbe un indefinito trauma infantile), ma – più che in relazione al gioco di altri personaggi, che scopriremo presto pressoché irrilevanti – assolutamente interiorizzato. Anzi, dominato da un elemento che, poco sotto, viene indicato con l’espressione et forborgent ovvero: un che di occulto, misterioso, enigmatico, indecifrabile, recondito, ma perfino losco. Si tratta, insomma, di una «scena spirituale», caratterizzata da un principio di morte e di perdizione, che appare non scevro di sostanzialità e consapevolezza, ma, nella sua oscurità profonda, anche alimentato da un’incontrollabile pulsione.

23 Questa di Antigone è un’angoscia precristiana e in fondo quindi non formativa (come

peraltro la disperazione) in vista del rapporto di fede del Singolo nei confronti di Dio. Per Steiner, sarebbe comunque «l’elemento tragico moderno par excellence» (G. STEINER, Le Antigoni cit., p. 69). Steiner (ivi, pp. 62; 72) evidenzia ancora l’ovvio carattere personale e psicologico di questa situazione nella biografia di Kierkegaard, segnatamente nella sua drammatica relazione con il padre e una sua oscura colpa (vedi, tra l’altro, S. KIERKEGAARD, Diario cit., p. 93); una cosa che era stata immediatamente sollevata, agli albori della fortuna di Kierkegaard, nel saggio di Georg Brandes del 1877 (cfr. G. BRANDES, Søren Kierkegaard, nel vol. III di Udvalgte skrifter, a cura di S. Møller Kristensen, I-IX, København, Tiderne Skifter, 1985, pp. 24; 62) e che pure Szondi sintetizza nell’inciso: «la […] tragicità [di Kierkegaard] era quella della sua Antigone» (P. SZONDI, Saggio sul tragico cit., p. 48).

24 G.W.F. HEGEL, Fenomenologia cit., II, pp. 77 ss.; 21 e passim.

www.turindamsreview.unito.it

Page 7: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

7

Dacché ci viene presentata, la vita di questa Antigone «è essenzialmente conclusa» (p. 40; 155*)25; il personaggio contaminato dal moderno – come il pubblico moderno dei symparanekrómenoi – «non appartiene al mondo in cui vive, seppur fiorente e sana la sua vera vita è», per l’appunto, «un che di occulto [et forborgent]; anch’ella, benché viva, da un altro punto di vista è morta», perché incapsulata, si direbbe, nell’indicibile «segreto della sua anima» [in hendes Sjæles Løndom].

Antigone, allora, è fiera di celare il segreto dell’atrocità del padre, sentendosi «designata in uno strano modo a salvare la gloria e l’onore della stirpe di Edipo», e ciò le conferisce una dimensione tragica. Così, diventa «sposa, eppure in tutta castità e purezza» (p. 41; 156*); anzi diventa «virgo mater», recando in grembo il suo terribile segreto, di cui è grata di poter piangere. In una catena: è «sposa della pena» [Sorgens brud] e del segreto e naturalmente del padre. A differenza del sentire greco (si veda, per esempio, Filottete), nel suo «dolore riflessivo», Antigone non vorrebbe mai che altri di questo fosse a conoscenza perché, modernamente, di esso avverte la giustizia nell’afflizione (pp. 42-3; 156-7*), ma è pure intrappolata in un evidente rapporto incestuoso, che si perpetua per fatalità della stirpe. Qui, Kierkegaard ci sembra sfiorare una terza dimensione (oltre la pena e il dolore) e l’eroina appare intrappolata anche su un livello pulsionale soggettivo: et forborgent è infatti qualcosa che si tace con consapevolezza in rapporto al mondo, ma di cui, nelle implicazioni estreme, nei filamenti più sottili del desiderio e delle pulsioni, non si è del tutto consapevoli, appartenendo pure, rispetto a se stessi, all’inconfessabile criptato nell’inconscio.

Non a caso, il conferenziere, antihegelianamente, sente di rivendicare una più sciolta e originale dialettica della vita e delle passioni per il singolo, ma A – ben consapevole che l’individuo isolato è sommamente antitragico – si rivolge ora soprattutto, alla maniera dei greci, a sottolineare la responsabilità della stirpe, ponendo al dramma dell’individuo la necessità di «riprendere l’elemento antico della pietà [Pietet], attraverso il quale per l’appunto il carattere si rapporta alla società e alla stirpe» (G. Brandes)26. Sia l’Antigone greca sia la moderna partecipano della colpa del padre, tuttavia, per l’eroina sofoclea, «la colpa e la sofferenza del padre sono fatti esterni, fatti inalterabili che la sua pena non tocca», mentre il personaggio kierkegaardiano si trova di fronte a circostanze differenti.

La drammaturgia di A adesso fa terra bruciata attorno all’eroina, ne desertifica il paesaggio delle relazioni immediate, supponendo per di più che Edipo sia morto. Quand’era vivo, Antigone non aveva avuto il coraggio di confrontarsi con lui in merito al suo segreto; ora che non c’è più le è impossibile sbloccarlo, liberarsene, poiché qualsiasi confidenza comporterebbe il disonore del padre. Antigone, inoltre, non è sicura se Edipo, a sua volta, condividesse o meno il suo segreto e qui affiora appieno la modernità: «l’inquietudine della sua pena» e «l’anfibolia del suo dolore» (p. 45; 159*). L’amore che prova per il padre «la trae fuori da se stessa per immetterla nella colpa del padre» e le fa condividere la sua colpevolezza, estraniandosi dal resto dell’umanità. Nel sapere tutto di Antigone

25 Più in là si osserverà che è già sepolta viva, mentre l’Antigone greca deve attendere la condanna di Creonte (p. 43; 157*). Inevitabile l’eco d’un rimando alla figura di Amleto, sul quale Hegel dice che «nel fondo del [suo] animo […] vi è fin dall’inizio la morte» (G.W.F. HEGEL, Estetica cit., p. 1375), anche se, sulle in fondo relative «assonanze» tra il filosofo danese e quello tedesco, è accettabile quanto scrive, insieme indicandole e un po’ ridimensionandole, B. FABER, La contraddizione cit., p. 90 ss.

26 G. BRANDES, Søren Kierkegaard cit., p. 62 (cfr. anche pp. 44-5; 158-9*). Così, per F.J. Billeskow-Jansen, «Antigone, diventerà, in Kierkegaard, l’essere umano tragico, poiché il segreto della stirpe la consacra alla rovina» (KVIU, IV, p. 26).

www.turindamsreview.unito.it

Page 8: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

8

sul padre, resta pur sempre un’ignoranza se il padre stesso sapesse e tale ignoranza «può sempre tenere in movimento la pena, […] sempre trasformarla in dolore» (p. 46; 159*).

A questo punto della conferenza, comprendiamo che quando, fra mille scrupoli retorici, l’oratore aveva annunciato: «Le metto» (ad Antigone) «la parola in bocca…» [«Jeg lægger hende Ordet i Munden…»] (pp. 36; 152*), non pensava tanto alla parola del dialogo, quanto a quella del monologo. Il conferenziere riconosce apertamente che la sua Antigone è solo «en episk figur»; noi diremmo un personaggio imbozzolato in se stesso, che può esprimere la propria essenza, in termini di teatro, largamente tramite un racconto (e un monologo), visto che non interagisce di fatto con alcun personaggio, tranne lo spettro interiorizzato o pulsionale del padre. Volendole cercare un contesto a partire dalla tragedia d’origine (esclusi del tutto i fratelli fratricidi che qui non giocano alcun ruolo), A le concederà una sorella che sarà maggiore e sposata e una madre vivente, ma si tratta pur sempre di personaggi giusto annunciati, che – nel programmatico progetto frammentario del conferenziere – restano evanescenti e senza sviluppi.

Insomma A, vista la chiusura spirituale e solo interiormente conflittuale della protagonista, erige quel gigantesco «io epico» che – come vorrà Peter Szondi – costituisce un «concetto antitetico» al dramma caratterizzato da esteso «dialogo drammatico», poiché «è dalla possibilità del dialogo che dipende la possibilità del dramma»27. A, insomma, ha messo, in grande anticipo sulla fine dell’Ottocento, un piede nella crisi del dramma moderno, che smette di essere «forma letteraria dell’accadere (1) presente (2) e intersoggettivo (3)»28, e, per la sua Antigone (peraltro da lui narrata), deve chiedersi: come ottenere «l’interesse drammatico»?

Den dramatiske Interesse starà nella circostanza che Antigone è innamorata, anzi «mortalmente innamorata» [dødelig forelsket]: qui infatti «giace la collisione tragica» [den tragiske Collision] perché l’oggetto del suo amore conosce i suoi sentimenti (pp. 47; 160-1*). La dote di Antigone è, com’è noto, il suo dolore: «Oserà confidar[lo] a qualcuno, magari a un uomo da lei amato?». Sorge immediatamente un conflitto nei confronti del padre: «Ella lotta con se stessa, ha voluto sacrificare la sua vita al suo segreto, ma ora s’esige il suo amore in olocausto». Alla prima collisione (l’amore per il padre, per se stessa e se il suo amore non sia un olocausto troppo grande) ne subentra una più omogenea (l’amore simpatetico verso l’amato) (p. 48; 161*). L’innamorato, che, con tecnica preespressionistica, non viene neppure indicato con un nome, cerca tutti i modi per vincere la prima naturale ritrosia di Antigone; sa quanto amasse il genitore e la ritrova presso la sua tomba, ancora serrata fra nostalgia del padre (Længsel efter Faderen; ma Længsel implica anche anelito, brama e desiderio) e dolore [Smerte], e la scongiura di concedersi (p. 49; 162*). Proprio nell’incrocio tra Længsel e Smerte (e Sorg), Kierkegaard fa intravedere un’ulteriore orizzonte di tragedia che, al di là del dualismo pena-dolore, sfiora l’elemento pulsionale.

Nonostante il subentrare di un inevitabile tono romantico-patetico (come aveva fatto Regine con Kierkegaard, anche l’innamorato s’appella a lei in memoria del padre defunto)29, qui il largo spazio monologico della protagonista, che dobbiamo ipotizzare nella prima parte del dramma, potrebbe cedere più che a un serrato dialogo, all’implorazione, ancora una volta largamente monologica dell’innamorato, poiché dobbiamo supporre una particolare ritrosia o evasiva

27 P. SZONDI, Teoria del dramma moderno 1880-1950, Torino, Einaudi, 1962, pp. 7; 13. 28 Ivi, p. 60. 29 S. KIERKEGAARD, Diario cit., p. 128. Per la similarità della situazione di Antigone con

quella autobiografica di Kierkegaard, cfr. in particolare ivi, p. 115.

www.turindamsreview.unito.it

Page 9: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

9

argomentazione da parte della resistente discrezione nella quale Antigone si trincera. Dobbiamo anche immaginare come corredo di tanta reticenza del personaggio drammaturgico, una cospicua componente mimica, che spinge Ettore Rocca, non senza ragione, a sostenere che la tragedia moderna qui si configura «mimica, dramma senza parole, dramma ammutolito, dramma come comunicazione negata»30 e che tale mimica, secondo il Kierkegaard di Begrebet Angest (Il concetto dell’angoscia, 1844), va collegata a quel Dæmoniske, la cui «essenza […] è di essere taciturno e di rendersi manifesto contro volontà»31. Potrebbe rivelarsi allora questo il filo rosso che sotterraneamente attraversa la conferenza e che concernerebbe in fondo la «morte della luce» e anche la problematicità della Grazia nella modernità.

In tale caratterizzante gioco di riflessi di pena, di dolore e di pulsioni, come si configura in conclusione, secondo Kierkegaard, la tragedia moderna? Formalmente (cioè nelle forme della scrittura), presenterà dialogo e relazioni interpersonali estremamente rarefatti, sarà mirata sull’interiorità profonda di un segreto e soprattutto sull’incomunicabilità: sarà quindi monologica, mimica e nell’essenza demonica. La morte non vi apparirà per eclatanti eventi sanguinosi, ma per chiusura esistenziale, estinzione della comunicazione, ancora una volta: «morte della luce»32.

Del resto, se torniamo alla conclusione del canovaccio di A, «ciò intorno a cui […] gravita l’interesse [drammatico ora] è il riuscire a strappare [ad Antigone] il segreto», ma il suo dolore s’è vieppiù «accresciuto accanto al suo amore, accanto al suo simpatetico patire con colui che ama», e, essendo quest’amore in tutti i sensi mortale, «solo nella morte potrà trovar pace […]. È solo all’istante della sua morte che [Antigone] potrà confessare ciò che è intimo del suo amore, è solo all’istante in cui all’amato non appartiene più che potrà confessare d’appartenergli» (p. 49; 162*)33.

Allora, «Antigone regge il suo segreto nel suo cuore, come un dardo che la vita ha costantemente spinto sempre più a fondo senza privarla della vita, perché fino a quando esso resta nel suo cuore può vivere, ma all’istante in cui le sarà levato dovrà morire. Quella di rapirle il suo segreto è la lotta che deve ingaggiare l’amante, eppure ciò costituisce anche la morte certa di lei». Infine, Antigone è annientata dallo slancio dell’amante vivo o dall’impulso dell’amato padre morto? La risposta è: per impulso del defunto, soffocata dall’incesto, essendo «il ricordo del padre […] la ragione della sua morte»; per slancio del vivo, «nel momento in cui il suo amore infelice è l’occasione affinché il ricordo» – noi aggiungeremmo congiunto alla pulsione – «la uccida» (p. 50; 162*).

Il libro di Georg Brandes su Kierkegaard del 1877 può piacere o no, esser

ritenuto più o meno superficiale, ma (come tanti saggi di Brandes) è storicamente

30 E più giù dramma come «comunicazione muta e incomprensibile per i vivi» (E. ROCCA, Tra estetica e teologia. Studi kierkegaardiani, Pisa, ETS, 2004, pp. 44-5).

31 Ivi, pp. 36; 41. Per Il concetto dell’angoscia, cfr. S. KIERKEGAARD, Opere cit., pp. 175; 180 (come pure KVIU, II, p. 106).

32 Nell’insieme, l’Antigone di A non pare lontana dallo schema che Szondi offre della moderna forma monodrammatica (in specie quella strindberghiana, per intenderci), che ha «il compito di rappresentare accadimenti psichici segreti»; funzione che essa risolve «ritirandosi nel suo personaggio centrale e limitandosi esclusivamente ad esso […], o considerando tutto il resto dal suo punto di vista» (P. SZONDI, Teoria cit., p. 35).

33 Kierkegaard anticipa la dinamica di Gjentagelsen (La ripresa, 1843), nella quale ripropone l’idea di Enten-eller che «il solo amore felice sia l’amore-ricordo», per giungere alla considerazione che «soltanto nell’eternità possiamo attenderci la sola vera ripresa» (KVIU, II, pp. 7; 47).

www.turindamsreview.unito.it

Page 10: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

10

fondamentale e uno strumento straordinario di divulgazione di un fenomeno filosofico poco conosciuto. Dopo aver riassunto in pochi righi – come solo Brandes sa fare – la nostra ponderosa esegesi del saggio su Antigone, il critico danese aggiunge: «… l’intera concezione scientifica dell’individuo dell’epoca moderna da lungo tempo ci ha indotto ad attribuire a tutto ciò che è ereditario quel significato, che l’autore attribuirebbe soltanto a ciò che si assume come eredità spirituale. Noi non dividiamo più l’individuo dalla stirpe o dalla società, che l’hanno generato, noi non concepiamo mai la stirpe come del tutto priva di rimorsi di fronte al crimine dell’individuo, ma le diamo di conseguenza la sua parte di colpa [Skylden]; noi non consideriamo mai l’individuo assoluto responsabile del suo atto [Handling], ma consideriamo la sua responsabilità sempre come relativa»34.

Questo bollo positivistico assai poco c’impressionerebbe, se non fosse, a valle, uno dei due confini teorici – l’altro ovviamente, a monte, è lo stesso saggio di Kierkegaard di cui ci stiamo occupando – in mezzo ai quali va a costruirsi la drammaturgia di Ibsen e di Strindberg e, quindi, cospicua parte del dramma moderno. Quando Brandes recensirà Gengangere (Spettri) di Ibsen, riconoscerà nel testo la «tragedia moderna» («den moderne Tragedie») e, polemizzando con coloro che concepivano razionalisticamente il dramma moderno come dramma della libertà, rileverà «una sintonia tra la fede dell’autore nel destino e quella degli antichi», e – accennando a un parallelismo con l’Edipo di Sofocle – in qualche modo ripeterà che, in quanto positivista e quindi «libero da ipoteche mitologiche», il XIX secolo condivideva un certo «determinismo» con l’antichità classica35.

Il modello drammaturgico configurato da Kierkegaard, riscrivendo Antigone, dovette così passare attraverso la strettoia teorica del determinismo positivista del secondo Ottocento per giungere a Ibsen e a Strindberg inevitabilmente destrutturato, ma non privo di pregnanza nei suoi elementi isolati o parzialmente aggregati, tanto che questi autori sono stati riconosciuti da Peter Szondi tra i più emblematici protagonisti della crisi del dramma moderno in una chiave sostanzialmente epica.

L’idea del segreto e dell’incomunicabile come cellula germinante del dramma appare peraltro una struttura radicata nella costruzione drammaturgica di Ibsen e Strindberg. Nel suo saggio su Amleto, Strindberg è esplicito: «Noi drammaturghi moderni dobbiamo lavorare con l’esposizione, l’allusione, il dosaggio di ciò che è segreto…» ovvero «hemlighetens utminuterande»36, e, in una lettera del 27 marzo 1907 a Emil Schering, relativa al dramma da camera Spöksonaten (Sonata di spettri), «schauderhaft come la vita», l’autore svedese spiega che è basato sul principio che «in ogni casa si trovino molti segreti» e che ogni uomo viva in un mondo d’illusioni37. Del resto, se leggiamo il terzo e ultimo movimento di questo prodigioso dramma-sonata, ambientato in una bizzarra camera dei giacinti e sviluppato come sontuoso colloquio fra lo Studente e la Fanciulla, che ripiega però significativamente nel dilagante monologo del ragazzo, rinveniamo quasi la medesima dinamica dell’incontro-confronto fra Antigone e il suo innamorato alla tomba di Edipo. Qui però c’è una specie di sottile inversione: è l’innamorato a

34 G. BRANDES, Søren Kierkegaard cit., p. 62. 35 G. BRANDES, Henrik Ibsen: Gjengangere, in «Morgenbladet», 28 dicembre 1881. 36 A. STRINDBERG, Samlade verk, a cura di L. Dahlbäck, Almqvist & Wiksell-Norstedts,

Stockholm, in fieri dal 1981, p. 46 del LXIV vol. (edizione d’ora in poi indicata con la sigla ASSV).

37 A. STRINDBERG, Brev, I-XXII, a cura di T. Eklund-B. Meidal, Bonniers, Stockholm, 1947-2001, p. 354 del XV vol.

www.turindamsreview.unito.it

Page 11: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

11

uccidere Antigone; la Fanciulla cioè, «ammalata nella fonte della vita» stessa, muore sia a causa dei vampiri che spadroneggiano nella sua apparentemente prospera dimora sia a causa delle incalzanti demistificazioni degli scandalosi segreti familiari e dell’illusione esistenziale avanzate dallo Studente, che usa impietosamente il pericoloso strumento della rivelazione in un disperato impulso di redenzione dell’umanità dalla miseria e dalle menzogne della vita38.

Come nell’Antigone kierkegaardiana, ricorrenti in Ibsen e in Strindberg sono i personaggi la cui esistenza, proprio nel momento in cui s’affacciano sulla scena, «è essenzialmente conclusa» («Quando noi morti ci destiamo, ci accorgiamo di non aver mai vissuto»)39 e appare demonicamente incarcerata in et forborgent, spesso dal riflesso incestuoso. Come non ricordare la Signorina Julie strindberghiana o Rebekka di Rosmersholm e Hedda Gabler di Ibsen?

Anzi, è soprattutto Hedda Gabler, che, a nostro avviso, deve più di un elemento all’Antigone secondo Kierkegaard40. Ibsen ha indicato apertamente, nelle sue lettere, il «fondamento demonico» [det dæmoniske underlag] che caratterizza il suo personaggio, che, fin dal titolo del dramma, si presenta «più come figlia di suo padre che moglie di suo marito»41. Hedda è infatti morbosamente legata all’imperiosa figura del generale Gabler e, quasi feticisticamente, al suo ritratto e alle sue pistole; messa incinta dal coniuge, un modesto accademico con il quale ha un rapporto di disgustata freddezza (e in questo senso, come l’eroina di Kierkegaard, apparirebbe una frigida virgo mater), il bambino di Hedda, come la potenzialità affettiva di Antigone, non vedrà mai la luce, perché la donna si suiciderà con le pistole del padre, soprattutto a causa del «ridicolo e della bassezza» [det latterlige og det lave] che la imprigionano42, nell’angusto orizzonte piccolo-borghese e tanto più dopo la volgare disillusione che ha dovuto subire a causa dei comportamenti indegni e dell’indecorosa rovina del suo vero segreto amore, il geniale studioso Ejlert Løvborg, ricongiungendosi al quale la donna aveva sognato di riscattare e proiettare la propria esistenza su un piano sublime.

La critica ha spesso giudicato il personaggio ibseniano criptico e inspiegabile nei suoi comportamenti, ma se consideriamo Hedda come un’esponente dei moderni symparanekrómenoi e, come Antigone, toccata dall’Angst e dall’ombra dell’incesto, che la precipitano nell’incomunicabilità, molto si chiarisce. Come pure quel sublivello, nella sua demonia di fondo, tragicomico (che Ibsen conserva dichiaratamente in tutti i suoi drammi, che – come è noto – trattano «la tragedia e la commedia dell’essere umano e dell’individuo insieme»)43, per l’appunto

38 ASSV, LVIII, p. 211. 39 È la proverbiale battuta che risuona nel titolo stesso dell’ultimo e riassuntivo dramma di

Ibsen, Når vi døde vågner (cfr. il vol. XIII di H. IBSEN, Samlede verker (Hundreårsutgave), I-XXI, a cura di F. Bull, H. Koht e D. A. Seip, Gyldendal, Oslo, 1928-1958, p. 271; edizione d’ora in poi indicata con la sigla HISV).

40 Mentre è dichiarato l’influsso di Kierkegaard su Strindberg, che, nella sua fase novecentesca, tenterà addirittura di coincidere con il filosofo, problematicamente presentandosi come «scrittore religioso», è noto che Ibsen tendeva a negarlo. Questa influenza comunque ci fu, senz’altro a livello ambientale, sebbene in termini non cogentemente speculativi, e si può concordare con chi sostiene che lo stesso realismo ibseniano, ovvero il concetto di una «poesia ancorata alla realtà», passi necessariamente attraverso Kierkegaard e, in particolare, la sua polemica contro la «realtà ideale» del drammaturgo e filosofo hegeliano Johan Ludvig Heiberg (cfr. K. NEIIENDAM, Kierkegaard og teatret, in «Den Danske Tilskueren», I, 1990, p. 84-5).

41 Cfr. le lettere del 27 e del 4 dicembre 1890, rispettivamente a M. Prozor e H. Schrøder (HISV, XVIII, pp. 270; 265).

42 HISV, XI, p. 388. 43 «… menneskehedens og individets tragedie og komedie på engang» (HISV, I, p. 123).

www.turindamsreview.unito.it

Page 12: Kierkegaard, Antigone e la costruzione del dramma moderno · forma di conferenza1, ma è una conferenza romantica, tenuta di fronte a un pubblico assai inquietante. L’oratore –

12

marcato dal «ridicolo e dalla bassezza», che si giustifica perfettamente proprio con un’osservazione di Kierkegaard nel saggio antigoneo: «Ogni personalità isolata diventa sempre comica con il fatto che vuol far valere la sua accidentalità di fronte alla necessità del processo. E sarebbe senza dubbio della massima comicità [den dybeste Comik] ammettere che un individuo contingente abbia l’ideale universale di voler essere il salvatore del mondo intiero» (pp. 23; 142*).

Ibsen non procede strettamente sulle orme di Kierkegaard, ma nel ricostruire la sua tragedia moderna, in relazione al modello antico, è come se tenesse presenti, in Hedda Gabler, le principali articolazioni della dissertazione su Antigone per rimontarle in un dramma personale e inquietante44.

Per concludere, al di là di tutti i motivi per cui Szondi ha visto nei massimi autori nordici dei protagonisti della crisi del dramma moderno, formalmente, Strindberg, in termini diretti (fino alla costituzione di una «drammaturgia dell’io» ovvero d’individualità espressionistiche, meramente proiettive d’una recondita realtà interiore) e Ibsen, più obliquamente (nell’apparare situazioni di relazione interumana d’una desolazione e solitudine infinite, nelle quali – a differenza della tecnica analitica sofoclea – spesso il presente «si limita ad essere un pretesto per l’evocazione del passato»)45, appaiono vicini a Kierkegaard, ma molto relativamente almeno su un punto. Questo punto è l’esplosione dell’indicibile, la rivelazione progressiva del segreto – lo strindberghiano «dosaggio di ciò che è segreto» – che, nei loro drammi, è tecnicamente cruciale; in Kierkegaard, per contro, è cruciale l’implosione, tanto che la sua utopia drammaturgica si rivela in ciò di una radicalità estrema, tale da farsi quasi concepire come profezia di quanto sarà sviluppato da Samuel Beckett.

44 G.L. Luzzatto ha ritenuto comunque «feconda» la dissertazione di Kierkegaard per larga

parte della drammaturgia ibseniana e, in particolare, «per la genesi di Spettri, in quanto pone il problema del passaggio dalla colpa tragica (che rimane in Oswald) [sic!] alla colpa soggettiva, che passa nella nuova vera protagonista consapevole e colpita, sua madre», la donna che ha taciuto e mantenuto il segreto, propiziando in tal modo l’incesto e portando alla rovina la sua famiglia (G.L. LUZZATTO, Sofocle e Kierkegaard. L’Antigone moderna, in «Dioniso», 1-2, gennaio-aprile 1957, p. 101).

45 P. SZONDI, Teoria cit., pp. 31; 21.

www.turindamsreview.unito.it