Karl Marx (in pillole) - a cura di Mario Boyer

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Testo curato da Mario Boyer e pubblicato per Ediesse.

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Cantiere rosso-verde

Karl Marx(in pillole)

a cura diMario Boyer

presentazione diFranco Ottaviano

con il saggioMarxismo ed ecologia

Prove di avvicinamento nella «stagione dei movimenti» di Michele Citoni e Catia Papa

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Progetto grafico: Antonella LupiImmagine di copertina: Carla Bernardi

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Nel laboratorio di Karl MarxPresentazione di Franco Ottaviano 11

Nota biobibliografica di Karl Marx 21

PARTE PRIMASchema di analisi del capitaleUn contributo alla divulgazione di un pensiero criticosui fondamenti e i principi dell’economia capitalisticaa cura di Mario Boyer

Premessa 27

1. La Scuola fisiocratica 29

2. La Scuola classica e la teoria del valore 31

3. La concezione materialistica della storia 35

1. Fondamento storico dei sistemi economicie del capitalismo: nascita-sviluppo-estinzione 35

2. Il rapporto di Marx con i classici 39

4. L’analisi marxiana del capitale 41

1. Produzione 411.1. La merce: valore d’uso/valore di scambio.

La merce «forza-lavoro» 411.2. Caratteri del «lavoro capitalistico» 43

Indice

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1.3. Teoria del valore delle merci 451.4. La giornata di lavoro: lavoro necessario/sovralavoro 481.5. Il saggio del plusvalore 501.6. Il saggio del profitto 51

2. Circolazione 522.1. Denaro-moneta: misura dei valori delle merci,

mezzo di circolazione 522.2. Trasformazione del denaro in capitale 562.3. Dall’economia mercantile all’economia capitalistica:

dalla produzione di merci alla produzionedi denaro 57

3. Altre caratteristiche del capitalismo 583.1. Schemi di riproduzione del capitale e teoria della crisi.

La caduta tendenziale del saggio di profitto 583.2. Produzione-distribuzione-scambio-consumo 603.3. Feticismo delle merci 633.4. General intellect 64

4. Marx scienziato, filosofo, rivoluzionario 65

5. I neoclassici 67

1. Teoria del valore dei neoclassici 67

PARTE SECONDAL’accumulazione primitivaa cura di Gianni Di Cesare

1. Il segreto dell’accumulazione primitiva 71

2. L’espropriazione della popolazione rurale 75

3. Legislazione sanguinaria contro gli espropriatidalla fine del secolo XV 79

4. Le leggi sui salari 83

5. Genesi del fittavolo capitalista 87

6. Genesi del capitalista industriale 91

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Marxismo ed ecologiaProve di avvicinamento nella «stagione dei movimenti»di Michele Citoni e Catia PapaIntroduzione 991. Un problema storiografico 1002. Le radici della contestazione ecologica 1043. La stagione dei movimenti, 1968-1974 1074. La sinistra di classe e l’«ideologia ecologista» 1145. La posizione dei comunisti 1186. Il modello teorico sindacale di analisi

e controllo della nocività 1267. La «sinistra ecologica» tra movimento e riviste 1338. Il movimento antinucleare e gli anni Ottanta. Conclusione 143Nota bibliografica 150

AppendiceNatura e prospettive della crisi mondialein atto dell’economia capitalisticadi Mario Boyer 161

Gli autori 165

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Cantiere rosso-verdeKarl Marx(in pillole)

Anche Dio ha il suo inferno;è il suo amore per gli uominiF. Nietzsche

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I libri hanno sempre una ragione e una finalità. Si collocano inun contesto determinato. In copertina Cantiere rosso-verde evoca il bi-sogno di ricostruzione che oggi si avverte a sinistra. Chi ha attraver-sato, vissuto, le stagioni di questa crisi/sconfitta può obiettare chenel corso degli anni si è abusato del termine «cantiere». Non gli sipuò dare torto ma è pur vero che l’edificio a cui si alludeva, usandoquesta espressione, non solo è restato incompiuto ma occorre rico-minciare a progettarlo dalle fondamenta. Poi il titolo «Marx in pil-lole». Un’indicazione al lettore: non spaventarti, vogliamo capirecon te. Una formulazione di modestia degli autori, ma anche l’espli-citazione di una prova didattica. Quindi i due contributi «Schema dianalisi del capitale» e «L’accumulazione primitiva» rispettivamentedi Mario Boyer e Gianni Di Cesare. A seguire il saggio di MicheleCitoni e Catia Papa. Materiali di riflessione e lavoro. Ogni costru-zione/ricostruzione ne ha bisogno.

Due, mi sembra, sono le strade suggerite nell’impianto del testo.La prima, quella indicata da Mario Boyer e Gianni Di Cesare, la ne-cessità di non smarrire le fonti: «Un contributo alla divulgazione diun pensiero critico sui fondamenti e principi dell’economia capitali-stica», che ci introduce in una lettura di Marx. La seconda, quellaproposta da Michele Citoni e Catia Papa, che ripercorre in chiavestorica «l’avvicinamento» fra pensiero ecologico e marxismo, analiz-zando il percorso che a partire dai dibattiti interni al PCI degli anniSettanta si incrocia con la «stagione dei movimenti». Due itinerari diricerca che s’intrecciano fra loro. Non so se interpreto bene le in-

* Presidente della Casa delle culture di Roma.

Nel laboratorio di Karl MarxPresentazione di Franco Ottaviano*

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tenzioni degli autori, ma certo i vari contributi alludono all’esigenzadi molte altre indagini e riflessioni che sarebbero utili a comporre ilpuzzle dei «materiali» necessari. Mi viene in mente il bisogno di fareil punto, Citoni e Papa direbbero la «tenuta» del pensiero marxistaoggi, nel mondo e nella specificità italiana. Non solo nelle sue varieaccezioni teorico-culturali ma nel rapporto con il labirinto delle cul-ture politiche di una sinistra, o delle sinistre che dir si voglia, oggismarrita, incerta, imprigionata nelle sue sconfitte.

Quando ci cimentiamo con grandi pensatori, è questo il caso diMarx, la questione che si pone non è la stanca ripetizione di for-mule o di schemi, bensì la comprensione delle metodologie di fon-do, delle acquisizioni ancora valide, e ancora di più: afferrare il sen-so intimo di un’elaborazione, di una scoperta. Andare alle radici diun patrimonio. Volutamente non uso l’espressione «attualizzare»che mi appare limitativa. Per una sinistra «da farsi», oggi, sarebberiduttivo e semplificatorio richiamarsi a un generico marxismo. Pe-raltro da tempo si parla di «marxismi» a indicare le molte interpre-tazioni e letture suscitate e alimentate dagli scritti di Marx. Appro-fondimenti, nuovi contributi teorici, solo per fare degli esempi: lostrutturalismo, la psicologia, il pensiero della differenza, l’ecologi-smo, e ancora, ancora. Incroci. Contaminazioni possibili che tuttavianulla tolgono al punto d’origine. Lo sguardo della classe operaia,degli sfruttati sul mondo. L’orizzonte di una liberazione da ognidominio dell’uomo sull’uomo. Sarebbe illusorio pensare a sinistrasenza confrontarsi con il laboratorio teorico rappresentato dal filo-sofo-economista-rivoluzionario di Treviri. Impossibile ogni narra-zione della storia della sinistra, delle sinistre, dei partiti, dei movi-menti che l’hanno rappresentata o che ancora ci provano senza en-trare in relazione con le sue idee. Non esiste riflessione, analisi eco-nomica, filosofica, sociologica che attraversando il Novecento e arri-vando all’oggi non debba fare i conti con il lascito di questo grandepensatore. Questo vale anche per i suoi più accaniti detrattori. Valeper ogni pensiero critico sulla società-mondo.

La fine dell’esperienza dei paesi del cosiddetto socialismo realenon ha cancellato la forza trainante delle idee che hanno originatoquello che schematicamente si è definito il pensiero marxista e ilcomunismo. La questione è altra. Un anno dopo aver scritto Il Ma-nifesto del partito comunista e molto prima ancora di dare alle stampeil primo libro de Il Capitale, nel 1849, Marx scriveva sulla Gazzetta

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renana in polemica con le critiche della conservatrice Gazzetta di Au-gusta:

Noi abbiamo la ferma convinzione che non il tentativo di sperimentarein pratica le idee comuniste, ma la loro elaborazione teorica formi per laborghesia il vero e proprio pericolo, perché agli esperimenti pratici sipuò sempre rispondere con il cannone non appena diventino pericolosi,ma le idee che la nostra intelligenza ha acquisito vittoriosamente, che ilnostro animo ha conquistato, alle quali l’intelletto ha forgiato la nostracoscienza, sono vincoli dai quali non ci si strappa senza lacerarsi il cuore,sono demoni che l’uomo può vincere soltanto sottomettendosi ad essi,ma certo la «Gazzetta di Augusta» non ha mai conosciuto l’ansia della co-scienza…

Ai conservatori, ai reazionari, ai padroni fanno paura le idee. Leidee sono il lievito del cambiamento. È stata questa la grande forzadel movimento operaio.

Tornare a pensare. Non restare imprigionati nei fallimenti chehanno segnato drammaticamente gli eventi del nostro recente pas-sato. Avere lo sguardo lungo sul passato e proiettarlo sul futuro. Lastessa vita di Marx ci offre un esempio. Una ricerca critica costanteche, a poca distanza dalla Rivoluzione francese, si misura con le no-vità rappresentate dall’Europa-mondo della rivoluzione industriale,con la nascita del proletariato e delle sue organizzazioni, con l’insor-gere della lotta di classe. Riflessioni e teorizzazioni che si accompa-gnano alla partecipazione e allo studio dei moti del 1848, alle vi-cende della Prima Internazionale, occasione della sua polemica con-tro lo spontaneismo anarchico di Bakunin, poi alla Comune di Pari-gi. Un mondo in tumultuosa trasformazione. È utile ripercorrere letappe di questo incessante lavoro e presenza attiva. Ancora studen-te, in una composizione liceale dal titolo «Considerazioni di un gio-vane sulla scelta del proprio avvenire», Marx scrive tra l’altro:

la guida che ci deve soccorrere nella scelta d’una condizione è il benedell’umanità, la nostra propria perfezione. Non si obietti che i due inte-ressi potrebbero contrapporsi l’un l’altro […] la natura dell’uomo è taleche egli può raggiungere la propria perfezione individuale solo agendoper il perfezionamento e il bene dell’umanità.

Il giovane Marx ha tracciato il suo impegno futuro.

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La prima edizione de Il Capitale (primo libro) uscirà nel 1867. Unlungo travaglio ne precede la pubblicazione. Anni di studio e d’im-pegno. Due dimensioni sempre presenti. Nel 1845 insieme a En-gels, a Londra, entra in contatto con l’Associazione dei lavoratoritedeschi, un segmento inglese della clandestina Lega dei giusti, or-ganizzazione internazionale che raccoglieva emigrati politici tede-schi. Si appassiona alle teorie organizzative di Weitling, animatoredella Lega e convinto sostenitore della necessità di dare formaall’azione rivoluzionaria. Nell’autunno dello stesso anno propone lacostituzione di Comitati di corrispondenza capaci di mettere in con-tatto fra loro le varie associazioni comuniste che vanno formandosiin Francia, Germania, Inghilterra. Aderisce all’Associazione demo-cratica di Bruxelles e ne diventa vicepresidente. Con Engels fondaun Circolo di studi dei lavoratori tedeschi. Le sue conferenze saran-no raccolte in Lavoro salariato e capitale. Nel 1846 aderisce alla Legadei giusti che l’anno successivo cambierà nome e diventerà la Legadei comunisti. Nel suo statuto si legge: «Scopo della Lega è il rove-sciamento della borghesia, il regno del proletariato, la soppressionedell’antica società borghese fondata sugli antagonismi di classe el’instaurazione di una nuova società senza classi e senza proprietàprivata». Sono gli anni cui si passa dal socialismo utopico al sociali-smo scientifico. L’utopia lascia il campo alla scienza operaia, al bi-sogno di dare teoria e struttura organizzata alla classe operaia. PerMarx superare l’economia dei classici significa afferrare i meccani-smi di produzione capitalistica. Da qui gli studi critici che conducesulla filosofia del diritto di Hegel e poi a partire dal 1844 la scoper-ta di Ricardo e dei classici inglesi e francesi e la definitiva presa didistanza dal socialismo utopico. Un’opera immane di cui sono te-stimonianza non solo i tre libri de Il Capitale, ma la mole dei mate-riali che ne sono la premessa. Nel 1848 la scrittura del Manifesto delpartito comunista. Memorabile l’incipit: «Uno spettro si aggira per l’Eu-ropa: lo spettro del comunismo». Infine la chiusa «Proletari di tuttoil mondo unitevi». È l’inizio di una lunga storia. Attraversa l’Otto-cento e il Novecento, mutuando le categorie dello storico Hobs-bawm «il lungo XIX secolo» e «il secolo breve». E il Duemila? La ri-sposta non è l’oblio o la rimozione. L’interrogativo è davanti a noi.

In Marx, nel suo essere pensatore e rivoluzionario, vive una co-stante tensione: la ricerca e la sua verifica nell’azione pratica. Nellosvolgimento dei conflitti. Non è possibile cambiare il mondo, orga-

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nizzare le classi sfruttate e prospettare la loro liberazione senza unateoria. A proposito del metodo e delle acquisizioni progressive diMarx, Bruno Maffi nella sua introduzione al terzo libro ha scritto:

La verità è che tali conquiste non furono mai in Marx il frutto di rifles-sioni puramente intellettive; al contrario nacquero in uno scontro direttoe generalmente tempestoso con la realtà sociale, o come immediata-mente si presentava nella violenza delle collisioni economiche e nell’a-sprezza degli antagonismi di classe, o come appariva capovolta nei rifles-si mentali dei suoi portavoce ideologici, e dall’esigenza, che è del tuttoconforme alla dottrina marxista chiamare pratica, di dare risposta scienti-fica alle molteplici sollecitazioni del mondo «esterno».

Il Capitale è il risultato di questo sforzo. L’avvio del suo progettodi scrittura è del 1858. Un’opera aperta si direbbe oggi: infatti, allaedizione del primo libro de Il Capitale seguiranno le varie edizionicurate dallo stesso Marx, ognuna con ulteriori approfondimenti especificazioni, confutazioni. Il tutto accompagnato da tante tradu-zioni, dalla diffusione di un pensiero. Scomparso Marx nel 1883,Engels, l’amico e compagno di sempre, sulla base dell’enorme ma-teriale preparatorio, curerà la pubblicazione nel 1885 del secondolibro, Le metamorfosi del capitale e il loro ciclo, e successivamente, nel1894, del terzo libro, Il processo complessivo della produzione capitalisti-ca. Ventisette anni dopo la pubblicazione del primo libro. Si ag-giungono nuovi temi, altri si sviluppano, essendo già stati abbozzati,parzialmente accennati nei testi precedenti, nei quaderni, nei ma-noscritti. La trasformazione dei valori in prezzi di produzione, lacaduta tendenziale del saggio di profitto, la teoria della crisi e l’a-nalisi del sistema di credito.

L’ordine di pubblicazione non corrisponde ai tempi della ricercadi Marx. Una sottolineatura importante per capire il metodo che laispira. Non si vuole unicamente descrivere i meccanismi che regola-no la produzione capitalistica ma decifrare le leggi che presiedonoai suoi movimenti per metterle a disposizione della lotta di classe.In questo il carattere demistificante de Il Capitale. Vuole capire lecause interne e oggettive di «sfacelo» di un modo di produzione lecui premesse materiali sono già contenute nel suo seno, ma atten-dono solo l’intervento di una forza «levatrice della storia», la classedei proletari, per essere trasformate negli assi portanti di un nuovosuperiore assetto di convivenza umana.

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Seguendo in ordine cronologico le pubblicazioni dei tre libri sipuò dire, sintetizzando, che si passa dall’analisi del capitale all’ana-lisi del capitale nella sua realtà. La sua mutevolezza, i suoi «cicli».Marx mette in guardia gli sfruttati. La condanna del modo di pro-duzione presente e la critica delle sovrastrutture si accompagnanoalla necessità che esso ceda il posto a un modo di produzione di se-gno contrario, non immaginifico (Marx scrive «non piovuto dal cie-lo») ma preparato dall’evoluzione stessa del capitalismo nel qualenon solo la terra (oggi diremmo l’ambiente) ma l’intera «storia»millenaria del «lavoro» arricchito dal «sapere» può assicurare non lavalorizzazione del capitale ma la migliore «conservazione e sviluppodella vita». Frasi che ci fanno pensare al «rosso-verde» cui si richia-ma il titolo del libro.

Marx ha ben chiaro che nel capitalismo è presente un tratto ri-voluzionario, così lo definisce, e sa che un altro soggetto rivoluzio-nario deve contrapporsi a esso con altri fini. È la sfida a cui sollecitala nuova classe operaia che si contrappone alla borghesia nel tempodella rivoluzione industriale. È il progetto di storia che guiderà glialbori del movimento operaio organizzato. Ne marca le tappe. Leavanzate e le sconfitte. Segna vicende indelebili nella lotta degli op-pressi. La soggettività operaia si fa storia.

La richiesta di Mario Boyer di scrivere la prefazione a questo la-voro mi ha sorpreso. La mia prima reazione è stata di declinarel’invito e suggerirgli uno storico della filosofia, uno studioso diMarx. Insomma uno specialista. Ho accettato pensando che Marionon volesse una prefazione per così dire accademica e avesse avutoa mente la mia esperienza militante. Oggi, insieme con altri volon-tari, animatore di un’associazione culturale che si richiama alle sto-riche Case della Cultura promosse nella seconda metà degli anniSessanta da Rossana Rossanda, all’epoca responsabile culturale delPCI, e prima ancora direttore dell’Istituto di studi comunisti Palmi-ro Togliatti, così si chiamava la scuola di Frattocchie. Quindi non unintellettuale nel senso classico del termine ma un militante politicoa tempo pieno. Negli anni passati questa distinzione era molto sfu-mata, oserei dire inesistente. Nella nostra biblioteca mentale eranoben presenti le due splendide conferenze di Max Weber «Il lavorointellettuale e il lavoro politico come professione». Una tensione chedovrebbe sempre caratterizzare l’impegno politico e che continuaad animare i nostri autori. Mario Boyer e Gianni Di Cesare, quadri

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sindacali da sempre, e Michele Citoni e Catia Papa, ricercatori im-pegnati nei movimenti e nella pratica militante. Due esperienze,due generazioni di militanti. Un buon auspicio per il futuro e sicu-ramente per «l’uso» didattico-formativo che mi auguro si potrà faredel testo.

In queste brevi pagine non è mia intenzione aggiungere nulla aquanto scritto, piuttosto, rischiando di andare fuori tema, segnalareal lettore le riflessioni che il libro mi ha suggerito, stimolato.

«Marx in pillole» si richiama, penso consapevolmente, ai testiprodotti dalle storiche «scuole» del Partito comunista e della CGIL.Nella struttura e nella forma si avvicina molto alle dispense per icorsi di formazione di Frattocchie, e di Ariccia, la scuola AgostinoNovella del sindacato. Luoghi oggi scomparsi. Troppo spesso liqui-dati da una brutta pubblicistica come sedi di indottrinamento. Inrealtà chiunque si cimentasse davvero con quelle esperienze, esami-nandone la storia, gli sviluppi, la natura dei corsi, i partecipanti, siaccorgerebbe di come, anche attraverso limiti ed insufficienze, esseaffrontassero un nodo ineludibile del fare sindacato e/o politica: iltema della formazione. Quindi della cultura di un’organizzazione dimassa. Tempi andati. Nostalgie, si può obiettare. Non credo. Anzi.

La trasformazione dei partiti che si è realizzata nel nostro paesenon si è accompagnata ad una nuova cultura politica. Il vecchio èscomparso ma il nuovo si presenta come un deserto, o nella miglio-re delle ipotesi come un eclettismo confuso. Sono scomparse le fon-damenta. Vale per la sinistra come per la destra. Vale per partiti e,in misura molto diversa, vale anche per il sindacato. Per la sinistra èun dramma. Depotenziata di un’autonoma cultura politica è senzabussola, preda del quotidiano o piccola o grande macchina di pote-re. Anche a sinistra prevale la «pop-politica». La spettacolarizzazio-ne, la frase ad effetto, il correre dietro l’evento. Manca il futuro.Aggiornare, essere nel presente e guardare oltre, non significa ab-bandonare le proprie radici, piuttosto trarne lezioni, rimpadronirsidel loro senso. Il passato come cosa viva, nei successi come negli in-successi. Tutta la grande esperienza del movimento operaio non sispiega senza questa indagine fatta di lunghe continuità ma anche diforti discontinuità che nascono dai mutamenti, dal flusso ininterrot-to di altre culture. Difficile pensare ad una rapida ricostruzione. Lemacerie sono profonde. Eppure bisogna avviare questo lavoro. Ten-tare, ritentare. «Cercate, cercate ancora», così Claudio Napoleoni in-

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vitava nei suoi ultimi scritti sulle caratteristiche del capitalismo ita-liano. Inscrivo il lavoro di Boyer, Di Cesare, Citoni e Papa in questotentativo. Un testo collettivo, scritto a più mani. Quasi un’una ulte-riore indicazione. Lo sforzo che abbiamo davanti non può che esse-re collettivo, plurale, fatto di differenze, relazioni, connessioni. Co-mune nella prospettiva.

È possibile un lavoro nel sindacato, in un partito di sinistra, senzauna qualche dimestichezza con Marx? È possibile, sia pure con tuttigli strumenti innovativi di cui disponiamo, indagare, capire la crisiattuale? Dire che basti Marx sarebbe un oltraggio al pensatore diTreviri. Significativo in tal senso l’apporto di Citoni e Papa, che de-scrivono con puntualità la difficoltà di una contaminazione fra cul-ture. Oggi riflettere sul marxismo e le sue declinazioni vuol dire ci-mentarsi con tanti altri pensieri e pratiche: l’ecologismo, il femmi-nismo, l’operaismo e via discorrendo. Resta, inconfutabile, il fattoche alcune delle sue categorie interpretative restano capisaldi diogni riflessione economica, politica e sociale. Premesse fondamen-tali. Fanno parte della nostra «cassetta degli attrezzi». Non casual-mente nell’immediato dopoguerra, nell’accingersi alla costruzionedel PCI, partito polare e di massa, Togliatti chiamò un nutritogruppo di intellettuali per ritradurre e dare alle stampe Il Capitale.Dopo di allora tante altre pubblicazioni si aggiunsero. Altri suoi la-vori furono pubblicati. Progressivamente si faceva il punto sullo stu-dio di Marx, sui marxismi. Basti ricordare il convegno dell’IstitutoGramsci sul marxismo negli anni Settanta. Erano i tempi del partito«intellettuale collettivo». Si scoprivano altri autori. La scuola diFrancoforte, Adorno, Marcuse e ancora Habermas e tanti altri. Sicercava il nesso fra le culture critiche della modernità e ci s’interro-gava sui soggetti reali del cambiamento. La classe operaia e i suoialleati. Le nuove forme dello sfruttamento, materiale e immateriale.Ci s’immergeva nella lettura dei Grundisse e degli Scritti giovanili diMarx. Allora una rivelazione. Pubblicati solo in quegli anni aprivanoaltri spazi. L’alienazione, l’unità della persona umana nel lavoro, ilrapporto fra struttura e sovrastruttura. Sfatavano ogni vulgata ridut-tiva del Marx economico. Nuovi orizzonti di un marxismo attentoalla liberazione materiale e immateriale.

Una lettura completa de Il Capitale è impresa ardua. Ricordo lospavento che mi prese quando, poco più che quindicenne, m’impe-gnai per la prima volta, e non l’ultima ovviamente, in quest’impre-

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sa. Un anziano compagno, un edile segretario della sezione del miocomune, mi prestò proprio il testo a cui mi sono riferito. EdizioniRinascita del 1951, con la traduzione di Delio Cantimori. Già alloraun reperto da biblioteca. Ci impiegai cinque mesi. Faticosi ma bel-lissimi. Poi io, studente di liceo, lui edile, lo commentammo insie-me. Forse senza quei discorsi ne avrei appreso qualche nozione manon il significato più generale. Il lavoro, la classe operaia, il proleta-riato, lo sfruttamento sui molti esercitato da pochi. Erano gli anni di«studenti e operai uniti nella lotta». Ma anche nel sapere.

Avventurarsi nelle pagine di Marx non è solo studiare i meccani-smi economici che guidano il processo capitalistico ma afferrare ilfilo della storia.

La struttura del libro, nella sua articolazione di un lavoro a piùvoci, corrisponde a questo scopo. Una breve biografia di Marx, ilcontesto culturale, la scuola fisiocratica, la scuola classica, il rappor-to di Marx con i classici, quindi i punti di partenza del lungo lavorocritico del filosofo di Treviri, poi la parte centrale che affronta l’a-nalisi marxista dell’economia capitalistica, quindi i nodi-categoriefondamentali: la teoria del valore, le merci, la moneta, la trasforma-zione del danaro in capitale, il general intellect, le leggi sui salari.Marx e l’ecologia.

Infine l’appendice in cui Boyer ci proietta sull’oggi. Nel cuoredella crisi e della sua interpretazione, al di là del contingente. Dun-que la necessità dell’indagine sull’attuale fase del capitalismo nel-l’epoca della globalizzazione. Gli avvenimenti che hanno mutatol’assetto internazionale alla fine degli anni Ottanta, la caduta delmuro di Berlino, la scomparsa dell’URSS, si accompagnarono aduna ingiustificata enfasi sulla fine dei conflitti della storia. Emble-matica la tesi del politologo Francis Fukuyama, teorico del Diparti-mento di Stato USA, che preconizzava «la fine della storia» e iltrionfo della democrazia di mercato. La negazione di ogni visionedei processi umani come processo soggettivo. Molti teorici hannoseguito le sue orme. Francis Kan ha teorizzato la vittoria del «pen-siero unico». Peter Drunker ha sostenuto che la fine dei regimi co-munisti ha prodotto la fine di un tipo di storia dominata dalla fede«nella salvezza attraverso la società». In sostanza negate tutte le ac-quisizioni di un pensiero che si può far risalire a Rousseau. Tanti gliesegeti del postmoderno, della vittoria del capitalismo, della finan-za. Tanti i narratori di quello che, criticamente, Baumann definisce

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«un tempo piatto privo di dimensione storica: un tempo piatto ocircolare continuamente riciclato, dove tutto va e viene senza cam-biare nulla, un tempo sempre uguale a se stesso». I fatti hannosmentito queste ideologie mercatiste. Le forme della globalizzazio-ne, le guerre, le crisi finanziarie e i loro effetti drammatici sull’eco-nomia reale dimostrano che il cambiamento resta non solo all’or-dine del giorno ma necessario. Urgente. Lo dimostra lo stato dellademocrazia. Non solo «promesse mancate», per usare un’espressio-ne di Norberto Bobbio, ma la sua involuzione. La vittoria più o me-no strisciante del suo male oscuro, sempre in agguato, la «tiranniadella maggioranza» su ogni pluralità, su ogni alterità. Insieme il cre-scere di poteri inafferrabili, oltre gli Stati nazione, oltre ogni legit-timazione rappresentativa. Si manifesta al contrario il valore, nonsolo simbolico, dello slogan del movimento dei movimenti «Un altromondo è possibile». Non un’utopia, non una speranza, ma una ten-sione progettuale, conoscitiva e organizzativa.

L’appendice del testo di Boyer a questo ci richiama. Nelle sue par-ti affronta un insieme di temi su cui la ricerca e il dibattito sono aper-ti. Ognuna delle questioni affrontate meriterebbe una specifica trat-tazione. Il punto più complesso a me pare oggi l’incontro fra elabo-razione teorica e politica. Prospettive e contingenza. Il futuro e l’og-gi. Disponiamo di un grande patrimonio di elaborazioni e di espe-rienze. La grande incognita è quale «politica». Come una nuova cul-tura sappia ispirare una nuova politica, e viceversa, riappropriandosidel passato e insieme innovandosi. Il «fare» secondo un progetto cheimmerso nel presente non perda di vista la critica allo stato di coseesistenti guardando al destino degli uomini e delle donne.

A tutto ciò allude il testo. Forse quello che ha mosso gli autorinello scrivere le pagine che ci consegnano è il senso di «perdita» chemolti a sinistra avvertono. Perdita di radici, di forme organizzatecompiute, di luoghi di elaborazione comuni. Al tempo stesso l’ur-genza di uscire da questo spaesamento, da quest’assenza. Trovareuna nuova narrazione che, non dimentica della propria tradizione,guardi avanti. Un invito da raccogliere.

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Nasce a Treviri il 5 maggio 1818, muore a Londra il 14 marzo 1883.

1830 Si diploma al Liceo di Treviri.1835 Si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bonn.1836 Si trasferisce all’Università di Berlino.1937 Abbandona gli studi giuridici e si iscrive a Filosofia.1938 Si laurea in Filosofia nell’Università di Jena.1842 È redattore capo della Gazzetta renana di Colonia.1843 A marzo la Gazzetta viene soppressa dal governo prussiano. A giu-

gno sposa la baronessa Jenny von Westphalen. Si trasferisce a Pa-rigi per lavorare, in collaborazione con Friedrich Engels e MosesHess, alla nuova rivista Annali franco-tedeschi su cui pubblica La que-stione ebraica e l’Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del di-ritto pubblico.

1844 Scrive i Manoscritti economico-filosofici in cui elabora gli studi com-piuti sugli economisti classici e su Proudhon.Frequenta i circoli operai e anarchici di Parigi e si confronta conPierre Joseph Proudhon, Louis Blanc, Michail Bakunin. Scrive in-sieme a Engels La sacra famiglia, una critica pungente degli «hege-liani di sinistra», che viene pubblicata l’anno successivo.

1845 Viene espulso dalla Francia e si trasferisce con la famiglia a Bru-xelles. In primavera scrive le Tesi su Feuerbach pubblicate da En-gels dopo la sua morte nel 1886. Scrive con Engels L’Ideologia tede-sca in cui viene delineata la concezione materialistica della storiache costituisce il fondamento del pensiero marxiano. Nell’estateMarx ed Engels entrano in rapporto con l’«Associazione dei lavo-ratori tedeschi» operante a Londra e aderente alla clandestina «Le-ga dei giusti», associazione rivoluzionaria internazionale. Nell’au-tunno propone la costituzione di «Comitati di corrispondenza»che mettano in relazione le associazioni rivoluzionarie europee

Nota biobibliografica di Karl Marx

«Il Potere statale modernonon è che un Comitato cheamministra gli affari comunidi tutta la classe borghese»K. Marx, Il Manifesto del Partito comunista

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per una comune azione rivoluzionaria su basi teoriche scientifichee non utopistiche.

1846 È eletto vicepresidente dell’«Associazione democratica di Bruxel-les» e con Engels fonda un «Circolo di studi dei lavoratori tedeschidi Bruxelles» promuovendovi conferenze raccolte in Lavoro sala-riato e capitale. Sempre con Engels, fonda il primo Comitato dicorrispondenza comunista.

1847 In giugno si tiene a Londra il congresso della Lega dei giusti cheprende il nome di «Lega dei comunisti», il cui motto proposto daMarx è «Proletari di tutto il mondo unitevi!». È la nascita del pri-mo Partito comunista del mondo. Pubblica la Miseria della filosofiain cui contesta le teorie utopistiche di Proudhon contenute nel suoscritto Filosofia della miseria definita da Marx «anticaglia hegeliana».

1848 Scrive con Engels il Manifesto del partito comunista che inizia con ilfamosissimo monito: «Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spet-tro del comunismo».Il 22 febbraio Parigi insorge, Luigi Filippo di Francia fugge a Lon-dra, viene proclamata la Repubblica. Marx viene arrestato dal go-verno belga ed espulso. Il 4 marzo Marx è a Parigi dove viene ac-colto con entusiasmo dal governo provvisorio. In aprile la rivolu-zione parigina viene repressa violentemente dall’esercito guidatodal generale Cavignac. Nell’aprile Marx si trasferisce con la fami-glia e con Engels a Colonia dove fonda la Nuova Gazzetta renana.

1849 A maggio viene soppressa la Nuova Gazzetta renana. Marx ritorna aParigi, ma di lì a poco, a fronte delle pressioni delle autorità, lasciala Francia e si trasferisce definitivamente a Londra.

1849 Dopo le sconfitte dei moti rivoluzionari del 1848, a settembre vie-ne ricostituito il Comitato centrale della Lega dei comunisti.

1850 In aprile si costituisce l’«Associazione universale dei comunisti ri-voluzionari». In settembre avviene la scissione dalla Lega dei co-munisti della componente massimalista che proponeva l’immedia-ta ripresa dell’attività rivoluzionaria.

1851-1855

Corrispondente dall’Europa del New York Tribune, giornale demo-cratico angloamericano.

1852 Il 17 novembre è sciolta la Lega dei comunisti su proposta diMarx. Marx scrive Il XVIII Brumaio di Luigi Bonaparte in cui vieneanalizzato il colpo di Stato del 2 dicembre 1851.

1859 Pubblica i Gundrisse e Per la critica dell’economia politica.1864 Il 22 luglio a Londra si svolge la seduta inaugurale del congresso

di costituzione dell’«Associazione internazionale dei lavoratori». Viconfluiscono comunisti, socialisti, socialisti utopisti, anarchici, re-pubblicani. Marx vi partecipa con la delegazione tedesca. A no-vembre Marx propone una bozza di Statuto dell’Associazione cheè approvata all’unanimità.

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1865 Scrive Salario, prezzo e profitto che presenta in occasione del Consi-glio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori.

1867 Marx scrive il primo libro de Il Capitale che viene pubblicato adAmburgo.

1871 Il 18 marzo insurrezione del proletariato di Parigi guidato dablanquisti e anarchici e proclamazione della «Comune rivoluzio-naria». Marx si schiera con la Comune di Parigi che nel maggioviene repressa nel sangue dall’esercito francese con circa quaran-tamila morti.

1872 Il Congresso dell’Internazionale che si svolge a L’Aia espelle lafrazione anarchica.

1875 Marx scrive la Critica del programma di Gotha, il programma delPartito operaio tedesco redatto nella città di Gotha.

1881 Il 2 dicembre muore la moglie di Marx, Jenny Westphalen.1883 Il 14 marzo muore a Londra, alle 14.45, Karl Marx. Viene sepolto

nel cimitero di Highgate.

Pubblicazioni postume de Il Capitale: 1885 il secondo libro (Il Processo di cir-colazione); 1895 il terzo libro (Il Processo complessivo di produzione capitalistica);1905/10 il quarto libro (Teorie sul plusvalore).

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PARTE PRIMA

Schema di analisi del capitale

Un contributo alla divulgazione di un pensiero criticosui fondamenti e i principi dell’economia capitalistica

a cura di Mario Boyer

Così come Darwin ha scoperto la leggedello sviluppo della natura organica,Marx ha scoperto la leggedello sviluppo della storia umana…Marx era prima di tutto un rivoluzionario.Orazione funebre di F. Engels

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Anticipa l’illustrazione sintetica dello Schema di analisi marxianadel sistema di produzione capitalistico un richiamo essenziale a duescuole di pensiero economico che hanno preceduto gli studi e lescoperte di Karl Marx: la Scuola dei fisiocratici e la Scuola dei clas-sici. A conclusione dello Schema vengono poi richiamate le teoriedella Scuola dei neoclassici che si contrappongono sia alla dottrinadei classici che all’analisi marxiana del capitalismo.

I fisiocratici, rappresentati da François Quesnay e da Robert Jac-ques Turgot, analisti del sistema di produzione preindustriale eprecapitalistico, segnano con i loro studi e scritti la nascita del pen-siero economico in senso proprio, in quanto cioè pensiero di naturascientifica e non prevalentemente morale o politica, come era statofino ad allora.

I classici, rappresentati al livello più alto da Adam Smith e da Da-vid Ricardo, sono i primi studiosi del sistema di produzione capita-listico che cercano di penetrarne la struttura e i meccanismi di fun-zionamento.

Dice della Scuola classica Marx:

L’economia politica classica è quella che, incominciando con WilliamPetty (1623-1687), cerca di penetrare nell’insieme reale e intimo deirapporti di produzione della società borghese, in opposizione all’«eco-nomia volgare» che si accontenta delle apparenze […] che si limita a […]proclamare come verità eterne le illusioni delle quali il borghese si com-piace di popolare il proprio mondo (Marx, Il Capitale).

Gli studi dei neoclassici, rappresentati da William Jevons, CarlMenger, Leon Walras, sono per buona parte contemporanei agli

Premessa

«La borghesia non ha soltantofabbricato le armi che porterannoalla morte; ha anche generatogli uomini che impugneranno quellearmi: gli operai moderni, i proletari»K. Marx, Il Manifesto del partito comunista

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studi e ricerche di Marx e si pongono rispetto ad essi, come pure ri-spetto ai classici, in una posizione del tutto alternativa.

Essi infatti oscurano ogni interesse per l’analisi dei meccanismi diproduzione capitalistici che aveva massimamente impegnato sia iclassici che Marx e capovolgono letteralmente le teorie del valore daquesti elaborate, riconducendo il valore della merce al dato sogget-tivo e individualistico dell’utilità che il suo acquisto riveste per ilconsumatore finale.

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La Scuola fisiocratica nasce a metà del Settecento. I fisiocratici ri-tenevano che l’economia fosse retta da un ordine naturale e vede-vano nella natura, nell’agricoltura, nelle miniere l’unica fonte dellaricchezza umana.

L’esponente di spicco di questa scuola è F. Quesnay (1694-1771),medico di Luigi XV e autore di un Tableau Economique in cui rico-struisce l’analisi del flusso delle risorse economiche in analogia conil flusso della circolazione del sangue. Quesnay collaborò all’Enciclo-pedia di Diderot e D’Alembert. Altro esponente di spicco dellaScuola è Robert Jacques Turgot (1727-1781).

I fisiocratici, in nome della libertà economica (laissez-faire) contri-buirono a orientare la politica francese verso il libero commercio.Furono decisamente contrari al protezionismo e allo statalismo impe-rante nell’economia mercantilista dell’epoca.

Per i fisiocratici:

• Il lavoro agricolo è l’unico lavoro produttivo di ricchezza.• Il lavoro agricolo produce:

– i mezzi economici per sostenere in vita i lavoratori (salario);– le risorse necessarie al ricambio dei mezzi di produzione im-

piegati (macchine, materie e impianti);– un «sovrappiù» destinato al proprietario del fondo agricolo;

sovrappiù detto anche «prodotto netto»;• Le classi sociali diverse dalla classe agricola, cioè artigiani, com-

mercianti, professioni liberali, sono classi «economicamente ste-rili». Non producono «sovrappiù».

• Il «sovrappiù» prodotto dal lavoro agricolo si misura in termini

1.La Scuola fisiocratica

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fisici. Esso è ciò che resta materialmente della produzione unavolta sottratte ad essa le quantità di prodotto necessarie a garan-tire il sostentamento del lavoratore e la sostituzione dei mezzi diproduzione nella misura in cui l’impiego produttivo li ha usurati.

• Il «sovrappiù» viene acquisito dal proprietario del fondo e desti-nato ai suoi consumi. Di volta in volta dunque viene consumato enon reimpiegato in nuovi cicli produttivi.

• La «fertilità della terra» è il «fattore produttivo» dell’economiaagricola precapitalistica. Non esiste altra forza produttiva chenon sia la natura in quanto terra idonea a produrre frutti.

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La Scuola classica nasce intorno alla metà del Seicento e si svi-luppa nel corso di circa 150 anni. William Petty (1623-1682) è tra ifondatori della scuola in Inghilterra, mentre in Francia l’iniziatoreè Pierre de Boisguillebert (1646-1714).

I massimi esponenti della scuola sono: in Inghilterra Adam Smith(1723-1790) e David Ricardo (1772-1823); in Francia Simonde Si-smondi (1773-1842) e Jean-Baptiste Say (1762-1832).

I classici sono i primi analisti e teorici del sistema di produzionecapitalistico, di cui studiano i fondamenti, i principi e le leggi che logovernano.

Prima di loro, la «scuola economica volgare» si era fermata al-l’apparenza delle cose, non andando oltre gli aspetti fenomenologicidel modo di produzione capitalistico. Dove erano state proclamatevere fonti della ricchezza le forme particolari del «lavoro reale», qualil’agricoltura (fisiocratici), la manifattura, il commercio ecc., AdamSmith proclama come fonte unica della ricchezza materiale il «lavoroin generale», e cioè il lavoro nella sua figura complessiva sociale.

• Per i classici, nell’economia capitalistica – diversamente da quan-to sostenevano i fisiocratici per l’economia agricolo-feudale – nonesistono «lavori sterili». È produttivo di ricchezza infatti il lavoroin qualunque branca dell’economia esso si svolga: agricoltura, in-dustria, commercio, artigianato.

• Il lavoro nel modo di produzione capitalistico è l’unico «fattoreproduttivo» del sovrappiù, o plusvalore, cioè di una ricchezza ag-giuntiva rispetto a quella necessaria alla sussistenza dei lavoratorie alla sostituzione dei mezzi di produzione usurati dall’impiego.

2.La Scuola classica e la teoria del valore

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• Per i classici il «valore delle merci» è determinato dalla quantitàdi lavoro in esse contenuto.

• Alla base della teoria del valore elaborata da A. Smith c’è la di-stinzione tra valore d’uso e valore di scambio della merce:– il valore d’uso misura l’efficacia della merce a soddisfare il bi-

sogno di chi l’acquista:– il valore di scambio misura la capacità di ogni bene di essere

scambiato nel mercato con gli altri beni o merci presenti.Il valore di scambio di ogni merce è determinato dalla quanti-tà/qualità del lavoro umano in esse incorporato.Ne consegue che il lavoro nel modo di produzione capitalisticoha come proprio carattere fondamentale, rispetto alle altre formedi economia, la creazione di valori di scambio.

• La ricchezza aggiuntiva, o plusvalore, prodotta dal lavoro è inte-ramente proprietà del capitalista.

Questa appropriazione è per i classici del tutto giustificata dallacircostanza che il capitalista è proprietario sia dei mezzi di produ-zione che della forza lavoro che ha comprato sul mercato per mezzodi un contratto legale, dando in cambio un salario.

Il fondamento giuridico dell’appropriazione da parte del capita-lista del plusvalore risiede dunque nell’istituto della proprietà privatache nasce dalla libera contrattazione della forza-lavoro. La giustifica-zione etica dell’appropriazione capitalistica del plusvalore è poi for-nita dal fatto che il capitalista anticipa i salari ai lavoratori e dunqueha buon diritto di ripagarsi con il «frutto del lavoro».

Infine i classici, a rafforzare la legittimità dell’appropriazione ca-pitalista del plusvalore, argomentano che la proprietà privata indi-viduale è da sempre connaturata all’uomo e che la ricchezza di cui ilcapitalista dispone gli deriva dalla sua attitudine al risparmio e alladiligente amministrazione dei suoi beni.

Marx contraddice queste tesi con la sua teoria del valore delle merci edel lavoro e con la ricostruzione storica dell’accumulazione primitiva(originaria) di ingenti capitali in capo a una nuova classe sociale, cioèla borghesia capitalistica, e allo stesso tempo della spoliazione di masse diagricoltori e piccoli artigiani di qualunque mezzo di produzione, de-terminando così la nascita della nuova classe sociale detta proletariato.

Sono più di 400 anni di storia a «documentare» questa gigantescaspoliazione. Marx ricostruisce i grandi eventi storici a valle di tali

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processi, con riferimento agli Stati europei e in particolare all’In-ghilterra.

• I classici, diversamente dai fisiocratici che rilevavano il «sovrap-più» in «grandezze materiali» (ovvero fisiche), rilevano il «so-vrappiù» in «grandezze in valore».

• Al fine di misurare concretamente il valore delle merci i classicielaborano la teoria del valore delle merci.

Il fondamento di questa teoria è che il valore della merce èespresso dal suo «valore di scambio» sul mercato e tale valore corri-sponde alla quantità di lavoro occorso per produrla. Il ragiona-mento è il seguente. Per poter determinare il valore di scambio checiascuna merce ha rispetto a ciascuna delle varie altre merci pre-senti sul mercato è necessario ricorrere ad una unità di misura delvalore che sia comune a tutte le merci. Tale comune unità di misura è illavoro, cioè la quantità di lavoro mediamente necessaria a produrreciascuna merce.

I classici distinguono il lavoro del processo produttivo capitalisti-co in «lavoro presente» (o lavoro diretto), e «lavoro passato» (o indi-retto), ovvero prodotto in precedenza e incorporato nelle macchine,nelle tecnologie, nei materiali.

Il ragionamento è così esemplificabile. Se per la produzione diuna merce X sono state impiegate 80 ore di lavoro diretto e 250 oredi lavoro indiretto, il lavoro complessivo ammonterà a 330 ore; seper la produzione di una merce Y il lavoro diretto è stato di 40 ore,e il lavoro indiretto di 70 ore, il lavoro complessivo ammonterà a110 ore. Incontrandosi sul mercato le due merci X e Y si scambie-ranno nel rapporto di 1 (merce X) contro 3 (merce Y).

Dice Smith:

Il solo lavoro è la misura reale con cui si può far sempre pregio e para-gone del valore di tutte le merci […] Le quantità di lavoro debbono ne-cessariamente in ogni tempo e luogo essere di uguale valore per chi lavo-ra. Nello stato abituale di sanità, di forza e di attività, e secondo il gradoordinario di abilità e di destrezza che può avere, bisogna sempre che eglici spenda la stessa porzione di riposo, di libertà, di felicità […] Se in unasocietà di cacciatori il lavoro necessario per uccidere un castoro costanormalmente il doppio del lavoro necessario per uccidere un cervo, uncastoro dovrebbe scambiarsi con due cervi, ovvero valere «due cervi» (A.Smith, La Ricchezza delle Nazioni).

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Per i classici, diversamente dall’economia feudale e dunque dalleteorie fisiocratiche, nel sistema di produzione capitalistico il so-vrappiù generato non è destinato al consumo del proprietario maviene necessariamente e di continuo reinvestito al fine di renderepossibile il proseguimento dell’accumulazione del capitale nel tem-po. Questa è la condizione per continuare a sostenere la competi-zione con gli altri capitalisti. Emerge dunque che il sistema produt-tivo capitalistico ha come caratteristica distintiva da altre formeeconomiche la necessità dello sviluppo continuo e progressivo delprocesso produttivo, in una rincorsa permanente alla crescita dellaproduttività e all’innovazione tecnica, professionale, tecnologica,organizzativa, ai fini dell’accumulazione di nuovo capitale.

La forma del lavoro come si presenta nel modo di produzionecapitalistico, ovvero borghese, è in antitesi con le forme del lavoroantico e del lavoro medioevale.

Dice a questo proposito Marx riferendo del pensiero di JamesSteuart appartenente alla Scuola classica (Principi di politica economi-ca, 1767):

Lo Steuart sapeva naturalmente benissimo che il prodotto acquisisce laforma di merce e la merce la forma di denaro, anche in epoche prebor-ghesi; ma egli dimostra con molti particolari che la merce come formafondamentale, elementare della ricchezza, e l’alienazione, come formadominante dell’appropriazione, appartengono al periodo della produ-zione borghese soltanto, che il carattere del lavoro creatore di valore discambio è quindi specificamente borghese (K. Marx, Per la critica dell’eco-nomia politica).

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1. Fondamento storico dei sistemi economicie del capitalismo: nascita-sviluppo-estinzione

Marx affronta l’analisi del capitale sulla base di una ricerca con-dotta con metodologia scientifica circa la sua composizione, produ-zione, circolazione.

La sua ricerca nel campo dell’economia si fonda su un presuppo-sto di pensiero più generale che rivoluziona i punti di partenza diogni ragionamento sull’«economia» di cui si erano serviti i suoi pre-decessori, sia i fisiocratici che i classici.

Marx afferma che i «modi di produzione dei beni sono la verafonte e il vero teatro di tutta la storia umana».

Questo enunciato si inquadra in una concezione «materialistica» dellastoria umana, concezione che si contrappone radicalmente alla con-cezione «idealistica» ai tempi dominante (pensiero forte ed unico cheaveva in Hegel il massimo esponente). Tale concezione idealisticaidentificava la realtà con l’idea e partendo da questo presuppostoaprioristico faceva discendere la storia materiale dell’universo dallosviluppo storico dell’Idea umana fattasi Spirito (Hegel, Fenomenologiadello Spirito).

Già il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach aveva criticato la filoso-fia idealista sostenendo che l’idea è solo il riflesso della realtà con-creta delle cose. Diceva in proposito:

La logica di Hegel […] è una teologia ridotta a logica […] L’essere dellateologia è un essere trascendente, l’essere dell’uomo posto al di fuoridell’uomo; l’essere della logica di Hegel è il pensiero trascendente, il

3.La concezione materialistica della storia

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pensiero dell’uomo posto al di fuori dell’uomo (Feuerbach, Principi dellafilosofia dell’avvenire).

A proposito dei fondamenti filosofici del materialismo storico diMarx, Maurice Dobb svolge queste considerazioni:

Mentre per Hegel la dialettica (tesi-antitesi-sintesi) muove dall’Essereastratto come Idea o Spirito, per Marx la dialettica muove dalla Natura edall’Uomo considerato immediatamente parte integrale della Naturastessa.Tuttavia l’uomo, in quanto ente consapevole, è nello stesso tempo ingrado di lottare con e contro la Natura, ovvero può sottometterla, infinepuò trasformarla secondo i suoi scopi.Egli fa questo attraverso la progettazione consapevole dell’attività pro-duttiva e creativa.[…] La storia dell’umanità, quindi, ebbe inizio da questa dialettica dellalotta tra l’Uomo e la Natura, ed è consistita essenzialmente nelle varieforme e negli stadi assunti dal lavoro produttivo nel suo progressivo svi-luppo. Uno degli elementi principali di questo rapporto dialettico Uo-mo-natura fu l’invenzione e l’impiego di strumenti di produzione (uten-sili e congegni) che rappresentavano nello stesso tempo materializzazionidurevoli del lavoro e strumenti ausiliari per il lavoro produttivo […] Essipiù di ogni altra cosa fanno del lavoro produttivo un processo collettivo osociale (Maurice Dobb, Introduzione a Per la critica dell’economia politica).

Partendo da questa riflessione filosofica che dà conto delle realiforze motrici della storia umana, Marx formula alcuni enunciati ge-nerali che inquadrano dentro una prospettiva di pensiero rivoluzio-nario i rapporti tra economia ed esistenza individuale e sociale.

• Tutti i sistemi economici (e dunque anche il sistema di produzionecapitalistico) hanno carattere «storico». Essi cioè non sono «eterni»,ma nascono nel tempo, nel tempo si sviluppano e muoiono.

• Le varie forme di economia, i vari modi di produzione succeduti-si nel tempo, sono la vera fonte della storia sociale dell’umanità,sono le basi materiali della produzione sociale dell’esistenza.

Queste due proposizioni fondano una visione dei processi storicialternativa alla «visione idealistica» fino ad allora dominante e cheaveva avuto in Hegel il massimo riferimento filosofico.

Non si tratta semplicemente di «enunciati teorici» (materialisti)

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che vengono contrapposti ad altri «enunciati teorici» (idealisti) sulmero terreno dell’argomentare logico.

Marx contesta come «infondata» nella realtà concreta la visioneidealistica della storia, come «arbitrari e fuorvianti» dalla verità dellecose i suoi costrutti astratti, in forza dell’analisi scientifica che pro-duce circa i modi di produzione economica succedutisi nella storiaumana (e da ultimo il «modo capitalistico»), ricostruendo l’intrecciopermanente e indissolubile tra Forme dell’economia, Forma dellasocietà, Forma dello Stato.

Dice Marx nella sua Prefazione a Per la critica dell’economia politica(1859) che prepara l’affondo analitico sul processo capitalistico rea-lizzato successivamente con Il Capitale:

I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi, so-no presupposti reali. Essi sono gli individui reali, le loro condizioni ma-teriali di vita; tanto quelle che hanno già trovato esistenti, quanto quelleprodotte dalla loro stessa azione. Sono presupposti constatabili per viaempirica […] Nella produzione sociale della loro esistenza, attraverso leattività economiche gli uomini entrano in rapporti determinati, necessa-ri, indipendenti dalla loro volontà.L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura eco-nomica della società ossia la base reale sulla quale si eleva una sovra-struttura giuridica e alla quale corrispondono forme determinate dellacoscienza sociale. Il modo di produrre la vita materiale, proprio di unadata struttura economica, condiziona in generale il processo sociale poli-tico e spirituale della vita (Marx, Per la critica dell’economia politica).

La realtà storica dell’uomo è dunque da ricercarsi nella sua attivi-tà economica.

La società antica, la società feudale, la società borghese, sono insiemi dispecifici rapporti di produzione. Ciascuno di questi «insiemi» caratterizzaun particolare stadio di sviluppo dell’economia nella storia dell’umanità(Marx, Il Manifesto).

Su queste basi Marx sviluppa la critica dei «presupposti indivi-dualistici» su cui si era fondata la riflessione dei classici sull’econo-mia capitalistica.

Il singolo e isolato cacciatore e pescatore di cui parlano Smith e Ricardo,sono invenzioni, frutto di fantasia.

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In verità quanto più risaliamo indietro della storia, tanto più l’individuo,e anche l’uomo che produce, ci appare non autonomo, parte di un in-sieme più grande. Dapprima in modo del tutto naturale nella famiglia,nella famiglia sviluppatasi in tribù, in seguito nella comunità nelle suediverse forme, com’essa è nata dal contrasto e dalla mescolanza delle tri-bù […] La produzione ad opera di un individuo isolato al di fuori dellasocietà è un non senso, come lo sviluppo di una lingua senza individuiche vivano insieme e parlino tra loro (Marx, Per la critica dell’economia po-litica).

Negare, come fa Marx, i presupposti «idealistici» e «individuali-stici» della storia umana non significa che Marx «risolve» la perso-na» nella società, negando cioè «l’individualità» di ciascun essereumano.

Marx non risolve la persona nella società. Al contrario.Per Marx l’essere umano è immediatamente essere individuale,

persona. In quanto tale è qualcosa di «irriducibile», e la sua libera-zione dall’oppressione e dallo sfruttamento è proprio lo scopo fon-damentale a cui mira il Programma comunista che elabora insiemea Engels, un Programma di società nuova «nella quale il libero svi-luppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti». Que-sta tensione etica di Marx verso la «liberazione» e la «piena realizza-zione dell’uomo» emerge in modo ricorrente in molte pagine de IlCapitale in cui Marx rappresenta con sincero e profondo sdegnoumano gli effetti dello sfruttamento del lavoro e i segni che essoproduce sui corpi dell’operaio, in particolare sui corpi dei minori edelle donne.

Liberazione e piena realizzazione umana sono perseguibili soloalla condizione del superamento della struttura economica capitali-stica e della sovrastruttura dello Stato borghese.

La fiducia di Marx in questa possibilità è riposta in una lucida vi-sione dello sviluppo storico delle forze produttive che il capitalismoporta con sé e in sé:

Ad un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali dellasocietà entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti,cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuri-dica) dentro i quali tali forze si erano precedentemente mosse. Questirapporti da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in lorocatene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale (Marx, Per lacritica dell’economia politica).

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2. Il rapporto di Marx con i classici

Gli economisti classici avevano enunciato i seguenti principi eteorie:

• il lavoro è l’unico fattore di produzione della ricchezza;• tutto il lavoro è lavoro produttivo;• il sovrappiù o profitto non è destinato al consumo del capitalista

ma all’accumulazione di capitale da reinvestire in un processo disviluppo continuo delle forze produttive;

• il «valore delle merci» è espresso dal loro «valore di scambio» sulmercato. Tale valore corrisponde sempre alla quantità di «lavoromedio» che si è reso necessario per produrle ed è indicato dalprezzo cui le merci vengono vendute.Il «valore delle merci» è dunque coincidente con il «valore del la-voro» in esse incorporato.

Marx conviene con i classici che il lavoro è l’equivalente univer-sale di valore di tutte le merci.

Egli tuttavia spinge più in profondità l’analisi del valore dellemerci integrandola con l’analisi della composizione organica delcapitale. Marx evidenzia così gli errori fondamentali in cui eranoincorsi i classici nella teoria del valore da loro elaborata:

a) aver considerato determinante per l’individuazione del valoredelle merci la «quantità di lavoro medio umano» impiegata perprodurle, in luogo del «tempo di lavoro socialmente necessario»(nozione questa che consente di includere nella determinazionedel valore anche il «capitale costante» impiegato);

b) aver omesso di interrogarsi su come calcolare il «valore del lavo-ro», pur essendo esso riconosciuto come costitutivo del valore dellemerci da esso prodotte e misura del loro scambio.

Marx a questo fine elabora una teoria del valore del lavoro che con-sente di misurare concretamente l’effettivo valore economico del la-voro incorporato nella merce e di spiegare la formazione del profit-to e la sua natura predatoria del valore/lavoro che lo ha prodotto.

In definitiva i classici avevano trascurato nella loro analisi sul va-lore delle merci di porsi una domanda fondamentale.

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Posto che il valore di una merce è costituito dal valore del lavorocontenuto in essa, come si può calcolare tale valore del lavoro, adesempio il valore di un’ora di lavoro speso per la produzione di unamerce, quando sappiamo soltanto che un’«ora di lavoro è uguale aun’ora di lavoro», e nient’altro?

Per rispondere a questa domanda Marx svolge un’analisi pun-tuale del meccanismo di accumulazione capitalistica, della composi-zione organica del capitale e del meccanismo di produzione del«plusvalore» riuscendo a rilevare concretamente e correttamente il«valore del lavoro» e a ricondurlo ad una matrice di sfruttamentodel lavoro umano intrinseca al modo di produzione capitalistico.

L’effettivo valore del lavoro è quel valore che ripaga la somma deivalori economici connessi a capitale variabile, capitale costante, plusva-lore.

Dice Engels:

Soltanto constatando la distinzione del capitale in «costante» e «variabi-le», Marx pervenne a descrivere fin nei minimi particolari e con ciò aspiegare il processo di formazione del plusvalore nel suo effettivo svol-gersi, ciò che nessuno dei suoi predecessori aveva compiuto (F. Engels,Prefazione al Libro II de Il Capitale).

Dunque, il salario erogato dal capitalista paga solo una parte mi-nima del valore prodotto dal lavoro. Inoltre diviene chiaro che nelmodo di produzione capitalistico la proprietà dei beni prodotti(merci) è dissociata dal loro vero produttore: il lavoratore salariato.È questa dissociazione proprietà-lavoro la novità rilevante del modo diproduzione capitalistico rispetto alle altre forme di economia presentinella storia.

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1. Produzione

1.1. La merce: valore d’uso/valore di scambio.La merce «forza-lavoro»

Marx mutua da A. Smith e da D. Ricardo l’idea che il lavoro è lafonte della ricchezza e che il valore delle merci è determinato dallavoro contenuto in esse (lavoro incorporato). Partendo da questi pre-supposti teorici condivisi, Marx approfondisce l’analisi del processocapitalistico a partire dalla nozione di merce, fino ad interpretarnenatura e caratteri e decifrarne i meccanismi di funzionamento e leleggi che lo governano, superando e correggendo i risultati dell’a-nalisi svolta dai classici.

Marx perviene per questa strada ad una diversa «teoria del valoredelle merci» incentrata sulle nozioni di lavoro astratto e di tempo di la-voro socialmente necessario, e ad una «teoria del valore del lavoro» checonsentirà di misurare concretamente il valore economico effettivodel lavoro (a prescindere dal valore del salario) all’interno del con-creto processo produttivo capitalistico e di spiegare la formazionedel profitto e la sua natura.

Il primo capitolo de Il Capitale si apre con l’analisi di ciò che è ilprodotto della «forma economica del capitalismo»: le merci.

• Merce è qualunque cosa prodotta al fine della vendita sul merca-to, cioè dello «scambio». Non è merce ciò che è prodotto per ilsolo consumo del produttore, o che viene conferito ad altri senzascambio sul mercato.

4.L’analisi marxiana del capitale

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• Ogni merce nel sistema di produzione capitalistico ha un duplicevalore: un «valore d’uso» e un «valore di scambio».

• Il «valore d’uso» esprime il carattere di utilità proprio di quellamerce ai fini della soddisfazione di uno specifico e determinatobisogno (diverso da individuo a individuo). In quanto tale il «va-lore d’uso», essendo estraneo alle relazioni umane, rimane al difuori del campo di indagine dell’economia politica, che si occupaesclusivamente di fenomeni di natura sociale.

È stato osservato da A. Smith che la parola «valore» ha diversi significati:esprime talvolta l’utilità di qualche oggetto particolare, tale altra il poteredi acquistare beni che si trasmette con il possesso dell’oggetto. L’uno puòessere detto «valore d’uso», l’altro «valore di scambio». Le cose che hannomaggiore valore d’uso hanno di frequente scarso o nullo valore di scambio;quelle che hanno maggiore valore di scambio, hanno per contro scarso onullo valore d’uso. Acqua e aria sono grandemente utili, sono indispensabiliper l’esistenza: eppure in circostante ordinarie nulla può essere scambiatocon esse. L’oro invece il cui uso è scarso, ove lo si confronti con l’aria e conl’acqua, può scambiarsi con una grande quantità di altri beni.L’utilità non è quindi misura del valore di scambio, sebbene di tale valoredi scambio sia condizione assolutamente essenziale (Ricardo, Principi dieconomia politica).

• Per diventare merce il prodotto deve essere trasmesso all’altro, acui serve come valore d’uso, mediante lo scambio. Pertanto non èmerce il prodotto che viene creato per soddisfare un bisogno per-sonale del produttore. Come pure non è sufficiente che il prodot-to sia stato creato per soddisfare bisogni di altri perché esso siauna merce. Marx a questo proposito ricorre all’esempio del con-tadino medioevale che produce il grano d’obbligo per il signorefeudale e il grano della decima per il prete. Né il grano d’obbli-go, né quello della decima diventano merce per il fatto d’essereprodotti per altri, mancando in entrambi i casi lo scambio.

• Il valore di scambio di una merce è espressione del tempo di lavorosocialmente necessario per produrla. È espressione dunque non delvalore economico corrispondente alla quantità di lavoro medio oc-corso per produrla, come avevano sostenuto i classici, ma, appun-to, del tempo di lavoro socialmente necessario.

• Anche la «forza lavoro» è una merce nel sistema di produzionecapitalistico. Quanti sono sprovvisti di mezzi di produzione pro-

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pri sono costretti, per provvedere al sostentamento proprio edella loro prole, a vendere (alienare) la propria forza lavoro alcapitalista che è il solo detentore di tali «mezzi». Dice Marx:

Il venditore della forza lavoro, come il venditore di qualsiasi altra merce, neriscuote il valore di scambio e ne aliena il valore d’uso […]. Il valore d’usodella forza lavoro non appartiene ormai al venditore più di quanto appar-tenga al bottegaio il valore d’uso dell’olio venduto (Marx, Il Capitale).

1.2. Caratteri del «lavoro capitalistico»

CLASSIFICAZIONI DEL «LAVORO CAPITALISTICO»:• lavoro diretto/indiretto;• concreto/astratto;• socialmente necessario;• produttivo/improduttivo.

Il lavoro capitalistico ha propri caratteri che lo differenzianodalla forma-lavoro propria di altri modi di produzione quali l’eco-nomia antica, l’economia feudale, l’economia mercantile:

– è lavoro che produce valore di scambio (non solo dunque valored’uso);

– è immediatamente lavoro sociale, è cioè espressione dei più com-plessivi rapporti di produzione e di scambio che sono alla basedell’economia capitalistica;

– origina dall’alienazione, volontaria ma obbligata, della forza-lavoronon potendo contare il proletario che la detiene su mezzi di produ-zione propri per garantirsi la sussistenza in vita.

• Marx distingue il lavoro umano impiegato nel processo di produ-zione capitalistico in lavoro diretto (o presente) e lavoro indiretto (opassato), cioè lavoro umano incorporato nei mezzi di produzioneimpiegati.

• Ulteriore importante distinzione interna al concetto generale dilavoro Marx la opera elaborando le nozioni di lavoro concreto, la-voro astratto, lavoro socialmente necessario.Alle merci in quanto «valore d’uso» corrisponde il «lavoro concre-to» (cioè il lavoro specifico che le ha prodotte). Ad esempio, il la-voro del sarto che ha confezionato il tale abito.

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Alle merci in quanto «valore di scambio» corrisponde il «lavoroastratto», ovvero dispendio di «lavoro umano in generale», cioèlavoro in cui è cancellata l’individualità di chi lavora. Il lavoro checrea valore di scambio è lavoro «astrattamente generale».Nell’esempio dell’abito confezionato dal sarto

il lavoro del sarto, nella sua proprietà naturale di particolare attivitàproduttiva, produce l’abito, ma non il valore di scambio dell’abito. Que-st’ultimo lo produce non in quanto lavoro di sarto, bensì in quanto lavo-ro «astrattamente umano», e questo rientra in un nesso sociale che non èstato infilato dal sarto (Marx, Per la critica dell’economia politica).

La riduzione del lavoro a «lavoro astratto» ci permette di vederechiaramente dietro le forme specifiche che il lavoro di volta in voltaassume, una «forza lavorativa complessiva» capace di trasferirsi dauna utilizzazione ad un’altra a seconda dei bisogni sociali, e dallacui grandezza e sviluppo dipende la capacità di produzione dellaricchezza della società.

• Il quantum di lavoro che si assume a unità di misurazione del va-lore delle merci non è il tempo del «lavoro concreto» impiegatonelle specifiche lavorazioni necessarie a produrle. L’unità di mi-sura del valore delle merci è il tempo di lavoro socialmente necessa-rio per produrle, ovvero il tempo (di lavoro astratto) richiestonelle esistenti condizioni di produzione socialmente normali, econ il grado sociale medio di abilità e intensità di lavoro.

Una ulteriore distinzione è quella tra «lavoro produttivo» e «lavo-ro improduttivo».

Marx a questo proposito precisa che la nozione di «lavoro produtti-vo» ha un significato diverso a seconda che venga rapportata al sistemadi produzione capitalistico, oppure ad altri sistemi di produzione.

• Al di fuori del sistema capitalistico, in generale è da considerarsi«produttivo» ogni lavoro che metta capo a un prodotto, cioè a unvalore d’uso.

• Nel sistema di produzione capitalistico invece:

è produttivo il lavoro che produce plusvalore per chi lo impiega, che cioètrasforma le condizioni oggettive del lavoro in capitale. In definitiva è il

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lavoro che produce il suo proprio prodotto come «capitale» (U. Cerroni,Teoria della crisi sociale in Marx).

A questo proposito Marx considera valida e chiara la definizioneche A. Smith aveva a suo tempo dato del lavoro produttivo, e nonesita a citare gli scritti e le argomentazioni in proposito dell’illustreeconomista liberal/liberista:

Lavoro produttivo, nel senso della produzione capitalistica, è il lavoroche, nello scambio con la parte variabile del capitale, non solo riproducequesta parte del capitale, ma produce anche un plusvalore per il capitali-sta. Solo in questo modo la merce, o il denaro, si converte in capitale […]È produttivo soltanto il lavoro salariato che produce capitale […] Dunqueè produttiva solo la forza-lavoro la cui valorizzazione è maggiore del suovalore (Marx, Storia delle Teorie economiche).

Ancora più chiara e brutalmente laconica la citazione che Marxestrae da Malthus: «Lavoratore produttivo è quello che aumenta laricchezza del suo padrone» (Marx, Storia delle teorie economiche).

La formulazione del concetto «lavoro produttivo» che Marxesprime in forma diretta nei Gundrisse è la seguente:

Lavoro produttivo è soltanto quello che produce capitale […] Il risultatodel processo di produzione capitalistico non è né un semplice prodotto(valore d’uso), né una merce, cioè un valore d’uso avente un valore discambio determinato. Il suo risultato, il suo prodotto è la creazione delPlusvalore (Marx, Gundrisse).

1.3. Teoria del valore delle merci

LA COMPOSIZIONE ORGANICA DEL CAPITALE:• plusvalore/pluslavoro;• plusvalore assoluto/relativo.

Il valore di una merce per Marx è determinato dal quantum di la-voro materializzato in essa, intendendo con quantum non la quantitàdi lavoro medio, come avevano sostenuto i classici, ma il tempo di la-voro socialmente necessario alla sua produzione.

Tale tempo di lavoro (socialmente necessario) posto a base delvalore delle merci comprende sia il tempo di lavoro presente che iltempo di lavoro passato.

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A generare il plusvalore è unicamente il capitale variabile, cioè il la-voro umano.

Marx perviene a questa «scoperta» partendo dall’analisi dellacomposizione organica del capitale. Egli dimostra che:

– il valore del capitale costante viene trasmesso e incorporato alprodotto ad opera del lavoro presente (ovvero vivo);

– nella materia trasformata dal lavoro presente il valore del capi-tale costante incorporato rimane invariato;

– il valore aggiunto al capitale iniziale è prodotto dal pluslavoro,cioè da quell’in più di lavoro contenuto nella giornata lavorativarispetto al lavoro necessario per pagare salario e mezzi di produ-zione.

Questo il ragionamento svolto da Marx:

• Il capitale, C, si compone di due parti fra di loro connesse orga-nicamente, capitale variabile, v, e capitale costante, c:

C = v + c

• Il capitale variabile è composto dal capitale speso per acquistare laforza lavoro da impiegare nel processo produttivo. La forza lavo-ro impiegata è denominata «lavoro diretto» (o presente).

• Il capitale costante (o fisso) è costituito dai mezzi di produzione,cioè da impianti e macchine usati per uno o più cicli (o periodi)produttivi. Il valore di tali impianti e macchine è il valore del la-voro indiretto (o passato), cioè incorporato in detti mezzi di pro-duzione. In un ciascun ciclo di produzione, tali «mezzi» con il lo-ro impiego trasmettono al prodotto una parte del loro valore. Seun «capitale fisso» di valore 100 ha la durata di dieci anni, quel«capitale fisso» conferirà al prodotto annuo un valore pari a 10.

• Il plusvalore s è l’eccedenza del valore del prodotto sul valoredei suoi elementi, cioè sul capitale costante c e sul capitale va-riabile v.

• Terminata l’operazione produttiva il capitale C si è trasformatoda C = c+v a C = c+v+s.

Che il plusvalore s sia riconducibile «tutto ed esclusivamente» alcapitale variabile si rende evidente con la dimostrazione, che Marx

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fornisce analizzando il processo di produzione, che il tempo di lavo-ro che occorre per la produzione di un articolo comprende anche iltempo di lavoro necessario a ricostituire i mezzi di produzione usu-rati, cioè il capitale costante.

Il lavoratore conserva dunque il valore dei mezzi di produzione consu-mati e lo trasmette al prodotto come parte costitutiva del valore di esso[…] Il lavoro produttivo trasforma i mezzi di produzione in elementiformativi di un nuovo prodotto, il loro valore va soggetto ad una speciedi metempsicosi, passando dal corpo consumato nel nuovo corpo creato[…] I mezzi di produzione non possono mai aggiungere al prodotto unvalore maggiore di quello che hanno […] Se per esempio una macchinaper filare è durata 10 anni, il suo valore totale durante questi 10 anni difunzionamento si è incorporato nei prodotti dei 10 anni (né di più, né dimeno) […] L’esperienza fa conoscere quanto tempo duri in media unostrumento di lavoro, ad esempio una macchina per fare maglie. Se sisuppone che la sua utilità nel lavoro iniziato si conservi solo per sei gior-ni, perde in media ogni giorno un sesto del proprio valore d’uso, e quin-di trasmette al suo prodotto di ogni giorno un sesto del suo valore discambio. In questo modo si calcola il logorio quotidiano di tutti gli stru-menti di lavoro e quanto del proprio valore trasmettono in un giorno nelvalore del prodotto […] Nel corso della produzione, la parte di capitaleche si trasforma in mezzi di produzione (ossia materie prime materie au-siliarie e strumenti di lavoro) non modifica dunque la grandezza delproprio valore. Perciò la chiamiamo parte costante del capitale, o piùbrevemente, «capitale costante» (ivi).

• Il plusvalore inizia a formarsi dal minuto di lavoro successivo altempo impiegato dal lavoratore per produrre un valore equiva-lente al salario corrispostogli dal capitalista e ai mezzi di produ-zione impiegati nel processo, e cessa al compimento dell’interagiornata lavorativa:

L’uomo possessore di denaro ha pagato il valore giornaliero della for-za lavoro; quindi gli appartiene il suo uso durante una giornata, il la-voro di una giornata intera. Il sostentamento giornaliero di questa for-za lavoro costa solo mezza giornata di lavoro […]; in altri termini, ilvalore creato dal suo uso durante una giornata è doppio del suo valoregiornaliero […] La produzione di plusvalore è dunque produzione delvalore prolungata al di là di un certo limite. Se il processo di lavorodura fino al punto in cui la fora lavoro pagata dal capitale viene sosti-tuita da un nuovo equivalente, abbiamo una semplice produzione di

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valore; quando oltrepassa questo limite abbiamo produzione di plus-valore (Marx, Il Capitale).

Marx con l’analisi del «plusvalore» porta in evidenza gli effettivirapporti sociali che si celano dietro i rapporti di produzione capita-listici.

L’analisi del «plusvalore» marxiana apre dunque il problemadella liberazione del lavoro.

Il plusvalore, in quanto pluslavoro, è da Marx individuato comeunica fonte del profitto la cui accumulazione costituisce la ragione eil fine essenziale del capitalista.

Ai fini di spiegare i diversi modi con cui il capitalista può accre-scere il plusvalore incrementando la produttività del lavoro, Marxdistingue il plusvalore assoluto dal plusvalore relativo:

• plusvalore assoluto è quello prodotto dal prolungamento dellagiornata lavorativa a parità di salario;

• plusvalore relativo è quello che origina dall’abbreviazione del tem-po di lavoro necessario e nel corrispondente cambiamento dellagrandezza relativa delle due parti di cui si compone la giornata.

Il plusvalore relativo cresce in ragione diretta dello sviluppo dellacapacità produttiva del lavoro, mentre il valore della merce è in ra-gione inversa di tale sviluppo.

Dice Marx a questo riguardo:

L’economia di lavoro attraverso lo sviluppo della forza produttiva non miraaffatto ad abbreviare la giornata di lavoro, ma si tratta soltanto della dimi-nuzione del lavoro necessario a produrre una determinata massa di merce.Se un operaio, grazie alla moltiplicata produttività del suo lavoro produ-ce in un’ora, ad esempio, dieci volte più di prima, o, più in generale, im-piega per ogni capo di merce dieci volte meno lavoro, ciò non impedisceaffatto che si continui a farlo lavorare per 12 ore e a fargli produrre inqueste 12 ore 1200 capi invece di 120 (ivi).

1.4. La giornata di lavoro: lavoro necessario/sovralavoro

La giornata di lavoro nel modo di produzione capitalistico sicompone di due parti: tempo di lavoro necessario e di tempo di sovrala-voro.

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• Il tempo di lavoro necessario è quella porzione di giornata lavorativanecessaria alla produzione dei mezzi di sussistenza ordinari dellavoratore (salario).Se per la produzione dei mezzi di sussistenza necessitano 6 ore, iltempo di lavoro necessario sarà di 6 ore rispetto a una giornata lavo-rativa, mettiamo, di 12 ore.Le restanti 6 ore della giornata saranno tempo di sovralavoro.

• Il tempo di sovralavoro è il tempo della giornata lavorativa a partiredal quale il lavoratore produce plusvalore.Il salario che il capitalista paga al lavoratore, acquistando così le-galmente l’uso della sua forza lavoro, viene prodotto dal lavora-tore nel corso del tempo di lavoro necessario. Il tempo di sovralavoroè pluslavoro (rispetto al lavoro pagato con il salario).

La giornata lavorativa è rappresentabile con una linea retta acche si compone di due segmenti: ab (tempo di lavoro necessario) ebc (tempo di sovralavoro).

ac = giornata lavorativa 12 ore;

a___(6 ore lavoro necessario)___b___(6 ore sovralavoro)___c

La giornata di lavoro non è una grandezza costante, ma è varia-bile relativamente sia alla sua durata che alla sua composizione.

Quale che sia la durata complessiva della giornata di lavoro, puòmutare sia la parte di essa occupata nel lavoro necessario che quellaoccupata nel sovralavoro.

Esempi di possibili varianti interne alla giornata:

1) a__(4 ore lavoro necessario)__b____(8 ore sovralavoro)____c

2) a____(8 ore lavoro necessario)____b__(4 ore sovralavoro)__c

Al crescere del tempo di sovralavoro nel corso della giornata lavora-tiva, corrisponde la crescita del plusvalore di cui si appropria il capi-talista.

Il tempo di sovralavoro può crescere in forza della riduzione deltempo di lavoro necessario, oppure dell’aumento della durata dellagiornata lavorativa.

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La giornata di lavoro ha un limite massimo, non potendo essereprolungata oltre un certo punto.

Questo limite è doppiamente determinato:

a) dai limiti fisici della forza lavoro;b) dalla necessità del lavoratore di dedicarsi anche ad altri bisogni

personali.

Si rendono quindi possibili giornate di 6-8-10-12 ore di lavoro; illimite da non superare è quello stabilito dalla natura o dalle condi-zioni generali della civiltà.

1.5. Il saggio del plusvalore

Il valore di una merce prodotta durante un determinato periodoè espresso dalla formula m = c+v+s, in cui m indica la merce, cindica il capitale costante, v indica il capitale variabile, s il plusva-lore.

Considerato che il capitale fisso, comprese le materie prime e isemilavorati, non aggiunge al prodotto più valore di quanto ne pos-siede all’inizio del ciclo produttivo, si evidenzia che il plusvalore sca-turisce interamente da quella parte del capitale variabile costituitodalla forza lavoro impiegata. Cioè da quella forza lavoro che nonsolo trasferisce al prodotto il proprio valore, ma dà luogo a un plusdi valore.

Partendo dalla formula m = c+v+s, si può ricavare il rapporto(ovvero il saggio) che lega tra loro queste grandezze di valore e, inparticolare, il rapporto tra plusvalore s e capitale variabile v.

• Il saggio del plusvalore è indicato da s1 ed è espresso dalla formulas1 = s:v.

Esso è l’indicatore di appropriazione del lavoro da parte del capitali-sta in quanto registra il rapporto tra plusvalore s e capitale variabile v.

La formula s1 = s:v infatti esprime che:

a) il solo capitale variabile v (lavoro presente) è l’elemento da cuinasce l’arricchimento del capitalista;

b) il saggio del plusvalore s1 è tanto più alto quanto più basso è ilvalore del capitale variabile impiegato.

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Ovvero: più bassi sono i salari, più crescono l’arricchimento delcapitalista e lo sfruttamento del lavoratore.

Ai fini dell’aumento del plusvalore il capitalista può interveniresulla variabile salariale direttamente, riducendone il valore, oppureindirettamente, operando sull’orario di lavoro:

– aumento della durata della giornata lavorativa a parità di salario;– aumento del tempo di sovralavoro all’interno della giornata lavora-

tiva.

1.6. Il saggio del profitto

Il profitto è ciò che concretamente rimane del plusvalore una voltapagato il capitale variabile e il capitale costante, la rendita di fabbri-cati e/o terreni utilizzati.

Il profitto costituisce lo scopo del fare impresa capitalistica.Il saggio del profitto indica la misura reale del guadagno netto

del capitalista, ed è il motivo reale dell’accumulazione. Il saggio delplusvalore misura il grado di sfruttamento del lavoro, ed è la causareale dell’accumulazione.

Il saggio del profitto è indicato dalla lettera p ed è espresso dallaformula p = s : (c+v), dove s è il plusvalore, c il capitale fisso, v ilcapitale variabile.

La formula esprime:

• che il solo plusvalore s è l’elemento da cui nasce il profitto delcapitalista;

• che la misura reale del guadagno del capitalista è determinatadal rapporto del plusvalore prodotto con il capitale complessiva-mente investito;

• che il profitto cresce in modo inversamente proporzionale allasomma di capitale costante c e capitale variabile v.

Marx avverte:

Plusvalore e Saggio del plusvalore sono in senso relativo l’invisibile, l’es-senziale da scoprire, mentre il Saggio del profitto, e quindi, il profitto, simostrano alla superficie del fenomeno (K. Marx, Il Capitale).

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2. Circolazione

2.1. Denaro-moneta: misura dei valori delle merci,mezzo di circolazione

I prezziDice Marx:

In un dibattito parlamentare sulle leggi bancarie di Sir Robert Peel del1844 e del 1845, Gladstone osservava che nemmeno l’amore aveva fattoimpazzire tanti uomini quanti ne erano impazziti scervellandosi sullanatura del denaro […] La difficoltà principale dell’analisi del denaro èsuperata non appena la sua origine è concepita partendo dalla mercestessa. Con questo presupposto si tratterà semplicemente di afferrarenettamente le sue peculiari proprietà formali […] Nell’indagine che se-gue è da ricordare che si tratta solo di quelle forme di denaro che emer-gono direttamente dallo scambio delle merci, non di quelle sue forme le-gate ad uno stadio più elevato del processo di produzione, come adesempio la moneta di credito (Marx, Per la critica dell’economia politica).

La moneta è costituita da un metallo, per lo più prezioso.Essa è una merce/metallo cui viene assegnata la funzione di equi-

valente universale di tutte le merci.In quanto equivalente universale la moneta è misura del valore di

tutte le merci; dunque come tale è denaro.La funzione dell’oro (ovvero di altro metallo/moneta) di equiva-

lente universale di tutte le merci e la misurazione del loro valore intempo di lavoro-oro vengono da Marx così esemplificati:

1 tonnellata di ferro = 2 once d’oro1 quarter di grano = 1 oncia d’oro1 quintale di caffè = 1/4 oncia oro1 quintale di soda = 1/2 oncia oro1 tonnellata legno brasiliano = 1+1/2 oncia oroY merce = X once d’oro

In questa serie di equazioni, il ferro, il grano, il caffè, la soda, ecc. ap-paiono l’uno all’altro come materializzazioni di lavoro uniforme, cioè dilavoro materializzato in oro, lavoro in cui siano cancellate tutte le parti-colarità dei reali lavori rappresentati nei loro differenti valori d’uso. Co-me materializzazione uniforme dello stesso lavoro (lavoro astratto) ma-nifestano una sola differenza di carattere quantitativo; ossia appaiono

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come grandezze di valore differenti poiché nei loro valori d’uso è conte-nuto un tempo di lavoro disuguale […] Poiché tutte le merci misurano inoro i propri valori di scambio nella proporzione in cui una determinataquantità d’oro e una determinata quantità di merce contengono la mede-sima quantità di tempo di lavoro, l’oro diventa la misura dei valori […] lemerci sono equiparate l’una all’altra nella proporzione in cui sono equi-parate all’oro […] Il valore di scambio delle merci espresso in tal modocome equivalenza generale, oppure in un’unica equazione tra le merci euna merce specifica, è il prezzo (ivi).

Naturalmente, la funzione dell’oro di merce equivalente di tutte lemerci e dunque misura dei loro valori, può essere svolta da altremonete, quali l’argento, il platino, il ferro.

La moneta oro (ovvero altro metallo), come misura dei valori servea trasformare il valore delle merci in prezzi, cioè in immaginariequantità di oro.

La moneta oro (ovvero altro metallo), come peso stabilito di metalloè tipo dei prezzi. In quanto tale, misura queste date quantità immagi-narie di oro relativamente ad un quantum d’oro determinato e divisoin parti aliquote.

La variazione nel valore dell’oro non altera affatto la sua funzio-ne come tipo dei prezzi:

Quali possano essere le variazioni del valore nell’oro, differenti quantitàd’oro restano sempre nello stesso rapporto tra di loro […] Un tale mu-tamento colpisce contemporaneamente tutte le merci e per conseguenzalascia nel medesimo stato le relative quantità di valore […] La propor-zione 2:4:8 rimane uguale a quella di 1:2:4 ovvero di 4:8:16 (ivi).

La moneta, oltre ad essere misura del valori delle merci e mezzodi circolazione, ha anche la funzione di mezzo di pagamento.

Man mano che si sviluppa la circolazione delle merci, si sviluppano an-che circostanze che tendono a separare con un intervallo di tempo l’alie-nazione della merce dalla riscossione o pagamento del prezzo. Può avve-nire che un venditore sia pronto allo scambio e che l’altro non sia ancorain condizione di poter comperare.Oppure, come nel caso di una casa, uno compra prima di pagare con-cretamente il prezzo convenuto. Il venditore diventa un creditore, ilcompratore un debitore.Allo scadere del termine stabilito dal contratto di acquisto, termine dalquale il compratore entra in possesso del valore d’uso stipulato, il denaro

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entra in circolazione quale mezzo di pagamento, passando dalle mani delcompratore in quelle del venditore (ivi).

Prezzi e mercatoMarx occupandosi del prezzo delle merci, in quanto espressione

monetaria del loro valore di scambio, scomoda Aristotele richia-mando quanto afferma il filosofo nel libro V dell’Ethica Nicomachea:

Che vi fosse lo scambio prima che esistesse il denaro è cosa evidente, in-fatti non fa alcuna differenza che cinque giacigli valgano una casa, o unacasa tanto denaro quanto ne valgono cinque giacigli […] Tutto deve ave-re un prezzo, perché in tal modo vi saranno sempre scambi e di conse-guenza vi sarà sempre una società. Il denaro, pari a una misura, rende difatto commensurabili le case per equipararle poi reciprocamente. Poichénon vi è società senza scambio, ma lo scambio non può esservi senza pa-rità, e la parità non può esservi senza commensurabilità (ivi).

Il prezzo è il nome monetario del valore materializzato nellamerce. È l’espressione monetaria del suo valore di scambio ed espri-me un rapporto di produzione.

Il prezzo di mercato esprime la quantità media di tempo di lavoro so-ciale necessario in condizioni medie di produzione.

Esso viene calcolato con riferimento alla quantità totale di unamerce di una determinata specie.

Tutti i prezzi vengono indicati in moneta essendo il denaro ilmezzo generale di scambio.

Ogni merce della stessa specie ha un unico prezzo, per quanto diver-se possano essere le condizioni di produzione dei singoli produttori.Tale prezzo unico esprime la quantità di denaro con cui si scambiaun’unità della merce stessa con una unità di qualunque altra merce(invece di avere tanti prezzi per quante sono le altre merci con cuipuò scambiarsi).

Valore di scambio e prezzo non sono semplicemente modi diversidi chiamare il valore delle merci come a questo proposito sostenevaA. Smith affermando: il lavoro è il prezzo reale delle merci; il dena-ro ne è il prezzo nominale.

Valore di scambio e prezzo coincidono sempre solo in via teorica.In via pratica questa coincidenza deve essere confermata dal

mercato, cioè nell’effettivo processo di circolazione delle merci.Dice Marx ad esemplificazione:

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nella circolazione soltanto potrà effettivamente risultare se il quarter digrano diventa effettivamente un’oncia d’oro come è stato anticipato nelsuo prezzo. Questo dipenderà dal fatto che il quarter di grano si affermi,o meno, come valore d’uso e che la quantità di tempo di lavoro in essocontenuta si affermi o meno come la quantità richiesta dalla società comenecessaria per la produzione di un quarter di grano […] Nell’esistenzadel valore di scambio come prezzo, o dell’oro come misura del valore, ècontenuta in via latente la necessità dell’alienazione della merce in cam-bio di oro sonante, la possibilità della sua non-alienazione, in breve ècontenuta in modo latente l’intera contraddizione (ivi).

Le oscillazioni dei prezzi di mercato, che talvolta superano il va-lore (ovvero il prezzo naturale), tal altra volta gli sono inferiori, di-pendono dalle oscillazioni della domanda e dell’offerta.

Le oscillazioni sono continue, e tuttavia:

il prezzo naturale (valore) è, in certo senso, il centro attorno al quale gra-vitano continuamente i prezzi di tutte le merci […] Quali che possano es-sere gli ostacoli che impediscono loro di fissarsi su questo punto mediodi riposo e di stabilità, essi tendono costantemente ad esso (A. Smith, LaRicchezza delle nazioni).

Marx conferma le considerazioni di A. Smith affermando:

Se la domanda è l’offerta si equilibrano, i prezzi di mercato delle mercicorrispondono ai loro prezzi naturali, cioè ai loro valori, i quali sono de-terminati dalle corrispondenti quantità di lavoro necessarie per la loroproduzione.Ma domanda e offerta devono costantemente tendere a equilibrarsi,quantunque ciò avvenga soltanto perché un’oscillazione viene compen-sata da un’altra, un aumento da una caduta, e viceversa.Se invece di seguire soltanto le oscillazioni giornaliere, esaminate il mo-vimento dei prezzi di mercato per un periodo più lungo […] trovereteche le oscillazioni dei prezzi di mercato, i loro alti e bassi, si elidono e ri-compensano reciprocamente; cosicché se si fa astrazione dagli effetti deimonopoli e da alcune altre modificazioni che ora devo trascurare, ognispecie di merce è venduta in media al suo valore, cioè al prezzo naturale(Marx, Salario, prezzo e profitto).

Perché sia possibile l’effettiva circolazione delle merci occorre di-sporre di quantità di oro di diversa grandezza corrispondenti alle quan-tità diverse in cui le merci si scambiano. Tali quantità d’oro si misu-rano mediante il peso.

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La scala delle misure si trova quindi già presente nelle misure ge-nerali dei pesi dei metalli che servono da misure dei prezzi.

L’oro, come misura dei valori ha una determinatezza formale deltutto distinta dall’oro come scala di misura dei prezzi. Infatti l’oro èmisura dei valori in quanto tempo di lavoro oggettivato. L’oro èscala di misura dei prezzi in quanto determinato peso metallico.

Tuttavia Marx chiarisce che nel corso della storia è saltata la cor-rispondenza esistente originariamente tra peso delle monete d’oro evalore effettivo della moneta.

Ad un processo storico che spiegheremo più avanti risalendo alla naturadella circolazione metallica, dobbiamo il fatto che per un peso costante-mente variante e discendente di metalli nobili, nella loro funzione discala di misura dei prezzi, venisse conservata la stessa denominazione dipeso. Così la lira sterlina inglese esprime meno di un terzo del suo pesooriginario; la lira sterlina scozzese anteriore all’Unione designa ora sol-tanto 1/36, la livre francese 1/74 […] Così le denominazioni monetariedei pesi metallici si sono scisse storicamente dalle loro denominazionigenerali di peso […] essa dovette diventare determinazione legale. L’o-perazione puramente formale toccò quindi ai governi (Marx, Per la criticadell’economia politica).

2.2. Trasformazione del denaro in capitale

Il denaro in quanto denaro ed il denaro in quanto capitale ini-zialmente si distinguono solo per le loro differenti forme di circola-zione.

Il denaro può circolare infatti in forma di semplice moneta, op-pure in forma di capitale.

Nella cosiddetta «circolazione semplice» della merce, che è pro-pria dell’economia mercantile, e che è espressa dalla forma M-D-M,il principio motore del meccanismo M-D-M è «vendere per com-prare».

In questa forma di circolazione il denaro circola come semplicemoneta, e non come capitale.

Nella forma di circolazione che è propria dell’economia capitali-stica ed è espressa da D-M-D, il principio motore del meccanismo è«comprare per vendere».

In questa forma di circolazione (e di economia) il denaro circolacome capitale.

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Dice Marx a questo proposito:

Tutto quel denaro che nel suo movimento D-M-D descrive questo giro, sitrasforma in capitale, diviene capitale, è già capitale per lo scopo cui èdestinato (Marx, Il Capitale).

Dunque, il denaro assume la natura di capitale in relazione alloscopo economico che si propone, di cui cioè è al servizio. Tale scopoè la produzione di un valore monetario superiore al denaro investi-to nel processo di produzione di merci.

Ecco allora che, nella realtà del processo economico capitalistico,la forma effettiva di circolazione è espressa da D-M-D1. Se a conclu-sione dei rapporti di scambio denaro/merce/denaro non si verifical’accrescimento di valore di D in D1, vorrà dire che è fallito lo scopod’impiego del capitale.

È questo aumento di valore del denaro, è questo sviluppo chetrasforma il denaro in capitale.

2.3. Dall’economia mercantile all’economia capitalistica:dalla produzione di merci alla produzione di denaro

SintesiMezzi di produzione

• Nel sistema mercantile semplice, ciascun produttore possiede elavora con propri mezzi di produzione.

• Nel regime capitalistico la proprietà dei mezzi di produzione ap-partiene ad una classe (borghesia), mentre il lavoro è eseguito daun’altra classe (proletariato).

Valore delle merci• Nel sistema mercantile semplice il produttore vende il proprio

prodotto per acquistare prodotti altrui che soddisfano i suoi biso-gni specifici: dunque, il valore delle merci è esclusivamente valored’uso.

• Nel sistema capitalistico il valore delle merci è esclusivamente va-lore di scambio. Naturalmente le merci prodotte devono avere ne-cessariamente un preciso valore d’uso; tuttavia il prezzo di mercato èfissato dal loro valore di scambio, a prescindere dall’utilità che il lo-ro uso arreca all’acquirente.

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Tipo di circolazione• Nel sistema mercantile semplice il produttore/mercante parte con

le merci, le converte in denaro, quindi di nuovo converte il dena-ro in merce.Marx designa questo processo M-D-M (merce - denaro - merce).Le merci costituiscono l’inizio e la fine del processo economico.

• Nel sistema capitalistico il capitalista parte dal denaro (capitale),acquista merce per venderla e riconvertirla in denaro (capitale).Marx designa questo processo D-M-D1 (denaro-merce-denaro).La moneta costituisce l’inizio e la fine del processo.Se alla fine del processo D-M-D, la D dell’inizio è uguale alla Ddella fine, l’intero processo non ha senso per il capitalista.L’unico processo che ha senso per il capitalista è D-M-D1, doveD1 cioè sia maggiore di D iniziale. La differenza tra D1 e D è ciòche Marx denomina plusvalore.

In formule• M-D-M è la formula generale dell’economia mercantile.• D-M-D1 è la formula generale del capitalismo.

Scopo della circolazione• Nella forma di circolazione M-D-M il principio motore del mec-

canismo è vendere per comprare. Il denaro circola come semplice mo-neta, e non come capitale.

• Nella forma di circolazione che è propria dell’economia capitalisticaed è espressa da D-M-D, il principio motore del meccanismo ècomprare per vendere. In questa forma di circolazione (e di econo-mia) il denaro circola come capitale.

3. Altre caratteristiche del capitalismo

3.1. Schemi di riproduzione del capitale e teoria della crisi.La caduta tendenziale del saggio di profitto

Gli «schemi di riproduzione del capitale» elaborati da Marx sonola base metodologica dell’analisi per comprendere i meccanismi cheregolano il funzionamento del sistema capitalistico nel suo insieme;

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le condizioni del suo equilibrio, le cause che determinano squilibri,ovvero crisi.

Marx distingue a questo proposito due situazioni del capitale: lariproduzione semplice; la riproduzione allargata.

• La riproduzione semplice è la situazione nella quale la produzionetotale di un determinato periodo (comprensiva sia delle merci de-stinate al consumo individuale, sia dei mezzi di produzione), si ripro-duce negli anni senza mutazioni di grandezza. Tale riproduzionesemplice non ha alcun riscontro nella realtà, essendo niente altroche un’ipotesi teorica utile solo ai fini dell’analisi dell’effettivofunzionamento dell’economia capitalistica. Dice Marx:

La riproduzione semplice su scala invariata appare come una astrazione[…] le condizioni nelle quali si produce non rimangono perfettamenteinvariate in anni differenti (Marx, Il Capitale).

• Marx chiama riproduzione allargata la situazione che viene a de-terminarsi nella realtà. Il capitalista cioè, a valle del ciclo produt-tivo e del suo realizzo, converte di volta in volta una quota delprofitto (spesso la più cospicua) in capitale addizionale. Il capi-tale così aumentato e reimpiegato in un nuovo ciclo produttivogli darà il modo di appropriarsi di un profitto nuovo che il capi-talista convertirà in capitale addizionale, e così a seguire.

Lo sviluppo della produzione capitalista rende necessario un aumentocontinuo del capitale investito […] E la concorrenza impone a ogni ca-pitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitali-stico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere il suo ca-pitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo del-l’accumulazione progressiva.Accumulare significa conquistare il mondo della ricchezza sociale, au-mentare la massa degli umani sfruttati, e così estendere il dominio sia di-retto che indiretto del capitalismo (ivi).

• Circa le dimensioni della riproduzione allargata, esse sono tali daprodurre in modo continuo fenomeni di squilibrio, o «crisi», cioèrotture dell’equilibrio tra i settori produttivi, con la conseguenzadi disinvestimento in un settore e reinvestimento in un altro piùredditizio (con tutto il portato di crisi e disoccupazione di setto-

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re). Non esiste infatti la possibilità di un coordinamento preven-tivo delle decisioni di investimento, essendo le imprese che ope-rano sul mercato indipendenti l’una dall’altra.

La crisi è, dunque, fenomeno ricorrente e strutturale del modo diproduzione capitalistico; solo per caso il sistema può trovarsi in unaposizione di equilibrio.

Il carattere strutturale della crisi appartiene alla fisiologia del ca-pitalismo e del suo sviluppo per via di processi continui di riprodu-zione allargata del capitale. Tale fisiologia tende ad un esito finaledi implosione dell’intero sistema. Esaminiamo infatti la formula chedefinisce il saggio del profitto, e cioè: s = p : (c+v).

Consideriamo che lo schema della riproduzione allargata espri-me la tendenza naturale del capitalismo all’aumento degli investi-menti complessivi e all’incremento degli impieghi in capitale costante ri-spetto a quelli destinati al capitale variabile. Ne consegue che essen-do il plusvalore determinato dal solo capitale variabile, la tendenzadei profitti è a una loro progressiva riduzione, fino allo «spegni-mento» del meccanismo dell’accumulazione. Si può affermare dun-que che nel tempo il capitalismo obbedisce alla legge della cadutatendenziale del saggio del profitto. Era quanto aveva sostenuto an-che Adam Smith.

Marx, in ogni caso, non trae dalla veridicità di tale legge la conse-guenza automatica del crollo del sistema capitalistico. La storia in-fatti non contempla alcun principio meccanicistico come regolatoredelle dinamiche reali che in essa si svolgono. Perché il capitalismovenga meno occorre che si realizzino due condizioni: l’esaurimentodella sua funzione; la sua sostituzione con un sistema di produzione«altro». Gli «automatismi» sono estranei alla storia umana. Comepure non si può credibilmente sostenere che alla crisi della strutturaseguano automaticamente la crisi e la caduta della sovrastrutturagiuridica e politica del capitalismo.

3.2. Produzione-distribuzione-scambio-consumo

Il processo capitalistico nel suo insieme nasce dalla produzione chedetermina distribuzione e consumo. Arrivato al punto del consumo fi-nale il processo riparte cominciando di nuovo dalla produzione.

La produzione è dunque per Marx centrale rispetto all’insieme dei

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momenti in cui si articola il processo produzione-circolazione-con-sumo.

Circa il rapporto esistente tra i diversi momenti distinguibili al-l’interno del processo capitalistico (cioè produzione-distribuzione-scam-bio-consumo), per Marx la produzione abbraccia e supera tanto se stes-sa quanto tali altri momenti.

Distribuzione, scambio, consumo, dunque, costituiscono differenze,momenti differenziati di una unica e comune unità che tutti li compren-de, costituita dall’attività di produzione.

Esprimono cioè differenze interne a una totalità che tutte le comprende,la totalità «produzione», appunto.

Più in particolare:

• Produzione/scambio. Lo scambio (nella sua totalità) è da intendersicome momento della produzione; cioè è incluso in essa (scambio diattività e capacità) oppure è da essa determinato (scambio deiprodotti). La sua stessa intensità, così come la sua espansione e ilmodo, sono determinati dalla organizzazione della produzione edal suo sviluppo. Per esempio lo scambio tra città e campagna; loscambio nella campagna, nella città ecc.

• Produzione/consumo. La produzione crea non solo l’oggetto del con-sumo; essa crea anche il modo di consumo proprio di quello specifi-co oggetto prodotto. La produzione crea quindi il consumatore.Produce non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche unsoggetto per l’oggetto. Dice Marx:

L’oggetto artistico – e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto – crea unpubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico […] La produ-zione produce l’oggetto del consumo, il modo di consumo, l’impulso alconsumo. Allo stesso modo il consumo produce la disposizione del pro-duttore, sollecitandolo in veste di bisogno che determina lo scopo dellaproduzione (Marx, Per la critica dell’economia politica).

• Produzione/distribuzione. La struttura della distribuzione è inte-ramente determinata dalla struttura della produzione. La distri-buzione è essa stessa un prodotto della produzione, non solo perquanto riguarda l’oggetto, e cioè che solo i suoi risultati possonoessere distribuiti, ma anche per quanto concerne la forma, nelsenso che il modo in cui si prende parte alla produzione (da par-

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te degli agenti produttivi lavoro-capitale-terra) determina la for-ma in cui si prende parte alla distribuzione. È assolutamente illu-sorio porre la terra nella produzione, la rendita fondiaria nelladistribuzione, ecc. (ivi).

Affermare la centralità della produzione non significa affermare chela produzione sia indipendente dagli altri momenti del processo, in-differente alle loro dinamiche.

La produzione, nella sua forma unilaterale, afferma Marx, è, daparte sua, determinata dagli altri momenti.

Se, ad esempio, muta la distribuzione (rendita fondiaria, salario,interesse e profitto), la produzione si modifica. Come pure è vero chesono i bisogni del consumo a determinare le scelte della produzione.

Sono sbagliate dunque quelle tesi dell’economia classica che af-fermano l’identità tra produzione-distribuzione-scambio-consumo.

Dice Marx a questo proposito:

La produzione non è soltanto immediatamente consumo, né il consumoimmediatamente produzione; né la produzione è soltanto mezzo per ilconsumo, e il consumo scopo per la produzione. Ciascuno dei due ter-mini non soltanto fornisce all’altro il suo oggetto – la produzione l’ogget-to esterno del consumo, il consumo l’oggetto rappresentato della produ-zione – […] realizzandosi crea l’altro, si realizza come l’altro.[…] Niente di più semplice per un hegeliano che porre la produzione e ilconsumo come identici.E questo è accaduto non solo ad opera di letterati socialisti, ma perfinodi prosaici economisti, come ad esempio Say, nella forma seguente: se siconsidera un popolo o anche l’umanità in abstracto, la sua produzione sa-rebbe il suo consumo. Storch ha dimostrato l’errore di Say facendo osser-vare che un popolo, ad esempio, non consuma il suo prodotto netto macrea anche i mezzi di produzione. Per di più, considerare la società comeun soggetto singolo è considerarla in modo falso […] L’individuo produ-ce un oggetto e consumandolo fa di nuovo ritorno a sé stesso, ma comeindividuo produttivo che riproduce sé stesso. Nella società invece la rela-zione tra il produttore e il prodotto è una relazione esteriore e il ritornodel prodotto al soggetto dipende dalle relazioni in cui lui si trova con glialtri individui. Inoltre l’appropriazione immediata del prodotto non è ilsuo fine (ivi).

Alla centralità della produzione rispetto al processo capitalisticoconsiderato nel suo insieme Marx fa corrispondere la centralità del

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soggetto proletariato – rispetto all’insieme delle figure sociali di cuisi compone la società – come soggetto politico antagonista del capi-tale e del capitalismo. Il cuore della lotta di classe è fino in fondolotta interna alla produzione capitalistica.

3.3. Feticismo delle merci

Marx chiama «feticismo delle merci» quel fenomeno «esclusivo ecaratterizzante» del sistema capitalistico e della società capitalisticaper il quale la relazione sociale «tra le persone» che è alla base delprocesso di produzione dei beni si trasforma in relazione sociale«tra le cose»:

I rapporti tra i produttori, nei quali si afferma il carattere sociale dei lorolavori, assumono la forma di un rapporto sociale tra i prodotti del lavoro(Marx, Il Capitale).

Questo fenomeno è così spiegato da Marx:

La produzione capitalistica è per sua natura «sociale», ma non è «imme-diatamente sociale», non è cioè il risultato di un’associazione che riparti-sce al proprio interno il lavoro […] Gli individui sono sussunti alla pro-duzione sociale la quale esiste come un fatto a loro estraneo; ma la pro-duzione sociale non è sussunta agli individui e da essi controllata comepatrimonio comune (Marx, Gundrisse).

Dunque nel «sistema capitalistico», e soltanto in esso, i rapporti discambio delle merci nascondono i rapporti umani ad essi sottostan-ti; le «cose» (merci), «velano», per così dire, le persone che le hannoprodotte. Le merci appaiono con un’esistenza indipendente da chile ha prodotte, come cose che esistono ed hanno valore di per sé,come cose che danno valore alla persona che le compra, fino alpunto limite dell’«io sono quello che compro».

Non è così nel sistema economico feudale:

Qui troveremo, invece dell’uomo indipendente, servi e signori, sovrani evassalli, laici e chierici. Tale dipendenza personale ci dà i caratteri deirapporti sociali di produzione, come di tutte le altre attività umane, allabase delle quali essa si trova, ed appunto perché la società è basata sulladipendenza personale, tutti i rapporti sociali si presentano come rapportitra persone […] In qualunque modo si vogliano dunque giudicare le ma-

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schere portate dagli uomini in una tale società, i rapporti sociali dellepersone nei loro rispettivi lavori, si precisano con chiarezza quali lororapporti personali, invece di travestirsi da rapporti sociali tra le cose, tra iprodotti del lavoro (Marx, Il Capitale).

«Feticismo delle merci», dunque, dove la merce è immagine sim-bolica, feticcio, appunto, di una vita sociale mercificata e reificata,dove

la dipendenza materiale tra le persone è mediata dalle cose anziché dagliuomini stessi consapevolmente (U. Cerroni, Teoria della crisi sociale in Marx).

Superare concretamente sul terreno dei fatti questa «mistificazio-ne della realtà» e «reificazione dei soggetti umani produttori di be-ni» di cui è sintesi l’espressione «feticismo delle merci» coniata daMarx, è possibile solo alla condizione di una liberazione dell’uomodallo sfruttamento capitalistico:

La vita sociale alla base della quale sono la produzione materiale ed irapporti che questa implica, sarà liberata dalla mistica nebbia che ne velal’aspetto, solo il giorno in cui si manifesterà in essa l’opera di uomini li-beramente associati, che agiscano coscientemente e siano padroni del lo-ro sviluppo sociale; ma ciò richiede nella società un insieme di condizionidi esistenza materiale le quali non potranno essere che il prodotto di unlungo e doloroso svolgimento (Marx, Il Capitale).

Questo traguardo storico lo si può intravedere solo alla condizio-ne di squarciare il velo che nasconde i reali rapporti umani sotto-stanti alla produzione capitalistica a partire dal riconoscimentodella specifica natura di «merce» del prodotto «capitalistico».

Dice Marx:

Se le merci potessero parlare direbbero: il nostro valore d’uso può inte-ressare gli uomini; noi, in quanto siamo oggetti, ce ne ridiamo. Lo provail nostro mutuo rapporto in quanto cose da vendita e da compera; ci con-sideriamo l’un l’altra solo come valori di scambio (ivi).

3.4. General intellect

Marx introduce la nozione di general intellect nel Frammento sullemacchine contenuto nei Gundrisse (1858), insieme di riflessioni teori-

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che incentrate sul tema delle forme storiche dell’economia e suglisviluppi del capitalismo.

Il general intellect è la locuzione con cui Marx indica il «sapereastratto», ovvero l’insieme delle conoscenze umane (non solo scien-tifiche) incorporate nelle macchine utilizzate nel processo di produ-zione capitalistico.

La locuzione general intellect non compare direttamente ne Il Ca-pitale.

In esso Marx declina la nozione di general intellect con il terminelavoro indiretto (o passato), cioè lavoro oggettivato nei macchinari eimpianti; come pure, nella parte de Il Capitale in cui analizza lacomposizione del valore delle merci, il general intellect viene ricom-preso da Marx nel capitale costante (mezzi di produzione).

Marx in particolare osserva che il patrimonio dei saperi umani incontinua ed esponenziale crescita ed utilizzazione nel processo pro-duttivo capitalistico è destinato a divenire la principale forza pro-duttiva, con un ruolo sempre più preponderante rispetto al «lavorovivo».

4. Marx scienziato, filosofo, rivoluzionario

Marx opera intellettualmente e praticamente (filosofia della pra-xis) su tre terreni, l’economia, la filosofia della storia, la politica, la-sciando su ciascuno di questi campi un’impronta di pensiero e diimpegno militante innovativa e rivoluzionaria.

Circa l’economia Marx conduce un’analisi rigorosamente scientifi-ca della forma economica «capitalismo» sulla base della quale risaleal suo «genoma» e alle leggi che ne governano il funzionamento.

Sul terreno filosofico Marx, oltre a prendere le distanze da unaidea della filosofia come pura riflessione, come esercitazione dellefacoltà raziocinanti e logiche della mente umana, e a professarsi«filosofo della praxis», contrappone alla «concezione idealistica» delmondo e della storia (concezione dominante e comune agli hegelia-ni ortodossi come agli hegeliani di sinistra), la «concezione materia-listica», in cui la storia materiale degli esseri umani e delle loro rela-zioni sociali è la risultante dei rapporti di produzione economicache di volta in volta diventano dominanti e delle gerarchie classisteche tali rapporti producono.

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Infine, sul terreno della politica, Marx non solo è, con Engels,l’ideatore di un’ipotesi di società senza più classi, di «liberi e ugua-li», cioè la società comunista che disegna e presenta con la pubblica-zione del Manifesto del partito comunista, ma è anche il fondatore el’apostolo del partito e del movimento comunista internazionale edel suo programma rivoluzionario.

Marx dedicherà la sua vita alla militanza delle sue idee rivoluzio-narie passando dalla Lega dei giusti alla Lega dei comunisti, allaLega universale dei comunisti rivoluzionari. Per Marx non era più iltempo di commentare il mondo ma di cambiarlo.

Rivoluzione delle idee (filosofia della praxis; concezione materia-listica della storia contro la concezione idealistica) e rivoluzione po-litica (superamento dello Stato borghese e costruzione della societàcomunista) sono dunque, in generale, gli aspetti connotativi delMarx pensatore e politico.

Più in particolare Marx produce alcune «visioni altamente inno-vative» nel campo dell’economia, dell’etica, della storia umana e so-ciale che richiamiamo per «titoli»:

1) la visione del presente come storia, e non riduttivamente come«assoluta immediatezza»;

2) l’orizzonte e la prospettiva mondiale del capitalismo che nonpuò, per sua natura, rimanere ristretto dentro confini nazionali elocali; il fondamento conflittuale dei rapporti di classe in fabbricae nella società e l’inevitabilità di una presa di posizione per l’uncampo o l’altro;

3) la messa in evidenza di come il denaro e non la merce sia l’ori-gine e il fine del processo di produzione capitalistico. Il denaronon è semplicemente un «mezzo» per gli scambi di mercato, néun «deposito di valore» di merci e beni economici. Il denaro èsoprattutto lo specifico prodotto del sistema di produzione capi-talistico espresso dalla formula D-M-D1, e cioè produzione di de-naro per mezzo di denaro. Non è forse la crescente finanziarizza-zione dell’economia dei nostri tempi la conferma della scientificitàdell’analisi marxiana del capitalismo?

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Nella storia del pensiero economico vi è stata una sostanzialecontemporaneità di elaborazione delle teorie classica, marxiana,neoclassica. Le teorie neoclassiche dunque non nascono a valle dellealtre citate teorie. Seppure hanno teso ad affermarsi solo successi-vamente.

I maggiori pensatori della Scuola neoclassica furono William Je-vons (1835-1882), Carl Menger (1840-1921), Leon Walras (1834-1910).

Quali i fondamenti della Scuola neoclassica?Ne evidenziamo due, e cioè: la riformulazione della teoria del va-

lore delle merci; il tema della formazione del profitto.

1. Teoria del valore dei neoclassici

Di fronte alla critica ideologica, politica ed etica, del sistema capi-talistico da parte del crescente movimento socialista, era avvertital’esigenza di una riformulazione della teoria del valore che fornisseuna giustificazione dei redditi da capitale, che non fosse quella dellosfruttamento del lavoro (Marx), o la proprietà giuridica dei mezzi diproduzione (classici).

Le teorie classiche giustificavano eticamente i redditi da capitalecon il «sacrificio» che l’accumulazione del capitale comporta richie-dendo l’anticipazione dei salari e la posticipazione dei consumi daparte dei capitalisti, i quali dunque non sono altro che «lodevoli ri-sparmiatori».

Il punto di partenza dei neoclassici è che il lavoro speso nella

5.I neoclassici

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produzione della merce è cosa passata, che non ha cioè influenza sulsuo valore.

Per i neoclassici il valore di una merce è determinato dalla gran-dezza della sua «utilità marginale», cioè dal grado finale di utilitàper il consumatore acquirente.

Per «utilità marginale», ovvero grado di utilità finale di un bene,si intende l’incremento di soddisfazione, o di utilità, che una varia-zione infinitesimalmente piccola della quantità di un bene arreca alconsumatore.

Superata la soglia dell’utilità marginale il valore del bene decre-sce e con esso diminuisce il prezzo a cui il consumatore è disposto acomprarlo.

• Il valore economico di un bene è regolato dal valore d’uso e nongià dal valore di scambio.

Questo concetto viene elaborato in forma di teoria dell’utilità mar-ginale (da cui la definizione dei neoclassici come «marginalisti»).

Con la teoria dell’utilità marginale la psicologia del consumatoregenerico diventa il dato primario che determina i valori relativi as-segnati alle merci.

La coscienza individuale diviene così il centro da cui discendonole leggi che regolano la società. La scienza economica ha il compitodi ricercare le leggi che regolano le azioni individuali, e di dedurredalle azioni economiche individuali le leggi dell’economia. PerMarx, le leggi che regolano la produzione sociale e quindi i rappor-ti tra gli individui sociali, non solo non dipendono dalla volontà edalle intenzioni degli uomini, ma al contrario li determinano. Untotale capovolgimento di visione e ragionamento!

Il soggettivismo dei neoclassici prescinde del tutto, dunque, dalcarattere storico delle categorie economiche; il suo fondamento è lanaturalità.

Il consumo, i bisogni, i desideri sono caratteristiche naturali, cioèappartenenti da sempre a ciascun individuo umano e riscontrabiliin ogni epoca storica.

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PARTE SECONDA

L’accumulazione primitiva

a cura di Gianni Di Cesare

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Lo studio di Marx contenuto nel libro primo de Il Capitale circa leorigini del modo di produzione capitalistico ricostruisce il processostorico che determinò la concentrazione di grandi ricchezze laiche e/oecclesiastiche nelle mani di una classe sociale «nuova», la classe dei fit-tavoli capitalisti e dei capitalisti industriali, e al tempo stesso spossessòcoltivatori e artigiani dei mezzi di produzione con cui avevano fino adallora provveduto al sostentamento personale e famigliare, trasfor-mandoli così da «lavoratori autonomi» in «lavoratori salariati». Unaclasse sociale «nuova» anch’essa, composta cioè da lavoratori costretti avendere la propria forza lavoro al capitalista in cambio di un compen-so economico con cui provvedere alla propria sussistenza.

Marx dà a questa classe sociale «nuova» il nome appropriato di«proletariato», connotando questa parola una particolare condizio-ne umana in cui il salariato/proletario trae dai figli, dalla «prole», la«forza lavoro» da vendere al capitalista per ricavarne il necessarioper vivere.

Dice Marx:

Il movimento storico che separa il lavoro dalle condizioni esterne, ecco lachiave di quell’accumulazione che viene chiamata primitiva perché ap-partiene alla preistoria del capitale […] Perché nasca il sistema capitali-stico è dunque necessario che i mezzi di produzione, almeno in parte,siano già strappati dalle mani dei produttori (Marx, Il Capitale).

Circa «il modo» di questa espropriazione, esso fu caratterizzatodall’arbitrio dei più forti, dalla violenza degli espropriatori, dallacopertura e del sostegno che essi ebbero da parte degli Stati e deilegislatori:

1.Il segreto dell’accumulazione primitiva

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Negli anni della vera storia, la causa è vinta sempre dalla conquista, dallatirannia, dalla rapina a mano armata, dal sopravvento della forza brutale;nei manuali di economia politica ha invece imperato in ogni tempo l’idillio[…] La storia della loro espropriazione non è materia di congetture: èscritta negli annali dell’umanità a lettere indelebili di sangue e fuoco (ivi).

Questa verità storica, che Marx documenta nel capitolo 24 del li-bro primo de Il Capitale, relativamente al modo in cui originaria-mente avvenne l’accumulazione originaria del capitale, smentisce esbugiarda le spiegazioni che i classici, da A. Smith a J.S. Mills, ave-vano accreditato quando avevano fatto risalire le fortune economi-che della borghesia capitalistica alla virtù del risparmio.

Dice a questo proposito Marx con malcelata ironia:

Questa accumulazione primitiva in economia politica fa la parte del pec-cato originale in teologia: Adamo mangia il frutto proibito ed ecco ilpeccato fare il suo ingresso nel mondo.La storia del peccato originale ci mostra bene, in verità, come l’uomo siastato condannato dal Signore a guadagnarsi il pane con il sudore dellafronte, ma quella del peccato economico colma una lacuna rivelandocicome vi siano uomini che si sottraggono al precetto del Signore (ivi).

Lo studio di Marx dunque porta alla luce la mistificazione con cuila cultura borghese dominante ha sempre coperto, fin dai padri delliberalismo, l’atto di nascita della classe dei capitalisti. Come puredemistifica l’immagine «progressista» del capitalismo rispetto alleforme economiche che esso soppianterà, insinuando qualche fonda-to dubbio circa «l’assolutezza» di un giudizio storico sbilanciato sullasua totale positività.

Dice Marx a questo proposito:

Il movimento storico che trasformò i produttori in salariati si presenta comela liberazione dalla servitù (della gleba) e dalla gerarchia industriale (regi-me delle corporazioni); […] parte di questi liberti diventano venditori di séstessi solo quando sono stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione edi tutte le garanzie all’esistenza che offriva il precedente stato di cose […]Quanto ai capitalisti imprenditori […] dovevano non solo prendere il postodei maestri d’arte, ma anche dei detentori feudali delle fonti della ricchez-za; sotto questo aspetto il loro avvento si presenta come il risultato di unalotta vittoriosa contro il potere dominicale, contro i suoi smisurati privilegi,contro il regime corporativo e gli ostacoli che frapponeva al libero sviluppodella produzione e alla libera speculazione dell’uomo sull’uomo (ivi).

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Circa la datazione del «modo di produzione capitalistico», Marx farisalire l’affermazione di una economia capitalistica diffusa – perquanto ancora convivente con le preesistenti forme economiche(feudale, mercantile) – al XVI secolo, quando ormai si è esaurito ilfeudalesimo ed è giunta al tramonto definitivo la civiltà dei Comuni.

Anche se i primi passi della produzione capitalistica furono fatti moltopresto in alcune città del Mediterraneo, l’era capitalistica data solo alXVI secolo e dovunque nasce è già da tempo un fatto compiuto l’aboli-zione della schiavitù ed in piena decadenza il regime dei comuni, gloriadel medioevo (ivi).

Circa i grandi fatti storici che determinarono «l’accumulazioneprimitiva», cioè l’improvvisa concentrazione di grandi fortune eco-nomiche nelle mani di appartenenti alle classi borghesi europee,(fortune poi riconvertite in moneta e impiegate come capitale perl’avvio di attività produttive condotte nel «modo capitalistico»),Marx distingue i seguenti momenti:

a) accumulazione di capitale usurario e di capitale commerciale nelcorso dell’economia feudale utilizzato solo successivamente al su-peramento della servitù della gleba;

b) accumulazione di capitale derivante da espropriazione della po-polazione rurale;

c) accumulazione derivante dallo sfruttamento delle Americhe edelle Indie orientali;

d) accumulazione derivante dalle guerre commerciali tra Spagna,Inghilterra, Olanda, Francia, Portogallo;

e) accumulazione derivante dal finanziamento del debito pubblicodegli Stati europei.

Marx tratta l’insieme dei punti c), d), e) nel capitolo 24 del libroprimo de Il Capitale intitolato «Nascita del capitalista industriale»,mentre dedica una ricostruzione storica molto dettagliata e docu-mentata all’accumulazione primitiva derivata dall’espropriazionedella popolazione rurale in Inghilterra collocata storicamente neltardo medioevo.

Le radici del capitalismo dunque affondano nel feudalesimo tra-montante.

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Alla base dell’«accumulazione primitiva» c’è l’impossessamento el’espropriazione forzata da parte della nascente classe borghese(siamo nel basso Medioevo) delle terre feudali e delle terre comu-nali dalle quali fino ad allora i coltivatori agricoli e le loro famiglieavevano ricavato il necessario per vivere.

Marx fa dell’Inghilterra il «caso di studio» di questi specifici avve-nimenti con un’esposizione dettagliata di fatti corredata da note sullefonti storiche degli stessi, precisando tuttavia che in tutti gli altri pae-si d’Europa avvennero processi espropriativi analoghi, seppure inInghilterra ebbero carattere più generale e più radicale che altrove:

Nella storia dell’accumulazione primitiva fa epoca ed agisce da leva perl’avanzata della classe capitalistica in formazione ogni rivoluzione, so-prattutto quelle che spogliando le grandi masse dei loro tradizionalimezzi di produzione e di esistenza, le getta all’improvviso sul mercato dellavoro. Ma a base di tutta questa evoluzione c’è l’espropriazione dei colti-vatori. Questa solo in Inghilterra si è compiuta finora in modo radicale.Questo paese occuperà quindi una parte importante in questo nostrostudio. Ma in tutti gli altri paesi d’Europa ha lo stesso sviluppo.

Nel corso del racconto storico Marx richiama l’attenzione sullacircostanza che al momento dell’inizio dell’espropriazione la servitùdella gleba era già superata in Inghilterra:

In Inghilterra la servitù era di fatto scomparsa verso la fine del XIV se-colo; l’immensa maggioranza della popolazione era allora composta, e inmodo più completo nel XV secolo, di contadini liberi che coltivavano laterra qualunque fosse il titolo feudale appiccicato al diritto che ne dava ilpossesso (Marx, Il Capitale).

2.L’espropriazione della popolazione rurale

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Marx dà quindi conto delle figure sociali che il superamentodella servitù della gleba aveva «liberato»:

Negli antichi domini feudali l’antico podestà, anche egli servo, aveva la-sciato il posto al fittavolo indipendente; i salariati rurali in parte eranocontadini che nel tempo lasciatogli libero dai campi si affittavano ai grandiproprietari, in parte una classe particolare, poco numerosa, di braccianti.Ma anche questi in una certa misura erano coltivatori in proprio dato cheoltre al salario veniva loro concesso un campo di almeno quattro acri concottages; inoltre godevano in concorrenza ai contadini propriamente dettidei beni comunali nei quali facevano pascolare il proprio bestiame e sifornivano di legna, torba, ecc. per il riscaldamento (ivi).

Marx ricostruisce quattro «grandi forme» in cui avvenne l’espro-priazione della popolazione rurale in Inghilterra nel corso di circa unsecolo e mezzo, sempre accompagnata da violenze e soprusi: a) la «li-quidazione dei lasciti signorili da parte delle nascenti Monarchie»; b)«l’occupazione delle terre comunali»; c) la «trasformazione delle terreagricole in pascolo»; d) «l’espropriazione delle terre della Chiesa».

Le prime due «grandi forme» riconducono alle lotte per il poteretra monarchie e nobiltà feudale una concatenazione di avvenimenti.Da una parte la nascente borghesia appoggiò l’ascesa del potere re-gio contro i signori feudali ricevendone in cambio parte delle loroterre, dall’altra i signori feudali spodestati, occuparono per rivalsale «terre comunali», un’antica «istituzione» germanica sopravvissutanel feudalesimo.

Ciascuno di questi scontri politici provocò mutamenti sociali; inparticolare il consolidamento dei ceti borghesi e la nascita di unanuova figura lavorativa/sociale: il «proletario».

Dice Marx:

La rivoluzione che doveva costruire la prima base del regime capitalisticoebbe un preludio all’ultimo terzo del XV secolo e ai principi del XVI.Allora il licenziamento di numerosi «seguiti signorili» lanciò improvvisa-mente sul mercato del lavoro una massa di proletari senza tetto né foco-lare. Benché il potere regio sorto dallo sviluppo borghese nella sua ten-denza alla sovranità assoluta fosse spinto a sostenere questo licenzia-mento con misure violente, non ne fu la sola ragione; i grandi signori inguerra aperta con la monarchia e il Parlamento crearono un proletariatoancora più considerevole usurpando i beni comunali dei contadini edespellendoli da quelle terre delle quali erano in possesso allo stesso titolofeudale dei loro padroni (ivi).

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Il terzo grande fenomeno espropriativo fu quello della trasfor-mazione di vasti territori agricoli in terre di pascolo da parte deicapitalisti delle manifatture laniere; trasformazione conseguita an-ch’essa con l’uso della violenza e che buttò sulla strada enormi mas-se di contadini e braccianti:

In Inghilterra quegli atti di violenza ebbero luogo soprattutto in conse-guenza dell’espandersi delle manifatture laniere delle Fiandre […] lanuova figlia dei tempi (la borghesia) considerava il denaro come potenzadelle potenze. Il suo grido di guerra fu: trasformazione delle terre arativein pascoli […] Le case dei contadini e i cottages dei lavoratori furono d’uncolpo rasi al suolo o condannati a cadere in lenta rovina (ivi).

Gli effetti di questa violenta rivoluzione economica furono pesan-tissimi per la popolazione rurale coinvolta. Marx dà, a questo ri-guardo, la parola agli storici inglesi:

Rev. Addington:Nel Northamptonshire e nel Lincolnshire si è proceduto alla chiusura deiterreni comunali in grande e la maggior parte delle nuove proprietà si-gnorili sorte da questa operazione sono state convertite in pascoli, inmodo che dove si coltivavano 1500 acri di terra, se ne coltivano ora solocinquanta […] Rovine di case, di granai, di stalle ecc. sono le sole traccelasciate dagli antichi abitatori. In molti luoghi centinaia di famiglie e diabitazioni sono state ridotte ad otto o dieci; nella maggior parte delleparrocchie nelle quali la chiusura data soltanto dagli ultimi quindici,venti anni, c’è un numero di proprietari piccolissimo […] e non è rarovedere quattro o cinque allevatori di bestiame usurpare domini da pocotempo chiusi che prima erano in possesso di venti o trenta fittavoli o diun gran numero di piccoli proprietari e di coltivatori (ivi).

Dott. R Price, 1845:La condizione delle classi inferiori della popolazione è peggioratasotto ogni rapporto; piccoli proprietari e piccoli fittavoli sono stati ri-dotti alle condizioni di giornalieri e di mercenari, e è allo stesso tempodiventato più difficile guadagnarsi la vita in queste condizioni […] dal1765 al 1780 il loro salario incominciò a cadere al di sotto del minimum[…] non era più sufficiente alle prime necessità della vita […] Nel XIXsecolo si è perduto perfino il ricordo dell’intimo legame che univa ilcoltivatore al suolo comunale. Ha ricevuto forse mai il popolo dellecampagne un centesimo di indennità per i 3.511.570 acri di terra chegli vennero estorti dal 1801 al 1831 e che i landlords si sono reciproca-

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mente regalati con dei bill di chiusura […] La duchessa di Sutherland,questa donna ammaestrata dall’esperienza, non appena prese le redinidell’amministrazione decise di fare ricorso ai grandi mezzi converten-do in pascolo l’intera contea […] Dal 1814 al 1820 questi 15.000 indi-vidui che costituivano circa 3.000 famiglie furono espulsi in modo si-stematico, i loro villaggi distrutti e bruciati, i loro campi trasformati inpascoli […] Così la nobile donna si impossessò di 794.000 acri di ter-reno […] nel 1825 i 15.000 proscritti avevano ceduto il loro posto a131.000 pecore (ivi).

Marx conclude questo capitolo dell’analisi storica con una cita-zione dello storico Thornton:

In Inghilterra la classe lavoratrice precipitò senza alcuna transizione dal-l’età dell’oro a quella del ferro (ivi).

L’espropriazione delle terre (e dei beni) della Chiesa cattolica è la«quarta forma» di espropriazione subita dalla popolazione ruraleinglese ed europea.

Dice al riguardo Marx:

Le riforme, e l’espropriazione dei beni delle chiese che ne fu la conse-guenza, vennero a dare un nuovo formidabile impulso alla espropriazio-ne violenta del popolo nel XVI secolo. Gli stessi beni del clero cadderotra le mani dei favoriti di casa reale e vennero venduti a prezzi irrisori aicittadini, ai fittavoli speculatori che iniziarono un’espulsione di massa deivecchi possessori: il diritto di proprietà dei poveri su una parte delle de-cime ecclesiastiche venne tacitamente confiscato. Negli ultimi anni delXVII secolo la Yeomanry, classe di contadini indipendenti, la «proudpeasanery» di Shakespeare, sorpassava ancora in numero la classe deifittavoli […] verso il 1750 la Yeomanry era scomparsa.

Marx conclude lapidariamente questa ricostruzione storica:

La spoliazione dei beni della Chiesa, la fraudolenta alienazione dei do-mini dello Stato, il saccheggio delle terre comunali, la trasformazioneterroristica e usurpatrice della proprietà feudale e patriarcale in pro-prietà privata moderna, la guerra delle capanne: ecco gli idillici proce-dimenti dell’accumulazione primitiva che hanno conquistato all’agricol-tura capitalistica la terra incorporandola nel capitale ed abbandonandoall’industria cittadina le docili braccia di un proletariato senza focolarené tetto (ivi).

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La creazione di un proletariato senza focolare né tetto procedeva neces-sariamente più rapidamente del suo assorbimento nelle manifatture. D’al-tra parte quegli uomini strappati bruscamente alle loro abituali condi-zioni di vita non potevano adattarsi immediatamente al nuovo ordine so-ciale: ne sortì una massa di mendicanti, di ladri e di vagabondi […] Per-ciò nell’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vaga-bondaggio: i padri dell’attuale classe operaia furono puniti per esserestati ridotti allo stato di vagabondi e poveri, la legge li trattò come vo-lontari malfattori, partì dal presupposto che dipendesse dal loro liberoarbitrio continuare a lavorare come nel passato, quasi che non fosse in-tervenuto alcun cambiamento nella loro condizione (Marx, Il Capitale).

Ecco tratteggiato da Marx, magistralmente, il quadro delle gra-vissime contraddizioni e squilibri sociali determinati dell’avvento del-l’economia capitalistica, dei fenomeni di disoccupazione di massa edi povertà estrema conseguenti all’espropriazione delle popolazionirurali e alle trasformazioni in pascolo delle superfici agrarie. La let-tura che la politica del tempo fa di questo nuovo quadro sociale incui crescono a dismisura i diseredati e gli emarginati è una letturacinica che riduce questi grandi rivolgimenti sociali a una questionedi ordine pubblico, e dunque di dura repressione penale dei disoc-cupati che cerchino di sopravvivere con l’elemosina.

Marx documenta la legislazione prodotta dai governanti dell’e-poca:

Enrico VII:I mendicanti vecchi e incapaci al lavoro ottengono il permesso di chiede-re la carità, ma i vagabondi robusti sono condannati alla frusta e al carce-re. Attaccati dietro a un carretto devono subire la fustigazione fino a

3.Legislazione sanguinaria contro gli espropriati

dalla fine del secolo XV

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quando non schizzi sangue dal loro corpo, e poi sono costretti a pro-mettere con giuramento di ritornare al loro paese natale e di «rimettersial lavoro» (ivi).

Enrico VIII:Questa legge fu trovata troppo mite nel ventisettesimo anno di regno diEnrico VIII. Il Parlamento aggravò le pene. In caso di prima recidiva ilvagabondo deve essere frustato di nuovo ed avere un orecchio mozzato ametà; alla seconda dovrà essere considerato un traditore e giustiziatocome nemico dello Stato (ivi).

Edoardo VI:Uno statuto del primo anno di regno (1547) ordina che qualsiasi indivi-duo refrattario al lavoro sarà aggiudicato come schiavo alla persona che loavrà denunciato come accattone. (In modo che per avere a proprio profittoil lavoro di uno sventurato non c’era che denunciarlo come refrattario allavoro.) Il padrone deve nutrire questo schiavo a pane e acqua, dargli ditanto in tanto qualche bevanda leggera e quei resti di carne che crederà;ha diritto di costringerlo ai più ripugnanti lavori servendosi a questoscopo della frusta e della catena […] Il padrone può venderlo (ivi).

Elisabetta:Sotto il regno materno e virginale della Queen Bess (1572) i vagabondifurono impiccati in massa. Non passava anno, dice Styrpe nei suoi annali,senza che ne fossero impiccati tre o quattrocento […] il solo Somerset-shire contò in un anno quaranta giustiziati, trentacinque marchiati con ilferro rovente, trentasette fustigati e centottantatré fannulloni incorreggibiliincarcerati. Pure – aggiunge questo filantropo – questo gran numero di ac-cusati non risponde neanche a un quinto dei delitti commessi, per la non-curanza dei giudici di pace e per la stupida compassione del popolo (ivi).

Giacomo I:I vagabondi restii devono essere marchiati di una r sulla spalla sinistra ese nuovamente sorpresi a mendicare, appiccati senza misericordia pri-vandoli dell’assistenza religiosa (ivi).

A tanta crudeltà disumana si oppongono le coscienze più avanza-te dell’epoca, e tra queste il cancelliere del regno Tommaso Moroche successivamente sarà mandato a morte da Enrico VIII. Marx ri-chiama a questo scopo un passo contenuto nel libro Utopia di Tom-maso Moro:

Così avviene che un ghiottone avido e insaziabile, vero flagello del paeseche gli ha dato i natali, si può impossessare di migliaia di arpenti di terra

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circondandoli con steccati e siepi e tormentandone i proprietari con in-giustizie che li costringono a vendere tutto, in modo che, volenti o no-lenti, se ne vadano, povera gente, cuori semplici, uomini, donne, orfani,vedove, madri, con i loro bimbi, con tutto il loro avere […] E quandohanno errato di qua e di là e mangiato fin l’ultimo soldo, cosa possonofare se non rubare – e allora, o Signore, essere impiccati con ogni dovutaforma – o andare mendicando? Ed anche in tale caso vengono gettati inprigione come vagabondi perché conducono vita errante e non lavorano,proprio essi cui nessuno al mondo vuol dare lavoro, per premurosi chesiano ad offrirsi per ogni genere di faccende (ivi).Dice Marx conclusivamente rispetto alla citazione:

Di questi sventurati fuggiaschi di cui Tommaso Moro, loro contempora-neo, dice che furono costretti a vagabondare e rubare, 72.000 vennerogiustiziati sotto il regno di Enrico VIII […] Queste leggi furono abolitesolo nel 1714 (ivi).

Infine Marx cita in modo volutamente sommario altri esempi eu-ropei di «legislazione sanguinaria» analoghi alle leggi emanate dairegnanti inglesi:

In Francia […] si trovano delle leggi simili. Fin dal principio del regno diLuigi XVI (Ordinanza del 23 luglio 1777) qualunque uomo sano e bencostituito tra i 16 e i 60 anni, trovato senza mezzi per l’esistenza e senzaoccupazione, doveva essere inviato in galera. Lo stesso si trova nelloStatuto di Carlo V per i Paesi Bassi, dell’ottobre 1537, nel primo Edittodegli Stati e delle Città d’Olanda del 19 marzo 1694, in quello delle Pro-vince Unite del 25 giugno 1649 ecc. (ivi).

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Dice Marx:

Nel corso abituale delle cose il lavoratore può essere abbandonato all’azio-ne delle «leggi naturali» della società, ossia alla dipendenza dal capitale.Nel corso della genesi storica della produzione capitalistica ciò va in unmodo diverso: la borghesia nascente non può fare a meno dell’interventodello Stato e se ne serve per regolare il salario, per comprimerlo a livelloconveniente, per prolungare le giornate di lavoro […] Questo è un mo-mento essenziale dell’accumulazione primitiva (Marx, Il Capitale).

Questa affermazione generale viene quindi datata da Marx, e ladatazione storica collocata a metà del XIV secolo dimostra che findai suoi albori il capitalismo ebbe il favore e il sostegno decisividello Stato, e il diritto di sfruttamento dei lavoratori da parte delcapitalista fu legalizzato «da subito».

Dice Marx:

La legislazione sul lavoro salariato fu inaugurata in Inghilterra nel 1343dallo Statute of Labourers di Edoardo III, Statuto del quale esiste inFrancia l’equivalente nell’ordinanza del 1350 promulgata da Re Giovan-ni. La legislazione inglese e quella francese seguono un corso parallelo eil loro contenuto è identico (ivi).

Siamo, come detto, agli albori del «modo di produzione capitali-stico» che è ancora assolutamente minoritario rispetto ai «modi diproduzione contadino e artigianale». In questo contesto storico i la-voratori salariati, per altro, sono una nettissima minoranza rispettoai lavoratori autonomi (contadini e artigiani) e godono di tutele dicui verranno privati mettendosi alle dipendenze del capitalista.

4.Le leggi sui salari

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Dice Marx:

La classe dei salariati nella ultima metà del XIV secolo costituiva allora, enel secolo seguente, una parte minima della popolazione. La sua posi-zione era protetta solidamente in campagna dai contadini indipendenti,in città dal regime delle corporazioni, ed in campagna come in città pa-droni e operai non erano socialmente molto lontani.Il modo tecnico di produzione non aveva ancora un carattere specifica-mente capitalistico, la subordinazione del lavoro al capitale era pura-mente formale. L’elemento variabile del capitale (forza lavoro) superavadi molto l’elemento costante (macchinari) (ivi).

Tuttavia, quanti lavorano nell’impresa capitalistica nel tardo me-dioevo come salariati, hanno a che fare non solo con la «legge delpadrone», ma anche con quella dello Stato, tesa a rafforzare la pri-ma, come spiega Marx:

Lo Statute of Labourers venne promulgato su viva istanza della Cameradei Comuni, ossia dei compratori di lavoro […] Venne stabilita una ta-riffa legale dei salari per la città e per la campagna, per il lavoro a cotti-mo e per quello a giornate, che i braccianti dovessero essere assunti perun anno […] fu proibito sotto pena di carcerazione di pagare più del sa-lario fissato, ma incorreva in una punizione più severa chi percepiva unsalario superiore che chi lo pagava (ivi).

La legislazione ebbe quindi uno sviluppo continuo nel corso deltempo che Marx segnala con molteplici riferimenti storici:

In base allo Statuto di Elisabetta sul tirocinio i giudici di pace, e lo dob-biamo ripetere che non erano giudici nel senso vero della parola maLandlords, manifatturieri, pastori ed altri membri delle classi ricchefacenti funzioni di giudici, vennero autorizzati a fissare i salari e a mo-dificarli secondo il valore delle stagioni e dei prezzi delle merci. Giaco-mo I estese tutte le leggi contro le coalizioni operaie a tutte le mani-fatture […] Uno statuto del 1630 sanciva pene ancora più dure […] Icontratti, i giuramenti ecc. con i quali muratori e carpentieri si impe-gnavano tra di loro venivano dichiarati nulli […] le coalizioni operaieconsiderate pari ai più gravi delitti, e tali rimasero dal XIV secolo finoal 1825 (ivi).

Solo agli inizi del XIX secolo gli Stati tornano indietro dalle leggiclassiste in favore dei capitalisti emanate nel corso di circa cinque-cento anni a fare data dalla metà del XIV secolo:

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Infine nel 1813 furono abrogate le leggi sulla limitazione dei salari, cheinfatti non erano più che un ridicolo anacronismo in un’epoca in cui ilfabbricante dominava di propria autorità gli operai con quegli edittichiamati «regolamenti di fabbrica […] Alcuni bei residui degli Statutiscomparvero solo nel 1859 […] Finalmente con la legge del 29 giugno1871 si pretese cancellare anche gli ultimi avanzi di questa legislazioneclassista riconoscendo l’esistenza legale alle Trade Unions (società ope-raie di resistenza). Ma con una legge supplementare della stessa data leleggi contro le coalizioni sono ristabilite in una forma nuova (ivi).

Un lungo percorso, dunque, di deregolazione del salario e diprogressivo riconoscimento da parte della legislazione statale dellacontrattazione collettiva come fonte regolativa di esso.

Marx a questo proposito evidenzia argutamente che la stessa ri-voluzione francese non era riuscita a liberare i lavoratori dal giogodelle leggi classiste sul salario precedentemente varate.

Fin dall’inizio della bufera rivoluzionaria la borghesia francese ebbe ilcoraggio di privare la classe operaia di quel diritto di associazione cheappena aveva conquistato. Con una legge del 14 giugno 1791 ogni ac-cordo tra lavoratori venne definito «attentato contro la libertà e contro ladichiarazione dei diritti dell’uomo», punibile con un’ammenda di 500franchi e con la privazione per un anno dei diritti di cittadinanza attiva[…] Nemmeno il regime del terrore oserà metterci mano e solo in tempirecentissimi è stato cancellato dal codice penale (ivi).

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Dopo aver considerato la creazione violenta di un proletariato senza fo-colare né tetto, la disciplina sanguinaria che lo trasforma in classe di sa-lariati, l’ignobile intervento dello stato diretto a favorire la speculazionesul lavoro e per conseguenza l’accumulazione del capitale, ignoriamo an-cora quale sia l’origine del capitalista – perché è chiaro che l’espropria-zione delle campagne produce direttamente solo i grandi proprietarifondiari (Marx, Il Capitale).

Dunque Marx, dopo aver descritto le forme in cui si realizzò sto-ricamente l’accumulazione primitiva dei capitali, passa ad esamina-re più da dentro il processo storico di formazione della borghesiacapitalista, incentrando l’analisi, distintamente, su due figure im-prenditoriali: il fittavolo capitalista (cioè il capitalista agrario), e ilcapitalista industriale.

La figura del fittavolo capitalista è una evoluzione del fittavolo li-bero. A metà del XIV secolo (come già detto), in Inghilterra il fitta-volo feudale è già superato dal fittavolo libero, ed esistono solo con-tadini liberi e braccianti salariati (non più servi della gleba).

Dice Marx:

Quanto alla genesi del fittavolo capitalista […] è un movimento che sisvolge lentamente, abbracciando dei secoli […] In Inghilterra il fittavolosi presenta in principio sotto la forma del Baliff (gastaldo), egli stesso unservo; la sua condizione assomiglia a quella del «villicus» di Roma antica,con un più ristretto campo d’azione.Nella seconda metà del XIV secolo viene sostituito dal libero fittavolo,che il proprietario fornisce di tutto il capitale necessario, sementi, be-stiame, strumenti di lavoro: la sua condizione è poco differente da quelladei contadini se non perché specula su un maggior numero di braccianti,

5.Genesi del fittavolo capitalista

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e ben presto diventa mezzadro, colono parziario […] Questo sistema diconduzione di fattorie mantenutosi tanto tempo in Francia, in Italia ecc.,scompare rapidamente in Inghilterra per far posto all’affitto propria-mente detto nel quale il fittavolo anticipa e fa fruttare il capitale serven-dosi di salariati, e paga al proprietario una parte del sovraprodotto an-nuo, in natura o in denaro […] a titolo di rendita fondiaria (ivi).

L’affermazione piena del capitalismo agrario avviene, affermaMarx, nel XVI secolo, cioè a circa un secolo e mezzo dalle primeesperienze di conduzione capitalistica dell’agricoltura. Più di un fat-tore determina il successo progressivo dell’impresa capitalistica.

Il primo fattore è individuabile nel progresso culturale e tecnicorealizzato dalla gestione capitalistica dell’impresa agricola:

Pur diminuendo sempre di numero, la terra dette una rendita uguale,forse anche superiore a quella del passato perché la rivoluzione nellecondizioni della proprietà fondiaria si accompagna ai perfezionamentinei metodi di coltura, alla cooperazione su vasta scala nella concentra-zione dei mezzi di produzione. Inoltre i salariati agricoli furono costrettia un lavoro più intenso mentre diminuiva sempre di più il campo checoltivavano per proprio conto ed a proprio beneficio, ed il fittavolo siappropriava così sempre più del loro tempo disponibile (ivi).

Un secondo fattore fu la svalutazione monetaria avvenuta nel XVIsecolo:

Nel secolo XVI avvenne un fatto notevole che fruttò una vera messed’oro ai fittavoli, come ad altri imprenditori capitalisti: la progressivasvalutazione dei metalli preziosi e, per conseguenza della moneta. L’au-mento continuo del prezzo della lana, del grano, della carne, ingrandì ilcapitale in denaro del fittavolo senza alcun merito, mentre la renditafondiaria che doveva pagare diminuì in ragione della svalutazione […] ilfittavolo si arricchì quindi contemporaneamente a spese dei suoi salariatie dei suoi proprietari (ivi).

Un terzo fattore fu l’intreccio sempre più spinto tra rivoluzioneagricola e rivoluzione industriale. Dice a questo proposito Marx:

D’altra parte i lavori in filo, in tela, in lana, ecc. – dei contadini – fino aquel momento prodotti in campagna, si trasformano ora in articoli dimanifattura ai quali la campagna serve come mercato, mentre la molti-tudine di clienti disseminati il cui approvvigionamento locale veniva ef-

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fettuato al minuto da numerosi piccoli produttori lavoranti ciascuno perproprio conto, da quel momento si concentra e costituisce un grandemercato per il capitale industriale […] Così, l’espropriazione dei conta-dini, la loro trasformazione in salariati porta all’annientamento dell’in-dustria domestica nelle campagne, al divorzio dell’agricoltura da ognispecie di lavorazione a mano e, di fatto, solo questo annientamento del-l’industria domestica del contadino può fornire al mercato interno di unpaese quell’estensione e quella costituzione che è richiesta dai bisognidella produzione capitalistica (ivi).

Contemporaneamente osserva Marx:

Solo la grande industria con le macchine fonda la speculazione agricolacapitalistica su una base stabile che fa radicalmente espropriare l’immen-sa maggioranza della popolazione rurale e che determina la separazionedell’agricoltura dall’industria domestica delle campagne, estirpandone leradici […] L’industria meccanica portando a compimento questa separa-zione conquista al capitale tutto il mercato interno (ivi).

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Il Medioevo aveva tramandato due forme di capitale […] il capitale usu-rario e il capitale commerciale.Il capitale denaro formatosi mediante l’usura e il commercio veniva in-tralciato nella sua trasformazione in capitale industriale nelle campagnedalla costituzione feudale, nelle città dalla costituzione corporativa.Questi limiti caddero con il discioglimento dei «seguiti feudali», con l’e-spropriazione e parziale espulsione della popolazione rurale.La nuova manifattura venne impiantata nei porti marittimi d’esporta-zione o in punti della terraferma che erano al di fuori del controllodell’antico sistema cittadino e della sua costituzione corporativa.Quindi in Inghilterra si ebbe una lotta accanita delle corporate towns con-tro questi nuovi vivai industriali (Marx, Il Capitale).

Dunque, capitale usurario, capitale commerciale, capitale da espro-priazione delle terre agricole erano state le prime significative for-me di accumulazione capitalistica risalenti al medioevo, e l’ultimadelle forme citate aveva continuato a prodursi fino alla fine del XVsecolo.

Con la scoperta delle Americhe, e successivamente delle Indieorientali, con il trapasso dal feudalesimo alle monarchie nazionali, ilsistema di produzione capitalistico europeo consolida l’insediamen-to originario acquisendo nuovi e immensi capitali dallo sfruttamen-to delle miniere di quei continenti e dai commerci delle loro mate-rie prime e prodotti naturali. Questi capitali troveranno impiegoprincipalmente nell’industria manifatturiera, contribuendo al suoimpetuoso sviluppo nel XVII secolo:

La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e lariduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle mi-

6.Genesi del capitalista industriale

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niere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la tra-sformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pellinere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produ-zione capitalistica.Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell’accumula-zione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale dellenazioni europee, con l’orbe terraqueo come teatro […] La guerra com-merciale si apre con la secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, assumeproporzioni gigantesche nella guerra antigiacobina dell’Inghilterra econtinua ancora nelle guerre dell’oppio contro la Cina, ecc.I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più omeno in successione cronologica, specialmente fra Spagna, Portogallo,Olanda, Francia e Inghilterra (ivi).

Marx sviluppa quindi la ricerca storica sull’«accumulazione origi-naria» spingendosi dentro il XVII secolo e le pratiche colonialistedegli Stati europei:

Il sistema coloniale fece maturare come in una serra il commercio e lanavigazione. Le società monopoliste (Lutero) furono leve potenti dellaconcentrazione del capitale. La colonia assicurava alle manifatture chesbocciavano il mercato di sbocco di un’accumulazione potenziata dalmonopolio del mercato. Il tesoro catturato fuori d’Europa direttamentecon il saccheggio, l’asservimento, la rapina e l’assassinio rifluiva nellamadre patria e qui si trasformava in capitale (ivi).

Il quadro generale viene poi specificato con riferimento alle prin-cipali potenze coloniali dell’epoca, Olanda e Inghilterra.

Circa l’Olanda:

L’Olanda, che è stata la prima a sviluppare in pieno il sistema coloniale,era già nel 1684 all’apogeo della sua grandezza commerciale. Era «inpossesso quasi esclusivo del commercio delle Indie Orientali e del trafficofra il sud-ovest e il nord-est europeo. Le sue imprese di pesca, la sua ma-rina, le sue manifatture superavano quelle di ogni altro paese. I capitalidella repubblica erano forse più importanti di quelli del resto d’Europanel loro insieme […] L’Olanda che è stata la nazione capitalistica mo-dello del secolo XVII «mostra un quadro insuperabile di tradimenti, cor-ruzioni, assassini e infamie» […] Una relazione ufficiale dice: «Questa solacittà di Makassar per esempio è piena di prigioni segrete, una più orren-da dell’altra, stipate di sciagurati, vittime della cupidigia e della tiranni-de, legati in catene, strappati con la violenza alle loro famiglie» (ivi).

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Circa l’Inghilterra:

La Compagnia inglese delle Indie Orientali aveva ottenuto, come si sa,oltre al dominio politico nelle Indie Orientali, il monopolio esclusivo delcommercio del tè, del commercio con la Cina in genere e del trasportodelle merci dall’Europa e per l’Europa. I monopoli del sale, dell’oppio,del betel e di altre merci erano miniere inesauribili di ricchezza. I fun-zionari stessi fissavano i prezzi e scorticavano a piacere l’infelice indù. Ilgovernatore generale prendeva parte a questo commercio privato. I suoifavoriti ottenevano contratti a condizioni per le quali, più bravi degli al-chimisti, essi potevano fare l’oro dal nulla.Grossi patrimoni spuntavano in un sol giorno come i funghi; l’accumu-lazione originaria si attuava senza l’anticipo neppure di uno scellino (ivi).

Relativamente al rapporto esistente nel sistema coloniale tracommercio e industria manifatturiera, Marx osserva:

Oggigiorno la supremazia industriale porta con sé la supremazia com-merciale. Invece nel periodo della manifattura in senso proprio è la su-premazia commerciale a dare il predominio industriale. Da ciò la funzio-ne preponderante che ebbe allora il sistema coloniale (ivi).

Circa il «debito pubblico» degli Stati, Marx sottolinea la sua rile-vanza come fattore e occasione di «accumulazione capitalistica» conquesta incisiva affermazione:

Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini sipossono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò ditutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema colonialecol suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì daserra […] Il debito pubblico, ossia la sua alienazione (da parte) delloStato […] imprime il suo marchio all’era capitalistica […] Il debito pub-blico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria:come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che èimproduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, sen-za che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio in-separabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario (ivi).

Marx accenna quindi ai concreti meccanismi che fecero (e fanno)del debito pubblico occasione di accumulazione di immensi capitali:

Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazio-nali non sono state che società di speculatori privati che si affiancavano ai

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governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipare lorodenaro […] La Banca d’Inghilterra (1694) cominciò col prestare il suodenaro al governo all’otto per cento; contemporaneamente era autoriz-zata dal parlamento a batter moneta con lo stesso capitale, tornando aprestarlo un’altra volta al pubblico in forma di banconote. Con questebanconote essa poteva scontare cambiali, concedere anticipi su merci eacquistare metalli nobili. Non ci volle molto tempo perché questa mo-neta di credito fabbricata dalla Banca d’Inghilterra stessa diventasse lamoneta nella quale la Banca faceva prestiti allo Stato e pagava per contodello Stato gli interessi del debito pubblico […] A poco a poco essa di-venne inevitabilmente il serbatoio dei tesori metallici del paese e il centrodi gravitazione di tutto il credito commerciale. In Inghilterra, propriomentre si smetteva di bruciare le streghe, si cominciò a impiccare i falsi-ficatori di banconote (ivi).

Marx mette poi in evidenza la stretta relazione esistente tra debi-to pubblico e suo finanziamento attraverso il fisco:

Poiché il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello Stato chedebbono coprire i pagamenti annui d’interessi, ecc., il sistema tributariomoderno è diventato l’integramento necessario del sistema dei prestitinazionali. I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese straor-dinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma richie-dono tuttavia in seguito un aumento delle imposte (ivi).

I capitali accumulati con le occasioni di arricchimento descrittetrovarono impiego prima nelle manifatture e successivamente fi-nanziarono la grande industria. Marx, dando la parola agli storicidell’epoca, ricostruisce il quadro di violenze sui lavoratori che ac-compagnarono lo sviluppo del capitalismo industriale:

Sistema coloniale, debito pubblico, peso fiscale, protezionismo, guerrecommerciali, ecc., tutti questi rampolli del periodo della manifattura insenso proprio crescono come giganti nel periodo d’infanzia della grandeindustria. La nascita di quest’ultima viene celebrata con la grande strageerodiana degli innocenti (ivi).

«Nel Derbyshire, nel Nottinghamshire e particolarmente nel Lancashi-re», dice il Fielden, «le macchine di recente inventate venivano adoperatein grandi fabbriche, costruite vicinissimo a corsi d’acqua capaci di far gi-rare la ruota. In questi luoghi, lontani dalle città, si chiedevano all’im-provviso migliaia di braccia; e specialmente il Lancashire, che fino a quel

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momento era relativamente poco popolato e sterile, ebbe bisogno oraanzitutto di popolazione. E si ricercavano soprattutto le dita piccole eagili […] Venivano nominati dei guardiani per sorvegliare il loro lavoro.Era interesse di questi aguzzini di far sgobbare i ragazzi fino all’estremo,perché la loro paga era in proporzione della quantità di prodotto che sipoteva estorcere al ragazzo […]. In molti distretti industriali, special-mente del Lancashire, queste creature innocenti e prive d’amici, conse-gnate al padrone della fabbrica, venivano sottoposte alle torture più stra-zianti. Venivano affaticati a morte con gli eccessi di lavoro […], venivanofrustati, incatenati e torturati coi più squisiti raffinamenti di crudeltà; inmolti casi venivano affamati fino a ridurli pelle e ossa, mentre la frusta limanteneva al lavoro […] E in alcuni casi venivano perfino spinti al suici-dio! […] Le belle e romantiche vallate del Derbyshire, del Nottingham-shire e del Lancashire, lontane dall’occhio del pubblico, divennero rac-capriccianti deserti di tortura […] e spesso di assassinio! […] I profitti deifabbricanti erano enormi. Ma questo non faceva che acuire la loro fameda lupi mannari […] dettero inizio alla prassi del «lavoro notturno» (ivi).

Le infamie storiche richiamate da Marx che accompagnarono losviluppo dell’economia capitalistica in Europa nel XVII secolo, sicompletano con l’aberrazione razzista del commercio degli schiavilegalizzato e regolato dagli Stati.

Dice Marx:

nella pace di Utrecht l’Inghilterra ottenne il diritto di provvedere l’Ame-rica spagnola di 4.800 negri all’anno, fino al 1743. In tal modo venivaanche coperto ufficialmente il contrabbando inglese. Liverpool è diven-tata una città grande sulla base della tratta degli schiavi che costituisce ilsuo metodo di accumulazione originaria […] Nel 1730 Liverpool impie-gava per la tratta degli schiavi 15 navi; nel 1751, 53; nel 1760, 74; nel1770, 96; nel 1792, 132 […] In genere, la schiavitù velata degli operaisalariati in Europa aveva bisogno del piedistallo della schiavitù sans phra-se nel nuovo mondo (ivi).

Lapidaria e senza appello la condanna morale e storica di taliaberrazioni. Dice Marx:

Se il denaro, come dice l’Augier, «viene al mondo con una voglia di san-gue in faccia» il capitale viene al mondo grondante sangue e sporciziadalla testa ai piedi, da ogni poro (ivi).

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Marxismo ed ecologia

Prove di avvicinamento nella «stagione dei movimenti»

di Michele Citoni e Catia Papa

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Introduzione

Chi voglia misurarsi oggi con la domanda sulla «tenuta» del pen-siero marxiano a tanti anni di distanza dalla sua elaborazione devenecessariamente includere nell’analisi la questione dell’ambiente.

Con Marx siamo di fronte a un corpus teorico che rispecchia ilclima filosofico del positivismo ottocentesco e il suo ottimismo neiconfronti dell’umana potenza trasformatrice della natura. È veroche fenomeni di crisi ambientale derivanti dalle conseguenze delprelievo delle risorse naturali e dell’espulsione di scorie dal proces-so produttivo si sono manifestati localmente nel corso di tutta la sto-ria, ma nemmeno la grande accelerazione del conflitto tra produ-zione ed equilibri ambientali determinata dalla rivoluzione indu-striale aveva ancora prodotto, al tempo di Marx, le condizioni –quantomeno, le condizioni percettive – di una crisi ambientale globaletale da mettere in discussione i presupposti dell’avanzamento delprogresso sociale, se non le condizioni stesse della vita umana sullaTerra. Nondimeno, i testi marxiani hanno rivelato agli studiosi, ac-canto ai propri limiti, sempre nuovi aspetti di vitalità. Anche la let-tura di questi testi attraverso una «lente ecologica» può riservare no-tevoli sorprese.

A proporre questa lettura, in Italia, è per esempio Giorgio Neb-bia, uno dei padri del movimento ambientalista. Ad altri si devonotentativi più o meno ambiziosi di vera e propria revisione del pen-siero marxiano, a cominciare dallo statunitense James O’Connorche, accanto alla contraddizione capitale-lavoro, enuclea una «se-conda contraddizione del capitalismo», ovvero quella con la natura.

Marxismo ed ecologiaProve di avvicinamento nella «stagione dei movimenti»

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Lo scopo di queste note non è tuttavia quello di affrontare la que-stione in punta di teoria, ma di tentare un approccio storico, ovverodi indagare in un determinato spazio storico-geografico – l’Italia de-gli anni Sessanta e Settanta – il rapporto tra la comparsa dell’ecolo-gia come emergenza epocale e alcuni concreti attori sociali la cuiazione si inscrive o deve comunque qualcosa alla tradizione marxista.

1. Un problema storiografico

La nascita di una coscienza ambientalista a livello internazionaleè situata unanimemente nelle campagne d’informazione degli anniCinquanta e Sessanta contro gli esperimenti nucleari militari e l’usoindiscriminato di alcune sostanze sintetiche in agricoltura. Ma il di-battito sulle radici di una cultura ambientale nel nostro paese assu-me caratteristiche originali per le stesse peculiarità del sistema poli-tico-economico italiano, incentrandosi, per un verso o per l’altro,sull’evento Sessantotto come dotato di significati euristici rispettoalla storia degli ultimi decenni.

Le analisi storiche sulla natura e l’eredità del «lungo» Sessantotto(si parla, per gli anni dal 1968 al 1974, di «stagione dei movimenti»,indicando così un ciclo segnato da conflittualità e radicalità inediteper contenuti e durata nell’ambito della storia repubblicana) hannoposto l’accento sulla dicotomia tra gli aspetti veramente innovativiin esso contenuti, quelli inscritti nella rivoluzione generazionale cheatterrebbero ai tempi lunghi della trasformazione delle «mentalità»,e il carattere «ideologico» assunto dai movimenti politici originati(in sostanza la ripresa dell’operaismo), frutto di una immaturitàdell’elaborazione politica che affonderebbe le sue radici nella «mo-dernità squilibrata» dell’Italia degli anni Sessanta. Su questo crinalesi è mossa anche gran parte della riflessione sociologica che ha con-trapposto «vecchi» e «nuovi» movimenti: solo la crisi del «paradigmaoperaista» avrebbe finalmente lasciato emergere nella seconda metàdegli anni Settanta l’ambientalismo, il pacifismo e il femminismoquali espressioni di nuovi bisogni di una società complessa, avviataalla globalizzazione, modellata intorno a una classe media semprepiù estesa, bisogni che riguardano beni intangibili ed esprimonoquindi un conflitto «postmaterialista». È probabilmente a questo ba-gaglio culturale che guardano alcuni protagonisti del movimento

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ambientalista nostrano quando sottolineano e valorizzano la conti-nuità della loro esperienza con i dibattiti e le iniziative che hannoavuto luogo nel resto dell’Occidente industrializzato; in questa let-tura, le origini del soggetto politico ambientalista italiano vengonoposte alla fine degli anni Settanta e la sua definitiva affermazione èsituata negli anni Ottanta, non a caso nello stesso decennio che se-gna la sconfitta storica della sinistra.

Con questa stessa prospettiva, benché in parte rovesciata, si è mi-surata anche la riflessione storico-politica di quell’area della sinistraitaliana che negli Sessanta alimenta il dibattito sulla natura del«neocapitalismo», rilevando l’esaurimento di un ciclo storico delmovimento operaio e ponendo il problema di un «nuovo modello disviluppo». È chiaro il riferimento alla critica delle tesi amendolianeespressa dalla sinistra interna al partito più o meno propriamentedefinita «ingraiana» nel corso delle discussioni che impegnano ilPCI dal convegno del 1962 sulle «Tendenze del capitalismo italia-no» sino e oltre l’XI Congresso del 1966. A dispetto di qualche suc-cessiva semplificazione, in quegli anni Giorgio Amendola non si li-mita a riproporre la visione di un’arretratezza del capitalismo ita-liano, articolando semmai la sua analisi in termini di profondi eineludibili squilibri nello sviluppo del paese, sanabili unicamente at-traverso un deciso intervento correttivo sospinto da una rinnovata eunitaria forza politica della classe operaia. L’orizzonte immediato èquello del centrosinistra e delle «riforme di struttura» su cui incalza-re la classe dominante, in un quadro teorico che conferma la storicaidentificazione tra sviluppo economico, progresso sociale e gradualeavvicinamento al socialismo. Per la sinistra del PCI, invece, la rapi-da industrializzazione e le sue asimmetrie non esauriscono le novitàdella fase storica in corso, segnata piuttosto da una trasformazionedel sistema capitalistico e dalla sua capacità di scomporre e integra-re i soggetti del conflitto attraverso il dispositivo combinato di ri-forme razionalizzatrici e dilatazione dei consumi individuali. A par-tire dalla critica alla società opulenta, al carattere neutrale dellatecnica e dell’organizzazione del lavoro, la sinistra ingraiana affron-ta la questione di come incidere sulla qualità dello sviluppo: nontanto o non solo una più equa redistribuzione del reddito, quantopiuttosto un intervento strutturale sugli investimenti tramite glistrumenti statali e, soprattutto, il controllo diretto dei lavoratori sulprocesso produttivo.

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Fin qui il racconto di una stagione che alcuni protagonisti, inmodo più o meno esplicito e coerente, presentano come il laborato-rio di una critica alla modernità che si sarebbe poi offerta, all’in-domani del Sessantotto, a terreno d’incontro tra vecchia e nuova si-nistra, incoraggiando e alimentando un rinnovamento delle culturepolitiche anche se in sostanziale continuità con una parte almenodella riflessione marxista. In realtà, i termini del dibattito interno alPCI e il carattere della proposta della sinistra ingraiana sono statimeno nitidi e definiti di quanto emerga dalle ricostruzioni postume,in particolare proprio sui temi ambientali. Vero è che nella cultura enella prassi politiche del movimento operaio e comunista già neglianni Sessanta sono presenti alcune tematiche che nel periodo dellamobilitazione di massa rappresenteranno un «ponte», un’occasioneper costruire un’alleanza tra la classe operaia e gli altri soggetti delconflitto – studenti, tecnici, cittadini riuniti nei comitati di quartiere– capace di innovare la cultura politica di ognuno.

Tra questi elementi, una grande importanza rivestono le rifles-sioni critiche elaborate nel corso del decennio da frange della sini-stra intellettuale sulla scienza e la tecnica, sul loro ruolo nello svi-luppo capitalista e sul rapporto tra esse e le trasformazioni sociali;in sostanza, sul loro carattere non intrinsecamente progressivo, inquanto «non neutrale» rispetto ai rapporti sociali. Da una criticaall’«uso capitalistico della scienza» – che riversa sui privilegiati unaquantità crescente di merci spesso inutili mentre aggrava le condi-zioni dei deboli e produce strumenti di distruzione di massa –gruppi di ricercatori e di tecnici giungono presto a individuare nellastessa sfera della teoria scientifica il segno indelebile dei rapportisociali entro i quali essa è formulata. Per loro la classe operaia devesapere esprimere un progetto di conoscenza e controllo della natu-ra permeato di finalità sociali alternative a quelle della scienzadella società capitalista. Tra i protagonisti di queste riflessioni sidevono ricordare almeno Marcello Cini, fisico teorico dell’Uni-versità di Roma, membro del PCI e, nel ’69, passato al gruppo chefaceva riferimento alla rivista il manifesto, e Giulio Maccacaro, me-dico, dal ’66 direttore dell’Istituto di biometria e statistica medicadella Statale di Milano. Il loro lavoro teorico determina una rotturacon la tradizione marxista italiana dominante, ferma, in linea conl’ortodossia sovietica, alla distinzione tra forze produttive e rappor-ti sociali di produzione: nell’orizzonte della sinistra storica, infatti,

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non si mette in discussione il lineare e oggettivo sviluppo delleprime, poiché si prevede che questo raggiungerà uno stadio in cuile forze produttive entreranno in contraddizione con il proprio in-volucro sociale, determinandone la sostituzione con altri rapporti. Inuovi intellettuali della sinistra contestano quindi alla radice unaconcezione che, assegnando la priorità alla costruzione delle «basimateriali del socialismo», finiva per accettare acriticamente le viedello sviluppo già tracciate dal capitalismo.

Questa contestazione trae alimento da un complesso di acquisi-zioni teoriche e di stimoli provenienti dagli eventi: dalla riletturadel Marx dei Manoscritti e dei Grundrisse, alle critiche dei comunisticinesi, formulate nel 1963, nei confronti della via sovietica allo svi-luppo, tutta tesa a «raggiungere e superare l’America» (secondo unvecchio slogan) sul suo stesso terreno; dal dibattito propriamenteepistemologico, avviato dalla critica popperiana all’induttivismo eproseguito dalla «nuova filosofia della scienza» di autori comeThomas Kuhn e Paul Feyerabend, alla constatazione che l’«interna-zionale degli scienziati», sulla cui funzione progressiva la sinistraaveva puntato per anni, copriva e sosteneva la macchina bellicaamericana scatenata contro il Vietnam.

Uno scambio naturale avviene inoltre con altri due ambiti, peral-tro lontani, delle nuove culture della sinistra italiana che rimettonoin discussione i saperi consolidati e i ruoli sociali di coloro che li de-tengono. In primo luogo, l’analisi del lavoro nelle fabbriche pro-mossa soprattutto da Raniero Panzieri, figura di socialista «eretico»,e dal gruppo di intellettuali che con varie sfumature vi si richiama-no, in stretto collegamento con gruppi di operai. Questa analisicontesta la presunta «oggettività» dell’organizzazione del lavoro esolleva quindi il problema di una metodologia delle stesse disciplineumane e sociali che, plasmata sul modello delle scienze fisiche, nontiene conto dell’esperienza soggettiva vissuta dall’oggetto indagato.Si baserà su queste premesse teoriche l’imminente diffusione a li-vello di massa delle lotte operaie contro la monetizzazione della no-cività. Dall’altra parte, i critici della scienza capitalista incontrano ilmovimento di critica alla psichiatria segregativa iniziato nel mondoanglosassone e sviluppato in Italia attorno allo psichiatra FrancoBasaglia fondatore, nel 1973, di Psichiatria democratica.

Tutti questi fili saranno in effetti raccolti e intrecciati nel ’68 e nel’69 dagli studenti e dagli operai, e una generazione di tecnici ne fa-

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rà la base di una radicale revisione dei comportamenti professionalidella propria categoria. Del resto, l’elenco dei temi e delle lotte aessi legate potrebbe continuare, coinvolgendo la stessa tradizionedella sinistra storica, impegnata nelle manifestazioni contro la pro-liferazione delle armi nucleari, nelle campagne contro la specula-zione edilizia e per un’urbanistica democratica – queste ultime mo-tivo d’incontro con le prime associazioni naturalistiche e protezioni-stiche – come nelle denunce della crisi idrogeologica del paese edegli inquinamenti atmosferici e delle acque, e nella lotta per la ri-forma del servizio sanitario.

Sulla non autosufficienza e completezza di quanto sopra elencatonon è il caso di insistere, ed è già stato sottolineato come tutto ciòrappresentasse solo un’occasione di interlocuzione tra la sinistra dauna parte e, dall’altra, il movimento giovanile in rivolta contro ilmodello unico di modernità occidentale e quei gruppi di intellet-tuali e tecnici che si interrogavano sui contenuti dello sviluppo.

Che questa occasione di interlocuzione sia andata completamentepersa è motivo di dibattito. Senza incorrere infatti in due specularisemplificazioni – genesi autonoma dei «nuovi movimenti» o loro ri-conducibilità nella tradizione della sinistra italiana – è possibilepensare alla stagione dei movimenti come a uno «spazio di appren-dimento» nel quale da un lato la mobilità delle tematiche e la lororidislocazione tra i soggetti del conflitto, dall’altro la pratica stessadi una nuova dimensione del conflitto e della politica a partire dalrapporto dialettico tra il piano universale e il piano locale, dell’e-sperienza e responsabilità individuali, hanno sedimentato contenutie pratiche che sono alla base dei movimenti degli anni a cavallo tra iSettanta e gli Ottanta, e di quello ambientalista in primo luogo.

2. Le radici della contestazione ecologica

La nascita di una contestazione ecologica, di una mobilitazione dimassa contro le violenze inflitte alla salute umana e alle risorse na-turali del pianeta, in Italia come nel resto dell’Occidente industria-lizzato, affonda le sue radici nei mutamenti culturali, della tecnica edell’economia che in diversa misura investono la società negli anniCinquanta e Sessanta. La perdurante minaccia di una guerra nu-cleare, l’allargamento d’orizzonte imposto dal processo di decolo-

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nizzazione e la diffusione del cosiddetto «terzomondismo», quindi laproblematizzazione della nozione di sottosviluppo che affligge i dueterzi della popolazione del pianeta, influiscono sulla coscienza col-lettiva, in particolare delle giovani generazioni, nel senso dell’acqui-sizione di una visione globale delle dimensioni della politica e delconflitto che sarà un elemento caratterizzante della mobilitazionedel ’68 come la nuova consapevolezza ecologica. Alle richieste di di-sarmo mondiale, che la guerra in Vietnam arricchisce di contenuticritici verso la neutralità del sapere scientifico e le compromissionitra università e industria, alle rivendicazioni del diritto dei popolisottosviluppati allo sfruttamento delle proprie risorse, alla messa indiscussione dei parametri economici utilizzati per valutare la ric-chezza e il benessere di una società si affiancano, infatti, la pauradella contaminazione radioattiva e di una modificazione fisica delpianeta come prodotto degli inquinamenti industriali.

Negli Stati Uniti sono gli anni del Movement. Dalle culture d’eva-sione degli anni Cinquanta, attraverso le lotte per i diritti civili e lapresa d’atto delle perduranti diseguaglianze nelle società avanzate –di razza, genere, tra «centro» e «periferia» del sistema – il nuovosoggetto giovanile studentesco approda a una critica radicale allapresunta razionalità del progresso tecnologico. Durante gli anniSessanta, parallelamente al processo di liberazione dai bisogni ma-teriali, la difesa della natura diviene un elemento centrale della con-trocultura giovanile e un importante fattore di mobilitazione, adesempio in occasione dei primi disastri ecologici prodotti da petro-liere. Lo stesso evento «conquista» della Luna (1969) alimenta rifles-sioni critiche sullo squilibrio tra potenza tecnologica raggiunta esterilità degli obiettivi perseguiti, che non corrispondevano alla so-luzione dei problemi di sopravvivenza della specie umana. Nascono,peraltro, in quegli anni la metafora dell’«astronave terra» e lo slo-gan «La Terra è l’unica che abbiamo». Il 22 aprile 1970 vedrà l’im-ponente mobilitazione per la «Giornata della Terra» indetta da va-rie associazioni e campus universitari statunitensi.

In Europa la presenza di forti organizzazioni giovanili di partitoe la peculiare natura antagonista dei movimenti sociali, frutto diuno spazio politico «saturo», non alimentato cioè dalla metaforadella «frontiera» – di un altrove in cui sperimentare pratiche politi-che alternative – hanno dato luogo a una più rapida politicizzazionedel movimento giovanile. Ma ciò non significa ridimensionare la ca-

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rica innovativa delle lotte per il disarmo mondiale, i diritti dei po-poli del Terzo Mondo o la riforma degli istituiti di produzione ediffusione del sapere in cui si impegnarono dagli inizi degli anniSessanta organizzazioni come SDS tedesca o quelle universitarie ita-liane. E ancor di più delle nuove culture della «liberazione» di cui sifecero portatori i beats, i situazionisti o i provos olandesi, questi ulti-mi precocemente impegnati, anche a livello istituzionale, su temati-che ambientali. In occasione dell’alluvione di Firenze, nel novembredel 1966, la città toscana fu invasa da un popolo giovanile di volon-tari per l’emergenza e la ricostruzione proveniente da tutta Europa.Le cronache dei quotidiani raccontano con stupore di questo impe-gno che accomuna un’intera generazione, dalle liste studentesche dipartito agli yippies.

Se questo è il quadro d’insieme che permette di spiegare la nuovasensibilità ecologica così come si va definendo a livello internazio-nale durante gli anni Sessanta, il confronto con il piano nazionale,come abbiamo visto, evidenzia percorsi culturali e politici peculiari,legati alle contraddizioni emblematiche della «modernizzazione al-l’italiana»: l’emigrazione e le condizioni di vita nei quartieri perife-rici, la speculazione nei centri storici, l’inquinamento atmosfericoprovocato dalle esalazioni industriali e dai primi effetti del boomdella motorizzazione privata, la compromissione dell’assetto idro-geologico del territorio causa degli innumerevoli dissesti, frane ealluvioni. Negli anni Cinquanta e Sessanta la serie di catastrofi favo-rite dal consumo del territorio e da errati interventi di sistemazioneidraulica è impressionante. Le prime forme di contestazione ecolo-gica si rivolgono perciò soprattutto ai danni prodotti dalle mano-missioni del territorio e ai problemi urbanistici. In questi anni, pro-tagoniste delle mobilitazioni in difesa dell’ambiente e del patrimo-nio storico della penisola sono ancora associazioni a carattere essen-zialmente protezionista, tese alla razionalizzazione del sistema piut-tosto che al suo cambiamento. Italia Nostra, sorta nel 1955 ad operadi un gruppo di intellettuali (soprattutto urbanisti, architetti, storicidell’arte); l’associazione Pro Natura Italica (poi Federnatura), fon-data nel 1959 con il fine esplicito di difendere l’ambiente naturale ediretta da tecnici del settore; la Lega Nazionale contro la Distruzio-ne degli Uccelli (in seguito Lega Nazionale per la Protezione degliUccelli) e la sezione italiana del WWF, rispettivamente del ’65 e ’66,si comportano ancora come lobby di pressione, garantiscono cioè

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un consenso ai gruppi parlamentari disposti a sostenere i vari prov-vedimenti legislativi da loro perorati.

Anche il movimento studentesco – accanto all’impegno sul frontedella politica internazionale e della riforma universitaria – fa le sueprime prove a partire dai problemi sollevati dallo sviluppo urbani-stico. Nel febbraio del 1963 gli studenti delle Facoltà di architetturadi Roma, Milano, Firenze, Palermo, Napoli e Bologna danno vitaalle prime occupazioni in nome di una più adeguata formazioneprofessionale e di un diverso modello urbanistico. A Roma l’occupa-zione durerà quarantadue giorni, nei quali le posizioni studenteschesi andranno sempre più radicalizzando: dall’iniziale collaborazionecon i docenti per un impegno politico a sostegno della riforma ur-banistica e dell’università, attraverso le riflessioni svolte circa la po-sizione del tecnico-architetto nella società e la subordinazione delsapere scientifico alle scelte capitalistiche, il movimento studentescoapproda a una visione di tipo sindacale che negli anni successivi da-rà luogo alla nuova politica di collaborazione «organica» tra tecnicie classe operaia.

3. La stagione dei movimenti, 1968-1974

Il passaggio attraverso il Sessantotto, l’esplodere anche in Italiadi una estesa conflittualità ad opera di nuove soggettività portatricidi una critica radicale alla legittimità sociale del modello di svilup-po, muta profondamente i caratteri della realtà sociale in cui simuovono i tradizionali soggetti politici.

La solidarietà che durante l’«autunno caldo» si instaura tra il mo-vimento studentesco e quello operaio – solidarietà che rappresentala vera specificità del «lungo» Sessantotto italiano – trova le sue ra-gioni nella fase di comune produzione critica che abbiamo vistoprendere corpo alla metà del decennio, nella quale parti del movi-mento sindacale impegnate in un difficile recupero dell’iniziativa infabbrica e settori del variegato mondo universitario danno vita aimolti circoli politico-intellettuali che si ispirano ai temi della «nuovasinistra»: centralità della fabbrica e dei rapporti di produzione, cri-tica alla separatezza tra lavoro manuale e intellettuale, valorizzazio-ne della soggettività operaia anche come produttrice di conoscenzacritica del processo produttivo. La reciproca disponibilità al dialogo

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tra le scuole e università e le fabbriche nasceva da vari fattori: oltreal comune percorso di rinnovamento culturale, contavano il datogenerazionale, che accomunava studenti e giovani operai, la tradi-zionale vocazione del sindacato italiano ad assumere tematiche piùgenericamente politiche, cosa che ne faceva l’interlocutore alterna-tivo ai partiti tradizionali, e, probabilmente, il fascino che l’imme-diatezza del conflitto sindacale, basato sull’azione diretta e dai tem-pi brevi, dovette avere sugli studenti. L’incontro tra studenti e ope-rai non è quindi il prodotto di una subalternità ideologica dei primiai secondi (come ha sostenuto, tra gli altri, Vittorio Foa), e rappre-senta invece un’occasione creativa nella misura in cui libera l’im-maginario sociale di larghi settori della società: urbanisti, medici,biologi, magistrati si attivano a sostegno delle lotte contro la nocivi-tà dei processi produttivi in fabbrica e nel territorio, per il serviziosanitario nazionale e in genere i servizi sociali di base: case, scuole,asili, verde pubblico, diritto allo studio e alla formazione dei lavora-tori (da cui, nel 1973, l’accordo sindacale dei metalmeccanici sulle«150 ore», poi realizzato da molte altre categorie).

Il patrimonio di conoscenze e di lotte di alcuni nuclei d’avan-guardia del movimento sindacale italiano, come quello della Came-ra del Lavoro di Torino, che già nel 1964 organizza un Centro ca-merale contro la nocività del quale fanno parte anche studenti, inparticolare di medicina e architettura, trova quindi una socializza-zione a livello nazionale e di massa. Dopo la stagione contrattualedel 1969, che vede l’importante vittoria dei chimici e l’affermazionedel principio della inammissibilità delle lavorazioni ad alta concen-trazione di nocività, e il riconoscimento del diritto all’autotutelasancito dallo Statuto dei lavoratori del 1970, il movimento sindacalesi apre al rapporto con il territorio avviando esperienze come quelledei Consigli di Zona (CdZ) FLM e dei Comitati Unitari di Zona(CUdZ). Si deve inoltre ricordare la peculiare attività di ricerca elotta del folto gruppo di operai e tecnici della Montedison di Ca-stellanza, che nel 1968 dà vita al Gruppo di Prevenzione e IgieneAmbientale. Questa esperienza rappresentò il momento forse piùalto, e per questo anche isolato, della critica di sinistra al modellounico di sviluppo, a partire proprio dalla problematizzazione delrapporto tra fabbrica e territorio, e contribuì al lavoro teorico delcollettivo della rivista Sapere tra il 1974 e il 1982, diretta fino al ’76da Giulio Maccacaro.

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I molti CdZ e CUdZ, invece, non hanno prodotto un’elabora-zione teorica. Nati per rispondere alla necessità di coordinare ini-ziative spesso frammentate perché frutto della spinta partecipativadal basso, e per sostenere la strategia sindacale di riforme volta adifendere il potere d’acquisto dei salari, hanno però rilevanza per laloro natura di «nuovi spazi» del conflitto. Questi comitati territorialisono il prodotto della collaborazione spontanea tra diversi soggettisociali: categorie sindacali, studenti, tecnici, professionisti, gruppi dicittadini, e si organizzano per quartieri, intorno alle fabbriche macon attenzione alla condizione generale dell’«operaio-cittadino».

Un esempio viene dal caso romano. Nell’autunno del 1972 laCommissione ambiente del Consiglio di Zona dei metalmeccanicidella Tiburtina, composta da quadri di fabbrica, dirigenti sindacali,tecnici della salute e studenti del Collettivo di Medicina dell’Uni-versità «La Sapienza», redige un documento a uso della Camera delLavoro provinciale, intenzionata a dare vita ai Comitati di Zona in-tercategoriali (o CUdZ). Il CdZ Tiburtina aveva portato avanti nel’71-72 indagini sull’ambiente di lavoro alla Voxson, già dal ’69apripista delle lotte nelle fabbriche romane contro la monetizzazio-ne della salute e per il controllo operaio dell’ambiente di lavoro, eanaloghe attività di inchiesta alla MES, alla Romanazzi e in altreaziende. Le indagini erano svolte con il contributo di medici e stu-denti attraverso assemblee di reparto con alta partecipazione ope-raia, in cui si elaboravano i questionari da somministrare e a cui sitornava poi per discuterne i risultati. Nelle assemblee gli studentidel Collettivo di Medicina tentavano di far prendere coscienza ai la-voratori della dimensione collettiva e non individuale delle loro pa-tologie, essendo queste ultime legate in gran parte all’organizza-zione del lavoro. E soprattutto l’intento era quello di cogliere il nes-so tra le condizioni di nocività dell’ambiente di lavoro e quelle dellasocietà, cioè di portare la lotta per la salute fuori dalle fabbriche.Parallelamente, durante il 1972 il Collettivo operai-studenti dellaTiburtina, insieme al Collettivo lavoratori-studenti del PoliclinicoUmberto I, aveva condotto un’importante indagine ambientale cen-trata sui lavoratori degli appalti del Policlinico, mentre iniziative diricerca e di lotta sulle condizioni sanitarie e di vita nascevano dallacollaborazione con i comitati d’occupazione di alloggi a San Basilioe in altri quartieri. Nel tirare le prime somme di tutte queste espe-rienze, e riprendendo l’analisi svolta dalla Federazione nazionale dei

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metalmeccanici nel convegno di Rimini del marzo ’72 sulla salutenell’ambiente di lavoro, la Commissione ambiente del CdZ insistesulla necessità di attivare i comitati unitari, perché solo se si fosseriusciti a portare a livello di massa il tema della nocività in fabbricasarebbe stato possibile rivelarne l’intreccio con quella dell’ambienteesterno. Quando alla fine dell’anno il comitato direttivo della Ca-mera del Lavoro di Roma approva la costituzione dei Comitati Uni-tari di Zona (ne nasceranno quattro) l’obiettivo è quello di coinvol-gere in questa forma di lotta il numero più ampio possibile di cetisociali e strutture associative di diversa collocazione, in sintonia conquel decentramento amministrativo della città che attribuisce aiconsigli circoscrizionali poteri decisionali sui temi urbanistici, dell’e-dilizia pubblica e privata, e sulla creazione e gestione dei servizi so-ciali: scuole, assistenza, giardini, ecc. Ed è in queste lotte per unadiversa qualità sociale dello sviluppo urbano, nella pratica diretta diobiettivi inediti, che è possibile ipotizzare una sedimentazione dinuove sensibilità, anche a prescindere dai limiti teorici che forse leimbrigliano.

Si potrebbe discutere se il bagaglio culturale a disposizione deiprotagonisti di quelle esperienze fosse più l’occasione o un impedi-mento per un reale ripensamento delle proprie identità tradizionalie quindi per la costruzione di una maggiore consapevolezza deicambiamenti sociali che si stavano svolgendo. Già nel 1973 Giovan-ni Berlinguer, in occasione della seconda edizione del suo La salutenelle fabbriche, osservava infatti che l’insistenza sulla soggettività ope-raia avrebbe nuociuto alla crescita politica del movimento sindacale,incapace di andare oltre se stesso e prendere coscienza della dimen-sione planetaria della questione della «nocività». La critica si riferivaalle stesse parole d’ordine della mobilitazione operaia di quegli an-ni, ovvero il riferimento al «gruppo omogeneo operaio» come sog-getto di osservazione e valutazione delle condizioni di lavoro, la«non delega» agli esperti, la «validazione consensuale» delle misuredi prevenzione: formule che indicavano l’autogestione della saluteda parte degli operai sulla base del riconoscimento della condivi-sione di comuni condizioni di lavoro e del diritto alla conoscenza eal controllo dei processi produttivi.

Pur riconoscendo le giuste ragioni di queste critiche, è però op-portuno sottolineare ancora una volta la funzione che questa stessaimpostazione delle lotte ha avuto nella radicalizzazione di parti im-

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portanti della società civile. Il lavoro svolto per migliorare la qualitàdella vita metropolitana – oppure per ottenere la riforma sanitaria –se conteneva molte ambiguità, tra cui l’oscillazione tra una strategiariformista e la prospettiva radicale di creazione di «contropoteri»che prefigurassero i possibili scenari di una trasformazione dei rap-porti di produzione, ha rappresentato in sé un’occasione di crescitaculturale e politica sia per i protagonisti che per quanti – impegnatidirettamente sui temi ecologici – ne furono incalzati. L’impegno suiproblemi dell’ambiente di lavoro e di vita (la fabbrica e i quartieri)non può essere pensato semplicemente come retaggio di una tradi-zione marxista-leninista. In quelle esperienze di impegno sociale, diiniziative civiche sul terreno dei servizi pubblici, si può rintracciareun serbatoio di motivazioni, di vie d’accesso e reclutamento di baseper future campagne ambientaliste. È difficile sostenere che il parti-re da sé, dalle nozioni di diritto alla salute e alla conoscenza, di con-trollo sul «come» e «cosa» produrre, non abbia prodotto un humusculturale favorevole al seppur più complesso pensiero ecologico.

D’altra parte, proprio all’inizio degli anni Settanta, le tradizionaliassociazioni naturalistiche e protezionistiche non solo aumentano ipropri iscritti ma subiscono anch’esse un processo di radicalizzazio-ne, sviluppando tutta una serie di iniziative tese a un maggiore ra-dicamento nel sociale. Nel 1970 il movimento protezionista italiano,che risulta ancora uno dei più deboli dello scenario internazionale,comincia a cambiare pelle: alla guida di Pro Natura va Valerio Gia-comini, un botanico, che cerca di indurre le varie anime dell’asso-ciazione a coniugare la difesa dell’ambiente con l’impegno più pret-tamente politico. Nello stesso anno Pro Natura si dota infatti di unarivista, Natura Società, la cui direzione è affidata a Dario Paccino, fi-gura marcatamente connotata a sinistra. Sempre nel 1970 Italia No-stra organizza un importante convegno a Roma che si risolve nelladenuncia della ventennale gestione democristiana della città, men-tre cominciano i primi ricorsi alla magistratura per i casi più gravidi inquinamento industriale. Nel seno di Italia Nostra prendono poivita circoli giovanili con una più spiccata tendenza ad affrontare ilproblema della protezione della natura in termini di «organizzazio-ne capitalistica della produzione» e di «modelli di sviluppo».

Questi nuovi soggetti possono guardare a una parte dell’ambien-te tecnico-scientifico impegnata anch’essa in un’opera di sensibiliz-zazione e divulgazione delle nuove tematiche ecologiche, e che co-

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mincia a schierarsi con nettezza rispetto a un dibattito mondiale sul-l’ecologia ormai intrecciato alla politica. Conviene ripercorrere que-sto dibattito in alcuni dei suoi termini essenziali.

Il grande allarme planetario per la crisi ecologica porta molti go-verni, organismi internazionali e scienziati a focalizzare la propriaattenzione sulla crescita demografica. Un vasto movimento, che hapreso piede soprattutto negli Stati Uniti intorno all’inizio degli anniSessanta, ha recuperato il pensiero di Thomas Malthus e il suo Sag-gio sul principio di popolazione (1798), nel quale l’autore esponeva lalegge dell’eccesso di natalità della specie umana (che cresce secondouna progressione geometrica) rispetto alla riproduzione delle risor-se alimentari (che avviene in progressione aritmetica), a meno che«una legge superiore formi ostacolo ai suoi progressi». I cosiddetti«neomalthusiani» chiedono misure anche autoritarie per raggiunge-re la «crescita zero» della popolazione: «Zero Population Growth», oZPG, è infatti lo slogan che dà il nome a un’organizzazione fondatanel 1969 da uno dei maggiori esponenti di questa posizione, il bio-logo americano Paul Ehrlich. Ehrlich, e con lui Garret Hardin e al-tri – un’area che trova i suoi portavoce italiani nel giornalista delCorriere della Sera Alfredo Todisco e nello scienziato Adriano BuzzatiTraverso – vedono essenzialmente nella crescita demografica (speciequella del Terzo Mondo che è di gran lunga la più rapida) l’originedella crisi ecologica.

Va considerato interno a questa scuola – forse, anzi, il suo contri-buto più rilevante – il noto rapporto I limiti dello sviluppo presentatopoco prima della Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma del1972 sull’ambiente, che in pochi mesi vende centinaia di migliaia dicopie in tutto il mondo suscitando ovunque il dibattito. La ricerca –finanziata da Volkswagen, FIAT e Ford Foundation – è commissio-nata al Massachusetts Institute of Technology dal Club di Roma, ungruppo internazionale di economisti, politici, imprenditori, espo-nenti della scienza e della cultura fondato nel 1968, a Roma, da Au-relio Peccei, autorevole e brillante ingegnere vicino agli ambientiFIAT. Utilizzando il calcolatore elettronico e un modello matemati-co messo a punto da J. Forrester, D.H. Meadows e altri ricercatoridel MIT per simulare l’andamento globale delle interazioni uomo-ambiente, si conclude, in sintesi, che in presenza di un aumentodella popolazione mondiale al tasso attuale e di una crescita dellaproduzione industriale e dell’inquinamento diminuiranno le dispo-

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nibilità alimentari, peggioreranno le condizioni sanitarie, arrive-ranno a scarseggiare le materie prime essenziali e ciò – nel XXI se-colo – porterà a guerre, rivolgimenti ed epidemie, con milioni dimorti. Per questo vengono invocati i «limiti alla crescita» della po-polazione e della produzione industriale. Non solo: uno studio suc-cessivo, sulla stessa linea del primo, arriva a proporre l’esercito co-me modello politico-organizzativo adeguato alle esigenze di pianifi-cazione poste dalla crisi demografica e ambientale.

Il modello del MIT riceve molte aspre critiche per la sua indub-bia rozzezza tecnica che porta ad affrettate conclusioni catastrofiste,e, nella sinistra, per l’ispirazione tecnocratica, i risvolti reazionari el’impostazione che assume come immutabile lo sviluppo attuale, vi-sto come tendenza assoluta che si può al limite bloccare ma noncambiare. Alcuni autori italiani in campo ambientalista, come il giàcitato Giorgio Nebbia, insistono spesso sul fatto che tra la parola in-glese growth (crescita) e l’italiana «sviluppo» vi è una differenza, tra-scurata, nel titolo dell’opera, dai traduttori del rapporto commis-sionato dal Club di Roma: il MIT si sarebbe cioè pronunciato controla prima, ma non contro il secondo. In effetti, rispetto alle critichericevute dal rapporto, questo particolare non sembra poi così rile-vante. Beninteso, ciò non toglie nulla alla rilevanza storica di questodocumento come catalizzatore di un grande dibattito internazionalee testimonianza di una presa di coscienza della crisi ecologica.

Al complesso delle tesi sopra ricordate si contrappone il biologoamericano di sinistra Barry Commoner, autore, nel 1971, del cele-bre The Closing Circle, tradotto in Italia l’anno successivo. Commo-ner, sulla base dell’analisi dell’industrializzazione americana daglianni ’40 in poi, addita la crescita dei consumi di merci inutili e lescelte tecnologiche e produttive dei paesi più ricchi come i processiprincipali che sono alla base della crisi ecologica. Negli Stati Unitile sostanze inquinanti sono aumentate di dieci volte, mentre la po-polazione è cresciuta di meno di due; il problema sta quindi nel cat-tivo uso della tecnologia, nei ciechi meccanismi della ricerca delprofitto, nello sperpero di risorse per la produzione delle armi, nonnella crescita demografica, né in quella dei bisogni essenziali. Invecedi sottoporre i ceti più deboli e i paesi poveri a una pressione limi-tante – per evitare di mettere in discussione un sistema fondato sul-l’ingiustizia e lo sfruttamento – si deve fare in modo che tutti possa-no raggiungere condizioni di vita che consentano un’autonoma as-

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sunzione di responsabilità rispetto alle risorse. Questa è l’unica viaefficace e democratica per «chiudere il cerchio», ovvero ristabilire igrandi cicli della natura spezzati da una tecnologia che sperpera ri-sorse e produce scorie non metabolizzabili.

Come si diceva sopra, il dibattito – che godrà di una platea allar-gata alla Conferenza di Stoccolma – coinvolge anche l’Italia. Tra inostri addetti ai lavori, conduce la critica ai neomalthusiani la nuovarivista Ecologia, edita a partire dal 1971 sotto la direzione dall’eco-logo Virginio Bettini, di cui escono 11 numeri in cui trovano ampiospazio le tesi di Barry Commoner. Due anni dopo, poco prima del-l’interruzione delle pubblicazioni di Ecologia voluta dall’editore perragioni economiche, l’incontro tra Bettini e un gruppo di giovaniproveniente da alcune scuole milanesi dà vita a Denunciamo, che fariferimento a un vero e proprio Movimento Ecologico. La testata,con i suoi contenuti piuttosto aggressivi, viene pubblicata comesupplemento di Ecologia, poi di Acqua & Aria. Rassegna di Ecologia (inseguito Ecologia Acqua Aria Suolo), con cui porterà avanti una difficileconvivenza per alcuni anni.

Molte iniziative, anche se in gran parte fallimentari, furono tenta-te in quegli anni per dare una veste più unitaria al variegato mondodelle associazioni, gruppi e circoli costituitisi a partire dalla nuovasensibilità ambientale. Riveste però maggiore interesse in questasede tornare a indagarne il rapporto con il composito universo dellasinistra italiana, istituzionale e movimentista, rispetto alla quale imotivi di incomprensione, se non di ostilità, sono stati effettivamen-te molti. E tuttavia, è verosimile che la natura peculiare del movi-mento ambientalista nostrano, che molti osservatori hanno indicatonel rifiuto di una impostazione «biocentrica» (la natura come valoreassoluto) in favore di un antropocentrismo «politicizzato» (essendol’accento posto sul benessere dell’uomo e della società), si debba inlarga parte a questo stesso rapporto.

4. La sinistra di classe e l’«ideologia ecologista»

Giorgio Nebbia nel tentativo di ricostruire la complessa storia nelmovimento ecologico italiano parla del periodo 1970-73 come diuna «primavera dell’ecologia». La definizione si riferisce all’esplo-dere di interesse e iniziative intorno alla questione ambientale che

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abbiamo già visto caratterizzare quella stagione sia sul piano istitu-zionale che nella società civile. Per il 1970 vanno ricordati il discor-so di Nixon sullo stato dell’Unione, che pone per la prima volta l’am-biente al centro di un’azione di governo, la proclamazione da partedel Consiglio d’Europa dell’anno europeo della conservazione dellanatura e la ben più importante mobilitazione per l’Earth Day, la«Giornata della Terra» del 22 aprile. Nel 1971 Amintore Fanfaniistituisce al Senato, di cui allora era presidente, un Comitato diorientamento sui problemi della ecologia composto da 10 senatoridi tutti i gruppi e da 6 esperti, tra cui lo stesso Nebbia. Dai lavori diquesto comitato nascerà, sempre presso il Senato, la prima Com-missione speciale per i problemi ecologici (24 giugno 1971), ricosti-tuita poi nella VI legislatura (19 luglio 1972), che non ha certo la-sciato tracce significative nella storia della legislazione italiana inmateria di tutela dell’ambiente naturale. Significativamente, nellostesso 1971 si muove anche il PCI, che organizza il convegno «Uo-mo natura società», sul quale si tornerà più avanti. E il 1972 vede, aStoccolma, la prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’uomo el’ambiente, in preparazione della quale viene presentato il citatorapporto sui «limiti dello sviluppo».

Questa improvvisa attenzione ai temi ecologici, e in particolare laloro assunzione istituzionale, suscita invece molti sospetti nell’estre-ma sinistra italiana, sia per la natura «razionalizzante» di una scien-za ecologica che non sembra aggredire la questione centrale dellacompromissione dell’ambiente umano e naturale – e cioè la mercifi-cazione delle risorse naturali conseguente all’organizzazione capita-listica del lavoro e dei rapporti sociali – sia per la doppia veste diaffare economico che sembra prospettare: da un lato la possibilità discaricare sull’intera collettività i costi di una ristrutturazione tecno-logica finalizzata al profitto e dall’altro la stessa apertura di nuovimercati di prodotti «ecologici». Emblematica, rispetto al primoaspetto, la polemica de il manifesto con Italia Nostra sulla questionedell’inquinamento della laguna di Venezia, a causa del quale l’asso-ciazione chiede lo smantellamento di Porto Marghera offrendo unargomento più che valido per la chiusura delle fabbriche vecchie omeno produttive e agevolando così una ristrutturazione pagata dailavoratori.

La critica all’«ideologia borghese» dell’ecologia, alla falsa coscien-za padronale dalla quale il movimento operaio dove prendere le di-

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stanze, trova acuta esposizione nel libro di Dario Paccino – che ab-biamo già incontrato alla direzione della rivista di Pro Natura Natu-ra Società – dal significativo titolo L’imbroglio ecologico (1972), dedica-to «a coloro che per guadagnarsi il pane devono vivere in habitatche nessun ecologo accetterebbe per gli orsi del Parco Nazionale d’A-bruzzo e gli stambecchi del Parco Nazionale del Gran Paradiso: glioperai delle fabbriche e dei cantieri». L’autore vi traccia una mappadelle varie posizioni nel campo dell’ecologismo, da quella di «de-stra», dei «razionalizzatori» alla WWF, che ritengono più importantesalvaguardare l’ambiente dell’orso piuttosto che dell’uomo, a quelladi «centro», del «fanfecologismo» modellato sull’esempio di Nixon –«siamo tutti sulla stessa astronave; la tecnologia riparerà i dannidella passata imprevidenza; si lasci fare al timoniere» –, a quelle di«sinistra», rispettivamente «socialdemocratica», «radicale» e dei «qua-resimalisti dell’apocalisse». La prima, nel suo insistere sulla capacitàterapeutica delle riforme di struttura, si limiterebbe a convalidare laposizione padronale. La seconda, che non a caso si considera essererappresentata proprio da Nebbia e da quel movimento ecologicoamericano sul quale l’esponente ecologista pone l’accento, priva diun’analisi della struttura economica della società, insegue un’impos-sibile rivoluzione delle idee fatta dai «bei gesti» e non si accorgedella natura classista di molte delle soluzioni prospettate (per esem-pio la tassa sulla benzina). La terza, per illustrare la quale si cita unarticolo del biologo americano Paul Ehrlich, è sostanzialmente uncatastrofismo che ripone residue speranze solo nella «drastica ridu-zione delle nascite» (in sostanza il «malthusianesimo» che torneremoa incontrare, più avanti, come obiettivo polemico anche nella rifles-sione del PCI).

Per Paccino, dunque, l’universo politico-sociale a cui fare riferi-mento è ancora solo quello della sinistra di classe, consapevole dellanatura ideologica dell’ecologia e della necessità, per una soluzionedel problema del progressivo deterioramento dell’ambiente natu-rale, di una trasformazione dei rapporti di potere in fabbrica, nelleistituzioni e nella società. Ma a questo punto entrano in scena le di-visioni che caratterizzano la stessa sinistra di classe italiana. Granparte di quest’area, infatti, privilegiando lo scontro politico per laconquista del potere, riduce la dimensione delle lotte sociali al temapiù immediatamente eversivo del salario, e solo alcuni soggetti as-sumono un orizzonte più complesso circa i contenuti e i tempi delle

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conquiste sociali dei lavoratori. Tra questi il gruppo del manifesto,che in quel periodo ha stretto un rapporto organico con il Collettivostudentesco di Medicina della Sapienza: a questi sostanzialmente sirivolge l’analisi di Paccino. L’accusa che rivolge a entrambi è diidealismo. L’eredità gramsciana di un primato dello spirito sulla na-tura, seppure concepito come storia, li porterebbe a pensare la solu-zione del problema ecologico come meccanica conseguenza del ri-baltamento della struttura socioeconomica, e quindi i problemi le-gati alla compromissione dell’ambiente li vedrebbero giocare su unterreno a loro estraneo, incapaci di fare dell’ecologia un’arma ve-ramente conflittuale sia per svelare le mistificazioni borghesi cheper impedire concretamente «l’ecocidio» planetario.

La critica di Paccino appare per molti versi giustificata. Tuttavia,vi sono delle importanti precisazioni da fare. La posizione del col-lettivo del manifesto, a cui fanno riferimento anche gli studenti ro-mani di Medicina, è più complessa di quella esposta da Paccino. Ilprogetto intorno a cui nasce – portare le lotte operaie a intrecciarsicon i movimenti sociali – è frutto della consapevolezza di un acuirsidi «bisogni collettivi» che toccano in modo immediato, anche fuoridalla fabbrica, più larghi strati sociali. La costruzione di strutture«consiliari» sul territorio rappresenta un momento centrale di pre-parazione alla seconda fase rivoluzionaria in Occidente – come allo-ra si diceva – in virtù dell’intrinseco accrescimento di potere nellemani del movimento di massa e della socializzazione e sedimenta-zione di nuove risorse per il movimento stesso. Come abbiamo giàvisto, gli studenti di Medicina di Roma sono parte importante diquei comitati territoriali attraverso i quali temi come l’egualitari-smo, la critica alla tecnica e alla nocività passano dalla fabbrica alterritorio – il CdZ della Tiburtina, la lotta al Policlinico, il Consulto-rio di base a San Basilio – e non tanto nella prospettiva di una stra-tegia difensiva – sui redditi, l’occupazione e i consumi sociali, oppu-re l’ottenimento di un parco di quartiere – quanto di creazione diesperienze anticipatrici dei processi perché capaci di prospettarepiattaforme di lotta che producano uno spostamento di forze reali,una disaggregazione e riaggregazione del tessuto politico tradizio-nale intorno a una nuova cultura che sappia divenire egemonica.Quando nel 1973 scoppia la crisi, la tematizzazione di una crisi«dello» sviluppo capitalistico – che nell’esaurimento delle risorse na-turali ed energetiche e, più in generale, nel disastro ecologico mo-

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stra il suo carattere regressivo – e quindi il rifiuto di ogni strategiariformista volta a rilanciarne e razionalizzarne le forze, porterà ilcollettivo del manifesto a proporre, provocatoriamente, un «modellodi stagnazione alternativo» basato su di un nuovo «legame sociale»che non può considerarsi il frutto del meccanico passaggio da unagestione privata a una pubblica dell’economia. Il solo «modello disviluppo» storicamente e razionalmente concepibile deve avere co-me caratteristica essenziale un aumento della produttività che nonsia «il presupposto di una moltiplicazione produttiva delle merci,ma offra la possibilità di liberare quote crescenti di risorse umane emateriali per un tipo di attività e di consumo parimenti liberi e pa-rimenti creatori»: la citazione è tratta da un documento redatto daLucio Magri all’inizio del 1974, in cui si deve notare la nettezza concui, per la prima volta in quell’area, la questione delle risorse am-bientali viene posta alla base dell’analisi.

Se una sostanziale discordanza di opinioni esiste, non sembradunque riguardare tanto l’«ecologia conflittuale» di Paccino, quantocoloro che, in quegli anni, ponevano l’accento sulla contraddizionetutta «naturale» dello sviluppo, sulla esauribilità delle risorse intesacome limite oggettivo e non come il prodotto della contraddizionesociale intrinseca al modo capitalistico di produzione.

5. La posizione dei comunisti

L’apertura più esplicita e sistematica all’ecologia come nuova te-matica politica che si possa registrare a sinistra in questi anni si de-ve al PCI, con il convegno «Uomo natura società. Ecologia e rappor-ti sociali», svolto nel novembre del 1971. Mentre si fanno più evi-denti i sintomi della crisi ambientale e si infittiscono gli episodi dicontestazione, la grande offensiva politica di Nixon del 1970 equella del senatore democristiano Fanfani l’anno successivo hannoormai inserito la parola «ecologia» nell’agenda politico-istituzionale.Il convegno costituisce quindi una risposta aspramente polemica aquesti ultimi, e il tentativo di interlocuzione con alcuni intellettualied esponenti della cultura ecologica esterni al PCI (Giorgio Nebbia,Virginio Bettini, Dario Paccino e altri), indicando la teoria marxistae la lotta del movimento operaio per il socialismo come l’unico con-testo in cui sia possibile affrontare coerentemente una crisi ambien-

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tale letta come frutto dello sviluppo capitalista. Ma le suggestioniculturali anche radicali messe qui in campo non possono che subiretraduzioni politiche al di sotto della sfida che esse stesse pongono,risolvendosi in un’integrazione delle istanze ecologiche nella propo-sta riformatrice già elaborata all’interno della tradizionale visionequantitativa dello sviluppo. Il convegno «Uomo natura società» ècertamente un momento importante, ma non certo una tappa di unprocesso lineare di avvicinamento dei comunisti italiani all’ecologia.Appare piuttosto come una parentesi, destinata a richiudersi rapi-damente.

Questa iniziativa matura dall’attività di aree del gruppo dirigentedel partito – il gruppo Sicurezza sociale, che si occupa prevalente-mente di previdenza, sanità e assistenza, e la Commissione cultura –impegnate, tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Set-tanta, nel tentativo di collegarsi con le istanze innovatrici prove-nienti dai nuovi movimenti e di integrarle nella visione riformatricedel PCI. In questi anni l’Istituto Gramsci organizza diversi convegni,pensati come momenti di studio e iniziativa politica, tra i quali «Lamedicina e la società contemporanea» (Roma, 28-30 giugno 1967),e «Psicologia, psichiatria e rapporti di potere» (Roma, 28-30 giugno1969); da sottolineare in particolare la rilevanza politica di que-st’ultimo, nel quale si svolge un difficile confronto con il movimentopsichiatrico antistituzionale. Sarà del 1973 (Torino, 8-10 giugno) ungrande convegno su «Scienza e organizzazione del lavoro», volto amettere a punto una lettura delle profonde trasformazioni fordistedell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche. Tra i dirigenti cheanimano questa attività politico-culturale spicca Giovanni Berlin-guer, membro della Direzione del PCI, studioso di medicina socialeimpegnato sui temi della politica della scienza e docente all’Uni-versità di Roma, dove stringe rapporti di collaborazione con gli stu-denti che si mobilitano nella Facoltà di Medicina a cavallo del 1968.Il convegno sull’ambiente, organizzato nel 1971 presso la scuola dipartito di Frattocchie (Roma), nasce per iniziativa della Commissio-ne cultura – guidata allora, tra gli altri, dallo stesso Berlinguer – edell’Istituto Gramsci. Così Berlinguer ne ricostruisce le premessepolitico-culturali:

Vorrei ricordare, per avervi partecipato direttamente in quanto lavoravoalla federazione romana, e per aver scritto anche un libro-inchiesta su

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questo tema, il lavoro che fu fatto negli anni Cinquanta per il risana-mento delle borgate romane, che era diventato uno dei compiti fonda-mentali dei comunisti della capitale e che si può intendere come trasfor-mazione dell’ambiente urbano a partire dalle condizioni delle abitazioni,dall’approvvigionamento idrico, dalle strade, dai servizi, dal verde, dallalotta contro l’affollamento, contro l’emarginazione, ecc. Movimenti similici furono anche in altre città e in altre zone, sia sulle condizioni di vitache su problemi strutturali come la regolamentazione dei fiumi, o su te-mi ambientali-culturali come la lotta contro il saccheggio della Valle deiTempli di Agrigento.Però non c’era un’idea chiara, unitaria, del rapporto tra queste condizio-ni e il problema ambientale nel suo complesso, e soprattutto del rap-porto tra ambiente umano e ambiente naturale. Prevaleva una culturaindustrialista che lasciava ai margini problemi che poi sono emersi in pe-riodi successivi e, soprattutto, da fonti diverse. C’era una forte consape-volezza della qualità sociale dello sviluppo, non c’è dubbio, […] in termi-ni di equità, di lotta contro lo sfruttamento del lavoro, in termini di di-ritti dei giovani e delle donne. Però non c’era una chiara consapevolezzadella qualità ambientale1.

Lo storico Franco Ferri, direttore dell’Istituto, presentando ilconvegno dichiara che durante la fase preparatoria si sono dovutisuperare «sordità» e «momenti di scetticismo». A sua volta Berlin-guer – che introduce i lavori e li chiude – nelle conclusioni affermadi prevedere che vi saranno «croniche sordità, lunghe sedimenta-zioni e inerzie da vincere»; inoltre, benché il compito di affrontare iltema Uomo e natura nel marxismo sia autorevolmente affidato al filo-sofo Giuseppe Prestipino, non può fare a meno di criticare l’assenzadi altri importanti filosofi di orientamento marxista. Con riguardoai filosofi, così prosegue il ricordo di Berlinguer:

Avevano una concezione materialistica della storia ma non una concezio-ne materialistica della natura umana e del rapporto tra la natura umanae la natura in generale. Come buona parte della tradizione marxista nonsoltanto italiana, consideravano la natura come un antefatto, come ciòche precede la storia, non tenendo conto del fatto che la natura è ancheun presente, un presente biologico che fa parte della natura umana e unpresente ambientale che fa parte della società umana, influenzato dallasocietà umana e che influenza la società umana2.

1 Intervista degli autori a Giovanni Berlinguer, 7 dicembre 1998.2 Ivi.

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Nella sua relazione introduttiva Berlinguer analizza le diverse let-ture della questione ecologica emergenti nei vari orientamenti cul-turali e politici. Il mondo cattolico è descritto come profondamentedisorientato tra appelli alla fecondità e preoccupazione per la so-pravvivenza, tra critica del capitalismo e «rivincita medioevale o si-smondiana» contro l’edonismo, il produttivismo, la corsa al benesse-re materiale; mentre si rinnova l’incubo dell’Apocalisse, Berlinguervede spesso prevalere, tra i cattolici, il pauperismo. Nelle posizionidi scienziati come Adriano Buzzati Traverso come in certe campa-gne dell’Espresso viene rintracciata una tendenza culturale catastrofi-sta che riflette una «crisi irreversibile dell’idea borghese di progres-so»; per Berlinguer questa tendenza, che ha come presupposto l’im-mutabilità degli attuali rapporti sociali, può sortire in fatalismo e ir-razionalità, perfino in «aperta reazione». Altro obiettivo polemico diBerlinguer e di molti partecipanti al convegno è quel «malthusiane-simo demografico e produttivo», con autorevoli sostenitori negli or-ganismi internazionali, che cerca di congelare le disuguaglianzeplanetarie per frenare il consumo delle risorse, attento alla crescitadella popolazione e non alle conseguenze ambientali dei rapportisociali. Viene citato poi il mito naturistico della «natura amica» con-trapposta alla «tecnica avversa», coltivato da quanti dimenticano leciviltà scomparse a causa della natura ostile. Non solo: «l’invito anon mutare l’omeostasi della natura sottintende, quasi sempre, l’ap-pello a non modificare l’omeostasi della società, il richiamo a nonturbare la pace sociale con la lotta di classe». Si denunciano gli inte-ressi dell’industria, che mira al «doppio affare dell’inquinamento»,ovvero a sviluppare tecniche per realizzare profitti disinquinandodopo aver guadagnato inquinando. Infine, la posizione di Nixonviene analizzata come un «boomerang»: «in America e altrove è sor-ta la domanda: perché una società così ricca tecnologicamente pro-duce una vita di qualità così povera? E le risposte sono state severe.Biocidio, razzismo e Vietnam sono stati ricondotti ad una matricecomune».

Il convegno respinge nettamente la definizione semplicistica del-l’ecologia come «scienza borghese», ma si mostra consapevole, con ilbiologo Ettore Tibaldi, che «la protesta ecologica ha avuto finoraun’origine chiara, in alto e a destra». L’allusione è al binomio Ni-xon-Fanfani, che ricorre spesso nel dibattito e spiega politicamentela riluttanza dei comunisti ad affermare anch’essi, con l’ecologo Vir-

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ginio Bettini, che «l’ecologia è rossa» (al di là delle obiezioni teori-che rivolte alla sovrapposizione tra il piano della scienza e quellodella politica).

Sul piano strettamente teorico, il tema della collocazione politicadell’ecologia dà lo spunto ad alcuni relatori per una presa di distan-za da autori che costituiscono importanti riferimenti culturali delmovimento giovanile. Per Prestipino «la Scuola di Francoforteestende alla ragione la critica hegeliana dell’intelletto e regala alcapitalismo anche la razionalità, scegliendo per sé la ‘ragione nega-tiva’, cioè l’irrazionalismo. Ora, noi dobbiamo dire chiaro e tondo,invece, che siamo per la ragione, anzi che siamo la ragione. In con-creto, dobbiamo affermare che solo disegno razionale è quello chesi rivela capace di attuare la gestione pianificata del territorio, nonsemplicemente della fabbrica e della economia in senso stretto; lagestione pianificata dell’ambiente, non semplicemente del territo-rio». L’antropologo Giuseppe Di Siena, sempre con riferimento –tra gli altri – ai «francofortesi», critica l’«ecologia di destra» per laquale «l’imputata diventa la scienza, la scienza in generale, non irapporti capitalistici di produzione, non quella scienza sussunta sot-to questi rapporti sociali».

Altri temi di discussione ricorrono tra i comunisti. Il primo è ladisputa tra sostenitori del primato della fabbrica (soprattutto i par-tecipanti di estrazione operaia e sindacale), per i quali il capitalismopotrebbe anche risolvere il problema dell’inquinamento esterno, manon quello dell’inquinamento in fabbrica perché esso sarebbe pro-prio dei rapporti di produzione capitalistici, e quanti mettono inguardia dalla riduzione dell’ecologia all’igiene del lavoro, come l’ar-chitetto Tomás Maldonado, secondo il quale per la grande industriaè invece più difficile «rinunciare al maltrattamento delle acque, del-l’aria e del suolo. […] E questo è importante per il lavoratore, per-ché – conviene non dimenticarlo – egli sarà sempre il primo a subi-re gli effetti del deterioramento ambientale all’esterno della fabbri-ca, gli effetti della ‘natura putrefatta’ di cui parlava Marx».

Un altro confronto si svolge attorno al tema, già accennato, dellademografia, tra quanti si limitano a denunciare i «neomalthusiani»come reazionari e coloro che mettono in risalto le tendenze demo-grafiche come oggettivamente confliggenti con gli equilibri ambien-tali. Comincia inoltre ad affacciarsi il tema del conflitto tra occupa-zione e difesa dell’ambiente. Tutti questi nodi vengono affrontati

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sostanzialmente sul piano ideologico, in un’affermazione della su-periore razionalità del punto di vista dei comunisti che cerchi di te-nere insieme le varie posizioni.

Se pure con fatica, e in settori non maggioritari del Partito co-munista, il tabù è saltato, l’ecologia ha conquistato diritto di cittadi-nanza. Tuttavia si tratta appena dell’apertura di una strada incerta:la riflessione sull’ecologia non è di per sé un’elaborazione del sensoe degli obiettivi dello sviluppo; la parola «limite» non è ancora pro-nunciata ed è forse impronunciabile, come si vedrà l’anno successi-vo con la polemica sul rapporto del MIT al Club di Roma; si accen-na timidamente a una riflessione antropologica, alla necessità dielaborare una nuova teoria dei bisogni che fornisca una guida perindirizzare produzione e consumi su una via di compatibilità conl’ambiente, ma si scioglie il nodo in un’astratta opzione per la «sele-zione tecnologica» a scapito dell’«astinenza tecnologica».

Sul piano delle politiche ambientali, prevale la denuncia dei disa-stri passati e previsti; in particolare, si tende a considerare questa –a cominciare dai dissesti dovuti alla gestione predatoria del territo-rio e dei sistemi urbani – come un capitolo del cahier de doléances at-tribuito alle responsabilità del malgoverno democristiano. Pesa quil’eredità di una tradizionale interpretazione del capitalismo italiano,uscita vincente dal dibattito dell’XI Congresso, che legge la vicendanazionale in termini di arretratezza, di modernizzazione squilibrata,per un difetto di maturità della classe dominante politica ed eco-nomica. I comunisti, nel complesso, tendono a ricondurre, a faredipendere anche l’ecologia dal quadro delle riforme di struttura.

Va detto peraltro che si riflettono qui i limiti di una maturazioneche in tutta la società italiana è di là da venire (gli stessi ecologistisono ancora molto lontani, per esempio, da quella che sarà, a parti-re dalla seconda metà degli anni Settanta, l’impostazione della loroposizione sull’energia, e tuttora sostengono la scelta nucleare). Conparticolare riguardo alla posizione dei comunisti italiani, tra le con-seguenze di un’impostazione a tratti riduttiva della tematica si scor-ge qualche illusione democraticistico-istituzionale legata alla con-temporanea entrata in campo delle Regioni e degli enti locali nel-l’ordinamento italiano, che appaiono qui evidentemente investiti diuna grande speranza di trasformazione della società: al limite, sitende a sovrapporre la riforma dello Stato alla ricerca di una diversastrada dello sviluppo, confondendo – osserva oggi Berlinguer – il

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decentramento dei poteri con l’apertura di concreti spazi di parte-cipazione democratica nel territorio capace di perseguire un nuovorapporto tra società e ambiente.

L’anno successivo è quello della pubblicazione del rapporto sui«limiti dello sviluppo», in preparazione della prima Conferenzadelle Nazioni Unite sull’uomo e l’ambiente. In occasione di questidue eventi, il dibattito riprende quota tra i comunisti, con un pole-mico articolo su Rinascita di Giovanni Berlinguer. L’obiettivo è l’a-rea dei tecnocrati e degli imprenditori del Club di Roma, dei «neo-malthusiani» e dei sostenitori della «crescita zero». Una lunga rispo-sta del filosofo Emilio Garroni anima la discussione, mettendo il di-to sulla piaga: insieme all’acqua sporca delle possibili conseguenzereazionarie dell’analisi degli scienziati del MIT, i comunisti rischia-no di buttare via una riflessione radicale sullo sviluppo e la distin-zione tra i suoi contenuti quantitativi e quelli qualitativi. All’inter-vento di Garroni ne seguono diversi altri. Così Berlinguer ricordaquei passaggi:

Criticai unilateralmente questo rapporto (MIT) su Rinascita, senza ren-dermi conto che conteneva delle sostanziali novità di cui bisognava tenerconto, e vidi più l’aspetto restrittivo che lo stimolo che poteva portare auna concezione diversa dello sviluppo. In effetti era un rapporto pura-mente quantitativo, estrapolava le tendenze coeve e mostrava come allafine si sarebbe arrivati alla catastrofe. E poi era eccessivamente incentratosul tema della popolazione, incoraggiando tendenze neomalthusiane epresentando anche un malthusianesimo delle cose. Il che contiene ancheun elemento di verità, ma era del tutto assente il problema della qualitàdello sviluppo, il problema sociale, delle differenze, delle ineguaglianze.Su queste critiche si sviluppò la discussione su Rinascita, che portò anchead una correzione di tiro, tanto è vero che una delle prime cose che fa-cemmo poi fu di prendere contatto con Commoner, che era stato il pro-tagonista del Forum svolto parallelamente all’incontro ufficiale di Stoc-colma. La sua influenza sulla sinistra italiana e sullo stesso PCI fu note-vole. Direi che noi ci innamorammo di Commoner e lui del PCI, fu uninteresse reciproco, perché lui vide nel PCI quel che mancava assoluta-mente negli USA e in altri paesi, cioè una forza politica che fosse capacedi avere un sostegno di massa, collegarsi al movimento dei lavoratori, equindi di tradurre in pratica alcune delle sue idee3.

3 Ivi.

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Nel frattempo esce anche in Italia, suscitando una certa attenzio-ne, il libro dello stesso Commoner Il cerchio da chiudere. Il PCI cercaun interlocutore scientifico di livello internazionale e lo trova inquesto biologo che gode di una certa popolarità nel suo paese e sipronuncia con nettezza contro lo sviluppo capitalista e le ipotesi«neomalthusiane», tanto che l’anno successivo l’amministrazione co-munale di sinistra di Cervia (cittadina romagnola all’avanguardianella depurazione degli scarichi civili) assegna allo scienziato il pri-mo premio internazionale per l’ecologia e gli Editori Riuniti prov-vedono a pubblicare altri suoi scritti. Ma quando si arriva alla crisienergetica, alla fine del 1973, nell’analisi della nuova situazione chesi profila il PCI pone l’accento soprattutto sul tema della scarsitàrelativa delle fonti energetiche, legata anche alle strategie delle mul-tinazionali e degli Stati Uniti, e non coglie l’occasione per una ri-flessione che anticipi la scarsità assoluta delle risorse energetiche enaturali. L’orizzonte della proposta comunista è e resta quello di unindeterminato «nuovo modello di sviluppo» il cui essenziale caratte-re distintivo è lo spostamento dell’asse dell’economia verso i con-sumi sociali. Quando la crisi economica fa sentire i suoi effetti, e sulpiano politico si profila un accesso del PCI all’area di governo, pro-gressivamente perde sempre più peso la ricerca di strade diversedello sviluppo. La stessa riflessione sui problemi ambientali avviatanel 1971 è ormai delegata ad aree ristrette del partito – se ne occupaancora con una certa continuità Giovanni Berlinguer – ma scompa-re, anche sul piano simbolico, dietro l’assenso al Piano energeticonazionale presentato dal governo nel 1975, con le sue decine di cen-trali nucleari ormai compattamente avversate dagli ambientalisti, edi lì a uno-due anni anche dalla nuova sinistra e dal movimento del’77. A Montalto di Castro, in provincia di Viterbo, sito prescelto peruna grande centrale nucleare, si consumerà una frattura profondatra il PCI e praticamente ogni cosa che si muova fuori di esso tra lefasce giovanili e i nuovi movimenti, istanze anche assai differenziatema che si coaguleranno intorno alla lotta antinucleare. Né potràcolmare questa frattura la riflessione sull’«austerità» – tesa a favorirel’incontro con il mondo cattolico in nome di una riforma del con-sumismo – avviata nel ’76 da Enrico Berlinguer contestualmentealla proposta di compromesso storico. L’«austerità» sarà anzi aspra-mente criticata dalla rivolta giovanile, che ne coglierà una limita-zione moralistica alla libera espressione dei bisogni soggettivi, e non

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sembra abbia lasciato tracce rilevanti nella storia dei rapporti tra ilPCI e gli ambientalisti. Nondimeno, non mancano, all’interno diquel partito, persone che hanno vissuto la proposta berlinguerianacome un nuovo segnale d’apertura alla critica anche ambientalistadello sviluppo, lamentandone semmai la timidezza e denunciandol’ostilità di gran parte del gruppo dirigente, che avrebbe avversatoquella prospettiva.

6. Il modello teorico sindacale di analisi e controllodella nocività

Si è accennato all’evoluzione della riflessione sindacale sul temadella nocività ambientale, e, in particolare, al pionieristico impegnodella Camera del Lavoro di Torino al quale è solitamente ricondot-ta. Gli stessi protagonisti di quella lunga stagione, da Ivar Oddone aGastone Marri, dalla seconda metà degli anni Settanta hanno forni-to una prima ricostruzione storica della loro esperienza.

Schematizzando la loro lettura, la costruzione della linea sinda-cale sulla salute sarebbe avvenuta secondo quattro momenti: l’im-missione nell’attività camerale di alcuni tecnici sino ad allora estra-nei al sindacato, che si impegnano nelle prime grandi inchiestesulla salute in fabbrica adottando un punto di vista epidemiologico(è il periodo delle indagini alla Farmitalia di Settimo Torinese e allaFIAT, rispettivamente del ’61 e ’64, che portano alla costituzionedel primo Centro camerale contro la nocività); la successiva scopertadi una «specificità operaia» rispetto alla nocività da lavoro che mettein dubbio la supposta neutralità del sapere scientifico, quindi la ra-zionalità tecnologica che legittima l’organizzazione capitalista dellavoro, e permette l’elaborazione di un modello teorico di analisi econtrollo della nocività; la diffusione di questo modello nel biennio1968-69 sull’onda del movimento dei delegati (la prima dispensadella FLM sull’ambiente di lavoro è del ’69), e, infine, nei primi an-ni Settanta, la sua «esportazione» nelle lotte sul territorio e per lariforma sanitaria.

Lungo questo processo, che trova compimento sul piano formalecon i contratti del 1976 e l’approvazione della riforma sanitaria nel1978, sarebbe intervenuto un radicale mutamento nel modo di con-siderare l’ambiente di lavoro e di vita in una parte tanto ampia

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quanto non quantificabile di popolazione (negli anni Settanta il nu-mero di accordi aziendali stipulati sull’ambiente e di vertenze localiè dell’ordine di decine di migliaia).

Nel modello teorico elaborato dal gruppo di Torino, e socializza-to attraverso la formazione sindacale organizzata dall’INCA-CGIL,il vissuto quotidiano di un gruppo operaio sottoposto alle stessesollecitazioni in un stesso ambiente, cioè di un «gruppo omogeneo»,è assunto come dato indispensabile al fine di conoscere le cause,l’entità e la qualità del disturbo sanitario, e formulare quindi le pos-sibili soluzioni. Il gruppo omogeneo diventa allora «l’entità sogget-tiva» che fonda l’indagine epidemiologica e il giudizio del gruppostesso appare come l’unica misura scientificamente valida della tol-lerabilità o meno delle condizioni di lavoro (da cui i principi della«non delega» e della «validazione consensuale»).

Demistificata la cosiddetta scientificità dell’organizzazione del la-voro, il discorso sulla salute, come bene non mercificabile, si apre adun orizzonte più vasto, che a partire dal rifiuto della monetizzazionedel danno si traduce nella richiesta di controllo e modifica del pro-cesso produttivo.

Nel marzo del 1966, all’approssimarsi dei rinnovi contrattuali, laCdL di Torino in collaborazione con l’INCA propone di istituireComitati aziendali paritetici per il controllo della nocività ambien-tale (nei primi anni Settanta sostituiti dalle Commissioni ambiente,nella maggioranza dei casi composte da delegati), il registro dellecondizioni ambientali (polveri, fumi, gas, temperatura, umidità,ventilazione) e quello dei dati biostatistici (rilevazione statistica deidati sulla salute contenente il numero delle assenze, delle malattie edegli infortuni). Questi strumenti, ai quali poi si aggiungono il li-bretto sanitario individuale (generalità del lavoratore, reparto, atti-vità lavorativa svolta, disturbi o malattie accertate) e il libretto di ri-schio, vengono gradualmente recepiti dai contratti nazionali deglianni successivi, demandandone l’attuazione alla contrattazione arti-colata. Ed è proprio con l’adozione della nuova modalità di lottasindacale articolata, e con la conseguente affermazione del movi-mento dei delegati nel 1969, che il tema della nocività del processoproduttivo diventa patrimonio di massa.

Nel biennio ’68-69, il significato della contrattazione articolataviene stravolto dalla rivendicazione del delegato e dalla nascita deiConsigli di fabbrica, e da «regolamento d’esecuzione» di quella ca-

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tegoriale si trasforma in una sorta di «contrattazione permanente»tra «potere imprenditoriale» e «potere sindacale» in fabbrica che in-veste tutti gli aspetti dell’organizzazione del lavoro, il cottimo, itempi, i ritmi e le pause, la composizione delle squadre ecc., e con-tribuisce notevolmente alla diffusione della nuova sensibilità ope-raia sui temi della salute e della nocività ambientale. Inizia quindi lafase più matura e significativa del conflitto per il diritto alla saluteche porterà la linea sindacale sull’ambiente di lavoro, sancita dal-l’articolo 9 dello Statuto dei Lavoratori (1970), ad uscire dalla fab-brica per divenire modello delle lotte sociali.

Tuttavia, a dispetto del grande successo ottenuto con lo Statuto,la questione è ancora limitata alle poche grandi aziende presenti sulterritorio nazionale, tanto che i primi accordi aziendali veramenteinnovativi sono stipulati alla Zanussi-Zoppas e alla FIAT solo nel lu-glio del 1971. La necessità di elaborare un unico piano d’azione,capace di coinvolgere tutte le categorie e aziende della penisola, in-duce le tre Confederazioni a promuovere il primo convegno unita-rio sull’ambiente di lavoro a Rimini, nel marzo del 1972, che elabo-ra forse il tentativo di sintesi più alto della strategia sindacale perrimuovere la nocività in fabbrica e nel territorio.

Elemento imprescindibile del conflitto sociale a difesa del dirittoalla salute è la centralità della fabbrica e della lotta per la trasforma-zione dell’organizzazione del lavoro, che è già lotta per un nuovomodello di sviluppo che metta al centro le finalità sociali della pro-duzione. Ancora a Rimini, oltre a ribadire il principio della nonmonetizzazione e il diritto di denuncia e intervento del Consiglio difabbrica sulle condizioni ambientali nocive, i sindacati confederalirivendicano il diritto a intervenire sulla politica degli investimenti,sul dove e come devono essere costruiti i nuovi impianti, diritto cheentra a pieno titolo, almeno da un punto di vista formale, nei con-tratti di categoria del 1976.

Il punto veramente controverso tra quelli analizzati nel convegnoriguarda i MAC (concentrazione massima ammissibile di sostanzenocive), la loro accettazione o meno come parametri per giudicarela tollerabilità di un ambiente di lavoro. La questione ha alle spalleun lungo dibattito in ambito sindacale. Nei primi anni Settanta iMAC vengono inseriti nei contratti aziendali, e la pronuncia a Ri-mini a favore della loro accettazione fa sì che trovino sanzione nelrinnovo contrattuale del 1973.

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Una posizione radicalmente alternativa rispetto ai MAC è peròespressa dai delegati del Gruppo di prevenzione e igiene ambientale(GPIA) del Consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza.

La storia di questo collettivo è altrettanto lunga e significativa diquella del gruppo della CdL di Torino. A partire dal 1966, infatti, aCastellanza prende vita il movimento Intercentri, inizialmente ani-mato da alcuni ricercatori del Centro ricerca della Montedison e delCentro Donegani di Novara, ma ben presto capace di coinvolgerediversi altri centri di ricerca italiani. L’obiettivo del movimento, chesi propone da subito di tenere insieme i laureati e gli operai, è es-senzialmente la messa in discussione dell’organizzazione gerarchicadella ricerca industriale, evidenziandone la caratterizzazione classi-sta e falsamente neutrale. Ancora prima del 1969, quindi, Intercen-tri affronta il problema di cosa produrre, come produrre, dove pro-durre, per chi produrre, con quali fini, ecc. Con l’esplodere della con-testazione studentesca e della conflittualità operaia, si apre anche lanuova stagione di lotte sul terreno della nocività in fabbrica, perchéun gruppo di medici proveniente dalle esperienze universitarie sirende disponibile al lavoro d’inchiesta insieme agli operai. Nascecosì il GPIA del CdF, che nel 1970 dà vita al Centro autogestito diprevenzione e igiene ambientale del territorio di Castellanza. Nellostesso anno cominciano le vertenze miranti alla bonifica dei cicliproduttivi, al risanamento dei luoghi di lavoro e dell’ambiente cir-costante che, con un andamento ovviamente non lineare, ottengonocomunque vittorie significative. Tra queste, già nei primi anni Set-tanta, importanti miglioramenti e innovazioni impiantistiche di re-parti altamente inquinanti che consentirono l’abbattimento dei fat-tori di nocività per i lavoratori insieme a quello delle emissioni dipolveri e gas verso l’esterno, il recupero e riutilizzo dei sottoprodot-ti, nonché un significativo risparmio energetico. Un processo con-flittuale ma condotto con consapevolezza progettuale che riuscì a«far toccare con mano alle gerarchie aziendali che non inquinareera anche economico», come ricorda Luigi Mara, all’epoca ricerca-tore della Montedison di Castellanza.

In un documento elaborato nel giugno del 1972 al fine di porloall’attenzione di tutti i lavoratori del settore chimico, dei tecnici,delle forze politiche e sindacali interessate, il GPIA prende chiara-mente posizione contro il ricorso ai MAC, in primo luogo perché ivalori di massima concentrazione ammissibile non hanno alcuna

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validità scientifica (si riferiscono ad una astratta persona sana, nelpieno del suo vigore fisico, e non sottoposta allo sforzo lavorativocomplessivo, inoltre sono stabiliti da coloro che mai saranno espostialle sostanze nocive). I MAC si limitano a esprimere i rapporti diforza fra potere economico-industriale e potere sindacale in un datomomento storico, e, in sostanza, perpetuano quel sistema inquinan-te e di malattia-morte operaia in cui si presuppone l’innocuità dellaproduzione di una certa sostanza, o dell’attivazione di un certo ciclodi lavorazione, per intervenire solo in un secondo momento a de-terminarne la nocività. In nome del diritto inalienabile alla salute, ilGPIA di Castellanza arriva dunque a teorizzare il «MAC zero», o ri-schio zero, all’interno e all’esterno della fabbrica (nella piattaformadel gruppo Montedison del 22 gennaio 1977 il GPIA riesce ad im-porre l’inserimento del MAC zero per il CVM, cloruro di vinile mo-nomero). Rispetto alla politica di salvaguardia dell’ambiente natu-rale il GPIA propone la strategia adottata alla Montedison di Ca-stellanza come modello per le azioni contro la nocività da svolgereall’esterno della fabbrica.

Si è già detto che il diritto sindacale ad intervenire nelle scelteproduttive trova sanzione nei contratti del 1976. A questa data lacopertura contrattuale assicura a tutti i lavoratori i seguenti dirittinel campo della conoscenza e del controllo dei rischi e dei danni:obbligo per l’azienda di comunicare natura e composizione delle so-stanze chimiche utilizzate; rifiuto di quelle di cui non si conosce lacomposizione; diritto ad eseguire controlli ambientali e a redigereregistri e libretti, alle visite mediche periodiche, alla decisione circala modalità di utilizzo dei servizi sanitari ed igienici. Per quanto ri-guarda la riduzione dei rischi: adozione dei MAC; obbligo di manu-tenzione e sostituzione delle sostanze nocive; riduzione dell’orario,aumento delle pause, rotazioni ecc. Nel campo dei diritti d’inter-vento per la modifica dei processi produttivi: intervento in fase diprogettazione e ristrutturazione; intervento sul terreno «dell’ecolo-gia» (nel senso dell’inquinamento interno ed esterno alla fabbrica);diritto di contrattazione dei nuovi insediamenti industriali ai finidella loro localizzazione sociale e dei cicli produttivi, dei tempi, rit-mi, organici ecc.

A questo punto si può dunque avanzare una prima interpretazio-ne circa la cultura sindacale dell’ambiente, inteso come ambiente dilavoro e di vita, così come si delinea e diffonde a partire dai primi

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anni Settanta, nello stesso periodo in cui l’ambientalismo muove iprimi passi. In questa luce è sempre più difficile riproporre la que-stione di una conflittualità insanabile tra movimento operaio e mo-vimento ambientalista, prodotto del ricatto occupazionale.

Il punto di vista sulla nocività ambientale elaborato dal movimen-to operaio affonda le sue radici nella critica all’organizzazione capi-talistica del lavoro e della società, che è critica a uno sviluppo fonda-to sullo sfruttamento e la mercificazione dei beni essenziali. In so-stanza, la nocività, sia in fabbrica che nell’ambiente di vita, è il pro-dotto di un’unica causa, il sistema capitalista di produzione, e inquanto tale si elimina nei suoi effetti sul territorio solo applicando ilmodello preventivo già sperimentato dagli operai sul posto di lavo-ro («non delega», «validazione consensuale», libretti e mappe di ri-schio, controllo del processo produttivo). Il problema è semmaiquello di come «esportare» questo modello all’esterno della fabbri-ca, con l’ausilio di quali soggetti del conflitto. Ma qui la risposta èobbligata: l’avvio del cambiamento nel territorio è possibile solo invirtù della posizione egemonica degli operai in fabbrica (grazie allaquale si hanno provvedimenti di bonifica degli impianti, diversescelte produttive ecc.); il gruppo operaio, quindi, si pone semprecome il riferimento necessario per tutti coloro che, portatori di sin-gole esperienze relative ai problemi della comunità, dall’inquina-mento ai servizi sociali, intendono aprire spazi di conflittualità sulterreno della salubrità dell’ambiente di vita.

In questa analisi è evidente la sottovalutazione delle trasforma-zioni sociali in atto nella seconda metà degli anni Settanta, che av-viano la marginalizzazione della classe operaia come soggetto delconflitto. Emerge, inoltre, come l’impostazione sindacale, anchenelle sue più avanzate elaborazioni, non acceda al punto di vista checoglie le contraddizioni ecologiche dello sviluppo, punto di vistache, per la verità, all’epoca, in alcuni ambienti della variegata cultu-ra ambientalista è piuttosto immaturo, e persino inaccettabile sulpiano della giustizia sociale. Rispetto a questi ultimi, ha quindi buongioco Elio Giovannini, allora segretario della CGIL, che nel 1973, inun intervento pubblicato da Rassegna di medicina dei lavoratori, pren-de le distanze e alimenta le polemiche:

È stato detto che le condizioni di vita delle grandi masse dipendono daimovimenti del capitale determinati dalla sua redditività. Dal momento in

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cui si accetta questa redditività come condizione o metro dello sviluppodella società, è abbastanza difficile sottrarre una parte delle risorse, sianoumane o naturali, alla legge naturale. Per questo non può essere conside-rato scandaloso che lo sviluppo capitalistico abbia contaminato le acque,edificato i ghetti urbani, resa irrespirabile l’aria se non si comincia col di-chiarare scandaloso il fatto che il primo industrialismo abbia distrutto fi-sicamente due generazioni nel lavoro di fabbrica. […] E se non si comin-cia col dichiarare inaccettabile il prezzo immenso che i lavoratori paganoogni giorno alla «produzione» in termini di infortuni, di ammalati, di ne-vrotici.

L’analisi di parte operaia di Giovannini si trasforma quindi in unesplicito affondo polemico contro l’incapacità dell’ambientalismo ditrasferire la questione ecologica dal campo astratto delle «fatalità» alterreno concreto dello scontro politico:

La differenza tra il sindacato ed Italia Nostra, nell’affrontare la questionedell’ambiente, sta tutta qui: che il sindacato parte dalle distruzioni di ri-sorse umane consumate nel processo produttivo per misurare la distru-zione di risorse naturali che di questo tipo di processo produttivo è lanaturale conseguenza. Questo significa mettere con i piedi per terra laquestione ecologica, trasferendola dalle fatalità delle catastrofi naturali alpiano più concreto di una lotta politica e sociale che è possibile organiz-zare a partire da un mutamento che deve avvenire nella organizzazionedel processo di produzione fino ad investire l’intero ambiente sociale. Inquesto senso il sindacato è interessato in prima persona nella lotta sul-l’ambiente. […] La faccia nascosta della questione ecologica consiste inun massiccio intervento finanziario pubblico destinato a favorire la ri-strutturazione di grandi comparti della industria nazionale, ed a modifi-care i rapporti di forza tra i grandi gruppi. […] Proprio perché su questoterreno si giocherà una partita importante per l’avvenire del paese […] ilsindacato intende impegnare le sue forze perché prevalgano, in unoscontro chiaro, gli interessi fondamentali dei lavoratori. Il primo passonecessario perché questo sia possibile consiste nel dire che si tratta diuno scontro fra interessi e forze profondamente diverse: anche se questovuol dire rompere un fittizio umanesimo ecologico.

Ma quello che Giovannini non vede o non riesce a vedere, e comelui molti esponenti del sindacalismo italiano, è che la migliore cul-tura ambientalista di quegli stessi anni, a prescindere dalle teoriedei tecnocrati, non si pone su un piano alternativo o antagonista ri-spetto a quello del movimento operaio, ma sta invece elaborando

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un nuovo e più vasto approccio ai problemi dell’ambiente. Un ap-proccio che non è più egemonizzato dalla dimensione sanitaria edalla centralità della fabbrica perché si rivolge all’analisi del consu-mo dei beni oltre che alla loro produzione, e teorizza la questionedei nessi non lineari tra i fenomeni, considerando quindi gli effettidifferiti nel tempo e nello spazio della produzione e del consumo. Eche, tuttavia, non può esimersi dall’assumere la critica al modellocapitalista di produzione e organizzazione della società delineato inambito sindacale in un decennio di lotte e riflessioni, anche grazieall’apporto studentesco, così come non può non scendere sull’altroimportante terreno politico insito nell’affermazione della «soggetti-vità operaia», cioè la rivendicazione di democrazia nei processi deci-sionali che riguardano la comunità.

È il consumarsi di questa incomprensione tra il movimento ope-raio e quello ambientalista, dovuta forse alla effettiva immaturitàdel momento storico nel favorire il dialogo tra due identità tantodifferenti sia da un punto di vista socio-culturale che per finalitàimmediate, che nei decenni successivi, segnati da una profondamodificazione dei processi produttivi su scala planetaria, porterà al-l’approfondirsi della loro distanza sino a momenti di vera e propriarottura.

7. La «sinistra ecologica» tra movimento e riviste

Come si è già visto, la grande ondata del ’68-69 investe l’ambitodelle tematiche ecologiche, moltiplicando e radicalizzando i conflittie i soggetti in campo. Mentre le associazioni tradizionali crescono enuovi gruppi locali vengono alla luce, prendono corpo alcune espe-rienze che impegnano delle minoranze ma che sono qualitativa-mente molto significative per la loro capacità di comunicare a unambito più vasto e di sperimentare inediti percorsi politico-cultu-rali, percorsi che si sono dimostrati fondamentali nella maturazionedella cultura ambientalista italiana. Ciò in particolare nell’area mi-lanese, per l’intreccio tra uno scenario tecnologico-produttivo avan-zato e alti livelli di conflittualità e maturità espressi dagli operai,dagli studenti e dai tecnici.

In un contesto tecnico neutrale costituito dalla già esistente rivistaAcqua & Aria, bimestrale diretto da un ingegnere sanitario (France-

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sco Piovesana) che si occupa di approvvigionamento, depurazione,inquinamento, condizionamento, dissalazione, smaltimento, sonoredatti tra il ’70 e il ’71, con l’esplicito appoggio di Italia Nostra cheli presenta pubblicamente, due numeri speciali sull’ecologia curatida uno staff redazionale appositamente costituito, diretto dall’ecolo-go di sinistra Virginio Bettini e composto, tra gli altri, da GiuseppeBini (della Farmaceutica De Angeli di Milano), dal botanico ValerioGiacomini, che guida la Federazione nazionale Pro Natura nella suarecente versione movimentista e radicale, dall’architetto e designermarxista Tomás Maldonado, dall’idrobiologo di area comunistaRoberto Marchetti, dal merceologo dell’Università di Bari GiorgioNebbia, autore che si richiama al Movement americano, attivamenteimpegnato dentro Italia Nostra e attento, da cattolico, alle aperturedella dottrina alla questione ambientale. Il primo dei due fascicoli(settembre 1970) si occupa di vari temi, ma soprattutto tenta unadefinizione del nuovo ruolo dell’ecologia come disciplina scientifica,di cui si sollecita il rinnovamento nel senso del superamento deglispecialismi e della presa di posizione nel confronto con i problemisociali. Nell’editoriale Virginio Bettini si confronta con i diversi si-gnificati che l’ecologia assume nel mondo in opposti ambiti cultura-li: per tanta sinistra soporifero tampone delle domande sociali ever-sive, per il mondo imprenditoriale vincolo inaccettabile alla propriaespansione, per certi ambienti accademici mistificazione scientifica.

Questi equivoci sono possibili perché siamo ancora privi di idee chiarecirca il ruolo di questa scienza fondamentale nell’ambito della nuova so-cietà. Manca infatti una posizione di fondo su alcuni problemi che rien-trano nel campo di indagine dell’ecologia. Perché?La spiegazione è abbastanza semplice. Ogni indagine scientifica oggi di-pende dall’imperativo della produzione. Infatti nei grandi laboratori diricerca fondamentale (che oramai sono fuori dalle Università) la ricercasui problemi del territorio è assolutamente mistificata, essendo funzio-nale ad una conservazione delle risorse che consentano investimenti alungo termine od a particolari tipi di controllo sulla produzione, e fraquesti rientra anche lo studio di impianti di depurazione.[…] Procedendo su questa strada, senza nuove scelte di fondo, ogni di-scorso ecologico apparirà reazionario alla sinistra e sovversivo alla destra.Questa interpretazione strumentale dell’ecologia è stata anche favoritada una visione restrittiva del campo di azione della scienza stessa. Gli ad-detti appartengono a discipline di studio ed a settori di interesse cultu-rale molto variabile […]. Mai però si è giunti ad una dichiarazione co-

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mune nella quale si considerasse il problema ecologico come comprensi-vo di singoli interessi e l’ecologia come esame interdisciplinare dei rap-porti fra l’uomo, come singolo e come società, e la sua unica casa e rifu-gio nello spazio, il pianeta Terra.Su queste colonne noi intenderemo invece ribadire che fine dell’ecologia,intesa globalmente, è l’indicazione più ferma che le risorse naturali delpianeta Terra non sono state date all’uomo per essere sfruttate al fine digarantire benessere ad una parte limitata degli odierni abitanti, ma perassicurare un mondo umano a tutti i terrestri attualmente viventi ed aquelli delle generazioni future.

A sua volta Giorgio Nebbia, in un articolo che tenta un breve trat-teggio storico della cultura dei rapporti tra uomo e ambiente, defi-nisce «tre filosofie»: la prima è quella di coloro che hanno una ster-minata fiducia nelle risorse della tecnica e nel concetto di progresso,inteso come aumento della produzione di beni, riferita all’america-no Edward Teller, al britannico Colin Clark e, in Italia, al movimen-to di pensiero che fa capo alla rivista IRI Civiltà delle macchine; la se-conda posizione, riferita ad altri scienziati anglosassoni (Weinberg),è più blanda e sensibile ai problemi della conservazione e considerala necessità di affrontare i «dilemmi tecnologici» usando più inten-samente e meglio la stessa tecnica; la terza posizione, quella «radi-cale» di derivazione soprattutto americana, portata avanti dalla con-testazione universitaria partita da Berkeley e nei numerosi teach-insull’ecologia tenuti nel ’70 da studenti, cittadini e professionisti, pre-dica l’astinenza dai consumi sulla base del fatto che occorre conside-rare le risorse della Terra «con la mentalità del veicolo spaziale»:tutto quello che viene utilizzato è tratto dalla biosfera e tutti i pro-dotti di rifiuto sono rimessi nella biosfera. Vengono elencate una se-rie di misure di limitazione dei consumi e dell’impiego delle risorse,oltre alla richiesta del contenimento demografico riferita al già piùvolte citato Paul Ehrlich. Secondo Nebbia questa nuova utopia cheaspira alla modestia, al silenzio, alla riconquista di un ambiente pu-lito, esercita un grande fascino, soprattutto nei paesi avanzati e giàsoffocati dalla congestione e dall’inquinamento, e trova qualcheavallo nelle encicliche papali Gaudium et Spes (1965) e PopulorumProgressio (1967). Per Nebbia è in gioco la sopravvivenza della stessademocrazia, poiché l’alternativa alla programmazione volontariadell’uso delle risorse sarebbe una «dittatura della conservazione».

Significativa, di questo primo fascicolo, è anche la pubblicazione

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di un’ampia documentazione di autori americani indipendenti, ri-presa da Science, sugli effetti ecologici della guerra in Vietnam. Il se-condo è invece dedicato a una circostanziata denuncia della situa-zione ambientale genovese e ligure che aveva portato al disastroidrogeologico del 1970.

Gli speciali configurano in realtà una vera e propria rivista auto-noma, che in effetti nasce alla fine del 1971, soprattutto per la spin-ta di Virginio Bettini. La testata, bimestrale, prende il nome di Eco-logia. Rivista di studi e analisi sull’inquinamento, la pianificazione e laconservazione ambientale ed esce fino alla fine del 1973, quando all’e-ditore vengono a mancare le risorse finanziarie. Entrano a far partedella redazione di Ecologia, oltre ai tecnici dei vari settori interessati– come Giuseppe Bini, Giulio Maccacaro (tra i marxisti italiani teo-rici della «non neutralità della scienza»), gli idrobiologi GiorgioMarcuzzi e Menico Torchio, Giorgio Nebbia, lo zoologo Vittorio Pa-risi, Francesco Piovesana –, anche esponenti delle associazioni comeRenato Bazzoni (Italia Nostra), Sergio Frugis e Fulco Pratesi (delWWF, quest’ultimo vicepresidente), Marco G. Pellifroni (Movimentoper il Riscatto delle Città), l’avvocato Giorgio Veronesi e i giornalistiGuido Manzone e Alfredo Todisco, da tempo impegnati nella di-vulgazione e nella denuncia dei problemi ambientali, l’uno su posi-zioni marxiste e l’altro vicino alle idee neomalthusiane.

Gli undici numeri di Ecologia appaiono come un luogo di conti-nua tensione verso l’esterno, con un’area disciplinare che più d’unavolta risponde piccata a quelle che considera indebite infrazioni alleregole di produzione e riproduzione del sapere codificate dallapropria comunità; tuttavia, anche all’interno, non mancano gli attri-ti. Da una parte un’area di tecnici e specialisti, come testimonia laprogressione editoriale sopra descritta, va radicalizzando e preci-sando scientificamente e politicamente la propria riflessione, finoad accogliere come supplemento della rivista un giornale ecologistadi 8 pagine decisamente movimentista orientato a un punto di vista«di classe» sull’ecologia: a partire dal gennaio 1973 esce infatti De-nunciamo, diretto sempre da Bettini e curato dai giovani del Movi-mento ecologico (su questa collaborazione torneremo più avanti).Oltre al particolare taglio culturale «commoneriano» di quest’area,risulta anche evidente la ricerca di interlocuzione con le varie posi-zioni della sinistra e del sindacato, pur denunciandone i ritardi:tecnici come Roberto Marchetti riportano i termini di un dibattito

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già presente in certi settori del PCI, vengono espressi apprezzamen-ti alle posizioni dei sindacati confederali sulla nocività e l’ambienteformalizzate nel marzo del 1972 a Rimini, si interloquisce, magaripolemicamente, con il quotidiano il manifesto, si accolgono materialidi un’associazione allora molto orientata a sinistra come Pro Natu-ra, ecc.

Dall’altra parte, specialisti come Marcuzzi e altri tendono deci-samente a una precisazione degli ambiti disciplinari dell’ecologiaumana come scienza formalizzata, cui semmai rivendicare maggiorespazio accademico in un apparato italiano della ricerca e della di-dattica obiettivamente poco orientato a questo ambito, e si distin-guono dai primi sui temi di punta della rivista che, non a caso,comprendeva la rubrica «Polemica ecologica». Altri ancora finisconoper scegliere di non fare più parte del comitato di redazione. In unanota redazionale del marzo 1973, per esempio, resta traccia dell’u-scita polemica di Fulco Pratesi dalla rivista:

Pratesi preferisce, «tenendo alla sua dignità», lasciarci e trincerarsi anco-ra di più nel suo lavoro unidirezionale presso l’associazione del WorldWildlife Fund, contro la quale non abbiamo nulla, ma che riteniamotroppo elitaria e settoriale per il tipo di discorso ecologico che noi si vor-rebbe fare. Pratesi preferisce anche stare dalla parte di coloro che deten-gono il potere ecologico e, nonostante le sue affermazioni di purezza, di-venta consulente generale di organizzazioni industriali para-statali chestanno facendo dell’ecologia una disciplina manageriale. Condoglianze.

Il riferimento finale è, probabilmente, a una collaborazione conla società Tecneco dell’ENI, che nel giugno del 1973 presenta a Ur-bino il rapporto sulla Situazione ambientale in Italia. Pur valutato ilpregio complessivo del rapporto, un successivo editoriale di Virgi-nio Bettini ne critica infatti l’impostazione filoindustriale, l’assenzadi riferimenti alla nocività del lavoro, la neutralità rispetto ai pro-dotti inutili e inquinanti (con particolare riferimento al PCB e agliindirizzi dell’industria chimica in generale) e altro ancora.

Il dibattito si radicalizza in particolare dopo la metà del 1972.All’inizio di giugno si tiene la Conferenza di Stoccolma, dove sonopresenti, naturalmente, diversi redattori. La redazione di Ecologiapubblica, in inglese, tutti i verbali del Forum alternativo che si tienedurante la conferenza dell’ONU, così commentando l’evento uffi-ciale (luglio 1972):

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I risultati sono: un nuovo carrozzone internazionale privo di fondi e dallanessuna credibilità scientifica prima ancora che politica; una serie di rac-comandazioni da dilettanti della natura, come se a Stoccolma si fosseroriuniti i comitati «amici del lepidottero» e non rappresentanti di 114 go-verni sovrani; la condanna perpetua per i paesi sottosviluppati a restaretali ed il rinvigorirsi delle profferte di assistenza tecnologica. […] Il no-stro dovere di informatori dell’ecologia è di evidenziare come al Forumsi siano veramente affrontati problemi ecologici di portata mondiale chenon hanno trovato posto all’ONU. Lasciamo giudicare a voi il margine dicredibilità di una Conferenza che, assise mondiale dell’ecologia, dimenti-ca o non vuole occuparsi dell’ecocidio in Vietnam, Laos e Cambogia, del-l’Est, della salute nelle fabbriche, delle minoranze razziali, dei reattorinucleari, dei problemi urbani, del problema dei metalli pesanti.Stoccolma primaverile, ma ecologia dell’ibernazione.

L’editoriale dello stesso numero è di Maccacaro:

L’importante è credere che «Siamo tutti colpevoli» come intitola suquattro colonne il Corriere della Sera, perché «il male è nell’uomo», comeecheggia pensosamente la nuova serie della Fiera Letteraria. Quello chesi vuole, insomma, è che la colpa sia di tutti, perché l’innocenza sia re-stituita al colpevole: il sistema capitalista. […] Tanto è vero il problemadell’inquinamento, tanto falsa è l’improvvisa vocazione ecologica del si-stema che lo ha prodotto. In tale vocazione il sistema cerca, oltre chenuovi profitti, assoluzione e salvezza. Che non può raggiungere se nonperfezionando compiutamente la sua callida mistificazione: affermare laglobalità del problema ecologico per sostanziare la collettività della col-pa, non basta ancora, se non si avvia e conclude l’operazione successiva,convincere l’uomo, ogni uomo, ogni «quendam de populo», – sempre «al-tro» rispetto al potere – che non solo è lui a produrre l’inquinamento, malui stesso è l’inquinamento.Così scoppia non tanto la bomba demografica quanto l’uso terroristico ditale bomba. Si dice e si ripete: siamo 3,5 miliardi, nel 2000 saremo 7 mi-liardi, nel 2270 avremo meno di 1 metro quadrato a testa. Ma è vero?Chi può esserne certo? […] Forse che la impennata demografica non nesottende una tecnologico-scientifica? […] Non c’è paese industrializzatoche abbia un tasso di natalità superiore al 2,5%. […] Soltanto i paesi invia di sviluppo hanno un’elevata natalità. Dunque l’omeostato naturaleesiste anche per la natalità dell’uomo, ma è bloccato dall’ingiusta distri-buzione della ricchezza e del potere.In questo senso il problema demografico, localmente vero, è mistificatocome planetario: ancora una volta la globalizzazione degli effetti è rivoltaall’occultamento delle cause.

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Si tratta di una ulteriore, decisa apertura alle posizioni di BarryCommoner sulla crisi ambientale, in contrapposizione a quelle neo-malthusiane. Non a caso, all’editoriale di Maccacaro segue la pub-blicazione di un lungo articolo di Commoner.

La vita di Ecologia finisce con il 1973, non prima di avere pubbli-cato altri materiali di Commoner. Ma ormai la vera novità è l’uscita,sugli ultimi numeri, del supplemento Denunciamo. E se le condizioniper la pubblicazione di Ecologia non si protraggono, nondimeno l’e-ditore decide di non disperdere del tutto quell’esperienza: la fa in-fatti rientrare nell’alveo della vecchia Acqua & Aria, creando nel1974 il mensile Acqua & Aria. Rassegna di Ecologia – che l’anno doposi chiamerà Ecologia Acqua Aria Suolo – e dando la direzione a Betti-ni, con simile impostazione; soprattutto, proseguendo la pubblica-zione di Denunciamo. Vanno avanti, quindi, le vicende di quellaesperienza editoriale, di cui è qui importante rilevare soprattutto ilrapporto con l’esperienza di movimento che ha dato vita al supple-mento Denunciamo.

A Milano, intorno al ’69-70, nel pieno dell’agitazione studentescapost-sessantottesca, Virginio Bettini incontra un gruppo di giovanistudenti di alcune scuole secondarie superiori, molto impegnati asinistra ma non appartenenti alle organizzazioni politiche, che s’in-teressano subito all’ecologia e mettono in piedi un lavoro di appro-fondimento e iniziativa che prosegue per tutti gli anni successivi,dentro e fuori della scuola, nei movimenti di lotta e nei comitati diquartiere. Questi studenti scelgono di entrare in Italia Nostra, cheall’epoca è un’associazione in forte crescita che apre diversi «gruppigiovani» nelle varie sezioni territoriali, e la cui anima borghese e in-tellettuale illuminata è attraversata dalle posizioni della sinistra; aMilano, in particolare, da una forte area socialista di cui fa parte, tragli altri, l’economista Umberto Dragone. Andrea Poggio, Paolo Sa-la, Annamaria Testa, Fabio Lopez, Giorgio Schultze e altri scelgonotuttavia di dare vita a una sorta di doppia militanza, formando con-temporaneamente un piccolo ma attivissimo gruppo, il Movimentoecologico. Si tratta delle loro prime esperienze di impegno politico,tematico ma strettamente intrecciato alla mobilitazione più genera-le. Anzi, è proprio la politicizzazione giovanile di quella fase – anco-ra fortemente influenzata dal movimento del ’68-69 che si è ripro-dotto anche tra gli studenti medi con caratteri simili a quelli degliuniversitari – che implica nuove forme d’impegno, la sperimenta-

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zione di soluzioni organizzative autonome e la disponibilità a intra-prendere percorsi politico-culturali inediti, e li porta quindi a ricer-care una nuova caratterizzazione nell’ambito della più generale mo-bilitazione per l’ambiente e la salute. Il gruppo concretizza la pro-pria collaborazione con un’area di tecnici in fermento – quella diEcologia – nella creazione del giornale Denunciamo, che si presentacome una sorta di «organo» del Movimento ecologico. Poi, dal 1975,il gruppo non si definisce più come Movimento ecologico, ma sem-plicemente come collettivo redazionale del giornale.

Così Andrea Poggio descrive quella esperienza:

Noi ci trovammo un po’ in mezzo tra Italia Nostra, con questa compo-nente socialista e i suoi giovani, e il Movimento ecologico, che aveva unaposizione diciamo più «oltranzista» rispetto a Italia Nostra. Quindi anda-vamo alle riunioni di Italia Nostra, perché era l’unico posto dove i giova-ni si occupavano di ecologia a Milano, facevamo alcune delle campagnedi Italia Nostra, e insieme facevamo il Movimento ecologico. […] Io ave-vo l’impressione di vivere un’esperienza di confine, ed era entusiasmanteproprio per quello. Eravamo fuori posto nelle associazioni classiche, edovevamo spiegare ai nostri compagni di scuola il perché del nostro im-pegno sui temi ambientali. E però questo luogo di confine era un luogoricco, di idee, di tentativi di interpretazioni, di sperimentazioni anche so-ciali concrete: si andava nei quartieri, si andava a visitare le situazioni dilotta. […] La nostra esperienza è stata quella dei primi gruppi ambienta-listi, che in quanto tali non nascevano da episodi di lotta operaia, maquando li scoprivano erano contenti di trovare una conferma del proprioruolo di confine tra la sinistra e gli ambientalisti. […] Non l’ho vissutaaffatto come una contrapposizione, ma come un momento di scambio incui una cosa non deprimeva l’altra4.

La pratica «di confine» è da considerare soprattutto per le sue po-tenzialità creative. Su questo confine Poggio e gli altri incontrano,per esempio, il punto di vista operaio sulla salute e l’ambiente. Daun rapporto «a distanza», dalla conoscenza delle pubblicazioni sin-dacali più avanzate e delle elaborazioni del GPIA della Montedisondi Castellanza, di Giulio Maccacaro e della sua rivista Sapere (su cuisi tornerà più avanti), nel 1974-75 passano a un incontro più direttocon questi temi attraverso le iniziative organizzate dal Movimento

4 Intervista degli autori ad Andrea Poggio, 6 novembre 1999.

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studentesco di Medicina della Statale, e in particolare da AlbertoDonzelli (oggi medico, esperto di prevenzione). Donzelli e gli altriportano, tra l’altro, l’esperienza dei primi Servizi di medicina del-l’ambiente di lavoro (SMAL) costituiti in alcune regioni del Centro-Nord, i cui operatori partecipano a una serie di iniziative. Questoincontro è quindi una delle innumerevoli vicende che contribuiro-no, negli anni Settanta, alla crescita e alla diffusione di una nuovacultura della salute. Sui suoi limiti, Andrea Poggio svolge alcuneconsiderazioni che hanno senz’altro un valore più generale:

Tuttavia erano sempre esperienze mediate dai tecnici. Noi incontravamoquei tecnici, quei medici del lavoro che si occupavano di queste cose, nongli operai. […] Infatti, dopo qualche anno di scambio proficuo di espe-rienze e di idee ciascuno è rientrato nel suo fiume. Mi colpì molto, e hofatto fatica per anni a dargli una chiave interpretativa, il fatto che quandoandammo a Seveso nel ’76-77 [dopo il gravissimo incidente della fabbri-ca chimica Icmesa, n.d.a.] era come se tutte le esperienze degli anni pre-cedenti non ci fossero state. Gli operai dell’ICMESA stavano a casa; laBrianza era un terreno difficile anche per le lotte operaie, questa era larealtà, mentre magari si andava in giro per l’Italia a parlare della Mon-tedison di Castellanza. A Seveso arrivarono il nuovo ambientalismo di si-nistra, i tecnici e i gruppi e diedero vita al «comitato popolare», ma era-no impreparati a parlare con la gente. Per cui gli abitanti vedevano unapolitica fatta sulla loro testa, da noi non meno che dalle istituzioni, e cirespinsero5.

Il giornale Denunciamo è l’espressione, artigianale ma vitale, ditutta questa complessità di esperienze politico-culturali. Il primonumero (gennaio 1973) si apre con una breve dichiarazione d’inten-ti assai simile alla nota dedica dell’Imbroglio ecologico di Dario Pacci-no, tuttavia esprimendo dissenso «da coloro che accettano il modomistificato in cui il problema viene presentato, e che riducono ilproblema dei rapporti ecologici a quello dei rapporti sociali». Moltii problemi locali trattati dal giornale, soprattutto relativi alla regio-ne lombarda. Ma altrettanto numerosi gli articoli su temi generali.Ancora Poggio:

C’erano le letture intorno al rapporto Club di Roma-MIT sui limiti dellosviluppo. Ecco, una cosa che ci caratterizzava, oltre alla nocività in fabbri-

5 Ivi.

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ca, era la critica feroce da sinistra al MIT; anche ai rapporti successivi,peggiorativi rispetto al primo perché contenevano tutte le strategie perpiegare la cultura, la politica, addirittura la religione alle presunte nuovenecessità della società ecologica. Diciamo che mentre il primo lasciavaaperta la porta a possibili soluzioni tecnocratiche e dirigistiche dei pro-blemi ambientali, gli altri le teorizzavano proprio […] Almeno noi li leg-gevamo così. […] Dentro Italia Nostra ci era consentito fare questo di-scorso, mentre il WWF faceva le oasi ma non parlava di cambiamento so-ciale. […] Sui temi dell’energia, per esempio, fummo un po’ degli antici-patori e incominciammo presto con gli accenni critici al nucleare, anchese cauti. Da lì, nel 1975, le inchieste antinucleari basate su materiali eu-ropei, soprattutto francesi e tedeschi6.

Virginio Bettini intende usare quelle pagine per dare spazio aimateriali non adatti a una collocazione interna alla rivista scientificavera e propria. Ma la redazione dei giovani assume presto una re-sponsabilità sempre maggiore nella confezione dei numeri. Inoltresi accorda con l’editore perché siano stampate a parte qualche cen-tinaio di copie in più di Denunciamo, che i redattori vendono diret-tamente. Così il giornale comincia ad avere una vita sempre più au-tonoma. Cambia nome dal ’76 e si chiama Ecologia, per rifarsi allarivista del ’71-73, e tra il ’77 e il ’78 comincia a uscire autonoma-mente. Dopo alterne vicende, e la costituzione di una cooperativaeditoriale, Ecologia – e in seguito La nuova ecologia – diventa alla finedegli anni Settanta la testata di punta del movimento antinucleare,e negli anni Ottanta la rivista di Legambiente.

Le vicende di queste testate mostrano come la storia del decennio’70, dei suoi fermenti culturali e dei suoi movimenti, sia stata in par-te notevole la storia delle sue riviste, con percorsi editoriali spessotortuosi e faticosi ma sempre espressioni di vitalità, di una ricercacui la spinta alla comunicazione per la costruzione di ponti tra cul-ture differenti era coessenziale. Per questo non si può fare a menodi citare l’esperienza della rivista di critica della scienza Sapere.

Il collettivo redazionale della rivista fa una prima prova tra la finedel 1971 e il 1972 con il giornale Se, nato all’interno del mensile diarchitettura e arredamento Abitare, un contesto singolare per quantosi tratti di una rivista di cultura progressista e democratica. L’inizia-tiva nasce dopo un questionario diffuso tra i lettori sul «disagio del-

6 Ivi.

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l’abitare nella casa, nella città, nella società» e si configura, in sensolato, come un giornale sull’ambiente urbano, il territorio e i servizi.La redazione è coordinata da un esperto di comunicazione, Gio-vanni Cesareo, che sarà in seguito il caporedattore di Sapere, e nefanno parte Virginio Bettini, l’urbanista del manifesto Francesco In-dovina, Giulio Maccacaro e altri, che poi danno vita alla nuova re-dazione di Sapere a partire dal 1974.

Insieme a loro, nella nuova impresa editoriale di Sapere, il fisico edepistemologo del manifesto Marcello Cini, gli «antipsichiatri» FrancoBasaglia, Franca Ongaro e Giovanni Jervis, l’esperto di problemienergetici del manifesto Giovanni Battista Zorzoli, il biologo marxistaEttore Tibaldi, Dario Paccino e molti altri. Direttore carismatico ditutto questo gruppo è Maccacaro, fino alla sua morte avvenuta men-tre è già in stampa l’ultimo numero del 1976. Il primo numerodella serie da lui diretta (gennaio 1974) si apre con una serie di ar-ticoli, di un certo impatto sul mondo scientifico italiano, sul disastrodel Vajont del ’63. Per quanto riguarda, inoltre, i temi di più strettapertinenza ecologica, la rivista pubblica, tra il ’74 e il ’75, quattroinserti «Ambiente e potere», ma ricchissima è in generale la produ-zione di articoli e inchieste sull’ambiente e sulla nocività. Il numerodi dicembre del 1976, preparato anche con il fondamentale contri-buto del Gruppo di Prevenzione e Igiene Ambientale della Monte-dison di Castellanza, è intitolato Seveso: un crimine di pace, ed è giu-stamente ricordato come uno dei prodotti culturali più alti della cri-tica della scienza e della tecnica applicata alle questioni dell’am-biente e dell’inquinamento. La rivista continua a costituire, per al-cuni anni anche dopo la morte di Maccacaro, un punto di riferi-mento centrale per tutti i temi legati al nuovo punto di vista sullascienza che ha cominciato ad essere elaborato già nei dibattiti deldecennio precedente. Luogo fecondo di comunicazione orizzontaletra studenti, operai e tecnici, resta forse uno dei frutti migliori ditutto un lungo ciclo storico.

8. Il movimento antinucleare e gli anni Ottanta. Conclusione

La vicenda dell’incidente alla fabbrica chimica ICMESA di Sevesoè un momento di grande risonanza pubblica delle questioni ambien-tali sul versante dell’impatto dell’industria, insieme ad altri casi di

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conflitto attorno ai poli produttivi (si veda l’esempio del petrolchimi-co di Marghera o dell’IPCA di Ciriè). È anche un momento impor-tante di lotta per le aree di movimento che tematizzano l’intrecciotra il diritto alla salute dei lavoratori, i temi della produzione, la cri-tica dello sviluppo, l’ambiente. Come si è visto dalle memorie di unodei protagonisti dell’area «di confine» tra l’ambientalismo e la sini-stra, Andrea Poggio, l’incontro tra le istanze radicali e la sensibilitàdella popolazione è difficile e per certi aspetti fallimentare. Tale bat-tuta d’arresto sarebbe per alcuni da ascrivere interamente ai limitisoggettivi dei movimenti e avvalorerebbe la lettura storico-sociolo-gica secondo la quale la «stagione dei movimenti» sarebbe una pa-rentesi ideologica il cui protrarsi avrebbe ritardato almeno fino allametà degli anni Settanta quella «rivoluzione ambientale» innescatanegli Stati Uniti dai movimenti studenteschi degli anni Sessanta e daaree di intellettuali radicali – gli uni e gli altri in rivolta contro la «so-cietà opulenta» e il consumismo – i quali nell’azione ecologica hannotrovato sponda in aree moderate della società e nelle stesse istituzioni.Da noi la spinta proveniente dal mondo anglosassone si sarebbe in-contrata con la tradizione dell’associazionismo naturalista e protezio-nista e con le prese di posizione nate nell’ambito di élite intellettuali etecnico-professionali, ma non avrebbe trovato subito uno spazio didiffusione a livello di massa perché i movimenti giovanili si attardava-no nella propria «retorica rivoluzionaria» egemonizzata dalla culturamarxista e dal mito della «centralità operaia» del conflitto sociale.

Ancora una volta, questa lettura non sembra convincente. A Seve-so ha pesato semmai proprio la scarsa crescita delle soggettivitàoperaie e studentesche nel contesto locale. L’analisi e l’elaborazionedei movimenti lì accorsi sono invece di alto spessore. Si è già dettodel ruolo di controinformazione tecnica svolto dal GPIA di Castel-lanza e dalla redazione di Sapere. Emerge inoltre proprio in questofrangente la figura di Laura Conti, medico, militante del PCI e al-l’epoca consigliera regionale della Lombardia, che si batte per l’in-dividuazione dei responsabili dell’incidente, porta avanti a lungouna competente analisi tecnica delle conseguenze sanitarie e am-bientali e critica aspramente la gestione omissiva e non trasparentedell’emergenza.

Negli stessi anni, d’altra parte, attorno alla decisione del governodi costruire a Montalto di Castro, nel nord del Lazio, una centralenucleare per la produzione di energia elettrica si coagula un vasto

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movimento di protesta, la cui efficacia vertenziale ha effetti solo sulmedio periodo, ma che rappresenta un ulteriore momento di ampiae feconda convergenza tra culture e approcci nel quale la peculiaritàitaliana delle mobilitazioni per l’ambiente costituisce non un limitema, al contrario, un punto di forza.

A seguito dello shock energetico del 1973 causato dalla guerradel Kippur l’opinione pubblica è stata sottoposta a una forte pres-sione con le politiche di «austerità». Su quest’onda, nel 1975 il mini-stro dell’industria Carlo Donat Cattin ha presentato un piano ener-getico che prevede l’installazione di venti centrali nucleari di poten-za entro il 1985 e 62 entro il 1990 e il Parlamento approva una leg-ge sulle procedure accelerate di localizzazione degli impianti. Se dauna parte a favore di questa scelta vi è un forte schieramento di inte-ressi politico-industriali (la maggioranza di «unità nazionale», l’ENEL,le aziende Ansaldo e FIAT), dall’altra non si è ancora manifestatauna significativa opzione antinucleare, che comincia a esprimersinel 1974-75 in ambito WWF e nell’area delle riviste ecologiste (Eco-logia in primo luogo). Nella stessa area dei partiti della nuova sini-stra la scelta contraria al nucleare civile non è ancora maturata. Manel 1976, con l’individuazione della località laziale come sito nu-cleare, la mobilitazione cresce con gli apporti più diversi: dalle areenonviolente e del dissenso religioso ai radicali, da tecnici come Vir-ginio Bettini, Gianni Mattioli e Massimo Scalia, fino agli Amici dellaMaremma del principe Nicola Caracciolo. Con il 1977 è la forza delmovimento degli studenti e dei precari a innestarsi in questo ancoradebole schieramento, portando i temi dell’antiautoritarismo e la sen-sibilità comunicativo-eversiva degli «indiani metropolitani». I mili-tanti di varie provenienze si incontrano con le preoccupazioni dellepopolazioni agrarie locali e la strana alleanza rimane salda, creativaed efficace almeno fino a quando, contemporaneamente alla radi-calizzazione violenta dello scontro tra movimenti giovanili e istitu-zioni nel resto del paese, emergono differenze con i collettivi del-l’Autonomia operaia che nell’estate campeggiano per un mese aMontalto. Ma, mentre le ruspe vincono la resistenza popolare aMontalto, ormai i comitati antinucleari si stanno diffondendo in tut-ti gli altri siti destinati a ospitare le centrali, il dibattito cresce, la cri-tica conquista nuovi soggetti – i partiti a sinistra del PCI, aree sinda-cali, i socialisti, intellettuali e tecnici – e irrompe nel cuore delle as-sociazioni per la protezione dell’ambiente.

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L’impatto crea all’interno di Italia Nostra qualche momento ditensione, pagato con la perdita del finanziamento fino ad allora as-sicurato da Gianni Agnelli, nonostante la mediazione prudente scel-ta dai suoi organismi dirigenti tra le posizioni nette di Giorgio Neb-bia, Mario Fazio, Fabrizio Giovenale e quella dei più moderati. Cio-nonostante, l’opposizione alla scelta nucleare e la ricerca di un di-verso modello energetico per il paese diventano patrimonio comu-ne dell’intero associazionismo, costituendo uno degli elementi fon-damentali di una concezione ambientalista complessivamente sem-pre più matura, pienamente consapevole del fatto che non esisteuno spazio di reale efficacia per le istanze ambientali al di fuori diuna critica dello sviluppo e del Nord industrializzato.

È necessario sottolineare ancora una volta che questo esito haavuto una chiara premessa nelle soggettività sviluppate nel «lungo»Sessantotto italiano all’incrocio tra lotte degli operai, dei tecnici edegli studenti, vertenze per la salute nei luoghi di lavoro e nel terri-torio, espansione delle vertenze contro gli effetti distruttivi dellacrescita del paese, emersione di «nuovi bisogni». La fase embrionaledi quello che sarebbe stato il movimento ambientalista italiano ma-turo va quindi senz’altro collocata nel suo peculiare contesto storico,quello del ciclo di lotte avviato alla fine degli anni Sessanta.

Per questo, rivolgendo l’attenzione alla «stagione dei movimenti»,si è cercato di mettere in luce lotte, esperienze, saperi attorno allequestioni della salute, dell’ambiente e della qualità dello sviluppoche nel ciclo di protesta entrano in relazione dialettica con le tema-tiche proprie della cultura giovanile e della nuova classe operaia,ridefinendosi e ridislocandosi sulla mappa dei soggetti politici e so-ciali. Tutti questi elementi entrano in consonanza ma anche in con-flitto, mutando insieme in una pratica politica che si esprime tantonella solidarietà generazionale, internazionalista e di classe, quantoin un piano locale in cui i soggetti spazzano via ogni forma di dele-ga nella determinazione della propria esistenza.

Ma ciò implica anche il riconoscimento delle conseguenze deter-minate dall’esaurirsi di quel ciclo, che la critica storica situa attorno al1973-74 nell’ambito di un quadro generale ormai mutato: i cambia-menti strutturali indotti dalla fine del sistema monetario di BrettonWoods (1971) e, soprattutto, dal primo shock petrolifero; la fine delcentro-sinistra e il suo magro bilancio di riforme, il ritrarsi sempre piùmarcato dei partiti dall’interlocuzione con la società civile e l’avvio

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della fase consociativa del sistema politico italiano; l’inaridirsi, infine,della mobilitazione studentesca-operaia dopo almeno cinque anni didurata, la crisi dei gruppi «extraparlamentari» e il prevalere sulla sce-na della violenza, del conflitto sordo – come descritto da Marco Re-velli – tra lo Stato ridotto a «caserma» e la società civile ridotta a«piazza». È qui che viene dunque collocato l’inizio di un’inversione ditendenza che porterà all’esaurimento del ciclo di lotte avviato nel ’68sulla base delle premesse sviluppate negli anni Sessanta.

L’iniziativa padronale riprende forza e sottrae ai lavoratori spazidi potere e autonomia conquistati con le lotte. La conflittualità ope-raia, che sul piano quantitativo resta fortemente presente, si fa peròdifensiva e le stesse posizioni del mondo del lavoro sul tema dellanocività arretrano ridando spazio alla monetizzazione della salute.Nel 1974 la FLM, a distanza di due anni dalla conferenza unitariache aveva lanciato definitivamente il modello operaio di salute, inun convegno a Modena è costretta a riconoscere che, a fronte di unagrande quantità di accordi aziendali stipulati (2.500), l’azione sinda-cale non ha saputo generalizzare il modello al di là delle esperienzelocali e strutturare collegamenti con il territorio esterno alla fabbri-ca; e inoltre, in concomitanza con il «recupero padronale» e il veni-re meno della partecipazione operaia, ha ripreso quota la delega, ei gruppi omogenei hanno perso progressivamente ruolo lasciando ilcampo a strumenti di controllo e conoscenza sempre più burocratiz-zati. Il fatto che questa dura analisi sia compiuta dalla categoria piùavanzata nell’elaborazione e nell’iniziativa su questi temi è senz’al-tro indice di un generale ripiegamento (ciò, naturalmente, non im-pedisce che alcune importanti rivendicazioni ottengano sanzioneformale nei contratti degli anni successivi).

La spinta dei lavoratori per la generalizzazione delle conquistedel welfare resta forte, ma sempre meno essa si confronta con la cri-tica dei limiti delle logiche redistributive che era contenuta nellenuove domande sociali.

In questo scenario anche la tendenza della mobilitazione a decen-trarsi si inverte e si chiudono molti spazi di sperimentazione sociale.Culture e soggetti che si sono avvicinati fino a intrecciarsi riprendo-no strade divergenti. Se pure lo shock petrolifero ha costituito lostimolo per una riflessione sul tema delle risorse, la conseguentecrisi economica ha riportato al centro l’obiettivo di una ripresa dellosviluppo quantitativo. Per questo inizialmente sono ristrette élite di

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intellettuali, tecnici e contestatori a trarre dalla crisi energetica laspinta ad approfondire la lettura critica del modello di sviluppo, ead avviare la lotta antinucleare di Montalto di Castro, che diventeràcritica dell’intero modello energetico associato alla scelta nucleare.Resta il fatto che la nascita dell’antinuclearismo, anche se forse perl’ultima volta, corrisponde ancora a un momento di convergenza diculture e in quanto tale si rivela fecondo.

Dopo Montalto è ormai avviato il processo di acquisizione di au-tonomia, nel bene e nel male, da parte dell’ambientalismo italianorispetto agli altri soggetti protagonisti di una fase ormai declinante.Ma certo il ciclo di lotte studentesche-operaie italiano è stato un pas-saggio storico le cui potenzialità creative si esprimono indirettamen-te anche nell’affermazione del nuovo ambientalismo. Esso, peraltro,non solo riceve in eredità ampie aree di militanti provenienti dalleesperienze politiche sopra descritte, secondo un percorso che sareb-be miope ridurre a un opportunistico riciclaggio, ma continua a con-servare nel proprio «codice genetico» alcuni caratteri di quella sta-gione sociale, essenziali per la sua maturità programmatica.

È questa l’impronta che assume alla nascita, nel 1979, la Lega perl’Ambiente dell’ARCI. Quest’ultima associazione, organizzata su ba-se federativa, era legata ai partiti della sinistra storica ma «recupe-ra» in questo modo aree della ex «nuova sinistra» e tecnici e militan-ti indipendenti impegnati nei settori più politicizzati dell’ecologi-smo. La Lega per l’Ambiente (poi Legambiente), agisce tuttavia insostanziale autonomia, fino a recidere il legame formale con l’ARCInel 1986. Il primo segretario è il comunista Chicco Testa, cui si af-fianca di lì a poco, alla direzione del comitato scientifico, ErmeteRealacci, precedentemente impegnato nel Coordinamento dei Co-mitati per il controllo delle scelte energetiche. A credere nel nuovosoggetto associativo sono inoltre, tra gli altri, gli esponenti antinu-cleari Gianni Mattioli e Massimo Scalia, Fabrizio Giovenale che pro-viene da Italia Nostra, Alex Langer, che ha militato in Lotta Conti-nua, l’ingegner Giuliano Cannata – che conia per la Lega la defini-zione di «ambientalismo scientifico» – i già citati Virginio Bettini,Laura Conti, Giorgio Nebbia e il gruppo dei redattori della NuovaEcologia, che diventa l’organo dell’associazione. Il modello struttu-rale prescelto fa convivere una forte istanza centrale tipica dell’asso-ciazionismo ambientale storico con l’ampio radicamento locale pro-prio della tradizione organizzativa della sinistra, che ne fa ben pre-

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sto l’associazione più diffusa sul territorio: il suo slogan è l’anglo-sassone «pensare globalmente, agire localmente». L’associazione sidistingue subito, dal punto di vista della cultura politica, per un ap-proccio ai problemi ambientali legato alla dimensione sociale, per ilsuo protagonismo nelle iniziative pacifiste e per la spiccata propen-sione ad affrontare in termini scientifico-politici i problemi della so-cietà industriale – energia, trasporti, modelli produttivi – studiandoalternative tecnicamente sostenibili e organizzando un’azione con-flittuale nei confronti di istituzioni e soggetti portatori di interessiforti. Centrale diventa il suo ruolo nella lotta antinucleare e soprat-tutto nella forte ripresa di questa all’indomani dell’incidente diChernobil del 1986, che porterà alla vittoria referendaria del 1987.La Lega si fa inoltre promotrice di una complessiva presa di co-scienza politica dell’intero schieramento associativo ambientalista,fino a promuovere la discussione sulla formazione di liste verdi e aportare avanti, parallelamente, l’interlocuzione con i partiti tradi-zionali, in primo luogo quelli della sinistra, e con i sindacati.

Le prove iniziali di espressione diretta dell’ambientalismo nellapolitica istituzionale, che gli Amici della Terra – piccola associazio-ne legata al Partito radicale – hanno proposto per primi, si verifica-no sul piano locale nel 1983 in una dozzina di comuni. In quelli de-signati per la costruzione di centrali nucleari l’affermazione delle«Liste Verdi» è notevole, intorno al 10%. Nel 1985 l’esperienza siestende a molte altre decine di comuni, con risultati complessiva-mente discreti anche se non soddisfacenti al Sud. Il fenomeno elet-torale verde è ormai realtà. Esso provoca inoltre alcune ripercussio-ni negli altri partiti, tra i quali è soprattutto il PCI che ha volutoaprire le proprie liste a candidati ambientalisti. Si è ormai alle so-glie della fondazione di una vera e propria formazione politica ver-de nazionale, che avrà la prima prova nelle elezioni politiche del1987. Comincia quindi una nuova storia, che complessivamente nonavrà risultati esaltanti. Quanti oltrepasseranno la soglia delle istitu-zioni nel nuovo scenario politico-sociale della seconda metà deglianni Ottanta intraprenderanno spesso i percorsi più autoreferen-ziali della mediazione politica. Dopo una prima fase in cui l’investi-mento sui Verdi di settori dell’ambientalismo è più netto, resta co-munque chiaro che il radicamento conquistato nella società italianadai vari soggetti del movimento ambientalista non sarà soppiantatodalla nuova esperienza istituzionale. Al di qua della porta del Palaz-

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zo il movimento continua ad evolversi e ad estendersi, porta ancorapiù a fondo un salutare conflitto con la cultura industrialista domi-nante rimanendo tuttavia nel complesso lontano da posizioni con-servatrici o fondamentaliste.

Tuttavia la sua potenzialità di trasformazione non può che risen-tire anch’essa, alla lunga, della scomposizione delle domande socialie dei conflitti che si erano dispiegati nella «stagione dei movimenti»,del calo della mobilitazione collettiva, dell’avvento di quello che èstato definito il «pensiero unico» neoliberista, del drammatico e re-pentino declino, fino quasi alla scomparsa, della sinistra politica edei mutamenti dello scenario geopolitico, dell’economia, del lavoro,dei consumi, della cultura popolare intrecciati a questi processi.Passando attraverso simili trasformazioni, e di fronte al generale di-sorientamento dei propri tradizionali interlocutori, i soggetti orga-nizzati dell’ambientalismo italiano che avevano preso slancio nelperiodo storico qui analizzato hanno perso radicalità e capacità diimmaginazione sociale; la loro efficacia nell’incidere nei processidell’economia, sulla cui crescita avevano scommesso negli anni Ot-tanta e Novanta, appare oggi ridotta, come dimostra la recente ria-pertura del capitolo nucleare dopo l’abbandono avvenuto nell’87; laloro influenza culturale sulla società nel suo complesso mostra effet-ti contraddittori. Tutto ciò a fronte di una indubbia capacità di ana-lizzare e intervenire sul merito tecnico dei problemi affrontati, del-l’ampia e articolata espansione organizzativa e di una estesa e con-solidata interlocuzione con le istituzioni.

Nota bibliografica

Segnaliamo in queste pagine le opere utilizzate per l’elaborazione e lastesura del testo. I riferimenti bibliografici che seguono non hanno alcunapretesa di essere esaustivi, in particolare per quanto riguarda gli studi sul-l’Italia repubblicana, i partiti politici e il Sessantotto. Abbiamo invece cer-cato di dar conto dei contributi teorici e di ricerca relativi alla nascita del-l’ecologia e al movimento ambientalista negli anni Sessanta e Settanta, ben-ché la produzione scientifica internazionale sia richiamata solo selettiva-mente, in funzione di specifiche questioni o esplicite citazioni. La suddivi-sione in paragrafi adottata per la narrazione è qui parzialmente rivista: alfine di evitare troppe ripetizioni abbiamo infatti scelto di accorpare le indi-cazioni bibliografiche relative a temi tra loro correlati.

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Introduzione

Già al principio degli anni Settanta a proporre una lettura «eco-socia-lista» della crisi ambientale è stato il biologo statunitense Barry Commonernel suo Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano 1972 (ed. or. 1971), un testopiù volte richiamato nelle pagine qui dedicate alla nascita dell’ecologia po-litica in Italia; dello stesso autore, redatto insieme a Virginio Bettini: Ecolo-gia e lotte sociali. Ambiente, popolazione, inquinamento, Feltrinelli, Milano 1976.A un analogo orientamento si ispira Laura Conti, Che cos’è l’ecologia. Capitale,lavoro, ambiente, Mazzotta, Milano 1977; di Laura Conti va ricordato il bellis-simo Questo pianeta, Editori Riuniti, Roma 1983 (ed. ampliata 1987), testofondamentale per la definizione della cultura dell’«ambientalismo scientifi-co». Giorgio Nebbia è stato uno dei fondatori del movimento ambientalistaitaliano, tra i primi a dedicare studi alla crisi ecologica e poi anche alla sto-ria dell’ambientalismo; tra le sue analisi sulle risorse naturali, il ciclo dellemerci e, quindi, il modello di sviluppo ci limitiamo a segnalare Risorse natu-rali e merci: un contributo alla tecnologia sociale, Cacucci, Bari 1968, il volume asua cura L’uomo e l’ambiente. Una inchiesta internazionale, Tamburini, Milano1971, infine i più recenti Lo sviluppo sostenibile, Cultura della pace, San Do-menico-Fiesole 1991 e Le merci e i valori. Per una critica ecologica al capitali-smo, Jaca Book, Milano 2002. Per un punto di vista «ecosocialista autoge-stionario» possiamo ricordare alcuni testi del saggista André Gorz, di cui ilprimo uscito solo in Italia: Sette tesi per cambiare la vita, Feltrinelli, Milano1977; Ecologia e politica, Cappelli, Bologna 1978 (ed. or. 1975); Capitalismo,socialismo, ecologia, manifestolibri, Roma 1992 (ed. or. 1991).

La ripresa del dibattito attorno alla revisione in senso ecologico del pen-siero marxiano, proposta prevalentemente in area anglosassone, si deve inprimo luogo al citato studioso statunitense James O’Connor, con L’ecomarxi-smo. Introduzione ad una teoria, Datanews, Roma 1989 (ed. or. 1988) e i saggipubblicati nei primi anni Novanta sulla rivista da lui stesso diretta CapitalismNature Socialism (e nell’edizione italiana Capitalismo Natura Socialismo, poiEcologia Politica-CNS); da ricordare anche Natural Causes: Essays in EcologicalMarxism, The Guilford Press, New York-London 1998. Ted Benton ha cu-rato un’importante raccolta di saggi su marxismo ed ecologia: The Greeningof Marxism, The Guilford Press, New York-London 1996. Per quanto ri-guarda la produzione teorica italiana sul tema si vedano: Tiziano Bagarolo,Marxismo ed ecologia, Nuove edizioni internazionali, Milano 1989; MicheleNobile, Merce-natura ed ecosocialismo. Per una critica del «capitalismo reale», Er-re Emme, Roma 1993. Più recentemente, un approccio decisamente «mar-xologico», volto cioè a certificare le credenziali ecologiche del pensieromarxiano (ed engelsiano), è stato proposto da Paul Burkett in Marx andNature. A Red and Green Perspective, St. Martin’s Press, New York 1999. Infi-ne, uno degli studiosi maggiormente accreditati tra quelli impegnati neltentativo di fondare la questione ecologica sulla teoria marxiana è John

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Bellamy Foster, di cui ricordiamo tre testi editi dalla newyorkese MontlyReview Press: Marx’s Ecology. Materialism and Nature, 2000, Ecology AgainstCapitalism, 2002, e The Ecological Revolution. Making Peace with the Planet,2009, che si affiancano ai saggi dello stesso autore e di altri pubblicati dallastorica rivista socialista americana Monthly Review, di cui Bellamy Foster èdirettore dal 2000.

Un problema storiografico

Molte le analisi del sistema politico e delle trasformazioni economico-sociali nell’Italia degli anni Sessanta che hanno animato il dibattito sul rap-porto non sincronico tra modernizzazione e allargamento della cittadinanzademocratica, quindi sulla mancata innovazione delle coeve culture politiche.Per un quadro generale si vedano Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguer-ra a oggi, Einaudi, Torino 1989; Pietro Scoppola, La repubblica dei partiti, ilMulino, Bologna 1991; Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio,Venezia 1992; Simona Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Later-za, Roma-Bari 1994; Piero Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Utet,Torino 1995; Franco De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in Sto-ria dell’Italia repubblicana, vol. II, tomo 1, Einaudi, Torino 1995, pp. 781-882;Nicola Tranfaglia, La modernità squilibrata. Dalla crisi del centrismo al «compro-messo» storico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, tomo 2, Einaudi, Torino1995, pp. 7-111; Guido Crainz, Storia del miracolo economico: culture, identità,trasformazioni tra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma 1996 e Id., Il paesemancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2003. Sul-l’esperienza del centro-sinistra rinviamo all’ormai classica analisi di Giusep-pe Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Feltrinelli, Milano 1973, ea Yannis Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra 1960-68, Carocci, Roma 1998.Per il dibattito nel PCI di fronte al centro-sinistra, e al «neocapitalismo»,oltre alle indicazioni offerte dalle ricostruzioni generali già citate, si vedanoMarcello Flores e Nicola Gallerano, Sul PCI: un’interpretazione storica, il Mu-lino, Bologna 1992; Aldo Agosti, Palmiro Togliatti, Utet, Torino 2003; An-drea Ragusa, I comunisti e la società italiana. Innovazione e crisi di una culturapolitica (1956-1973), Lacaita, Manduria 2003 e Id., Il gruppo dirigente comuni-sta tra sviluppo e democrazia. 1956-1964. Tre capitoli sul centro-sinistra: dallecarte della direzione del PCI, Lacaita, Manduria 2004; Ermanno Taviani,L’«impossibilità di un riformismo borghese»? PCI e centrosinistra 1964-68, in No-vecento italiano. Studi in ricordo di Franco De Felice, a cura di Silvio Pons, Ca-rocci, Roma 2000 e Id., Di fronte al centro-sinistra, in Togliatti nel suo tempo, acura di Roberto Gualtieri, Carlo Spagnolo e Ermanno Taviani, Carocci,Roma 2007. Ancora sul dibattito intorno al neocapitalismo e lo scontro al-l’XI congresso rinviamo agli atti del convegno Tendenze del capitalismo italia-no. Atti del convegno di Roma, 23-25 marzo 1962, Editori Riuniti, Roma 1962 e

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alle memorie di alcuni protagonisti: Pietro Ingrao, Le cose impossibili. Un’au-tobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia, Editori Riuniti, Roma1990; Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005;Lucio Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del PCI, Il Saggiatore, Milano2009.

Sulla nuova «cultura giovanile» in Italia e il Sessantotto come evento ge-nerazionale si vedano Bruno Bongiovanni, Società di massa, mondo giovanile ecrisi di valori. La contestazione del ’68, in La Storia, a cura di Nicola Tranfagliae Massimo Firpo, vol. VII, tomo 2, Utet, Torino 1988, pp. 671-694; OmarCalabrese, Appunti per una storia dei giovani in Italia, in La vita privata. Il No-vecento, a cura di Philippe Ariès e Georges Duby, Laterza, Roma-Bari 1988;Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del ’68 in Europa e in America, EditoriRiuniti, Roma 1988; Marcello Flores e Alberto De Bernardi, Il Sessantotto, ilMulino, Bologna 1998; Giovani prima della rivolta, a cura di Paola Ghione eMarco Grispigni, manifestolibri, Roma 1998; Diego Giachetti, Oltre il Ses-santotto: prima durante e dopo il movimento, BFS, Pisa 1998. Sul Sessantotto,limitatamente all’esperienza italiana, ricordiamo ancora: Luisa Passerini,Autoritratto di gruppo, Giunti, Firenze 1988; Attilio Mangano, Le culture delSessantotto. Gli anni sessanta, le culture, il movimento, Centro di documentazio-ne di Pistoia, Pistoia 1989; Nicola Gallerano, Il Sessantotto e la politica, in IlSessantotto. L’evento e la storia, a cura di Pier Paolo Poggio, «Annali dellaFondazione Luigi Micheletti», n. 4, Brescia 1990; La cultura e i luoghi del ’68,a cura di Aldo Agosti, Luisa Passerini e Nicola Tranfaglia, Franco Angeli,Milano 1991; Marco Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia del-l’Italia repubblicana, vol. II, tomo 2, Einaudi, Torino 1995, pp. 383-476; An-na Bravo, A colpi di cuore. Storie del Sessantotto, Laterza, Roma-Bari 2008; Ma-rica Tolomelli, Il Sessantotto: una breve storia, Carocci, Roma 2008.

Per la teoria dei nuovi paradigmi conflittuali «postmaterialisti» è d’obbli-go il rinvio al testo di Ronald Inglehart, La rivoluzione silenziosa, Rizzoli,Milano 1983 (ed. or. 1977). Sull’antitesi tra «vecchi» e «nuovi» movimentiricordiamo i primi e fondamentali studi di Alberto Melucci: Movimenti di ri-volta. Teorie e forme dell’azione collettiva, Etas, Milano 1976; L’invenzione delpresente. Movimenti, identità, bisogni individuali, il Mulino, Bologna 1982; (acura di), Altri codici: aree di movimento nelle metropoli, il Mulino, Bologna 1984.Si vedano quindi le analisi sociologiche e politologiche del movimento am-bientalista maturate negli anni Ottanta: I verdi, chi sono, cosa vogliono, a curadi Stefano Menichini, Savelli, Roma 1983; Le imperfette utopie. I limiti dellosviluppo tra questione ecologica e azione sociale, a cura di Alberto Tarozzi eGiorgio Bongiovanni, Franco Angeli, Milano 1984; Ecologia politica, a curadi Paolo Ceri, Feltrinelli, Milano 1987; La sfida verde. Il movimento ecologistain Italia, a cura di Roberto Biorcio e Giovanni Lodi, Liviana, Padova 1988;Mario Diani, Isole nell’arcipelago. Il movimento ecologista in Italia, il Mulino,Bologna 1988; Sonia Stefanizzi, Alle origini dei nuovi movimenti sociali: gli eco-logisti e le donne in Italia, 1965-1973, in Quaderni di sociologia, n. 36, 1988, pp.

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99-132; Elena Gagliasso, Naturismo e pensiero ecologico, in La società ecologica,a cura di Paolo degli Espinosa, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 283-330;Antimo Farro, La lente verde, Franco Angeli, Milano 1991; Raimondo Stras-soldo, Le radici dell’erba. Sociologia dei movimenti ambientali di base, Liguori,Napoli 1993.

Le radici della contestazione ecologica

Sulle «controculture» giovanili degli anni Sessanta, animate da una ten-sione critica verso la qualità dello sviluppo occidentale, rinviamo ai testi giàcitati sul Sessantotto, in particolare a quelli di Ortoleva e di Flores e DeBernardi, a cui aggiungiamo l’analisi dello statunitense Paul Berman, Ses-santotto. La generazione delle due utopie, Einaudi, Torino 2006 (ed. or. 1996).

Negli Stati Uniti, oltre alle campagne d’informazione di scienziati e intel-lettuali contro gli esperimenti nucleari militari, il testo decisivo per la nascitadell’ambientalismo è quello di Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinel-li, Milano 1963 (ed. or. 1962). Carson vi denuncia gli effetti disastrosi dell’usoindiscriminato di alcune sostanze sintetiche in agricoltura e la sua analisi èprontamente tradotta anche in Italia, dove, però, a mobilitare settori dell’o-pinione pubblica sono soprattutto le manomissioni del territorio e i pro-blemi urbanistici. Si vedano gli scritti dell’epoca di Antonio Cederna: I van-dali in casa, Laterza, Bari 1956; Mirabilia Urbis. Cronache romane 1957-65, Ei-naudi, Torino 1965; La distruzione della natura in Italia, Einaudi, Torino 1975.Per la convergenza del PCI con quella parte della cultura urbanistica impe-gnata contro la speculazione edilizia, e rappresentata specialmente da ItaliaNostra, si vedano Italo Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica.1870-1970, Einaudi, Torino 1976 (6a ed. riveduta) e Vezio De Lucia, Se que-sta è una città, Editori Riuniti, Roma 1992 (2a ed. riveduta e accresciuta).

Per la storia dell’associazionismo naturalistico e protezionistico nell’Italiadegli anni Sessanta rinviamo alle indicazioni bibliografiche del paragrafoseguente.

La stagione dei movimenti e la «sinistra ecologica»

Anche nel caso della «stagione dei movimenti» è d’obbligo il rimando aitesti già ricordati sul Sessantotto italiano, in questo caso in particolare aquelli di Gallerano e Revelli; si vedano inoltre: Sidney Tarrow, Democrazia edisordine. Movimenti di protesta e democrazia in Italia, 1965-1975, Laterza, Ro-ma-Bari 1990; Donatella Della Porta, Movimenti collettivi e sistema politico inItalia, 1960-1995, Laterza, Roma-Bari 1996; Robert Lumley, Dal ’68 agli an-ni di piombo, Giunti, Firenze 1998 e Id., 1968 e oltre: spazio dei movimenti e«crisi d’autorità», in Le radici della crisi. L’Italia tra anni Sessanta e Settanta, a cu-

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ra di Luca Baldissara, Carocci, Roma 2001, pp. 243-259; infine, sul rinno-vamento culturale che coinvolse anche il movimento operaio: Pino Ferraris,Millenovecentosessantanove, in Parolechiave, n. 18, 1998, pp. 13-18.

Per il dibattito internazionale sulla «crisi ecologica» e le sue cause, primadurante e dopo la Conferenza delle Nazioni Unite del 1972, si vedano es-senzialmente Paul R. Ehrlich, The Population Bomb, Ballantine, New York1968, e Paul R. Ehrlich, Anne H. Ehrlich, Population, Resources, Environment,Freeman, San Francisco 1970; di Barry Commoner, il già citato Il cerchio dachiudere, del 1971, e La tecnologia del profitto, Editori Riuniti, Roma 1973;Una sola terra, a cura di Barbara Ward e René Dubos, Mondadori, Milano1972; I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group MassachusettsInstitute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’u-manità, Mondadori, Milano 1972; Verso un equilibrio globale, a cura di DennisL. Meadows e Donatella H. Meadows, Mondadori, Milano 1973.

Per le riflessioni sull’uso capitalistico della scienza, che nel medico mar-xista Giulio Maccacaro si incontrano con le tematiche della sinistra ecologi-ca: La scienza nella società capitalistica, De Donato, Bari 1971; Scienza e potere,Feltrinelli, Milano 1975; L’ape e l’architetto. Paradigmi scientifici e materialismostorico, Feltrinelli, Milano 1976; Giulio A. Maccacaro, Il mito del controllo de-mografico: siamo troppi?, Feltrinelli, Milano 1977 e Id., Per una medicina darinnovare, 1966-76, Feltrinelli, Milano 1979; Marcello Cini e Corrado Man-gione, 1968-1983 il dibattito sulla scienza: quindici anni da buttare?, in ScienzaEsperienza, n. 1, 1983, pp. 14-19; Patrizia Capraro, 50 anni di Sapere, in Sape-re, gennaio-febbraio 1985, pp. 49-74; Attualità del pensiero e dell’opera di GiulioMaccacaro, Cooperativa Centro per la salute «Giulio A. Maccacaro», Milano1988; Maria Luisa Clementi, L’impegno di Giulio A. Maccacaro per una nuovamedicina, Medicina democratica, Milano 1997; Marcello Cini, Dialoghi di uncattivo maestro, Bollati Boringhieri, Torino 2001.

Sulla nascita della sensibilità e della mobilitazione ecologica in Italia laricerca storica è ancora piuttosto in ritardo e restano quindi fondamentali lericostruzioni offerte dai protagonisti. Per iniziare si vedano i contributi diGiorgio Nebbia: Fatti, idee e movimenti dell’ambientalismo italiano negli ultimi 20anni, in Il difficile governo dell’ambiente, a cura di Nicola Greco, Edistudio,Roma 1988; La contestazione ecologica, in Sociologia urbana e rurale, n. 12,1990, pp. 27-36; Breve storia della contestazione ecologica, in Quaderni di storiaecologica, n. 4, 1994, pp. 19-70; Limiti alla crescita e lotte per l’ambiente, in Leradici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, a cura di Luca Baldis-sara, Carocci, Roma 2001. Quindi il saggio di Alberto Silvestri, I verdi allaribalta. Saggio storico sull’origine dei movimenti ecologisti in Italia, Tip. moderna,Castrocaro 1986, e i due contributi di Walter Giuliano, La prima isola nell’ar-cipelago. Pro Natura, quarant’anni di ambientalismo, Pro Natura, Torino 1989 eLe radici dei verdi. Per una storia del movimento ambientalista in Italia, Ipem, Pi-sa 1992; e, ancora, le due brevi sintesi di Andrea Poggio, Ambientalismo,Editrice Bibliografica, Milano 1996, e di Roberto Della Seta, La difesa del-

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l’ambiente in Italia. Storia e cultura del movimento ecologista, Franco Angeli, Mi-lano 2000. Rinviamo infine ad alcune ricerche dedicate sia al movimentoambientalista in senso proprio, sia alla storia dell’ambiente in età repubbli-cana (qui altrimenti mai citata, perché ha altri obiettivi e metodologie) checontengono indicazioni sull’emersione di una coscienza ambientalista traanni Sessanta e Settanta: Giovanni Lodi, L’azione ecologista in Italia: dal prote-zionismo storico alle Liste Verdi, in La sfida verde. Il movimento ecologista in Italia,a cura di Roberto Biorcio e Giovanni Lodi, Liviana, Padova 1988; Edgar H.Meyer, I pionieri dell’ambiente. L’avventura del movimento ecologista italiano.Cento anni di storia, Carabà, Milano 1995; Simone Neri Serneri, Culture e po-litiche del movimento ambientalista, e Catia Papa, Alle origini dell’ecologia politicain Italia. Il diritto alla salute e all’ambiente nel movimento studentesco, entrambi inL’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, vol. II, Culture, nuovi soggetti,identità, a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marramao, Rubbettino, Sove-ria Mannelli 2003, rispettivamente pp. 367-399 e pp. 401-431; Saverio Luz-zi, Il virus del benessere. Ambiente, salute, sviluppo nell’Italia repubblicana, Later-za, Roma-Bari 2009; Federico Paolini, Breve storia dell’ambiente nel Novecento,Carocci, Roma 2009.

La sinistra di classe e la posizione del Partito comunista

Oltre al dibattito promosso dalle prime riviste ecologiste, analizzato neltesto, per leggere le diverse posizioni maturate in Italia sull’ecologia all’ini-zio dei Settanta si vedano, per cominciare, gli atti parlamentari scaturitidalle iniziative di Fanfani: Problemi di ecologia, Tipografia del Senato, Roma1971; quindi i «manifesti» di critica all’«ideologia ecologista»: Dario Pacci-no, L’imbroglio ecologico, Einaudi, Torino 1972; Id., L’ombra di Confucio. Uomoe natura in Cina, Einaudi, Torino 1976; Ettore Tibaldi, Anti-ecologia, Il for-michiere, Milano 1975; infine le opere di alcuni protagonisti delle discus-sioni pubbliche dell’epoca, quelle già citate di Giorgio Nebbia e inoltre:Tomás Maldonado, La speranza progettuale. Ambiente e società, Einaudi, Tori-no 1970; Alfredo Todisco, Breviario di ecologia, Rusconi, Milano 1974.

L’attività culturale dell’Istituto Gramsci negli anni Sessanta è testimo-niata dagli atti delle sue varie iniziative: La medicina e la società contempora-nea, Editori Riuniti, Roma 1968; Scienza e organizzazione del lavoro, 2 voll.,Editori Riuniti, Roma 1973; Psicologia, psichiatria e rapporti di potere, EditoriRiuniti, Roma 1974; infine, per il dibattito sull’ambiente: Uomo, natura e so-cietà. Ecologia e rapporti sociali, Editori Riuniti, Roma 1972. Sulla storia in-tellettuale del Gramsci di vedano: Albertina Vittoria, Togliatti e gli intellettua-li. Storia dell’Istituto Gramsci negli anni Cinquanta e Sessanta, Editori Riuniti,Roma 1992; Ead., L’attività dell’Istituto Gramsci (1957-1979), in Il «lavoro cul-turale». Franco Ferri direttore della Biblioteca Feltrinelli e dell’Istituto Gramsci, acura di Fiamma Lussana e Albertina Vittoria, Carocci, Roma 2000, pp. 133-

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193; Fiamma Lussana, Politica e cultura: l’Istituto Gramsci, la Fondazione Basso,l’Istituto Sturzo, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, vol. II,Culture, nuovi soggetti, identità, a cura di Fiamma Lussana e Giacomo Marra-mao, Soveria Mannelli, Rubbettino 2003, pp. 89-136.

Il modello sindacale di analisi e controllo della nocività

Impossibile dar conto dell’imponente mole di pubblicazioni sindacalisulle lotte per la salute e l’ambiente di lavoro negli anni Sessanta e Settanta.Di seguito una selezione di testi dell’epoca e ricostruzioni storiche successi-ve: Tavola rotonda sulla contrattazione dei ritmi e delle condizioni ambientali di la-voro, in Quaderni di Rassegna Sindacale, luglio-agosto 1966; FILCEP-CGIL, Ilcontrollo e la contrattazione delle condizioni ambientali di lavoro nelle industrie chi-miche, Roma 1967; FIOM-CGIL, La contrattazione sindacale delle condizioniambientali di lavoro, Roma 1967; Giovanni Berlinguer, La salute nelle fabbriche,De Donato, Bari 1969; CdF Breda Sesto San Giovanni, La salute non si paga,la nocività si elimina. Un’esperienza dei lavoratori della Breda Fucine di Sesto SanGiovanni, CdF, Sesto San Giovanni 1971; CGIL-CISL-UIL, La salute in fab-brica, Stasind, Roma 1971; FIOM-CGIL, Ambiente di lavoro, FLM, 1971; CdFMontedison Castellanza, Esperienze, strumenti e metodi per la difesa della salute,in Rassegna di Medicina dei Lavoratori, n. 3, 1972, pp. 456-463; CGIL-CISL-UIL, Fabbrica e salute. Atti della conferenza nazionale CGIL-CISL-UIL, Rimini,27-31 marzo 1972, Seusi, Roma 1972; Ivar Oddone, La difesa della salute dallafabbrica al territorio, in Inchiesta, n. 8, 1972; La salute in fabbrica. Atti del Conve-gno tenuto a Firenze nel 1973, 2 voll., Savelli, Roma 1974; FLM di Roma, Inlotta per la salute. Esperienze e proposte d’intervento sull’ambiente di lavoro nellefabbriche della capitale, Sapere edizioni, Milano-Roma 1974; Gianni Moriani,La nocività. Nocività di fabbrica e nel territorio, Bertani, Verona 1974; Ivar Od-done (a cura di), Ambiente di lavoro e sindacato, Editrice sindacale italiana,Roma 1974; Alessandro Pizzorno (a cura di), Lotte operaie e sindacato in Italia:1968-1972, 2 voll., il Mulino, Bologna 1974-1975; FLM, Rilancio delle lotteper la salute e l’ambiente, Sapere, Modena 1975; Gastone Marri, L’ambiente dilavoro negli anni Settanta, Editrice sindacale italiana, Roma 1975; PierpaoloBenedetto, Graziano Masselli, Ugo Spagnoli e Benedetto Terracini, La fab-brica del cancro. L’IPCA di Ciriè, Einaudi, Torino 1976; Alfredo Milanaccio eLuca Ricolfi, Lotte operaie e ambiente di lavoro. Mirafiori 1968-1972, Einaudi,Torino 1976; Salute e ambiente di lavoro. L’esperienza di Terni, De Donato, Bari1976; Ivar Oddone (a cura di), L’ambiente di lavoro: la fabbrica nel territorio,Editrice sindacale italiana, Roma 1977; Marco Biocca e Pietro Schirripa,Esperienze di lotta contro la nocività in alcune aziende romane tra 1965 e il 1980,Censapi, Roma 1980; Gastone Marri, L’ambiente di lavoro in Italia, l’orga-nizzazione della ricerca «non disciplinare» (1961-1980), in Sociologia del lavoro,n. 10-11, 1980, pp. 71-95; Gianni Moriani e Francesco Carnevale, Storia

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della salute dei lavoratori. Medici, medicina del lavoro e prevenzione, LibreriaCortina, Verona 1986; Maria Luisa Righi, Le lotte per l’ambiente di lavoro daldopoguerra ad oggi, in Studi Storici, n. 2-5, 1992, pp. 619-652; Romano Giuf-frida, intervista a Luigi Mara, Sotto il selciato c’è sempre la spiaggia, in Maledetticompagni vi amerò. La sinistra antagonista nelle parole dei protagonisti degli ultimivent’anni di conflitto, Datanews, Roma 1993; Francesco Carnevale e AlbertoBaldasseroni, Mal da lavoro. Storia della salute dei lavoratori, Laterza, Roma-Bari 1999; Patrizio Tonelli, «La salute non si vende». Ambiente di lavoro e lotte difabbrica tra anni Sessanta e Settanta, in I due bienni rossi del ’900. 1919-1920 e1968-1968. Studi e interpretazioni a confronto, a cura di Luigi Falossi e Fabri-zio Loreto, Ediesse, Roma 2007.

Il movimento antinucleare e gli anni Ottanta

Come già nel testo, anche quest’ultimo paragrafo non può che aprirsicon il riferimento all’incidente di Seveso, un evento periodizzante per ilmovimento ambientalista italiano: si vedano Icmesa. Una rapina di salute, dilavoro e di territorio, Mazzotta, Milano 1976; Evangelista Penza, Il significatodi Seveso: scacco matto alla tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori,Patronato SIAS, Roma 1976; Seveso: un crimine di pace, De Donato, Bari 1976;Laura Conti, Visto da Seveso. L’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione,Feltrinelli, Milano 1977; Seveso: una tragedia italiana, IE, Milano 1977; Da-niele Biacchessi, La fabbrica dei profumi. La verità su Seveso, l’Icmesa, la diossi-na, Baldini & Castoldi, Milano 1995; Industria ambiente e salute: a vent’annidall’incidente di Seveso, Legambiente, Roma 1996; Fabio Tosetto, Seveso 10luglio 1976: una storia da raccontare, Legambiente Lombardia, Milano 2004;Laura Centemeri, Ritorno a Seveso. Il danno ambientale, il suo riconoscimento, lasua riparazione, Bruno Mondadori, Milano 2006; Nunzia Penelope, Seveso1976-2006, Nuova iniziativa editoriale, Roma 2006; Bruno Ziglioli, Il disastrodi Seveso tra ecologia e politica, in Storia e futuro (rivista on line), n. 18, 2008.

Sulle origini del movimento antinucleare, la nascita di Legambiente e deiVerdi non possiamo che rinviare ai titoli già ricordati trattando dei «nuovi»movimenti e della cultura ecologica degli anni Sessanta, in particolare i testia cura di Menichini (I verdi, chi sono, cosa vogliono), di Biorcio e Lodi (La sfidaverde. Il movimento ecologista in Italia), i volumi di Diani (Isole nell’arcipelago. Ilmovimento ecologista in Italia) e di Strassoldo (Le radici dell’erba. Sociologia deimovimenti ambientali di base); quindi le ricostruzioni offerte nei vari articoli diNebbia, nei contributi di Silvestri (I verdi alla ribalta. Saggio storico sull’originedei movimenti ecologisti in Italia), di Giuliano (Le radici dei verdi. Per una storiadel movimento ambientalista in Italia), di Poggio (Ambientalismo), di Della Seta(La difesa dell’ambiente in Italia. Storia e cultura del movimento ecologista), diMeyer (I pionieri dell’ambiente. L’avventura del movimento ecologista italiano) e diNeri Serneri (Culture e politiche del movimento ambientalista). Si vedano anche

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alcuni testi e documenti dell’epoca: Virginio Bettini, Contro il nucleare. Ecolo-gia e centrali nucleari, Feltrinelli, Milano 1977; Mario Fazio, L’inganno nuclea-re, Einaudi, Torino 1978; Nucleare? No! Grazie. Aspetti politici, economici, ecolo-gici della critica nucleare, a cura di Mario Signorino, Amici della Terra, Roma1979; e, ancora, Massimo De Meo, L’onda verde. I Verdi in Italia: la storia, ildibattito, gli indirizzi, i risultati elettorali, Alfamedia, Roma 1985; Renzo DelCarria, Il potere diffuso: i Verdi in Italia, Edizioni del movimento nonviolento,Verona 1986.

Con particolare riferimento alla ricostruzione delle lotte antinucleari sivedano: Nicoletta Marietti, Gianni Mattioli e Massimo Scalia, Il movimentoantinucleare, in Sapere, dicembre 1978 (anche in Gianni Mattioli e MassimoScalia, Mito e ragione. Indagine sul nucleare, Pagus, Treviso 1987); GiovanniCerri, La battaglia di Montalto: la centrale nucleare tra tecnici, istituzioni, partiti emovimenti popolari, in Società civile e istituzioni nel Lazio. Nuovi bisogni, movi-menti, partecipazione, rappresentanze, Kairos, Roma 1990, pp. 123-145; MarioDiani, The Conflict over Nuclear Energy in Italy, in States and Anti-Nuclear Mo-vements, edited by Helena Flam, Edinburgh University Press, Edinburgh1994; Umberto Chiarini, La Bassa contro l’atomo. La centrale nucleare nel manto-vano: documenti 1975-1987, Fotolito Viadanese Nuova Stampa, Viadana 2007.

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1. Oggi l’ideologia mercatista propagandata e praticata in questi anni a pienemani conduce all’esito della più grave crisi economica che abbia mai cono-sciuto la storia planetaria e ci consegna un mondo più povero, più ingiusto,più insicuro.

Dunque un risveglio brusco, rude, che tuttavia consente di riconoscere laglobalizzazione capitalistica nel suo vero portato storico, di mettere cioè a evi-denza gli aspetti di illusione e di inganno del suo messaggio mitizzante e ildisastro sociale che porta a bilancio.

Di qui, anche e soprattutto, la necessità e l’urgenza di ricercare e spe-rimentare nuove strade che rendano davvero e concretamente possibile unnuovo mondo, nuovi sistemi di produzione della ricchezza non più fondatisullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla appropriazione privatisticadei beni comuni, a partire dai beni naturali, decidendoci fattivamente perl’uomo animale sociale di contro all’ideologia dominante dell’homo hominilupus.

2. Le cose stanno proprio così, siamo davvero di fronte a un annuncio ditramonto del capitalismo alla luce dell’acutissima recessione economica inatto a livello globale?

Penso proprio di sì.Penso cioè che la crisi, con il suo dna di crisi strutturale e di crisi di sistema,

segnali inequivocabilmente una riduzione della provvista di futuro a disposi-zione del sistema di produzione capitalistico mondiale.

Questa provvista, che fino a ieri appariva avere davanti a sé un orizzontedi alcuni secoli, si è per così dire temporalmente compressa, stretta in una me-taforica e inesorabile tenaglia a tre morse:

a. la globalizzazione dell’economia capitalistica sta imprimendo una ecce-zionale spinta alla maturazione della legge della caduta tendenziale del sag-gio del profitto, legge che ha come esito l’implosione del sistema;

AppendiceNatura e prospettive della crisi mondiale

in atto dell’economia capitalisticadi Mario Boyer

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b. la sovracapacità produttiva che esprime il sistema economico mondiale aseguito del livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive mondiali(scienza, tecnologie, saperi, capitali) eccede smisuratamente la domandamondiale;

c. i livelli insostenibili di dissipazione ambientale e di alterazione climatica inatto e che le attuali dinamiche mondiali delle produzioni e dei consumitendono ad accrescere avvicinano ormai l’umanità alla soglia della cata-strofe planetaria.

La sovracapacità produttiva che è alla base della crisi economica mondialein atto è per altro tendenzialmente in espansione per gli ulteriori sviluppitumultuosi dei saperi scientifici e delle loro possibili applicazioni tecnologi-che (biotecnologie, nanotecnologie, ecc.) e presenta caratteri di incomprimi-bilità. A meno che non vengano poste limitazioni di stampo oscurantista allaricerca scientifica (altra cosa è il problema aperto della democratizzazione edeprivatizzazione della conoscenza e dell’informazione scientifica!).

Dunque è all’ordine del giorno l’imposizione di limiti invalicabili entrocui contenere necessariamente le attività produttive e i consumi mondiali.Ma ciò impedisce al profitto capitalistico di obbedire alla legge fondamen-tale che lo governa, per cui ne va della sua esistenza: la necessità del suo con-tinuo reinvestimento (riproduzione allargata), fatto questo che presupponel’esistenza di un contesto di sviluppo economico illimitato.

3. Guardando alle prospettive più ravvicinate della «crisi», convince la previ-sione che il superamento dei suoi aspetti più acuti non possa avvenire nel bre-ve periodo ma in un arco temporale più ampio (naturalmente alla condizioneche la cura Obama venga più o meno generalizzata a livello mondiale).

E tuttavia la stessa terapia d’urto americana appare in grado di garantirealla «crisi» una sorta di stato di convalescenza piuttosto che una vera e definiti-va guarigione. Valgano a questo proposito due considerazioni:

– Il piano americano (senza dubbio coraggioso, innovativo, ispirato al bino-mio equità sociale/riconversione verde dell’economia (in una parola, l’e-satto opposto delle scelte dei governanti nostrani) redistribuisce il redditonazionale usando la leva fiscale, favorendo per questa via il rilancio delladomanda interna. Ma, diversamente dalle risposte date alla crisi del ’29,(quando i salari americani furono aumentati dalle imprese mediamentedel 50%), il piano lascia inalterato il primo e fondamentale livello di di-stribuzione della ricchezza prodotta, cioè la distribuzione del plusvalore (dimarxiana memoria) tra profitti e salari.Il rilancio della domanda come risposta alla sovraccapacità produttivadel sistema mondiale sarà dunque contenuto, affidato al solo aumentodella spesa pubblica che, per quanto gonfiata, non compensa minima-mente la depressione di salari e pensioni.

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– La messa al bando della cattiva finanza attraverso una rigorosa riscritturadelle regole e nuove e più severe strumentazioni di controllo, se risolvein radice la questione della moralizzazione delle attività finanziarie ecreditizie e di un più sano rapporto tra finanza ed economia reale, sor-vola su un’altra decisiva questione in campo: quale nuovo equilibrio trafinanza ed economia. Appare infatti evidente che a una riduzione dellaliquidità per finanziare i consumi debbano corrispondere tassi di crescitaprevedibilmente più bassi di quelli conosciuti in questi ultimi anni.La persistenza di una politica di bassi salari da parte delle imprese e l’in-dirizzo assunto dai governi di contenere l’immissione di liquidità rispettoai livelli pre-crisi lasciano dunque intravedere un’uscita dalla recessionedensa di problemi per l’occupazione e il lavoro e di incognite circa laconsistenza e la stabilità della ripresa.

4. In questo quadro oggettivamente incerto e preoccupante che rimanda alimiti e contraddizioni insanabili (in essere e in divenire) intrinseche al si-stema di produzione capitalistica mondiale, assume centralità la questionedi un nuovo e autonomo ruolo della politica rispetto all’economia di mercato.

Appare cioè irrinviabile e prioritario innovare profondamente l’ordinegiuridico del mercato che oggi è incardinato, per lo più in tutti i paesi delmondo, a partire dal nostro, sulla centralità dell’impresa e sul riconoscimentodella preminenza delle sue ragioni e logiche produttive e di mercato ri-spetto ai diritti e alle tutele lavorative, sociali, ambientali.

È non tanto il grande tema della democrazia economica, quanto il tema piùgenerale della democratizzazione dell’economia.

È in questione in particolare qui da noi, la necessità di rendere effettiva-mente sovraordinati per via e per forza di legge, i diritti e le tutele sociali eambientali fondamentali, rispetto agli interessi privatistici dell’impresa edegli imprenditori. Si tratta dunque di rovesciare letteralmente l’ordine giu-ridico in vigore che, con il suo corpo di leggi regolative/deregolative, ha di fattoprivatizzato gli strumenti di governo del collocamento e ha sottratto allacontrattazione collettiva spazi e poteri per arginare e limitare le scelte im-prenditoriali di flessibilizzazione esasperata delle prestazioni lavorative e diprecarizzazione selvaggia dell’occupazione (vedi legge Treu e legge 30). Co-me pure è in questione la legge Bossi/Fini sull’immigrazione, la legge chedesanziona le violazioni sulla sicurezza del lavoro da parte dell’impresa, lenuove limitazioni al diritto di sciopero che si vanno legiferando, le nuovenormative in allestimento di liberalizzazione delle licenze edilizie… e viaesemplificando la vergognosa subordinazione dell’«ordine giuridico italia-no» alle ragioni e interessi del mercato e del profitto (e delle rendite, di-menticavo)… verso il traguardo di nuove e sempre più gravi «crisi».

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MARIO BOYER. Presidente dell’IRES Abruzzo. Ha svolto ruoli di di-rezione della CGIL a livello categoriale e confederale, territoriale enazionale. Ha diretto a Roma, negli anni ’70, le lotte di Maccarese,la più grande azienda agricola capitalistica d’Italia, in stretta colla-borazione con F. Rossitto, D. Turtura, G. Militello, A. Lana. Hacollaborato con A. Pizzinato dirigendo il Dipartimento CGIL Terri-torio-Ambiente-Servizi. È stato relatore nella Conferenza nazionaleper il Mezzogiorno e nella Conferenza nazionale sull’Energia. Iscrit-to al PCI nel 1968, fino al congresso di scioglimento. Attualmenteiscritto a Rifondazione comunista.

MICHELE CITONI. Già dirigente di Legambiente, redattore di Capi-talismo Natura Socialismo e caporedattore di Radio Città Futura. Ègiornalista free lance e autore di video di documentazione sociale. Sioccupa da molti anni di ecologia e lotte sociali.

GIANNI DI CESARE. Nato ad Avezzano, 55 anni, laureato in Sociolo-gia. Ricopre incarichi dal 1983, prima come segretario dei chimicide L’Aquila, dal 1985 al 1994 come segretario provinciale e regio-nale della FIOM Abruzzo. Dal 1994 al 2000 è segretario generaledella Camera del Lavoro de L’Aquila e componente della Segreteriaregionale della CGIL Abruzzo con la responsabilità delle Politicheindustriali. Dal 2007 è segretario generale della CGIL Abruzzo.

FRANCO OTTAVIANO. Nato a Roma nel 1944, studia architettura epartecipa alle occupazioni universitarie dal 1963 al 1968. Dall’estatedel 1968 al 1971 milita nei gruppi della nuova sinistra. Nel 1972 si

Gli autori

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iscrive al PCI. Segretario di sezione e successivamente della Zonadei Castelli Romani. Deputato dal 1976 al 1983. Ricopre vari incari-chi di direzione politica. Dal 1987 al 1992 è direttore dell’Istituto distudi comunisti «Palmiro Togliatti». Con la fine del PCI lascia il«funzionariato». Continua l’impegno politico-culturale animando laCasa delle culture di Roma di cui è presidente. Ha pubblicato varisaggi sui movimenti e i partiti. In particolare Estremisti bianchi (storiadi Comunione e Liberazione); Un partito per il Leader e Il Fattore Craxi(scritti con Paolo Ciofi); La rivoluzione nel labirinto, opera in tre vo-lumi su Sinistra e sinistrismo dal 1956 agli anni Ottanta.

CATIA PAPA. Dottore di ricerca in Storia dell’Italia contemporanea,svolge attività di ricerca presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso, eattualmente è assegnista nell’Università degli Studi di Roma Tre.

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Finito di stamparenel mese di ottobre 2010

dalla Tipografia O.GRA.RO.Vicolo dei Tabacchi, 1 - Roma