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KARL JASPERS Karl Jaspers nasce ad Oldenburg, in Germania, nel 1882. Suo padre, giurista e direttore di banca, lo indirizza verso studi giuridici. Ma ben presto Jaspers passa a Medicina, prima ad Heidelberg, quindi a Monaco, Berlino e Göttingen, dove consegue la Laurea. Nel frattempo lavora presso alcuni ospedali psichiatrici, mostrandosi scettico circa le pratiche mediche di allora. Occupandosi di sintomi paranoici, Jaspers capisce che occorre un approccio differente nei confronti delle malattie mentali, più di tipo “autobiografico”, dove a parlare sia soprattutto il paziente piuttosto che il medico. Un riconoscimento non indifferente nei confronti di una categoria da sempre emarginata e chi di lì a poco conoscerà le crudeli persecuzioni naziste. Forte dei successi ottenuti nelle cliniche psichiatriche, Jaspers viene chiamato dall’Università di Heidelberg per insegnare Psicologia. Ma nel giro di pochi anni passa a Filosofia, pubblicando “Psicologia delle visioni del mondo”, in cui si legge: [...] l’uomo può solo imparare ciò che gli possa servire da strumento. Come stanno le cose deve scoprirlo da solo attraverso esperienze personali. Una tale contemplazione la chiamo psicologia [...] Con questo scritto, uscito del 1913, il neofilosofo anticipa tematiche che verranno riprese ed ulteriormente ampliate da Heidegger in “Essere e tempo” del 1927. Jaspers si appassiona allo scritto di Heidegger al punto da volere conoscere questo genio della filosofia. I due diverranno presto amici, ma non per molto tempo: Jaspers non capisce, anzi condanna fermamente l’adesione di Heidegger al nazismo. Per lui, con un sistema siffatto, non possono esserci cenni di debolezza né alcun compromesso. La pensa allo stesso modo la sua amica e collega Hannah Arendt, che, inoltre, ha da tempo una relazione sentimentale con Heidegger. Jaspers, a causa della sua opposizione al III Reich, subisce presto pesanti limitazioni alle proprie libertà personali. Il nazismo lo tiene sotto controllo anche per altri motivi però: sua moglie, Gertrud Mayer, è ebrea. Nel 1937 viene forzatamente messo a riposo dall’insegnamento e da quel momento vive come un recluso nella sua casa di Heidelberg, fino a quando le autorità naziste non decidono di arrestarlo. Ma è troppo tardi: il 30 marzo 1945 gli Alleati entrano ad Heidelberg. L’incubo è finito. Un incubo che avrebbe potuto trasformarsi in tragedia, poiché Jaspers era pronto al suicidio pur di non essere catturato dai nazisti. A guerra finita pubblicherà “La colpa della Germania”: La tentazione di sottrarsi a questo problema [della colpevolezza] è forte. Viviamo nella miseria. Una gran parte della nostra popolazione vive in una miseria così grande, così immediata, che sembra diventata indifferente a tali discussioni. La interessa soltanto ciò che diminuisce la miseria, ciò che procura lavoro e pane, un alloggio, del calore. L'orizzonte è diventato stretto. Non piace sentir della colpa e del passato; non si è toccati dalla storia mondiale. Si vuole semplicemente cessare di soffrire, uscire dalla miseria, si vuol vivere, ma non riflettere. Si ha l'impressione che dopo una sofferenza così terribile si dovrebbe essere ricompensati, o comunque consolati, ma che non è permesso essere schiacciati, oltre a tutto il resto, sotto una colpa. Anche Jaspers, come Heidegger, parte dal problema dell’Essere. Tutte le domande che la filosofia si pone non possono prescindere da quella fondamentale: “che cos’è l’essere?”. E tuttavia la risposta non è affatto semplice, come aveva già sostenuto Aristotele, per il quale l’essere si dice in molti modi. Ora, questo fallimento nel ricercare un unico significato dell’essere L’intelletto, dunque, è si mostra incapace di cogliere l’unicità dell’essere. Noi come indagatori di noi stessi ci muoviamo nell'essere onnicomprensivo che noi siamo, in modo da farci oggetto il nostro stesso esserci, operiamo su di esso, trattiamo con esso, ma al tempo stesso questo ci fa capire che noi non ce ne impadroniamo mai, fuori del caso in cui, come incomprensibile, lo dissolviamo totalmente Torna alla memoria il frammento di Pascal, n° 370: “Pensiero sfuggito, volevo scriverlo; scrivo, invece, che mi è sfuggito”. È il pensiero dell'essere che sfugge alla presa delle categorie dell'intelletto, che lo vuole scrivere, permanendo oscuro nella sua inafferrabilità. Ma il fallimento non annulla la tensione e la vocazione a pensare sempre e ulteriormente; al contrario, proprio il fallimento della dizione dell’essere, della sua scrittura in un sistema razionale chiuso, mostra

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KARL JASPERS

Karl Jaspers nasce ad Oldenburg, in Germania, nel 1882. Suo padre, giurista e direttore di banca, lo indirizza verso studi giuridici. Ma ben presto Jaspers passa a Medicina, prima ad Heidelberg, quindi a Monaco, Berlino e Göttingen, dove consegue la Laurea. Nel frattempo lavora presso alcuni ospedali psichiatrici, mostrandosi scettico circa le pratiche mediche di allora. Occupandosi di sintomi paranoici, Jaspers capisce che occorre un approccio differente nei confronti delle malattie mentali, più di tipo “autobiografico”, dove a parlare sia soprattutto il paziente piuttosto che il medico. Un riconoscimento non indifferente nei confronti di una categoria da sempre emarginata e chi di lì a poco conoscerà le crudeli persecuzioni naziste. Forte dei successi ottenuti nelle cliniche psichiatriche, Jaspers viene chiamato dall’Università di Heidelberg per insegnare Psicologia. Ma nel giro di pochi anni passa a Filosofia, pubblicando “Psicologia delle visioni del mondo”, in cui si legge: [...] l’uomo può solo imparare ciò che gli possa servire da strumento. Come stanno le cose deve scoprirlo da solo attraverso esperienze personali. Una tale contemplazione la chiamo psicologia [...] Con questo scritto, uscito del 1913, il neofilosofo anticipa tematiche che verranno riprese ed ulteriormente ampliate da Heidegger in “Essere e tempo” del 1927. Jaspers si appassiona allo scritto di Heidegger al punto da volere conoscere questo genio della filosofia. I due diverranno presto amici, ma non per molto tempo: Jaspers non capisce, anzi condanna fermamente l’adesione di Heidegger al nazismo. Per lui, con un sistema siffatto, non possono esserci cenni di debolezza né alcun compromesso. La pensa allo stesso modo la sua amica e collega Hannah Arendt, che, inoltre, ha da tempo una relazione sentimentale con Heidegger. Jaspers, a causa della sua opposizione al III Reich, subisce presto pesanti limitazioni alle proprie libertà personali. Il nazismo lo tiene sotto controllo anche per altri motivi però: sua moglie, Gertrud Mayer, è ebrea. Nel 1937 viene forzatamente messo a riposo dall’insegnamento e da quel momento vive come un recluso nella sua casa di Heidelberg, fino a quando le autorità naziste non decidono di arrestarlo. Ma è troppo tardi: il 30 marzo 1945 gli Alleati entrano ad Heidelberg. L’incubo è finito. Un incubo che avrebbe potuto trasformarsi in tragedia, poiché Jaspers era pronto al suicidio pur di non essere catturato dai nazisti. A guerra finita pubblicherà “La colpa della Germania”: La tentazione di sottrarsi a questo problema [della colpevolezza] è forte. Viviamo nella miseria. Una gran parte della nostra popolazione vive in una miseria così grande, così immediata, che sembra diventata indifferente a tali discussioni. La interessa soltanto ciò che diminuisce la miseria, ciò che procura lavoro e pane, un alloggio, del calore. L'orizzonte è diventato stretto. Non piace sentir della colpa e del passato; non si è toccati dalla storia mondiale. Si vuole semplicemente cessare di soffrire, uscire dalla miseria, si vuol vivere, ma non riflettere. Si ha l'impressione che dopo una sofferenza così terribile si dovrebbe essere ricompensati, o comunque consolati, ma che non è permesso essere schiacciati, oltre a tutto il resto, sotto una colpa.

Anche Jaspers, come Heidegger, parte dal problema dell’Essere. Tutte le domande che la filosofia si pone non possono prescindere da quella fondamentale: “che cos’è l’essere?”. E tuttavia la risposta non è affatto semplice, come aveva già sostenuto Aristotele, per il quale l’essere si dice in molti modi. Ora, questo fallimento nel ricercare un unico significato dell’essere L’intelletto, dunque, è si mostra incapace di cogliere l’unicità dell’essere. Noi come indagatori di noi stessi ci muoviamo nell'essere onnicomprensivo che noi siamo, in modo da farci oggetto il nostro stesso esserci, operiamo su di esso, trattiamo con esso, ma al tempo stesso questo ci fa capire che noi non ce ne impadroniamo mai, fuori del caso in cui, come incomprensibile, lo dissolviamo totalmente Torna alla memoria il frammento di Pascal, n° 370: “Pensiero sfuggito, volevo scriverlo; scrivo, invece, che mi è sfuggito”. È il pensiero dell'essere che sfugge alla presa delle categorie dell'intelletto, che lo vuole scrivere, permanendo oscuro nella sua inafferrabilità. Ma il fallimento non annulla la tensione e la vocazione a pensare sempre e ulteriormente; al contrario, proprio il fallimento della dizione dell’essere, della sua scrittura in un sistema razionale chiuso, mostra

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l’essere nel suo annunziarsi, senza per questo lasciarsi oggettivare. La pratica del soffermarsi sulla soglia del pensiero, sul suo limite e sulle sue possibilità, ha assunto il ruolo di luogo privilegiato della ricerca filosofica moderna, al punto che risulta spesso più fecondo il non, il limite, piuttosto che il qualcosa: “l’essere non è il qualcosa”. Il fallimento della antica domanda “perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla” sta tutto nella domanda stessa: il pensiero può cogliere al massimo il fatto che esiste il “qualcosa”, l’essere determinato, ma non l’essere in quanto tale.

Ciò che c’è è l’apparire, non l’essere e neppure il nulla

L’uomo è alla continua ricerca del mondo come totalità assoluta, ma non può che cogliere un cosmo legato ad un particolare punto di vista: il suo. Sempre alla ricerca dell’assoluto, l’essere umano si ritrova con in mano un punto di vista particolare. Insomma, il soggettivismo, che Heidegger chiamava “soggettità”, ovvero la volontà di potenza umana di forgiare il mondo a sua immagine e somiglianza, di controllarlo, di modificarlo secondo le proprie esigenze, finisce per ritorcersi contro l’uomo stesso, che si rivela persino incapace di comprenderlo come una unità conglobante. Da questa vera e propria strettoia è possibile uscire solo svincolandosi da “considerazioni oggettivanti”, per le quali io stesso risulto una realtà oggettiva nel mondo, e ponendosi invece in una “considerazione esistenziale”, per la quale “io non sono mai oggetto a me stesso”. Su questo piano, l’immagine che mi formo del mondo non è casuale o accidentale, non posso mutarla arbitrariamente perché “io sono la mia stessa intuizione del mondo”. Tale intuizione non è più un possibile oggetto di indagine in mezzo a tanti altri, ma è la mia stessa “situazione” nel mondo, l’origine del mio filosofare. Come parte di me, la mia situazione non può essere oggettivata né considerata dall’esterno, poiché si identifica con me stesso:

L’uomo è ciò che sceglie di essere. [...] Egli non è se non in quanto sceglie

La scelta di me stesso è la “libertà originaria”, senza la quale io non sono e non posso essere me stesso. Ma l’io che sceglie è la sua stessa situazione nel mondo (il suo Dasein, se si vuole utilizzare ancora una volta una terminologia heideggeriana), una situazione storicamente determinata, oggettiva, particolare. Questo significa che la scelta, radicandosi in una situazione determinata, non può affatto scegliere, se non ciò che è già stato scelto e costituito in una situazione di fatto: Io non posso rifarmi da capo e scegliere tra l’essere me stesso e il non essere me stesso, come se la libertà fosse davanti a me solo come uno strumento. Ma in quanto scelgo sono, se non sono non scelgo Qui il salto rispetto a Kierkegaard e Heidegger è notevole: davanti alla scelta non si apre alcuna alternativa. La scelta non è un confronto, una possibilità tra le altre ma sempre e soltanto il riconoscimento e l’accettazione di quell’unica possibilità che è implicita nella situazione di fatto che costituisce il mio io:

Il mio io è identico con il luogo della realtà in cui mi trovo

Insomma, l’esistenza appare a Jaspers come una radicale impossibilità di esistenza:

L’esistenza è ricerca dell’essere ma l’essere non è una possibilità dell’esistenza

L’essere si manifesta solo e solamente come trascendenza e dunque impossibile da raggiungere: si rivela all’esistenza come una radicale ed assoluta impossibilità di essere. Esiste tuttavia una via d’uscita da questo vero e proprio labirinto, la “cifra”: una cosa, una persona, una poesia, una dottrina filosofica, qualsiasi cosa può valere come simbolo o cifra della trascendenza. Ma sono tutte cose soggette necessariamente alla mia interpretazione, la quale è strettamente legata alla mia esistenza concreta nel mondo, il che significa che l’esistenza non può essere se non quella che è. Soprattutto, la trascendenza si rivela nelle “situazioni-limite”, immutabili, definitive e soprattutto incomprensibili, nelle quali l’uomo si trova come di fronte ad un muro, contro il quale non può che

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urtare, senza alcuna speranza di poterlo finalmente scavalcare. Ogni ribellione è vana e insensata. Le situazioni-limite confermano l’assoluta impossibilità costitutiva dell’esistenza. È lo “scacco”, anzi il “naufragio”, per usare un termine jaspersiano, il simbolo supremo, la cifra che meglio simboleggia e descrive la tragica situazione umana in questo mondo. Tutte le possibilità umane sono dunque destinate a naufragare. Non resta che scegliere la “rassegnazione” e il “silenzio”. In questo modo l’uomo trova la “pace”, che si fonda sulla certezza dell’essere che si è rivelato in tutta la sua necessità.

[...] Da ultimo c’è il naufragio; lo dimostra l’orientazione nel mondo che inesorabilmente si attiene ai fatti. [...]Per l’orientazione nel mondo, il mondo in quanto esserci naufraga, perché in sé e da sé non si lascia comprendere; [...] Nella chiarificazione dell’esistenza naufraga l’insensità dell’esistenza: infatti là dove sono propriamente me stesso, non sono solamente me stesso. [...] Se dunque il naufragio, a cui io mi abbandono a piacere, è solo il nulla vuoto, allora il naufragio che mi coglie, quando ho fatto veramente di tutto per evitarlo, bisogna che non sia solo naufragio. Allo stesso modo, io sperimento l’essere quando nella sfera dell’esserci ho fatto quello che potevo per difendermi; e analogamente, quando, come esistenza, rispondo completamente di me, e da me tutto esigo, ma non posso sperimentare l’essere quando, nella coscienza della mia nullità di creatura di fronte alla Trascendenza, mi abbandono alla caducità propria dell’essere creatura.

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JEAN PAUL SARTRE

Nasce a Parigi nel 1905. Dopo il Liceo viene ammesso alla prestigiosa Normale di Parigi. Qui incontra Simone de Beauvoir, futura celebre scrittrice e fervida promotrice di movimenti in difesa delle donne, con la quale resterà sentimentalmente legato per tutta la vita. Ottenuta l’abilitazione, insegna filosofia a Le Havre. Nel 1933 è a Berlino con una borsa di studio per l’Istituto francese. Nella capitale tedesca si avvicina al pensiero di Husserl ed Heidegger, mentre assiste sgomento all’ascesa del nazismo. Tornato in Francia per non cadere in mano ai nazisti, inizia a pubblicare libri di immediato successo, tra cui il romanzo filosofico “La nausea”. Protagonista del racconto è Antoin Roquentin, un insegnante di storia che scopre nell’angoscia che niente della sua vita è motivato e giustificato. E tuttavia tale situazione non lo esime dalla necessità di scegliere in ogni istante della propria vita: è libero, responsabile e spetta solamente a lui giudicare se stesso. È evidente l’influenza di Heidegger e Jaspers. La guerra segna pesantemente la vita di Sartre, che si arruola nell’esercito per combattere contro i tedeschi, ma viene catturato. Riottenuta la libertà, sceglie di non tornare alla vita borghese, unendosi alla Resistenza. Nel frattempo continua a scrivere. È del 1943 il suo capolavoro filosofico: “L’Essere il Nulla”. Finita la guerra fonda la rivista “Tempi moderni” e pubblica decine di libri: romanzi, racconti, trattati di filosofia, di politica e sociologia. Compie numerosi viaggi sempre con a fianco Simone de Beauvoir. Gradualmente, Sartre decide di darsi alla politica attiva, fondando un partito, il Rassemblemen Democratique Revolutionaire, di ispirazione marxista libertaria, che tuttavia verrà sonoramente bocciato dalle urne. A sinistra continua a dominare il Partito Comunista Francese (Pcf). Sartre passerà anni alla ricerca di un comunismo diverso, lontano dall’autoritarismo e dalla degenerazione burocratica del sistema sovietico, di cui è specchio, in patria, proprio il Pcf. I comunisti sono colpevoli perché hanno torto nella loro maniera d’aver ragione, e ci rendono colpevoli, perché hanno

ragione nella loro maniera d’aver torto Ad un certo punto Sartre sembra avere finalmente individuato il tanto agognato comunismo libertario: è quello appena edificato nella Cuba da Castro e Che Guevara. Ma l’illusione dura poco. Castro, infatti, scivola rapidamente verso l’alleanza con l’Urss e impone nell’isola caraibica la solita dittatura burocratica. Rimane il Che, ma non a Cuba, che lascia, insieme ad una comoda poltrona di ministro dell’economia, per andare a combattere al fianco degli oppressi di mezzo mondo, tra le preoccupazioni delle cancellerie di Mosca e Washington. Deluso dall’esperienza cubana, Sartre si tuffa nell’aspra contesa politica sulla guerra di Algeria che lacera l’opinione pubblica francese, facendosi promotore del “Manifesto dei Centoventuno”, con il quale si sostiene il diritto alla insubordinazione dei soldati coinvolti nella spietata guerra che la Francia sta conducendo nella sua colonia magrebina. La lotta anticolonialista algerina lo avvicina ai movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo. Collabora in questi anni con Franz Fanon alla stesura de “I dannati della terra”, che presto diventa una vera e propria bibbia per tutti i rivoluzionari terzomondisti, compresi gli afroamericani degli Usa, che sono sulle barricate. Nel 1963 Sartre viene insignito del Premio Nobel per la Letteratura, ma lo rifiuta:

io sto lottando per avvicinare la cultura occidentale a quella orientale, e svuoterei la mia azione se accettassi onorificenze da Est o da Ovest

Sartre è ormai un punto di riferimento, anzi un vero e proprio mito per la nuova generazione di contestatori che sta emergendo in tutto il mondo. Sono i giovani della “baby boom generation”, nati e cresciuti nel dopoguerra, che considerano ingiusta e anacronistica la divisione in blocchi del pianeta. Negli Usa il movimento è passato rapidamente all’azione, mobilitandosi contro la guerra in Vietnam e per i diritti civili della popolazione afroamericana. Gli scontri, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, sono quotidiani. Sartre ha finalmente trovato quel comunismo “diverso” che

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andava cercando da anni. E così, quando viene invitato negli Usa per tenere un ciclo di conferenze, rifiuta di accettare per protestare, anche lui come milioni di giovani hippies, contro la guerra in Vietnam. E la sua fama cresce. Il clima sta cambiando anche in Europa: il movimento studentesco e giovanile si impone ad Est come ad Ovest. Lo scontro è anche qui molto duro. Il potere è potere, che si celi dietro una bandiera rossa o le tanto decantate libertà borghesi: ovunque i giovani vengono colpiti molto duramente. La Francia assiste per alcuni mesi un po’ distratta di fronte al sangue che scorre per le strade di Londra, Roma, Berlino, Varsavia. Ma la calma è solo apparente. Nel maggio 1968 la contestazione studentesca esplode tanto inattesa quanto violenta proprio nella prestigiosa università dove insegna Sartre: la Sorbona. L’ateneo viene occupato e rapidamente strasformato nel centro logistico di una rivoluzione che viene considerata non solo giusta ma anche possibile da decine di migliaia di giovani. Sui suoi muri compare lo slogan che sarà fatto proprio da una intera generazione di contestatori:

Siate realisti, chiedete l’impossibile!

Sartre decide di partecipare attivamente al movimento e decide di tenere le sue lezioni nell’università occupata, scatenando una ondata di polemiche. Il movimento si estende rapidamente alle fabbriche ed alle altre zone del paese. Il potere trema. Ad un certo punto il Presidente De Gaulle sembra optare per un colpo di stato militare. Ma poi decide di fare appello alla classe media francese, spaventata dagli scontri, dalle barricate, dalle rivendicazioni del movimento di protesta. È la nascita della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, in realtà piuttosto chiassosa e reazionaria. La contrapposizione rischia di fare scivolare il paese nella guerra civile. I segnali ci sono tutti: scioperi e manifestazioni che paralizzano il paese, scontri con centinaia di feriti, l’esercito schierato nelle periferie delle principali città, scontri tra opposte fazioni. Ma ad un certo punto il Partito Comunista decide di scendere a patti con De Gaulle, in cambio di alcune concessioni: aumenti salariali, garanzie sindacali, nuove elezioni. Per il movimento è la fine. Il Pcf si assume in prima persona il compito di riportare l’ordine nelle fabbriche e nelle università, con le buone o con le cattive, spesso sostituendosi alla polizia. Sartre condanna con durezza lo stalinismo dei comunisti ma la sua voce è isolata. Molti intellettuali di sinistra, che in un primo tempo avevano dato il loro appoggio al movimento giovanile, di fronte alla presa di posizione comunista, non se la sentono di dare la propria solidarietà al movimento di protesta. Il vecchio mondo, sovietico e capitalista, riporta l’ordine ricorrendo spesso a metodi estremi. È la fine di un sogno. Sartre continuerà a scrivere e a viaggiare (spessissimo in Italia, dove invece il movimento continuerà a crescere almeno fino alla fine degli anni Settanta), ma ormai le sue illusioni vanno scomparendo una dopo l’altra. Morirà nel 1980 a Parigi. Sartre è un intellettuale che vuole vivere la vita fino in fondo. Un uomo pratico ma ispirato da grandi ideali e da granitiche speranze, con una produzione letteraria sterminata e non sempre coerente. Difficile estrapolarne una linea di fondo. Il suo primo successo è del 1938, “La Nausea”, e risente della filosofia esistenzialistica:

La nausea è il sentimento che ci invade quando si scopre l’essenziale assurdità e contingenza della realtà

E ancora:

Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile : per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla era solo un’idea nella mia testa, un’idea esistente, fluttuante in quella immensità : quel nulla non era venuto prima dell’esistenza, era un’esistenza come un’altra e apparsa dopo molte altre

“L’Essere e il Nulla” riprende il discorso riportandolo sul piano filosofico:

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La coscienza è sempre coscienza di qualcosa e di qualcosa che non è la coscienza

L’uomo ha coscienza degli oggetti del mondo ma nessuno di questi è la mia coscienza. Sartre si interroga dunque sulle strutture dell’Essere, il quale si manifesta a suo parere in due modi: come “essere in sé”, che si identifica con tutto ciò che non è coscienza ma con cui la coscienza entra in rapporto, in definitiva con le cose del mondo, e come “essere per sé”, che si identifica con la coscienza stessa, la quale ha la prerogativa di essere presente a se stessa e alle cose. Se l’in sé è il dato che la coscienza trova davanti a se medesima come qualcosa di opaco, il per sé è invece la coscienza che, essendo alla presenza delle cose, ha la capacità di attribuire loro dei significati. Per questa sua doppia prerogativa di non essere il dato ma di potere attribuire a esso dei significati, Sartre chiama il per sé nulla, che non è il contrario dell’essere bensì la coscienza medesima, che sorge come “potenza nullificatrice del puro dato”. Affermare che l’uomo è coscienza significa dire che è libero, poiché annulla la realtà attribuendole tutta una serie di significati. Tale nullificazione del mondo mediante l’attribuzione ad esso di significati coincide con la struttura stessa dell’esistenza, che pertanto risulta “condannata a essere libera”. E, in quanto libero, l’uomo è responsabile del mondo e di se stesso:

Le più atroci situazioni della guerra, le peggiori torture, non creano affatto uno stato di cose inumano. Non c’è situazione inumana: soltanto per paura, per la fuga e per il ricorso ai comportamenti magici io deciderò su ciò che è inumano; ma questa decisione è umana e ne porterò l’intera responsabilità

Non esistono casi accidentali. Un avvenimento sociale che erompe subitaneo e mi trascina non viene dal di fuori. Se io sono mobilitato in una guerra, questa guerra è la mia guerra e io la merito:

La merito in primo luogo perché potevo sottrarmi ad essa con il suicidio e la diserzione: queste possibilità ultime devono sempre esserci presenti quando si tratta di affrontare una situazione. Se non mi ci sono sottratto, io l’ho scelta: forse solo per mollezza, per debolezza davanti all’opinione pubblica, perché preferisco certi valori a quelli del rifiuto stesso di fare la guerra. Ma in ogni caso si tratta di una scelta

Una situazione che pone l’individuo in uno stato endemico e permanente di “conflitto con i suoi simili”. Nello stesso momento in cui “pietrifico” l’altro mediante miei significati, la stessa operazione la compie l’altro nei miei confronti:

L’inferno sono gli altri

Ne “L’esistenzialismo e umanismo” (1946), Sartre cerca di smorzare il pessimismo, optando per un esistenzialismo “impegnato e responsabile”, in cui “l’esistenza precede l’essenza”, nel senso che l’uomo in primo luogo esiste, cioè si trova nel mondo (Dasein) e solo in un secondo tempo si definisce per quello che è o vuole essere. Se questo è vero, allora non sarà mai possibile spiegarla in riferimento ad una natura umana data e immodificabile (in quanto, appunto, l’esistenza precede l’essenza). Non esiste alcun determinismo: l’uomo è libero, anzi l’uomo è la libertà.

“Critica della regione dialettica” (1960) sancisce invece il suo passaggio al marxismo. L’uomo è ancora libero, questo sì, ma dipende dagli altri e dal contesto sociale in cui si trova ad operare:

Dire di un uomo ciò che egli è, significa dire ciò che egli può e reciprocamente: le condizioni materiali della sua esistenza circoscrivono il campo delle sue possibilità [...] così il campo del possibile è lo scopo verso il quale l’agente oltrepassa la sua situazione obiettiva. E questo campo, a sua volta, dipende strettamente dalla realtà sociale e storica

E ancora:

il modo di produzione della vita materiale domina in generale lo sviluppo della vita sociale, politica e intellettuale

Insomma, come da manuale del marxismo, la struttura domina lo sviluppo delle sovrastrutture. E tuttavia Sartre rifiuta il materialismo dialettico:

Questa dialettica può effettivamente esistere ma bisogna riconoscere che non ne abbiamo la benché minima prova

Quello che viene nettamente condannato è soprattutto il finalismo di stampo hegeliano, che riduce l’uomo a semplice strumento passivo della dialettica, incapace perciò di sottrarsi al più rigido determinismo. Partito da posizioni marxiste ortodosse, Sartre finisce per divenirne un eretico:

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il marxismo odierno non sa più nulla: i suoi concetti sono diktat, il suo fine non è più di acquistare cognizioni ma di costituirsi a priori come sapere assoluto.

E poiché il marxismo ha dissolto gli uomini “in un bagno di acido solforico”, l’esistenzialismo avrà lo scopo di farli rinascere. La dialettica, cioè, va riconsiderata nell’ottica dell’esperienza vissuta, in base all’assunto che

l’uomo subisce la dialettica in quanto la fa e la fa in quanto la subisce

La storia, nella sua struttura dialettica, contiene in sé la “possibilità” (e non la necessità) della “alienazione”, il rischio che l’uomo risulti succube dei prodotti stessi della sua attività, come aveva messo in luce già Heidegger, e dei rapporti di classe con gli altri uomini. Analizzando questa ulteriore possibilità, Sartre introduce due termini destinati ad avere un enorme successo:“serie” e “gruppo”. La serie è il mero collettivo, una “molteplicità discreta” di individui, formata da una “pluralità di solitudini” latentamente ostili tra di loro, mentre il gruppo, in quanto negazione della serialità, è una organizzazione di individui caratterizzata da una unità di intenti, all’interno del quale ognuno si sente immedesimato con gli altri, simultaneamente capo e gregario. Si tratta di una vera e propria teoria sociologica: il gruppo tende a costituirsi di fronte al pericolo o ad un avversario comune, come avviene in una rivoluzione. E tuttavia, passato il momento eroico ed euforico della insurrezione, il gruppo dovrà lottare per restare tale e non polverizzarsi nella serie. La fratellanza del gruppo, di conseguenza dovrà degenerare nel terrore, in una ferrea disciplina e in un granitico dovere di obbedienza, con l’attribuzione di tutto il potere ad una unica sovranità, un capo carismatico. Si instaura una nuova alienazione, una nuova “serialità alienata”, nella quale gli individui, spogliati della loro individualità e della libera mediazione con gli altri, si sentono di nuovo estranei l’uno all’altro e alla comunità reale. È fin troppo evidente il riferimento al socialismo realizzato, quello sovietico soprattutto: il comunismo non può e non deve perdere di vista il gruppo a cui deve la sua stessa esistenza, altrimenti rischia di mettere capo ad un sistema non dissimile da quello che ha abbattuto. Si tratta al tempo stesso anche di una legge storica: tutte le rivoluzioni hanno infatti prodotto gruppi o meglio sono stati prodotti da specifici gruppi, non solo quella proletaria o anarchico-libertaria. La rottura rivoluzionaria si configura dunque come un vero e proprio momento esistenziale, in cui l’uno vive nella lotta dell’altro e viceversa. E tuttavia il pericolo è sempre dietro l’angolo: un volta che la rivoluzione trionfa, infatti, la stabilizzazione che ne consegue tende a riproporre la serie. Di qui la necessità di una “rivoluzione permanente”, concetto sostenuto con forza negli stessi anni dal leader comunista cinese Mao Tse Tung ai tempi della Rivoluzione Culturale. Il suo “Libretto Rosso” verrà sventolato da centinaia di milioni di giovani cinesi e da altrettanti nel resto del mondo. Ma anche in questo caso la rivoluzione degenererà presto nella serie e in un sistema burocratico non molto dissimile da quello (odiato da Mao) dell’Urss. Una rivoluzione gioiosa e antiburocratica, genuinamente “gruppale” sembra invece essere alla portata dei giovani del Sessantotto: “l’immaginazione al potere” è infatti il loro slogan. Una generazione portatrice di esigenze e idee giovani, proprie di un popolo di sognatori che porta in strada quotidianamente utopie in grado di scardinare il vecchio sistema, ad Est come ad Ovest. La “controcultura giovanile”, l’amore libero, la musica rock, i grandi raduni, i viaggi, le sperimentazioni psichedeliche, la lotta di piazza, le comuni, tutto sembra allontanare il pericolo della alienazione seriale. Ma non sarà così. Di fronte alla repressione, ai morti di piazza, a quelli per droga, alla lotta armata, il movimento presto si frantuma: nascono gruppi e gruppuscoli tenuti insieme da una rigida disciplina ideologica e da leader carismatici. Sartre continuerà ad appoggiarli, ma non senza avere perso ogni speranza. La sua vita si chiude emblematicamente nel 1980, con l’inizio di un decennio egoistico, profondamente seriale, individualistico, i cui guasti sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti. Solo che non c’è un Jean Paul Sartre a offrirci spunti di critica.