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19 Iura Monarchiae. Il pensiero politico di Dante tra Antichità, Medioevo ed Età moderna A cura di Michele Curnis Revista de la Asociación Complutense de Dantología Año 2018

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19Iura Monarchiae. Il pensiero politico di Dantetra Antichità, Medioevo ed Età moderna

A cura di Michele Curnis

Revista de la Asociación Complutensede Dantología

Año 2018

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Este número de Tenzone ha sido subvencionado íntegramente por el Departa-mento de Estudios Románicos, Franceses, Italianos y Traducción de la U.C.M.

Números anteriores se encuentran disponibles enhttp://webs.ucm.es/info/italiano/acd/tenzone//

DIRECTORES:

Carlos López Cortezo ([email protected])Rosario Scrimieri Martín ([email protected])

Juan Varela-Portas de Orduña ([email protected])

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COMITÉ DE REDACCIÓN:

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Guido Cappelli (Università L’Orientale di Napoli): [email protected] Pinto (Universitat de Barcelona): [email protected] Molina (Universidad de Sevilla): [email protected] Díaz-Corralejo (Asociación Complutense de Dantología): [email protected]

COMITÉ CIENTÍFICO:

Cristina Barbolani (UCM), Enrico Fenzi (Génova), Ángel García Galiano(UCM), María Hernández (UCM), Natascia Tonelli (Univ. Siena).

TENZONEDEPÓSITO LEGAL: M- 39482-2000; ISSN: 1576-9216

2018, nº 19Revista anual de la Asociación Complutense de Dantología

Departamento de Estudios Románicos, Franceses, Italianos y TraducciónFacultad de Filología. Ciudad Universitaria

28040 MadridTeléfono: +34 91 3945404; Fax: +34 91 3945402

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SUMARIO

MICHELE CURNISPremessa ...........................................................................................

DIEGO QUAGLIONIIl testo della ‘Monarchia’ secondo il Ms. Add. 6891 della BritishLibrary .........................................................................................

LUCA MARCOZZIPolitica e poesia nel VI canto del ‘Paradiso’ ....................................

VALERIO ROCCO LOZANOLa teoría de la justicia en la ‘Divina Comedia’, entre Imperio yrepublicanismo’ ................................................................................

CLAUDIA DI FONZODante e il ‘dantismo giuridico’ del Trecento ....................................

MICHELE CURNISLa ‘digressione politica’ di ‘Convivio’ IV IV e la ‘Politica’ de Ari-stotele ...........................................................................................

ANA VARGAS MARTÍNEZDel pensamiento de Dante en la obra de Christine de Pizan ............

CARLOTA CATTERMOLE ORDÓÑEZLa ‘Divina Comedia’ “a contrapelo” en la obra de Peter Weiss:‘DC-Projekt’ y ‘Estética de la resistencia’ ....................................

LECTURA CRÍTICA DE LIBROSDante Alighieri, Comedia, prólogo, comentarios y traducción deJosé María Micó, Barcelona, Acantilado, 2018 (Juan Varela-Portas de Orduña) ........................................................................

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PremessaIura Monarchiae. Il pensiero politico di Dante

tra Antichità, Medioevo ed Età moderna

MICHELE CURNIS

Dante è sicuramente lo scrittore medioevale più rappresentativo dellacomplessità del ‘problema politico’, ossia della pervasività della politicain ogni risvolto dell’esistenza umana. Quando si tenti una riflessione ge-nerale sul pensiero politico dantesco, sulla sua conformazione e sulla suaeredità storico-culturale, si è preda come di un senso di imbarazzo, poi-ché si deve accettare che l’elemento politico - sempre inteso come con-dizionante nei confronti dell’attività artistica e intellettuale - si ritrova afondamento di ciascun progetto di scrittura, e si profila dunque come unobbiettivo decisivo dell’opera. Tale constatazione si accompagna a una relazione fondamentale nel-

l’ambito dell’indagine critico-letteraria, come quella tra testo e contesto:l’ambiente storico in cui Dante visse, con tutti i suoi travagli e le nume-rose trasformazioni, sarebbe dunque alla base delle motivazioni politichedella sua opera. La scuola storicista si applicò infatti all’indagine scru-polosa della biografia politica di personaggi di primo e di secondo pianodell’Italia tra la seconda metà del XIII e la prima metà del XIV secolo,

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elaborando di conseguenza profili di Dante molto densi di dati storici, do-cumentali ed eruditi; nessun esponente della letteratura italiana gode di ri-tratti biografici e di illustrazioni generali tanto ricchi di ricostruzionestorico-civile o di indagine politica quanto l’autore di Commedia e Mo-narchia. Eppure - come osservò appunto il redattore di una tra le più ac-curate ed estese bio-bibliografie di Dante, Mario Apollonio - «sarebbeerrore giudicar di quell’epoca in base alle astrazioni della dottrina, anchee soprattutto della dottrina politica» (Apollonio 1964: 77-78). Dove ladoctrina è costituita più dall’esperienza intellettuale dell’esegeta e dellesue urgenze che non dal complesso di conoscenze e finalità espressivedell’autore medioevale; soprattutto perché, in parallelo agli sviluppi delmondo occidentale nel corso del XX secolo, il pensiero politico di Danteandava sempre più configurandosi, rispetto all’età sua, come anacroni-stico, irrealizzabile, reazionario (cf. Sanguineti 1992). Del resto, nessuna valutazione del pensiero politico potrà mai prescin-

dere dalle vicende della storia individuale e della Storia collettiva, spe-cialmente nel caso di un autore che tende a operare un’immediataidentificazione tra presagio dell’accadimento e creazione letteraria:

Dante, che nell’esilio ha elaborato una complessa ideologia - piùche semplice teoria - politica, può forse credere che Arrigo sial’uomo inviato dalla Provvidenza per ristabilire l’ordine nel mondosconvolto dalle divisioni e dagli odi, forse illudersi che egli avverila profezia da lui stesso posta in bocca a Virgilio all’inizio del viag-gio infernale, del «veltro» che la cupidigia umana «farà morir condoglia» (Inf., I 101-2). Appena ha notizia dell’arrivo dell’impera-tore in Italia, tra settembre e ottobre 1310, egli, «l’umile italianoDante Alighieri fiorentino ed esule senza colpa» («humilis ytalusDantes Alagherii florentinus et exul immeritus»), scrive una lettera«A tutti e ai singoli Re d’Italia e ai Senatori della città santa [=Roma], nonché ai Duchi, Marchesi, Conti e ai Popoli» («Univer-sis et singulis Ytalie Regibus et Senatoribus alme Urbis nec nonDucibus Marchionibus Comitibus atque Populis»; Epist., V 1), [...]esortandoli a secondare l’opera del «nuovo Mosè» («Moysen

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alium»; ivi, 4) che è venuto per liberare il suo popolo dalla sua mi-seria (Malato 2002: 58-59; corsivi iniziali nostri).

Nell’episodio delusivo di Arrigo VII (su cui si vedano ora Petralia,Santagata 2016) sarebbe riduttivo isolare soltanto la frustrazione del-l’aspettativa messianica, giacché in esso si riaccendono soprattutto le ten-sioni con il papato e con Firenze: altre delusioni ed altri forti contrasti,negli anni 1310-1313, che molto probabilmente precedono, e dunque con-dizionano, la scrittura di Monarchia e Paradiso.Oggi, con riferimento specifico alle questioni sul pensiero politico di

Dante, il lettore del XXI secolo potrà constatare nella silva bibliograficapiù recente la presenza di solidi ceppi e di novelle fronde dall’orienta-mento tutto filologico-testuale, lontani dalle disquisizioni di doctrina po-litica (quelle che un tempo si sarebbero dette ‘ideologiche’) e vicine aproblemi che si supponevano adeguatamente risolti, come la conoscenzadiretta o indiretta da parte di Dante di autori e testi dell’antichità classica,la competenza giuridica dei suoi primi interpreti, le relazioni interne dellatradizione manoscritta. In quest’ultimo ambito, la (ri)scoperta del codiceLondon, British Library, Additional 6891, della Monarchia ha rappre-sentato un evento di importanza eccezionale, certamente inatteso e in-sperato negli studi di filologia dantesca, dal momento che ha riaperto ildibattito su più fronti: ecdotico, stemmatico, stilistico, ma anche storico-letterario, relativo alla cronologia della redazione del trattato latino ri-spetto alla Commedia. Nel corso dell’ultimo decennio la comunitàscientifica internazionale si è resa conto, infatti, di come la Monarchianecessiti ancora di un testo critico stabile e condiviso, derivante daun’equilibrata recensio di tutti i testimoni manoscritti, e dunque di comeogni discussione sullo sviluppo del pensiero politico dantesco dipendadalla risoluzione di questioni critico-testuali.L’11 ottobre 2017 si è svolto presso la Universidad Carlos III di Ma-

drid un workshop internazionale, intitolato “Iura Monarchiae. El pensa-miento político de Dante entre Antigüedad, Edad Media y Moderna”,organizzato dall’Instituto de Estudios Clásicos “Lucio Anneo Séneca” e

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PRESENTACIÓN

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dal Departamento de Humanidades: Historia, Geografía y Arte della stessaUniversità. L’attività fu finanziata dal Programa Propio della Carlos IIIper l’anno 2017 (Proyecto n. 2017/00190/001), ricevendo il sostegno delVicerrectorado de Política científica e Investigación e del Decanato de laFacultad de Humanidades, Comunicación y Documentación. L’intentoprincipale del seminario non fu certo tracciare un consuntivo degli studisul pensiero politico dantesco o di esplorare tutta l’opera del poeta, allaricerca di temi specifici o questioni propriamente politiche. Neppure il ti-tolo deve trarre in inganno: il seminario non si concentrò esclusivamentesulla Monarchia o sul pensiero giuridico, dal momento che l’espressionelatina richiamava l’attacco catalogico del celebre epitaffio ravennate, leg-gibile presso la tomba del poeta ma di attestazione assai più antica: «Iuramonarchiae, superos, Phlegetonta lacusque / lustrando cecini, volueruntfata quousque» (cf. ora Indizio 2016). Il gruppo di relatori e studiosi chepartecipò all’iniziativa madrilena accettò l’invito a esporre il risultatodelle proprie ricerche, in relazione all’opera e al pensiero di Dante, allesue possibili fonti e alla sua fortuna, anche in età contemporanea, arric-chendo così un dialogo già di per sé pluridisciplinare (cementato di filo-logia classica, storia del diritto, letteratura comparata, filologia dantesca,retorica, storia medioevale, filosofia contemporanea) di altre prospettivemetodologiche e scientifiche; la politica, intesa secondo l’accezione piùetimologica e aristotelica del termine, costituiva il traguardo finale dellevarie riflessioni, ma i percorsi di avvicinamento potevano essere mediatida tappe dal carattere differente. Il risultato di quella giornata di lavoro siraccoglie in questo numero della rivista Tenzone, grazie alla generosa di-sponibilità della sua direzione e redazione. Il ringraziamento più sentito,a tale proposito, è rivolto a Juan Ignacio Varela-Portas de Orduña, chenon soltanto presentò la conferenza inaugurale del seminario («“Libero,dritto e sano è tuo arbitrio”. Las bases psico-éticas de la política enDante»), ma propose anche di raccoglierne vari interventi per la pubbli-cazione collettiva in Tenzone.Il contributo di Diego Quaglioni - editore e commentatore della Mo-

narchia nei due volumi delle Opere di Dante dirette da Marco Santagata

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per la collana “I Meridiani” di Mondadori (Milano 2014) - ripercorre i pas-saggi cruciali del trattato latino, dimostrando l’urgenza di una riconside-razione stemmatica dei testimoni. In particolare, Quaglioni si soffermaancora sul famigerato passaggio di I xii 6, in cui alcuni manoscritti recanol’inciso «sicut in Paradiso Comedie iam dixi», mentre altri no; il già citatocodice di Londra, Additional 6891 (Y), riporta invece nello stesso punto«sicut in minuadiso inmediate iam dixi», che Quaglioni ritiene essere unalezione corrotta, di cui ha proposto il restauro nella forma «sicut inmis-sum a Domino inmediate iam dixi». La crux, come si diceva poco fa a pro-posito delle implicazioni del problema ecdotico, non alimenta solo unadiscussione filologica, ma si riflette anche sulla ricostruzione storico-let-teraria e sulla cronologia di redazione della Monarchia rispetto alla Com-media: la proposta correttiva di Quaglioni, che colloca Y in una posizionestemmatica molto vicina all’archetipo, allo stesso tempo addita un possi-bile locus similis nella Summa contra Gentiles di Tommaso d’Aquino (IV21, n. 2) e cassa ogni pretesa di stabilire la recenziorità della Monarchiarispetto al Paradiso per mezzo di parole e riferimenti d’autore. Alla stessaquestione fa cenno anche Luca Marcozzi, che propone una lettura del VIcanto della terza cantica centrata sulle strutture retoriche a fondamento delmessaggio politico e storico-universale del discorso di Giustiniano. In più,fondandosi su di una serie di analogie strutturali e di probabili allusionistoriche, Marcozzi propone una datazione della scrittura del VI canto delParadiso coeva alla redazione della Monarchia e comunque posteriore al1316. Ancora una volta, la definizione del pensiero politico tradotto informa poetica deve ricorrere alla puntuale esegesi filologica, corroborataanche dalla trattatistica retorica del tempo di Dante. Valerio Rocco Lo-zano si dedica altresì a una lettura dello stesso ‘canto politico’, analizzandola dialettica tra la Roma imperiale e la Roma cristiana quale risultato at-tuale del grande affresco storico universale tracciato da Giustiniano. A unaspecializzazione del pensiero politico, vale a dire alla competenza giuri-dica, è dedicato il contributo di Claudia Di Fonzo, che rileva in Dante isegni della renovatio del diritto del suo tempo (anche grazie agli importantielementi rifluiti dai commentari tomistici); d’altro canto, come la stessa

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studiosa ha dimostrato ripercorrendo un filone dimenticato della tradizioneesegetica (Di Fonzo 2016), alcune personalità di giureconsulti del secoloXIV si dedicarono alla lettura dell’opera di Dante, proprio perché in essanon ritrovavano generici elementi presentati in una forma letteraria, bensìuna elaborazione compiuta e originale della loro disciplina. Michele Cur-nis si addentra nella questione delle fonti classiche del pensiero politico ac-cessibili a Dante, con attenzione particolare alla Politica aristotelica,soprattutto in riferimento alla ‘digressione’ di Convivio IV iv. Gli ultimidue contributi sono dedicati al Fortleben dell’opera dantesca in autori edepoche affatto differenti, ma sempre indicativi della forza con cui agisseil modello: Ana Vargas Martínez ricerca le ragioni sociali e politiche, oltreche letterarie, del costante riferimento a Dante negli scritti di Christine dePizan (autrice di un Chemin de longue Étude che rivela più affinità con laCommedia); Carlotta Cattermole indaga invece la presenza di Dante inPeter Weiss (sia nel DC-Project sia nell’Estetica della Resistenza), dimo-strando la vitalità delle dinamiche di lettura allegorica in pieno Novecento.Se si volesse individuare un motivo conduttore nei saggi qui raccolti,

più nella struttura che non nella pluralità tematica di argomenti e ipotesi,si potrebbe forse reperirlo nella lettura del testo quale principio di rifles-sione e azione (habitus che proprio in campo politico, almeno dai tempidi Dante in poi, non appare scontato o prevedibile per nessun soggetto):‘lettura’, è bene precisarlo, da parte di Dante e del testo di Dante. La suateoria o ideologia non si sviluppa dal nulla, così come non è soltanto mi-sura o conseguenza del contesto in cui visse. Al contrario, la storia antica,recente e contemporanea si intrecciano incessantemente nella sua parola,unificata dall’elaborazione letteraria e da precise finalità comunicative,oltre che stilistiche. Di quali letture poteva disporre l’esule, per ricorrereal conforto delle auctoritates nei momenti più amareggianti dell’espe-rienza politica e per alimentare al tempo stesso la propria riflessione cri-tica sull’attualità? Forse si trovava al Castello di Poppi, nel Casentino,ospite del conte Guido di Battifolle, quando il 31 marzo 1311 scrisse laveemente lettera agli scelestissimi Florentini intrinseci, in cui ammonisceche con la vacanza dell’Impero romano («solio augustali vacante») ‘ti-

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moniere e rematori sonnecchiano nella navicella di Pietro’ («nauclerus etremiges in navicula Petri dormitant», Epist. VI 1). Non è stato rilevatocon la giusta evidenza che, nella famiglia lessicale utilizzata da Dante perriferirsi a chi detiene il comando politico, il termine latino nauclerus com-paia soltanto qui; ma se Dante non utilizza in questa sede il più usualegubernator (attestato, oltre che in più passi della Monarchia, anche inEpist. VIII 5, derivatogli dal frequente uso in Tommaso d’Aquino, che in-vece non impiega mai nauclerus), la ragione può essere ricercata nelladifferenza di significato. Ovviamente nauclerus, più che un grecismo, re-stituisce al latino la forte valenza metaforica del nocchiere di Purg. VI77 e del nocchiero di Cv. IV IV 5 (dove Dante rielabora un passaggio delIII libro della Politica di Aristotele); al tempo stesso, però, questo hápaxlegómenon recupera la valenza del termine largamente impiegato daPlauto per indicare il ‘padrone della nave’ (più che il timoniere, che è unmarinaio specializzato agli ordini del capitano). Se il nocchiere/nocchierodelle opere volgari è metafora per l’imperatore, il nauclerus di Epist. VI1 è piuttosto il pontefice, ‘padrone della nave’ ereditata da Pietro (solo inparte allusiva al testo evangelico di Matteo 8, 24, in cui non si parla né dimarinai né di timonieri, ma collegata alla «barca / di Pietro» di Pd. XI119-120). Non a caso, nel corso della stessa lettera, all’imperatore Arrigospetta altro epiteto, di «Romanae rei baiulus» (VI 6), come lo sarà poi Ot-taviano Augusto in Pd. VI 73. La concomitanza cronologica dell’EpistulaVI con la scrittura dei canti più virulenti del Purgatorio e l’assonanza les-sicale (ma non semantica) tra nocchiere e nauclerus inducono a sottoli-neare per un’ultima volta l’importanza dell’eredità antica nellaconfigurazione linguistica dantesca dei riferimenti politici. I modelli ora-ziani e ciceroniani della ‘nave dello Stato’ (sulle cui relazioni si veda Cuc-chiarelli 2004-2005) si intrecciano in Dante alle reminiscenze scritturalie alla tradizione dei commentari aristotelici, per saldarsi nella potente al-legoria della navigazione e di chi la dirige, esattamente come accade neltesto della Politica. La ‘bellicosa’ Epistula VI, effettivamente redatta intempo di guerra, rimpiange implicitamente quel mondo in cui «pace uni-versale era per tutto» e in cui l’immagine navale si imponeva trionfal-

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mente quale compiutezza della missione politica: soltanto allora, grazieall’istituzione imperiale, «la nave dell’umana compagnia dirittamente perdolce cammino a debito porto correa» (Cv. IV v 8). Non è nulla più cheuna suggestione cronologica e geografica ricordare che proprio a Poppi siconserva un manoscritto pergamenaceo, confezionato in area toscana traXIII e XIV secolo, contenente il testo latino dell’Etica Nicomachea edella Politica di Aristotele, con excerpta del commento di Tommaso(Poppi, Biblioteca Comunale Rilli - Vettori, 1).Tommaso eAristotele (sulla base della tradizione manoscritta dei com-

mentari si sarebbe tentati di riassumere: Tommaso, e dunque Aristotele)costituiscono i fuochi della riflessione politica che Dante non perde maidi vista, grazie ai quali può elaborare un proprio sistema, ma che al tempostesso - se necessario - non ha timore di lasciare a debita distanza. Piùche l’implicazione teologica, è insopprimibile in Dante l’ambizione didare un senso forte e compiuto all’esistenza terrena, la cui dimensionecomunitaria può anche presagire, con la felicità del ‘vivere bene’ aristo-telico, la soprannaturale beatitudine cristiana:

In una visione “ottimistica” della storia e del destino dell’uomonella storia, già la domanda con cui si apre la trattazione della Mo-narchia - qual è il fine della società umana, e prima ancora, qual èil ruolo dell’uomo nella società - è evidentemente al centro degliinteressi di oggi. Né la risposta che Dante offre a questo interro-gativo è così legata al concetto della metafisica medievale comepuò apparire a prima vista. L’uomo vive in comunanza con gli altriuomini, egli afferma, per concorrere tutti insieme a un fine co-mune, impossibile ai singoli o ai piccoli gruppi, che è la realizza-zione dell’intelletto possibile: vale a dire la conquista, attraversol’intelletto, di tutto ciò che è possibile all’uomo conoscere, chesola può dargli la «beatitudo huius vite», o il pieno appagamento,come diremmo oggi. Obiettivo nel quale sembra difficile non ri-conoscere un’affinità con lo sforzo collettivo di ricerca del cono-scibile che caratterizza la scienza moderna, in cui si esprime lospirito della nostra civiltà (Malato 2002: 199).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

APOLLONIO, M. (1964): Dante. Storia della Commedia, Milano, Vallardi (“Sto-ria letteraria d’Italia” 3; ed. originale 1951).

CUCCHIARELLI, A. (2004-2005): «La nave e lo spettatore. Forme dell’allegoriada Alceo ad Orazio» (I-II), Studi Italiani di Filologia Classica XCVII 2, pp.189-206 (I), XCVIII 1, pp. 30-72 (II).

DI FONZO, C. (2016): Dante e la tradizione giuridica, Roma, Carocci (“Biblio-teca Medievale. Saggi” 32).

INDIZIO, G. (2016): «La più antica vicenda degli epitafi danteschi tra Ravenna eBergamo (?): nuovi appunti e schede», Studi Danteschi LXXXI, pp. 333-356.

MALATO, E. (2002), Dante, Roma, Salerno (“Sestante” 1; ed. originale 1999).PETRALIA, G. - SANTAGATA, M. (eds.) (2016): Enrico VII, Dante e Pisa a 700

anni dalla morte dell’imperatore e dallaMonarchia, Ravenna, Longo.SANGUINETI, E. (1992): Dante reazionario, Roma, Editori Riuniti.

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Il testo della ‘Monarchia’ secondo il Ms. Add. 6891 della British Library1

Diego Quaglioni

università degli Studi di [email protected]

ReSumen:un examen cuidadoso del ms. london, British library, additional 6891 (Y),

ignorado por la edición nacional editada por Prudence Shaw, requiere el aban-dono del stemma codicum propuesto por Ricci en el 1965 y aceptado sustancial-mente por Shaw en el 2009, con importantes consecuencias en el juicio de laslecciones del grupo β2 y del mismo ms. Y.

PalaBRaS clave: Dante, Monarchia, manuscritos, stemma codicum, edicio-nes criticas.

aBSTRacT:a careful examination of ms. london, British library, additional 6891 (Y),

ignored by the national edition edited by Prudence Shaw, requires the aban-donment of the stemma codicum proposed by Ricci (alighieri 1965) and accep-

1 Questo saggio anticipa le linee della premessa all’edizione della Monarchiasecondo il ms. london, British library, additional 6891, di prossimapubblicazione a cura di chi scrive nella “Piccola Biblioteca del Pensierogiuridico” delle edizioni il Formichiere.

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ted substantially by Shaw (aligieri 2009), with important consequences in thejudgment on the lessons of the β2 group and of the same ms. Y.

KeY woRDS: Dante, Monarchy, manuscripts, stemma codicum, critical edi-tions.

Quando dieci anni fa mi accinsi a curare una nuova edizione com-mentata della Monarchia per la collana dei «meridiani», prima ancora diaffrontare la composizione di un commentario lineare mi misi al lavoroper valutare il punto d’arrivo della tradizione filologica. nel 2006 era ap-parsa ad opera di Prudence Shaw l’edizione digitale, che rendeva fruibilela collazione di tutti i manoscritti noti alla studiosa e della princeps del1559 (alighieri 2006). Si trattava della prefigurazione della nuova edi-zione nazionale, destinata a sostituire quella curata da Pier giorgio Ricci,risalente alle celebrazioni dantesche del 1965 (alighieri 1965). l’edi-zione curata dalla Shaw per la Società Dantesca italiana apparve nel 2009(alighieri 2009), salutata da molti consensi e da alcune critiche (chiesa2009 e 2010; imbach 2010; Trovato 2010; Renello 2011 e 2013; casadei2011, poi in casadei 2013: 107-127), alle quali la studiosa ha vivace-mente replicato anche di recente (Shaw 2018). Fu ovvio assumerne il testocome base della mia edizione, cui mi ero impegnato ad accompagnare, in-sieme al commento, una nuova traduzione. Però l’edizione della Shaw, in-sieme ad un indubbio, generale progresso nella conoscenza dellatradizione manoscritta, in confronto al groviglio di problemi lasciati in-soluti da Ricci, mostrava anche qualche tratto elusivo. Rispetto all’edi-zione Ricci, oggetto a suo tempo di molte e motivate critiche (tra le qualibasterà ricordare quelle di capitani 1965, nardi 1968 e, sul piano stretta-mente ecdotico, di Favati 1970), le novità non erano molte: sostituito unostemma trifido allo stemma bipartito proposto da Ricci, senza altra mo-difica che quella consistente nel separare la princeps K dalla famiglia α(a1 + T), la Shaw non aveva adottato tutte le soluzioni testuali conse-guenti a tale scelta, che avrebbe implicato la possibilità di una recensione

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chiusa del testo dantesco, come – contro il comune avviso di una diffusacontaminazione – sorprendentemente si legge nella nota della SocietàDantesca italiana che riflette il parere tecnico posto a fondamento dellanuova edizione nazionale (in alighieri 2009: viii). a dispetto di unalunga, articolata, documentata e a tratti spietata indagine sul metodo di la-voro del precedente editore, la Shaw conservava la struttura fondamentaleproposta da Ricci, a cominciare dalla presentazione dell’archetipo per fi-nire con la soluzione data al problema non secondario dell’ortografia.Ricci rifiutò tanto la regolarizzazione classicheggiante, adottata da witte(alighieri 18742), quanto la soluzione di Bertalot (alighieri 19202) e diRostagno (alighieri 1921), tendente a fissare il testo in forme generica-mente medievali, e nell’introduzione all’edizione nazionale proposecome ortografia di Dante quella «comunemente adottata ai suoi tempi daiFiorentini addottrinati» (Ricci, in alighieri 1965: 113).

Fu in certo senso una reazione a questo conservatorismo filologico adindurmi a riesaminare la tradizione manoscritta, estendendo l’indagine aun testimone sorprendentemente ignorato dall’editrice, nonostante chePaul oskar Kristeller lo avesse censito nel 1989 (Kristeller 1989: 68) e chealdo Rossi gli avesse dedicato uno studio negli anni ’90 (si veda Rossi1999: 175-180, con l’ampia recensione di Squillacioti 2002: 247). il ma-noscritto, che insieme al Berlinese B (il codice Bini) è fra i più antichi te-stimoni della Monarchia, anzi con ogni probabilità il più antico, futrascritto prima del 1349 e forse a non molta distanza dalla morte diDante, a giudicare dal suo explicit, che può essere stato scritto solo da uncopista coevo. il codice è il londinese additional 6891, che ho siglato Y.ne diedi notizia nel 2011, nel momento stesso in cui la mia edizione an-dava in stampa, in due seminari a Pisa e a lione e in un ampio articolo,pubblicato in Laboratoire italien (Quaglioni 2011), la rivista dell’Écolenormale Supérieure di lione, confermando tra l’altro l’appartenenza delnuovo testimone, già individuata da Rossi 1999 e ricordata da Squilla-cioti 2002, al gruppo siglato β2 nello stemma Ricci-Shaw.

Di Y ho tenuto debitamente conto registrandone le lezioni nell’appa-rato critico della mia edizione, apparsa dopo lunga gestazione editoriale

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nei «meridiani» nel 2014 e in una seconda stampa nel 2015 (alighieri2014 e 2015). la stessa sigla Y è stata utilizzata poi dalla Shaw, che, av-visata del ritrovamento, nel 2012 pubblicò un articolo negli «Studi dan-teschi» apparsi con la data 2011, senza citare il mio articolo precedente,sostenendo l’inutilità del nuovo testimone per la ridefinizione dellostemma, e meno che mai ai fini della costituzione del testo, in ragionedella sua appartenenza a quello che alla studiosa appariva, nella linea diRicci, come un trascurabile gruppo di manoscritti viziati da numerosi er-rori, ai quali Y non farebbe che aggiungere nuove mende (Shaw 2011).

Ricci considerò infatti i codici appartenenti a questo gruppo della fa-miglia β come puri e semplici deteriores (F, appartenuto al grande giuri-sta Felino Sandei; n, il londinese additional 28804; e P, il vaticanoPalatino lat. 1729, il testimone unico di alcune epistole di Dante, di manodi Francesco Piendibeni da montepulciano). Per giunta nello stemmaRicci-Shaw β2 non ha una relazione chiara con gli altri gruppi della fa-miglia β, e, in ragione di quello che lo stesso Ricci indica come «forse unremoto legame di parentela» (Ricci, in alighieri 1965: 97), resta letteral-mente appeso ad un asterisco insieme a β3, costituito per Ricci dai codicie g R v e dalla seconda parte di a, cui nello stemma proposto dalla Shawsi aggiungono Ph, a Ricci sconosciuto, e D. Tale legame era scorto daRicci in ragione di due lezioni valutate come errori congiuntivi in Mn. iiv 15 e iii viii 7. in quest’ultimo caso si tratta, scrive Ricci, «d’una lezioneestremamente significativa», che collegherebbe β2 e β3 (Ricci, in ali-ghieri 1965: 98):

in iii, viii, 7 […] tra si e ‘quodcunque’ i manoscritti danno rispo-ste varie: chi ha illud, chi istud, chi ibi, chi nulla affatto; e final-mente uno strabiliante li il gruppo FnP + eR + a2, che v, piùevoluto, interpreta giustamente come abbreviazione di ligaveris.

ma proprio intorno a «quel bizzarro li», su «quell’errore singolare esignificativo» che agli occhi di Ricci «ribadisce l’esistenza di un […] le-game» tra β2 e β3, la Shaw, che pure nulla tocca dello stemma Ricci inquesto punto e che anzi continua a considerare il gruppo β2 «del tutto

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privo di problemi» (Shaw, in alighieri 2009: 273), corregge Ricci seve-ramente, argomentando che lo «strabiliante li» appartiene «alla termino-logia della logica scolastica» (Shaw, in alighieri 2009: 316), e che dunquenon forma un errore capace di collegare due gruppi. nel primo caso, in-vece, si tratta della lezione severissimi, accolta da Bertalot (alighieri19202: 51) e dalla Shaw (alighieri 2009: 380), già difesa da Ricci controseuerissimi vere di P (Ricci, in alighieri 1965: 189), lezione preferita dawitte (alighieri 18742: 55-56) e Rostagno (alighieri 1921: 352) e messainfine sbadatamente a testo anche da Ricci (alighieri 1965: 189): Y è ilsolo ad avere la lezione genuina severissimi viri, alterata in P e nei re-stanti codici β2 (serenissimi veri F, severissimi veri n) contro seuerissimedi α e β1 (B + l).

contrariamente a quanto anche recentemente si è scritto della attendi-bilità dello stemma proposto da Ricci (in alighieri 1965: 99; cfr. Shaw,in alighieri 2009: 239) e sostanzialmente confermato dalla Shaw (in ali-ghieri 2009: 301), con prudente consenso in inglese 2015: 115, e con assaimeno prudente adesione in Fenzi 2015 e in Pellegrini 2015, il manoscrittolondinese riapre il discorso intorno alla collocazione del gruppo β2 nellostemma codicum della Monarchia, e più in generale ripropone una seriedi problemi di carattere squisitamente ecdotico, come quelli relativi allelezioni singolari o minoritarie (nella logica di Ricci) che s’impongono inforza dell’argomentazione di Dante. Sotto questo punto di vista non sipuò non riconoscere che la Shaw ha visto lucidamente quanto fallace siala meccanica applicazione di astratti criteri ecdotici, presentando il com-plesso dei problemi specifici del testo della Monarchia, senza poi pur-troppo trarne tutte le conseguenze. a proposito dell’incertezza dei rapportidei codici non-beta, che per Ricci costituiscono la famiglia α (a1 T + K),è stata proprio la Shaw a scrivere (in alighieri 2009: 241-243):

Spesso le scelte che un editore della Monarchia deve compieresono tra lezioni distribuite in modo tale da annullare o aggirarel’utilità dell’albero a tre rami, o addirittura di qualsiasi altro al-bero. molto spesso, in un determinato punto del testo, una lezionesi troverà in K e in alcuni manoscritti di beta, mentre un’altra sarà

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reperita in Ta1 e nei restanti manoscritti di beta. in questi casi nes-suna soluzione meccanica o matematica può essere presa in con-siderazione. la distribuzione in tali casi va contro al modelloconcettuale rappresentato da qualsiasi tipo di albero, sia esso a dueo a tre rami.l’abbondanza di casi del genere, che di per sé potrebbe suggerireche vi siano difficoltà con l’ipotesi di Ricci, ci ricorda due veritàcirca la tradizione testuale della Monarchia che vale la pena di ri-badire, e la cui importanza non dovrebbe essere sottovalutata. laprima è che si tratta di un testo estremamente mutevole: i fattoriche conducono all’errore poligenetico sono presenti ovunque, esembrano operare con forza inarrestabile; la seconda è che la con-taminazione svolge senza dubbio un ruolo, benché difficile daquantificare esattamente, nella trasmissione del testo. entrambequeste considerazioni si oppongono alla nozione di uno stemmacui ci si possa semplicemente riferire ogni volta […].Bisognerebbe anche notare che la tradizione testuale della Mo-narchia è più fragile e vulnerabile di quanto si potrebbe facilmentededurre da ciò che afferma Ricci nell’Introduzione o dall’apparatoe dalle note della sua edizione, e che le (poche) volte in cui eglitocca questo tema, le informazioni che fornisce non sono sempreaccurate. alcune lezioni indubbiamente corrette sopravvivono sol-tanto in un unico manoscritto […].altre lezioni indubbiamente corrette sopravvivono in un piccologruppo di manoscritti […].È impossibile accertare se casi di questo tipo riflettano errori del-l’archetipo che i singoli copisti ebbero l’intelligenza di correggere,come Ricci ipotizza in tre casi che discute nelle sue note, o se in-vece le lezioni corrette siano sopravvissute contro ogni probabilitàin una sottile linea di discendenza e gli errori che sono andati a so-stituirle siano di origine poligenetica negli altri manoscritti.

occorre riconoscere che non solo, come scrive la Shaw, α (a1 T) e Knon formano una famiglia, ma anche che l’indipendente derivazione«dall’archetipo» (Shaw, in alighieri 2009: 244) di tutti e tre questi re-

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centiores va revocata in dubbio, poiché la natura della princeps K è quelladi una edizione umanistica, il cui testo è un collettore di varie lezioni,esito ultimo di una tradizione contaminata, così come contaminata è lalezione dei testimoni alfa (che con la Shaw preferirei indicare come non-beta): a è contaminato ed «estremamente inaffidabile» (Shaw, in ali-ghieri 2009: 241), e T è il tardo risultato di una diffusa contaminazione,riscontrabile nelle sue carte con ogni evidenza e tale da escludere che lesue lezioni, insieme a quelle della prima parte di a, possano essere pre-suntivamente assunte come preferibili a quelle dei codici del ramo beta.

lungi dal non apportare «alcun contributo effettivo alla riformulazionedello stemma codicum», come si legge in una recente nota, apparente-mente ispirata a rigorosi criteri “neo-lachmanniani”, ma singolarmenteparziale e tendenziosa nella difesa degli argomenti a sostegno di una da-tazione bassa del trattato (Pellegrini 2015), la riscoperta del codice Y mo-difica sensibilmente tutto il quadro dei rapporti tra i testimoni manoscrittie le loro aggregazioni. uno dei casi «sorprendenti», richiamati dalla Shawa proposito delle lezioni indubbiamente corrette che sopravvivono in unpiccolo numero di manoscritti e di cui Ricci «non fa alcuna menzione»(Shaw, in alighieri 2009: 243), è quello di Mon. i xi 7 (cum iusticia sitvirtus ad alterum, sine potentia tribuendi cuique quod suum est, quomodoquis operabitur secundum illam?). Y è il solo, insieme ad a1 e (col suodescriptus R) e al correttore di P, a leggere giustamente sine potentia inluogo dell’erroneo siue potentia di tutti gli altri testimoni, «una lezioneinizialmente plausibile la cui erroneità diviene palese solo quando si ar-riva alla fine della frase» (Shaw, in alighieri 2009: 243). la lezione di Y(e di P) smentisce in questo caso la supposta natura di deteriores attri-buita ai codici del gruppo β2 e ne sottolinea anzi l’importanza nella re-stituzione di uno dei passaggi più difficili del testo.

Si prenda ancora Mon. ii i 3, il caso forse più noto e dibattuto nella sto-ria della critica testuale della Monarchia, dove uncto è conservato da β2(il solo n sciogliendo ūcto incorre nella menda uēto), da D, Ph e dallaprinceps K, mentre α e i restanti codici β hanno unico (il solo S ha uno),lezione adottata da witte (alighieri 18742: 38) e Bertalot (alighieri 19202:

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37) ma giustamente respinta in favore di uncto da Toynbee 1902: 302-304, seguito da Rostagno (alighieri 1921: 345) e da tutti gli editori re-centi. Decisivo fu, come si sa, l’intervento di Bruno nardi (nardi 1921:45):

che dire poi dell’altro argomento basato sulla variante dell’unctoinvece di unico, del primo cap. dello stesso libro? ecco: io non homai veduto un codice del De monarchia ma mi sembra cosi evi-dente che sia da leggere uncto, anzi uncto, coll’iniziale maiuscola,che se mi si portasse in contrario non solo l’autorità di tutti i co-dici, ma mi si mettesse dinanzi lo stesso autografo, dovrei pensareche si tratti d’un errore d’ortografìa di Dante. il senso è ben chiaro;la frase: «ut adversentur Domino suo et uncto suo, Romano Prin-cipi» è calcata sul versetto preallegato del Salmo: «principes con-venerunt in unum ad versus Dominum et adversus c h r i s t u meius». che christus significa unctus, lo sapevano, al tempo diDante, non che i clerici perfino i sagrestani e gli scaccini. l’avreb-bero dimenticato i nostri Dantisti?

Ricci in questo caso non andò oltre alcune ipotesi sulla lontana originepaleografica del guasto (Ricci, in alighieri 1965: 172), e fu ripreso a buondiritto da Favati (Favati 1970: 6). non è questo, naturalmente, il solo casoin cui β2 conserva lezioni alle quali furono preferite quelle offerte dallamaggioranza dei codici e che la riscoperta di Y costringe ora a riconsi-derare. Basti qui ricordare nello stesso luogo testuale vitio, lezione con-servata da β1, β2, u e dalla coppia H Z e messa a testo da witte (alighieri18742: 38) e Bertalot (alighieri 19202: 37) contro unico di α, della prin-ceps K e dei restanti codici β, lezione che ha determinato la successiva,erronea lettura di uncto in unico.

caso esemplare è anche quello che si trova in Mon. i xi 14, dove il dif-ficilissimo perseitate è conservato unicamente da Y con β1 a1 e con lievimodifiche da F n Ph (persitate), P T (parcitate) e K (parseitate), mentreequivocano più o meno gravemente tutti i restanti codici.

altro caso significativo può essere quello di Mon. iii vi 4, dove solo Ylegge chiaramente intendentem, che diviene interenptem in P (su corre-

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zione da interemptem) e interemptorem in F n, interentem in Ph e final-mente l’improbabile interpretem, lezione che tutti gli editori hanno adot-tato, ma che oggi deve essere rimeditata, perché non sembra che ladistinzione tra doctor e interpres abbia senso in un discorso in cui Danteintende esemplificare la differenza della funzione del vicarius rispetto aquella del nuncius sive minister: funzione meramente ministeriale, ap-punto, che ben si attaglia all’intendens, tanto quanto poco si adatta al-l’interpres.

Segnalo ancora il caso di Mon. iii xv 17-18, luogo celebre e discussoa causa del supposto ripiegamento finale del testo su di una posizione“conciliativa” della grande questione della relazione di dipendenza del-l’impero dal Papato. ebbene, in Mon. iii xv 17 nel codice Y è assente,come nel volgarizzamento ficiniano, il quodammodo, che i lettori mo-derni hanno riconosciuto come «ambiguo» (Scott 2010: 271-272), e cheparrebbe scivolato nel testo per ‘sfumare’ una posizione altrimenti intesaa riproporre in modo schietto, sia pure in aliquo, la superiorità del poterespirituale sul temporale: cosa che induce a dubitare del carattere origina-rio della lezione. a ciò si deve aggiungere che in Mon. iii xv 18, proprionella conclusione del trattato, là dove si legge l’esortazione di Dante al-l’imperatore a sottomettersi all’autorità morale del papa, solo Y conservain luogo della lezione qua, comunemente accolta, il più difficile ma a mioavviso genuino quam: «illa igitur reverentia cesar utatur ad Petrum quamprimogenitus filius debet uti ad patrem», ‘cesare usi dunque a Pietroquella reverenza, quanta il figlio primogenito deve usare verso il padre’(cfr. Quaglioni 2017: 21).

anche l’enigma paleografico che Y presenta in Mon. i xii 6 può con-durre alla soluzione di un problema lungamente dibattuto, insieme te-stuale e di datazione, com’è quello dell’inciso «sicut in Paradiso comedieiam dixi», assente nella princeps K, espunto parzialmente da witte (checonservò solo «ut dixi»: alighieri 18742: 23) e interamente nell’edizioneRostagno come indiscutibilmente non autentico perché «indubitabilmenteantidantesco» (Barbi, in alighieri 1921: xvii), ma messo a testo da Ber-talot, da Ricci e dalla Shaw, e nuovamente ritenuto un’interpolazione da

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alberto casadei, che tuttavia è stato il primo a rimettere in discussionequesto punto, nella Postilla in cui dà notizia della lezione di Y da me se-gnalata (casadei 2011: 197). Due dei restanti codici β2 hanno infatti inluogo dell’inciso una lacuna, parziale o totale, dove invece Y legge, masarebbe meglio dire si sforza di leggere, un’espressione in parte priva disenso, sicut inminuadiso inmediate iam dixi. in un articolo su Aevum,scritto con annalisa Belloni (Belloni-Quaglioni 2014), ne ho proposto unrestauro, poi messo a testo nell’edizione per i «meridiani», leggendo«sicut inmissum a Domino inmediate iam dixi» (alighieri 2014: 1008;alighieri 2015: 110), formula di evidente origine tomista, usata nellaSumma contra Gentiles a proposito del medesimo tema del luogo dante-sco, quello delle creature angeliche e della loro volontà immutabile.

Ritengo che dalla difficile lettura di Y, derivata da un manoscritto cuiil copista dovette dare una singolare importanza per trascrivere conestrema cura una incomprensibile locuzione, siano discese sia la lacunadi F, sia la lacuna e la congettura di P, che trasforma inmediate in come-die, sia l’ulteriore aggiustamento di n (che potrebbe anche essere fruttodi un prestito da altro codice). Resto della convinzione che il contrario, ecioè la banalizzazione di comedie in inmediate ad opera di un copista chenell’explicit dimostra di essere stato perlomeno vicino all’entourage dan-tesco, sia altamente improbabile. ciò significa che tutta la restante tradi-zione, in via mediata e con ulteriori contaminazioni con esemplari perduti,dipende per l’erronea “autocitazione” da un luogo già guasto nell’arche-tipo, di cui i codici β2, e tra questi Y in particolare, sembrano la più di-retta testimonianza. Ragione per la quale le lezioni di Y e quelle comunial gruppo β2 non possono essere tutte liquidate come frutto di errori co-muni, che certamente caratterizzano quel gruppo come ogni altro nellatradizione del testo dantesco, ma devono essere attentamente valutateanche ai fini della formulazione di una nuova ipotesi stemmatica, il cui va-lore resta peraltro assai relativo in presenza di una contaminazione diffusafin dagli inizi della trasmissione manoscritta.

la mia decisione (che indirettamente toglie ogni argomento residuoalla tesi che vuole che la Monarchia sia opera da porre negli ultimi anni

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di vita di Dante), nasce dalla dimostrata insostenibilità dello stemma co-struito da Ricci e conservato pressoché intatto dalla Shaw, iniziando dal-l’errata individuazione dei principali errori d’archetipo. Se è vero che asuo tempo «uno dei contributi più significativi di Ricci allo studio deltesto di Dante» è apparso consistere nella dimostrazione dell’esistenza diun archetipo «fondata sull’identificazione di appena quattro errori che ca-ratterizzano l’intera tradizione» (Shaw, in alighieri 2009: 245), la smen-tita della sua tesi dovrebbe per lo meno preoccupare quanti si disponganodavanti alla complessa tradizione della Monarchia – davanti ai suoi«enigmi», com’è capitato di scrivere alla stessa Shaw (in alighieri 2009:244) – con animo sgombro da pregiudizi. alla Shaw è parso che quellatesi meritasse di essere corretta solo in uno dei quattro casi, trovando in-vece «ineccepibili» e dotati di una spiegazione convincente gli altri tre(Shaw, in alighieri 2009: 245).

Ho sufficientemente dimostrato (cfr. Quaglioni 2011, ricalcato dachiesa-Tabarroni, in alighieri 2013: cxxvi, cxxxv) l’erroneità dellatesi di Ricci accolta dalla Shaw, secondo la quale sarebbero da correg-gersi come errori d’archetipo le lezioni in Mon. i xiv 5 («inter se») e ii ix2 («non odio, sed amore iustitie»). nel primo luogo («Habent nanquenationes, regna et civitates inter se proprietates, quas legibus differentibusregulari oportet»), ho restituito la lezione inter se, attestata dall’intieratradizione manoscritta (Quaglioni, in alighieri 2014: 888, e in alighieri2015: lxxxiv). Ricci preferì mettere a testo «intra se», come a suotempo congetturato da Bigongiari (Bigongiari 1950: 86, poi Bigongiari1964: 37), spiegando che Dante avrebbe alluso a «leggi particolari adattealle locali esigenze di ciascuna comunità», cioè non «a rapporti intercor-renti tra le varie comunità, ma invece alle caratteristiche (proprietates)che ciascuna ha in se stessa (intra se)» (Ricci, in alighieri 1965: 48). Fa-vati 1970 non ritenne necessaria la correzione e nardi (in alighieri 1979)la rifiutò appellandosi giustamente al successivo cenno alle differenze fraordinamenti. Dante infatti non allude a “caratteri intrinseci”, ma a quelconcetto relazionale di iura propria, di “diritti propri”, che sono tali perciascun populus in rapporto agli iura communia, agli istituti regolati dal

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diritto delle genti e dal diritto naturale, nella memoria di un celebre fram-mento di gaio (Dig. 1, 1, 9) in cui si tratta di particolarità, che sono talisolo se in relazione con gli ordinamenti altrui, con ‘i popoli, i regni e lecittà tra di loro’, «nationes, regna et civitates inter se».

anche nel secondo luogo non ho accolto la lezione dell’edizione na-zionale, preferendo lasciare a testo «non odio, sed amore iustitie», a tortocomputato tra gli errori d’archetipo. la correzione risale a Rostagno (ali-ghieri 1921: 358). Ricci la adottò, dopo iniziali esitazioni, senza peraltrosentirsi completamente tranquillo; ed aveva in questo caso ragione didubitare della natura «strettissimamente necessaria» della correzione-integrazione, sia sul piano concettuale sia su quello della coerenzastilistica (Ricci, in alighieri 1965: 204). anche sul terzo caso, in i ix 2(«ab unico motore […] unico motu») occorre dubitare, non essendo l’in-tegrazione congetturale strettamente necessaria.

Stimo che ciò basti a giustificare la mia decisione di rivedere la rela-zione tra i testimoni della Monarchia e procedere secondo nuovi criteri aduna nuova edizione, di prossima pubblicazione, che assume il codice Ycome suo manoscritto base.

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RiFeRimenTi BiBliogRaFici

aligHieRi, D. (18742): De Monarchia libri III, codicum manuscriptorum opeemendati per carolum witte, vindobonae, Sumptibus guilielmi Braumüller.

aligHieRi, D. (19202): De Monarchia libri III, recensuit l. Bertalot, gebennae,in aedibus l. S. olschki.

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Politica e poesia nel VI canto del ‘Paradiso’*

LUCA MARCOZZI

Università degli Studi di Roma [email protected]

RESUMEN:Si la Comedia, en general, constituye la cumbre del pensamiento político de

Dante, el discurso de Justiniano en el canto VI del Paraíso se refuerza aún más,precisamente gracias a la expresión poética y los instrumentos de la retórica. Talvez ese canto sea coetáneo a la redacción de la Monarquía y datable a un períodoposterior al año 1316, debido a una serie de analogías estructurales y alusioneshistóricas; de todas formas, el texto poético expresa una concepción providencialde la historia a través de la transumptio del signo imperial.PALABRAS CLAVE: Dante, Commedia, Monarchia, argumentación, persuasión,

retórica, historia

ABSTRACT:If the Comedy, in general, constitutes the climax of Dante’s political thought,

Justinian’s speech in Paradise VI is further reinforced, precisely thanks to thepoetic expression and the instruments of rhetoric. Perhaps this poem is coeval

* Questo saggio prosegue una linea di ricerca i cui presupposti teorici e criticisono messi a fuoco nella premessa al volume collettivo Dante e la retorica (Mar-cozzi 2017: 5-10).

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with the writing of the Monarchy and datable to a period after the year 1316, dueto a series of structural analogies and historical allusions; in any case, the poetictext expresses a providential conception of history through the transumptio ofthe imperial sign.KEY WORDS: Dante, Comedy, Monarchy, argumentation, rhetoric, persuasion,

history.

Esiste una specifica forma o una caratterizzazione retorica ben deter-minata e individuabile che il pensiero politico di Dante assume nel-l’espressione poetica, e segnatamente nella Commedia? La domandaappare ineludibile, perché è proprio nel discorso poetico, e grazie alla suaspecificità retorica ed espressiva, che il pensiero di Dante sulle forme as-sociate della vita e sul potere trova una formulazione che se certamentenon può essere definita, in rapporto alla Monarchia, sistematica, tuttaviaè sintetica e compiuta, pur nella particolarità artistica dei versi. Del pen-siero politico, etico, teologico di Dante, la Commedia costituisce infattil’espressione più efficace e persuasiva per diverse ragioni. Anzitutto per-ché la poesia è più inclusiva rispetto alla prosa, rivolta com’è a un pub-blico più ampio rispetto a quello limitato dei trattati latini, chepresupponevano un uditorio specialistico: è invece nella Commedia, cheil pane della sapienza è davvero distribuito da Dante a tutti gli uomini de-siderosi di conoscere, ai fini di un riscatto dell’umanità; ed è distribuitoin versi, con le prerogative dell’arte, l’attrattiva dell’espressività poeticae la forza persuasiva della retorica. Quando Dante affida alla propria crea-tività e all’arte le questioni fondamentali della vita associata, lo fa vol-gendosi non semplicemente alla narrazione degli aspetti storici – eprovvidenziali – che hanno costituito il potere terreno e alla delucidazionedegli ideali che ne sottendono la natura, ma anche alla sua più alta com-ponente etica, che sempre, e soprattutto nel Paradiso, prevale. Sollevatoal passaggio tra le sfere celesti – come era stato elevato agli astri Scipionenel Somnium ciceroniano – e dunque a una condizione dalla quale il per-sonaggio che porta il suo nome può osservare i fatti terreni con un di-

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Luca MARCOZZI Politica e poesia nel VI canto del ‘Paradiso’

stacco persino mistico, Dante prende in esame le vicende umane e la sto-ria universale con uno scopo più alto della semplice azione politica con-tingente – quella era semmai l’obiettivo della Monarchia, soprattutto sesi accetta la datazione a ridosso dell’impresa arrighiana –, poiché il poetariflette a sua volta questo innalzamento astrale che permette alla sua poe-sia di traguardare all’essenza stessa delle cose.Se si assume questa prospettiva, non si potrà considerare la Comme-

dia solo come una semplice summa divulgativa del pensiero politico dan-tesco, ma, al contrario, il suo vertice; e, per restare al pensiero politico,non si dovrà pensare a essa come un riflesso o una sintesi (con qualcheforzata elusione dovuta a ragioni inerenti alla consequenzialità del di-scorso, che il limitato spazio dei canti impedisce) della più organica trat-tazione della Monarchia – e già in parte del Convivio. Se si assumequesta prospettiva si dovrà considerare invece la Commedia come ilpunto culminante di quella meditazione (d’altra parte, è sufficientementedimostrato da Ariani 2013 un influsso del linguaggio poetico su quelloargomentativo tale da condizionare i fulcri metaforici della Monarchia).Questo assunto dovrebbe valere in particolare per il Paradiso, in cui piùmature sono sia la riflessione sulla società e il potere, sia la pregnanzadell’espressione poetica, raffinata da quasi un decennio di pratica sulleterzine delle prime due cantiche. Il rapporto tra il Paradiso e la Monar-chia andrebbe dunque considerato di reciproca dipendenza, ma non intermini biunivoci: nei passaggi in cui la Commedia affronta temi politicio riflette sul potere, la sua legittimità e la sua forza, essa non compendiail trattato, ma anzi lo condensa e lo rastrema, selezionando gli argomentipiù degni di una vasta propalazione, la cui esposizione cioè viene consi-derata più utile al fine principale dell’opera, che è la salvezza dell’uma-nità; e allo stesso tempo dando a quegli elementi la veemenza e il pienovigore della poesia e l’efficacia di un’espressività attraente per il lettore– per tutti i lettori – e persuasiva.La poesia della Commedia è il risultato di molti fattori, tra i quali spicca

un uso straordinariamente accorto della retorica da parte di Dante, intesasia come pars costruens della poetica, sia come strategia discorsiva da

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adottare a fini persuasivi. Tutti gli elementi retorici, tutte le figure di di-scorso e di parola, e la scelta che il poeta compie di volta in volta nellagrande officina della retorica, tendono a questo fine: la persuasione dei let-tori. Il canto sesto del Paradiso, se non è il vertice dell’espressione delpensiero politico di Dante nella Commedia e delle sue idee sul potere esulla forza legittimamente necessaria all’esercizio della giustizia (nellaquale si dispiega in ultima analisi la volontà divina), è perciò quantomenouno dei suoi punti più alti e significativi, perché il poeta vi ha riversato unconnubio di pensiero e di espressione finalizzato alla persuasione del-l’umanità intera. Il canto conferma questa ipotesi fin dalla sua costruzionecomplessiva, rispondendo alle partizioni e ai fini indicati dallo stessoDante nella sua – e sulla base di Bellomo (2015) dico convintamente sua– epistola a Cangrande relativa ai quattro modi dell’espressione e ai sensidel discorso. Sul piano del senso storico, il canto sesto del Paradiso passa in rasse-

gna le vicende dell’impero, dall’arrivo nel Lazio di Enea che recava consé il «sacro segno» dell’aquila alle contese contemporanee a Dante trachi di questo simbolo desiderava, più o meno debitamente, appropriarsi;ma sul piano allegorico esso affronta più in generale il tema della san-zione teologica della legittimità dell’impero, delle prerogative del poteree della sua facoltà di usare legittimamente la forza per assicurare la giu-stizia terrena, riflesso mondano e allo stesso tempo anticipo, o preannun-cio, dell’idea della giustizia eterna; nella più ampia prospettiva etica, laquestione della legittimità e dell’esercizio del potere è poi sviluppata suun piano in cui Dante rappresenta l’ideale stesso della giustizia terrena. In-fine, il ricordo del sacrificio di Cristo avvenuto al tempo dell’universalitàdell’impero, a sua volta provvidenzialmente assicurata dalla volontà di-vina, riversa la riflessione politica di Dante sia sul piano morale, quellodella salvezza dei singoli, sia sul piano anagogico, cioè della salvezzadell’umanità. Per il primo aspetto, Dante collega poeticamente la propriavicenda individuale a quella di Cristo, ricordando la propria nascita in unluogo, Firenze, che per il solo fatto di essere vicino al campo di battagliadella guerra civile suscitata da Catilina era simbolo di divisione; e per il

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secondo, ribadendo uno dei punti cardinali del suo pensiero maturo, cioèla necessità di un potere imperiale ordinato ad assicurare all’umanità lemigliori condizioni civili, di modo che gli uomini, nella concordia, po-tessero trovare più facilmente la via della salvezza. In altre parole, evo-cando il presente – e la sua stessa nascita – attraverso il nome del luogopiù oscuro e l’evocazione del punto più basso e contrastato della storia ro-mana, da cui la storia universale riprende il cammino di rettitudine checulminerà nella nascita di Cristo, Dante ribadisce che il potere temporale– e il suo retto esercizio da parte dell’Imperatore, il cui primato nessunodovrebbe impedire – è necessario per la migliore conduzione del mondo.Tutti questi piani si intersecano continuamente, e ciascuno di essi, nella

costruzione dell’autore, è dotato degli strumenti poetici, retorici ed espres-sivi più adatti alla sua formulazione. Se si esamina la costruzione com-plessiva del canto, subito si nota una particolarità che lo contraddistingue,e che non pare priva di ricadute anche sull’idea complessiva che essotenta di distillare, nonché sulla autorevolezza del dettato e del messag-gio. Il canto, infatti, è il solo in tutta la Commedia a essere costituito diun unico discorso diretto, tenuto in prima persona da un singolo beato,unica voce narrante dall’inizio alla fine del canto stesso: nella letteraturaclassica il discorso riportato è spesso connotato da drammaticità e pathos,e l’espediente narrativo viene usato anche perché esso offre all’autore lapossibilità di rappresentare l’effetto che i sentimenti dei personaggi hannosull’uditorio (Chassignet 2009: 101). In questo caso l’uditorio è prima-riamente costituito da Dante personaggio, che si dovrà convincere dellasacralità del simbolo imperiale.L’anima circonfusa di luce le cui parole inanellano il canto rivelerà di

essere Giustiniano, personificazione storica del legame tra la funzioneimperiale e la più alta idea di giustizia, e quindi il personaggio più adattoper affrontare un discorso risolutivo sulla giustizia terrena. E questa – chepotrebbe sembrare un’attribuzione casuale – è invece una precisa sceltaretorica, afferente da un lato alle scelte narrative complessive, ma dal-l’altro riconducibile a una figura ben individuabile e codificata nella re-torica antica e medievale, quella dell’etopea. Questa figura, consegnata

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alla retorica medievale dalla riflessione oratoria giuridica classica, e inparticolare da Quintiliano, istituisce un rapporto stretto tra personaggiopronunciante e discorso pronunciato. La figura è usata due volte, nelcanto, la prima per Giustiniano stesso, che epitomizza con la solennitàconnaturata al suo ruolo la propria esistenza terrena, la seconda per la pre-sentazione di Romeo di Villanova; ma tracce di etopea sono presentianche nella descrizione della vitalità di Cesare e degli altri ‘egregi’ ro-mani. In tutti e tre i casi, il ‘prestito della voce’ di Giustiniano è alla basedella costituzione discorsiva del canto e del rafforzamento delle idee cheesso veicola.Siamo di fronte al primo punto che differenzia il linguaggio scienti-

fico del trattato da quello epico del poema, e che rafforza il discorso po-litico nell’espressione poetica. L’adibizione ai fini parenetico-civilidell’etopea, che si rivela sia nella solennità complessiva del discorso diGiustiniano sia nell’ordinato ricordo che egli stesso espone delle vicendedella sua vita, non può essere ovviamente presente nella Monarchia incui non solo non prendono parola i personaggi, ma non esistono perso-naggi dotati di un carattere che deriva dall’invenzione e dalle capacità ar-tistiche del poeta, bensì solo figure storiche (o che Dante considerava tali,come Enea). Nel trattato, Dante prende dunque la diretta responsabilità diquel che afferma, che invece nel poema è affidata nientemeno che al-l’imperatore incarnazione dell’idea stessa di giustizia. La conseguenzadell’uso di questa figura nella Commedia – uso impensabile nella Mo-narchia – non è un semplice rafforzamento espressivo del pensiero del-l’autore su un determinato argomento rispetto a quanto affermato neltrattato, ma la traslazione di quello stesso argomento su di un piano di-verso, e prominente. La conseguenza è semplice: leggendo la Monarchia,chiunque può contraddire Dante e confutare argomentativamente il suopensiero (si veda il caso di Guido Vernani, riletto nelle sue linee fondantiin Lambertini 2013), ma se le stesse cose sono dette dal simbolo stessodella giustizia, esse assumono evidentemente una diversa natura. È la na-tura stessa dell’espressione poetica, rinsaldata dalle opzioni retoriche, arendere il pensiero politico di Dante più saldo e compiuto nella Comme-

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dia rispetto alla Monarchia. E non è solo il sapiente uso della figura quiaccennato: non mancano altri esempi sparsi della congruenza tra la sa-pienza retorica di Dante, il suo uso appropriato delle figure, e la robu-stezza che deriva al pensiero, privo di teorizzazioni o argomentazionilogiche e non per questo meno fondato, ma al contrario reso più nettodalla sua facies poetica. Ecco dunque alcuni altri esempi di questa sintesi di pensiero e poesia:

in apertura del canto, è presenta la figura dell’evidentia, che è possibilecogliere nella reificazione del potere imperiale nel simbolo dell’aquila(per questo motivo il confine tra il simbolo e la concretezza del ‘segno’è, per tutta la durata del canto, intenzionalmente labile: il simbolo del po-tere assume la concretezza materiale del ‘segno’ dell’aquila, e il ‘segno’è a sua volta sempre individuabile come simbolo della giustizia, con isuoi annessi che l’enciclopedismo medievale le attribuiva per virtù dellasua acuta vista e della capacità di piombare inattesa sulle vittime). Comeconseguenza di questa reificazione, o ipotiposi, o forse ancor meglio –come vedremo – transumptio, l’aquila diventa a tutti gli effetti un perso-naggio, dotato di tutte le caratteristiche di dinamismo e personalità che unpersonaggio deve avere, e è in grado dunque di rappresentare in modo di-namico i propri caratteri morali: può muoversi sul campo di battaglia, do-cumentando la pervasività universale del potere imperiale, passare dimano in mano, figurando la sua natura impersonale, incarnare le prero-gative del potere e permettere che esse siano poeticamente rappresentatecon afflato e stile epico, e quindi con tutte le opzioni che il registro tra-gico offre al poeta. Più che di ipotiposi, come accennato, si potrebbe parlare per l’aquila di

una figura più specifica, cioè di quella inclusiva categoria metaforica chepuò essere ricondotta ai termini della transumptio, figura – nota a Dante– che consente nel complesso delle sue norme la possibilità di adottarepersonificazioni non statiche, ma in movimento, tramite l’intensivo sfrut-tamento dinamico degli attributi della personificazione stessa (come sot-tolineato tra gli altri da Forti 2006: 108 e Ariani 2009: 15). Allatransumptio è legato dunque il dinamismo dell’aquila, già a partire dalla

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rappresentazione della translatio imperii da occidente a oriente, con ilsuo connotato di innaturalezza (l’aquila volta da Costantino «contro ilcorso del ciel»; Fenzi 2012: 6). Questa stessa innaturalezza, unico sin-tomo, in questo canto, dell’opposizione di Dante al principio che avevaguidato la donazione di Costantino, è modulata attraverso un hysteronproteron, una sequenza temporale inversa, che va da Costantino a Enea eda questi a Giustiniano (Marcozzi 2015: 164). Un’altra figura, attinentealle proprietà della narrazione storica, è presente nella lunga parte, costi-tuente il corpo centrale del canto, in cui Giustiniano elenca le impresedell’aquila, e in particolare nella sezione dedicata alle sue gesta nelle manidi Cesare. Su questa narrazione si innesta il tema del legittimo eserciziodella forza da parte dell’impero, che è svolto attraverso rapidi e conden-sati scorci, in un ritmo incalzante che assume i tratti della percursio e ma-terializza poeticamente la prontezza e la fermezza dei vari «baiuli»dell’aquila imperiale nell’esercitare le proprie prerogative; l’intero cantoricade, come notato dai primi estensori di sue rubriche riassuntive, in al-cuni addirittura contemporanei a Dante, e quindi vicini per sensibilità dilettori alle sue caratteristiche espressive, nella categoria retorica della bre-vitas, poiché esso condensa in pochi versi la narrazione di oltre un mil-lennio di storia: e questa figura di discorso, insegnava Brunetto Latini,era da applicare sostanzialmente alla retorica giuridica, alla persuasione,all’ammonimento, scopi qui largamente perseguiti. Altri espedienti retorici, come l’assenza di nomi propri nella seconda

parte della «giunta» (v. 30) di Giustiniano, cioè del suo racconto sulle vi-cende dell’aquila che va dal verso 37 al 96, sono utili a rappresentare dueprecisi aspetti: da un lato l’impersonalità della carica imperiale, che si ca-ratterizza agli occhi di Dante come pura funzione (in questo senso vaanche la specificazione da parte dell’anima di Giustiniano che egli «fu»Cesare per il limitato tempo che gli fu concesso di esserlo, e che la pie-nezza della sua condizione eterna prescinde dalla carica che ricoprì invita: «Cesare fui, e sono Giustiniano», v. 10); dall’altro, il diradarsi dellefigure eroiche della storia, i cui nomi svaniscono in attesa della venuta diCristo, sia perché essi sono meri esecutori del disegno affidato all’aquila,

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e quindi pure funzioni a loro volta; sia perché tutta la storia romana, daEnea ad Augusto, tutto ciò che il ‘segno’, l’aquila, ‘aveva fatto in prece-denza e avrebbe fatto dopo per il regno mortale che gli è sottomesso’, ap-pare ‘oscura’, poca cosa se lo si paragona a ciò che fece col terzoimperatore (Tiberio), cui venne concessa la gloria di punire il peccato ori-ginale con la crocifissione di Cristo: siamo ai versi 82-87, in cui la vi-cenda vive la sua svolta, dalla monarchia temporale a quella spirituale,dalla storia umana a quella divina, dal «regno mortal ch’a lui (cioè al‘segno’, all’aquila), soggiace» (v. 84), al regno sottomesso alla volontà diDio. Qui Dante sembra dilungarsi alquanto dalla discussione del dibattitoteorico contemporaneo sulla soggezione o meno dell’autorità imperiale aquella papale, e sulla derivazione mediata o immediata del potere terrenodalla volontà divina, elementi semmai affidati allo scorcio autobiograficodi Giustiniano sul quale il papa ha esercitato vigilanza teologica e fun-zione di guida; infatti, egli trasla il proprio discorso su di un piano di-verso da quello contingente, giungendo a parlare nientemeno che dellasoggezione dell’intera storia umana alla provvidenza. Il tema centrale, in-fatti, evidenziato dalla seconda parte della ‘giunta’, è lo svanire della sto-ria umana di fronte all’intervento di Dio in essa. Si inizia conl’apparizione di Cesare al verso 57 («Cesare per voler di Roma il tolle»,verso che per inciso indica come Dante a differenza di molti che in pre-cedenza avevano affrontato la questione di chi fosse da considerare ilprimo imperatore, riconosceva il suo imperium pienamente legittimo,sulla scorta di Lucano che ricordava come egli fu insignito del titolo di im-perator dal popolo di Roma, che con la sua volontà di fatto superavaquella del senato). Con Cesare, compare anche l’impero (a differenza diAgostino Dante era persuaso che fosse Cesare, e non Augusto, il primolegittimo imperatore): ma da qui in poi seguono solo, o prevalentemente,toponimi o idronimi, il cui infoltirsi ribalta la disposizione della primaparte, con due nomi di luogo che incorniciano una serie di nomi propri.Anche in questo caso siamo di fronte all’impiego di una figura di discorsopassibile di una lettura in senso ideologico, o che quantomeno rafforza ildiscorso politico dell’autore, quello della accumulazione. L’elenco di

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quattro luoghi posti nei diversi punti cardinali e agli estremi confini delmondo per indicarne l’ampia estensione di uno spazio è un espedientedella costruzione del discorso già largamente usato da Virgilio, alla cuifonte qui e altrove Dante si abbevera per rappresentare poeticamentel’idea dell’universalità e della completezza del dominio imperiale («lasua giurisdizione non conosce altro confine che l’Oceano», Mn. I XI 12),necessarie come sappiamo al disegno provvidenziale della salvezza, cioèalla nascita di Cristo come un cittadino soggetto alle leggi universali(come già annunciato in Pg. XXXII 102: «di quella Roma onde Cristo èromano»): un argomento, come noto, centrale e reiterato anche nel trat-tato politico. Ma, anche in questo caso, il tema del dominio universale èreso ineluttabile e tetragono dalla specificità del linguaggio poetico e dallefigure retoriche così sapientemente dispiegate nel testo, non ultima que-sta disposizione cui si è appena fatto cenno e che si apprezza dal verso 58al 72 («E quel che fé da Varo infino a Reno, / Isara vide ed Era e videSenna / e ogne valle onde Rodano è pieno», ecc.). Un altro motivo cen-trale nella Monarchia è quello del favore divino che arrise a Roma e checonsentì di ottenere un impero e un dominio sconfinati (Mn. II VIII): altripopoli, afferma Dante nel trattato, avevano provato a conquistare un im-pero universale, ma solo i romani, evidentemente per disegno provvi-denziale, c’erano riusciti. È necessario, dunque, che anche questoargomento, fondante per il tema del primato romano e imperiale spessomesso in discussione dai contemporanei, sia rappresentato poeticamentenella sua pienezza, cui concorre proprio la dotta citazione dei confini delmondo: la Troade (la tomba di Ettore), la Mauritania (Iuba), l’occidente,il Mar Rosso. Per questo motivo, peraltro, non si rilevano eccessive dif-ferenze ideologiche tra canto e trattato, come accade per altri motivi, peresempio, come sottolineano nell’introduzione i curatori a una recente edi-zione della Monarchia, in essa «non si rimarca la coincidenza tra l’imperodi Augusto […] e la nascita di Cristo» (Chiesa-Tabarroni in Alighieri2013: XXXIX). Dante la rimarca invece, con diversi e non espliciti mezzi,nella Commedia, la cui espressività non può che essere di grado diverso,non necessita dello stesso rigore espositivo, e può dunque alludere, anche

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per segni non verbali, agli stessi argomenti, fino a renderli a volte, pur inun silenzio apparente, ancor più significativi e persuasivi. Lo stesso ac-cade per altri elementi largamente presenti nella Monarchia e qui solo ac-cennati: la negatività delle azioni di Costantino (l’hysteron proteron dicui si è detto, in questo contesto, vale da solo quanto un intero capitolo deltrattato); la funzione dell’imperatore che trascende la sua persona, an-ch’esso un punto cardinale nel trattato, qui espresso con il solo ricorsoalla figura etimologica dei tempi verbali «sono» e «fui»; il corretto rap-porto tra papa e imperatore, affidato nella Monarchia a diversi rigorosi ca-pitoli, e qui, invece, inserito nell’autobiografia di Giustiniano, con lacorrezione nella fede che egli ricevette da papa Agapito («a la fede sin-cera / mi dirizzò con le parole sue», vv. 17-18), peraltro espressa, comenotato dai commentatori, attraverso una figura di parola, la triplice ana-fora di «fede» (Mariotti 1972: 397), che ricorre tre volte in cinque versi,dal 17 al 19, risalendo dal terzo al primo verso delle terzine in cui com-pare, e riferendosi prima alla fede erronea, poi a quella vera, infine aquella confermata.Torniamo brevemente alle sequele di nomi che costellano il canto. La

prima parte della ‘giunta’ sulla storia di Roma è incorniciata da due topo-nimi, Alba (v. 37) e Fiesole (in parafrasi) al verso 54 (su cui si veda piùavanti), ed elenca una serie di nomi gloriosi della storia di Roma repub-blicana, da Lucrezia a Cesare. Anche Mn. II V è – almeno per la sua se-conda parte, dal paragrafo 8 in poi – un capitolo costruito su una serie diritratti esemplari di romani illustri. Dante stesso avvisa il lettore di questoprocedimento, del passaggio da un andamento argomentativo a uno enu-merativo, scrivendo che per illustrare gli esempi del “patrocinio” delmondo da parte di Roma avrebbe preso in considerazione esempi indivi-duali: «De personis autem singularibus compendiose progrediar» (Mn. IIv 8). Entrambi i passaggi propongono dunque una struttura enumerativache è una caratteristica stilistica fondamentale della storiografia romana,spesso organizzata in senso parenetico in una serie di exempla. Ma le con-cordanze non sono solo tematiche, investono anche il versante della strut-tura complessiva del discorso, e persino delle scelte compositive. Infatti,

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nella Monarchia e nella Commedia sono presenti diversi exempla. Quellidel trattato sono ricondotti agli autori da cui sono tratti, a differenza dellaCommedia in cui questa precisazione manca per evidenti ragioni di coe-renza discorsiva. I nomi che si susseguono nella Monarchia sono: Cincin-nato, Fabrizio, Camillo, Bruto, Muzio Scevola, i Deci (con Pirro, presenteanche nella Commedia), Catone l’Uticense, l’esempio che epitoma la vir-tus repubblicana e sul quale la serie si chiude. Nella Commedia l’elenco èpiù articolato ma messo in serie senza eccessivi indugi narrativi sulle vi-cende dei singoli, e prevede Pallante, i nemici Brenno e Pirro, Torquato eQuinzio (Cincinnato), i Deci, i Fabi, Annibale (un altro nemico), Scipionee Pompeo, Cesare. Dopo questo elenco parenetico di exempla, sia nel cantosia nel trattato i nomi tendono a dileguarsi. Nella intera Monarchia, di lìin avanti, saranno presenti solo i nomi di Augusto, Pilato, Costantino, Ce-sare. Concordemente, nella seconda parte della ‘giunta’, fino al verso 81,scompaiono i nomi dei protagonisti della storia e prevalgono, introdotti da«Roma» al verso 57, toponimi e idronimi. Sono ben quindici, sedici seconsideriamo anche il tempio di Giano al verso 81, con cui l’elenco sichiude: Varo, Reno, Isara, Era, Senna, Rodano, Ravenna, Rubicone, Spa-gna, Durazzo, Farsalia, Nilo, Antandro, Simeonta, Iuba, Giano (tempiodi); e i due nomi rimasti non sono denotativi ma servono alla variatio comeperifrasi di luogo («là dov’Ettore si cuba», verso 68, Tolomeo, verso 69,che può essere anche interpretato come metonimia per il suo regno,l’Egitto). Restano tre soli nomi reali, nella seconda parte della ‘giunta’,che sono però legati da un lato alla storia narrata da Costantino, ma dal-l’altro, e in modo più consistente, alla vicenda che ha intessuto Dantepoeta, alla cui opinione, per così dire, la voce di Giustiniano si conforma.I nomi sono quelli di Bruto, Cassio e Cleopatra, che costituiscono un’al-lusione interna poiché sono già stati menzionati nell’Inferno (rispettiva-mente XXXIV 65, 67 e V 63); qui rappresentano l’idea che i nemici diRoma sono anche nemici della provvidenza: idea dimostrata vera dallapresenza di quegli stessi personaggi nel primo regno attraversato da Dante,tramite l’allusione a esso («Bruto con Cassio ne l’inferno latra», v. 64) ela rima atra: latra:, allusione fonica all’Inferno (l’unica altra occorrenza

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della rima difficile atra: nella Commedia è nell’episodio di Cerbero, chea sua volta in quella cantica è nel canto VI 14, 16, 18) e unicum nel Para-diso. I tre nomi, così messi in rilievo per mezzo di una serie di espedientipoetici, rappresentano dunque un corollario che rafforza la coerenza dellaprofezia dantesca: l’Inferno, in cui i tre nemici dell’ordine costituito tro-vano dannazione eterna, attraverso questa evocazione si costituisce infattiper il lettore non tanto come un’opera di poesia quanto come il registro ela sanzione di una verità storica accertata. I due elenchi onomastici contrapposti, da un lato i nomi dei cives e dal-

l’altro i luoghi, non possono rispondere a una semplice logica di variatio:questa costruzione parallela sembrerebbe avere una ragione ideologicapiù profonda, che è possibile rintracciare nell’assunto che la storia umanaprecede e prepara il diretto intervento di Dio in essa; ovvero, come si af-ferma nella Monarchia, che la prevalenza dei romani si deve non allaforza, ma alla provvidenza; o ancora, una sua causa sarà nella figurazionedel divario tra la monarchia temporalis, o imperium, che ha come sog-getto il tempo, la storia, e le vite degli uomini, e quella che esercita il suopotere al di fuori della realtà temporale – ciò spiega perché i tre nomi fattinella seconda parte siano già noti al lettore come soggetti alla pena eterna.Questi non sono che pochi esempi della modalità che assume il di-

scorso poetico per dare concretezza, solidità immaginifica e inespugna-bilità al pensiero politico dantesco, che dall’impiego della retorica, dellemetafore, delle virtù proprie della poesia acquista un incrementato vigorerispetto alle argomentazioni parallele della Monarchia. Lungo è il capitolo dei rapporti tra il sesto canto del Paradiso e la Mo-

narchia, delle quale esso è non una sintesi o un sunto, ma una sublima-zione di quanto espresso, o in via di espressione, o (secondo i punti divista) ancora da esprimere, nel trattato. Che le due opere siano quasi con-temporanee pare probabile nonostante la questione a lungo presente neglistudi e di recente risollevata da Quaglioni (2011), il quale ha posto in dub-bio l’inciso «sicut in Paradiso Comedie iam dixi» (Mn. I XII 6). Su que-sta frase si è a lungo basata l’ipotesi dell’anteriorità del poema rispetto al

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trattato, ma lo studioso ha notato la sua assenza nel ms. London, BritishLibrary, Additional 6891 (già notata, senza trarre le medesime conse-guenze, da Rossi 1999, discussa da Shaw 2011 e ribadita da Belloni-Qua-glioni 2014, con proposta ecdotica complessiva in Quaglioni 2017; il ms.è ora riprodotto in Shaw 2018: 247-318). La mancanza, nel manoscrittolondinese, dell’allusione al paradiso nella Monarchia, continua a suscitarevari interrogativi, essendo del resto una crux del testo del trattato e unadelle più ostinate cruces degli studi danteschi, come si evince da una purcursoria disamina delle posizioni sul tema, tra coloro che difendono lagenuinità dell’inciso (Fenzi 2015) e quanti ritengono probabile l’ipotesiche si tratti di una interpolazione (Santagata, in Alighieri 2014: LXXIII-LXXIV, CXXIX), o di un inciso seriore la cui genesi è stata ricondotta allanecessità di fornire un elemento di identificazione a un’opera caratteriz-zata, dopo la sua condanna, da una circolazione anonima (Renello 2013).Eppure, pur valutando la questione dei rapporti tra le due opere alla lucedi questi argomenti di Quaglioni, ma tenendo nel debito conto anche ilfatto che il resto della tradizione manoscritta è concorde nel presentarequel passo (come ribadito da Pellegrini 2015), riterrei ancora di poter sot-toscrivere la stessa conclusione espressa qualche anno fa, che andava nelsenso di un rapporto di contemporaneità di ideazione tra il canto VI delParadiso e la Monarchia. Gli argomenti del primato romano e della sog-gezione di Cristo alla legge universale coincidono così precisamente, traParadiso e Monarchia, che una scrittura contigua – se non parallela – trai due testi può configurarsi come il rapporto più soddisfacente tra loro: lolasciano intuire anche le numerose corrispondenze con la terza cantica,che sono utilmente raccolte insieme nel commento di Chiesa-Tabarroni.Quest’ipotesi appare perciò più fondata di quella secondo cui la Monar-chia comprenderebbe un complesso di motivi che Dante avrebbe potutosviluppare più tardi nel Paradiso (l’opera, che secondo questa lettura sa-rebbe stata concepita durante la discesa di Enrico in Italia, avrebbe per-ciò dovuto avere una stesura successiva stratificata e diluita nel tempo);o di quella di una dipendenza del trattato dal poema, basata sull’origina-lità delle argomentazioni filosofiche (Ruggiero 2015) e sulla loro ten-

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denza a convergere con il dettato della Commedia (Falkeid 2011), con laconseguenza di ritardare la datazione della Monarchia. Ma se è vero chesu alcuni argomenti, come per esempio il primato di Roma e il Cesarismo,Dante ha da un’opera all’altra cambiato idea, qui, nel caso del canto VI,non è chi non osservi una congiunzione tale, su tutti i punti e persino sullaloro sequenza, sui personaggi citati, sulla scelta degli esempi e degli ar-gomenti persuasivi, da non poter ipotizzare nulla di più economico di unintreccio temporale che accosti Monarchia e discorso di Giustiniano nellostesso ristretto arco temporale (così anche Fenzi 2015). Quale arco? La Monarchia, come noto, in tempi recenti è stata ricon-

dotta alternativamente al periodo arrighiano (1312-1313; Quaglioni, inAlighieri 2014: 846; Quaglioni 2016: 335) o agli ultimissimi anni dellavita di Dante (Holmes 1997; Furlan, in Alighieri 2004: XXX-XXXI; Fenzi2007 e 2015). Se si procede dal punto di vista e dalla prospettiva dello stu-dioso di poesia, lo sforzo di reperire indizi di datazione per il canto passaperò non dal rapporto con testi legislativi e bolle imperiali, ma da possi-bili allusioni interne a fatti storici, che nel VI del Paradiso non mancano.Ho già altrove accennato (Marcozzi 2015) a un possibile dato cronolo-gico, che potrebbe essere costituito dall’allusione alla ripresa delle osti-lità nella guerra del vespro, in cui Roberto d’Angiò fronteggiava Federicod’Aragona (o Federico III); quest’ultimo aveva assunto come simboloaraldico uno scudo quadripartito, con due aquile nere nei lati, che ricor-dava le insegne imperiali della dinastia sveva. Si era dunque appropriatodel simbolo dell’aquila imperiale forse non del tutto illegittimamente sottoil profilo dinastico (Federico d’Aragona era nipote per parte di madre diManfredi, e rivendicava quindi una discendenza dall’imperatore Federicodi Svevia), ma non con piena lealtà, perché lo faceva per interessi di parte(«l’altro appropria quello a parte», v. 102): ed è proprio questo uno dei«falli» che Giustiniano rimprovera alla fazione ghibellina (vv. 100-108).Ciò avveniva nel 1313, e con maggiore asprezza nel 1316, e il canto po-trebbe essere contemporaneo o immediatamente successivo a questa ul-tima data. Se è vera l’allusione al Paradiso di Mn. I XII 6, la cuiimportanza è sminuita da Quaglioni, la Monarchia segue di poco questo

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terminus post quem; se non lo è, la solidità dei loci paralleli tra i due testipotrebbe essere sufficiente per ricondurre anche la Monarchia, o quanto-meno la parte centrale del suo secondo libro, allo stesso periodo dellacomposizione del canto, successiva al 1316. Ma è rischioso addentrarsi inquestioni che è difficile determinare nella loro esattezza cronologica sullabase di un linguaggio fortemente allusivo, come è quello poetico. In conclusione, possono essere proposte due considerazioni, ancora re-

lative al canto del Paradiso più che alla Monarchia. La prima: ciò che siè fin qui osservato non è un discorso relativo alla politica, o un’espres-sione del pensiero politico di Dante, ma alla storia: è un’espressione dellasua concezione provvidenziale della storia, soprattutto nella ‘giunta’ diGiustiniano. L’impero e la sua funzione sono certamente aspetti del pen-siero politico di Dante, ma sono qui declinati nel loro sviluppo storico.Questo sviluppo storico, ancorché remoto, non è però privo di aggancicon il presente, ed è trattato con una forza espressiva tale da attualizzarlo,ricondurlo senza discontinuità al presente e trasformarlo in argomenta-zione politica, con ricadute contemporanee. Che nessuno possa legitti-mamente appropriarsi dell’aquila imperiale per ragioni di parte ècontemporaneamente un portato della storia dell’aquila e dell’anonimatodei suoi ‘baiuli’, ma anche un dato contemporaneo. L’impero, infatti, èper Dante non solo un fatto storico del passato, ma una realtà viva ai suoitempi (si veda su questo Fontanella 2014: 39; Fontanella 2016: 83). Giu-stiniano, parlando come un giudice a sentenza e dopo aver esposto i ‘fatti’,rimarca e condanna, chiamando Dante stesso a ‘giudicar’ le due parti inlite (vv. 97-99: «Omai puoi giudicar di quei cotali / ch’io accusai di soprae di lor falli, / che son cagion di tutti vostri mali»), concludendo la dos-sografia imperiale con un richiamo alla contemporaneità e anzi, se le al-lusioni sono vere, alla più stretta attualità politica al tempo della scritturadella cantica. Sull’aspetto che questa conclusione implica, cioè sulla strut-tura giudiziaria del canto, pare evidente che la sua non modesta portatastorica assuma a sua volta un profondo significato politico, non tantocome laudatio temporis acti, cui Dante peraltro era incline; ma come rim-pianto dell’unitarietà e della sacralità dell’impero, che era superiore, nella

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persona e nella funzione dell’imperatore, a quegli interessi di parte che neitempi di Dante ne macchiavano il simbolo. Il secondo punto: il più delle volte, nel rapporto tra il canto sesto del

Paradiso e la Monarchia, siamo tentati di vedere all’opera il poeta chetrae gli argomenti asettici e oggettivi dalla propria prosa scientifica e li ar-ricchisce di pathos retorico. Ma, prescindendo dai rapporti cronologicitra le opere, si può cercare di percorrere anche la strada inversa, cioè de-terminare la presenza di una retorica poetica più che argomentativa, nonsolo cioè relativa alla dispositio dell’argomentazione ma anche all’allu-sività metaforica dei suoi componenti, nel trattato. È stato talvolta notatoche in diversi punti della Monarchia Dante lascia percepire chiaramentela propria presenza attraverso l’uso di strumenti stilistici e figure qualil’apostrofe, l’ironia, l’invettiva (Chiesa-Tabarroni, in Alighieri 2013:XXVII), che travalicano l’oggettivismo razionale della prosa scientifica edel trattato e permettono all’opera di raggiungere traguardi espressiviassai superiori a quelli di analoghi trattati dell’epoca sua.Se poi si prendono in esame i prologhi ai tre libri della Monarchia,

completamente diversi per tono e registro – con il loro profetismo e laloro solennità – dal resto della trattazione e dalla sequela delle argomen-tazioni che caratterizza il corpo centrale dei tre libri stessi, l’impressionedi trovarsi di fronte a qualcosa di diverso da quanto presente nella tratta-tistica coeva appare ben fondata. D’altra parte, il profetismo sembrerebbemancare al canto, in cui Dante non prende mai la parola: ma ciò è verosolo in apparenza. Infatti, proprio al suo centro, nel punto in cui Giusti-niano evoca la nascita di Dante a Firenze, e dunque nei pressi della tristee amara Fiesole («quel colle / sotto ’l qual tu nascesti», vv. 53-54), subitoprima dell’allusione alla nascita di Cristo, il lettore è condotto dalla stra-tegia del poeta a mettere necessariamente in relazione i due eventi: ilprimo, la nascita di Dante, è evocato attraverso il ricordo del momento piùbasso, oscuro, lacerato e conflittuale della storia di Roma, la guerra fra Ce-sare e Catilina; al secondo è prodromica l’unità del mondo, faticosamenteraggiunta grazie all’opera di Cesare, con il legittimo uso della forza chelo condusse alla distruzione di Fiesole (tema che si collega certamente al-

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l’epistola VI diretta agli scelestissimi fiorentini, del 1311, in cui è paven-tata la distruzione di Firenze da parte di Arrigo, ma che qui e nella Mo-narchia è svolto con l’identico, è più pregnante, riferimento storico lìassente). Il fatto che in questa vicenda Dante lasci entrare il riferimentoalla propria nascita non può non avere un forte senso profetico, che ri-manda a sua volta all’inusitato profetismo della Monarchia; in entrambii casi la figura profetica, palese nell’opera che meno dovrebbe accoglierla,la Monarchia, celata in un’apostrofe, en abyme, in quella che più palese-mente dovrebbe prevederla, la Commedia, rivela il cardine stesso del pen-siero politico di Dante: la strumentalità della monarchia temporale neiconfronti della realizzazione della pace universale, che è ‘il massimo deibeni disposti per la nostra felicità’ («pax universalis est optimum eorumque ad nostram beatitudinem ordinantur», Mn. I IV 2), e della conseguentesalvezza dell’umanità.

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Luca MARCOZZI Politica e poesia nel VI canto del ‘Paradiso’

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La teoría de la justicia en la ‘Divina Comedia’,entre Imperio y republicanismo

VALERIO ROCCO LOZANOUniversidad Autónoma de Madrid

[email protected]

RESUMEN:La teoría de la justicia en Dante se puede analizar desde la perspectiva de he-

rencia cultural de la Romanitas; sin embargo, la dialéctica entre la Roma impe-rial y la Roma cristiana se resuelve en términos asintóticos, porque la perfectaunificación de las dos ciudades solo podría lograrse en una dimensión de in-mortalidad. Por el contrario, los intentos de superponer las dos Romas en elmundo terrenal solo producen injusticia y violencia, según el resumen históricouniversal del canto VI del Paraíso. PALABRAS CLAVE: Dante, Comedia, Justiniano, justicia, Romanitas, política,

Imperio.

ABSTRACT:The theory of justice in Dante can be analyzed from the cultural heritage pers-

pective of the Romanitas; nevertheless, the dialectic between the imperial Romeand the Christian Rome is resolved in asymptotic terms, because the perfect uni-fication of the two cities only could be achieved in a dimension of immortality.On the contrary, attempts to superimpose the two Roms on the earthly world

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only produce injustice and violence, according to the historical summary of cantoVI of the Paradise.KEY WORDS: Dante, Comedy, Justinianus, justice, Romanitas, politics, empire.

1. LA JUSTICIA COMO RECTITUD Y JURISDICCIÓN

El legado y la re-apropiación de la Romanitas ha tenido un significadooscilante a lo largo de la historia, adoptando todo tipo de formas filosó-fico-políticas, desde el republicanismo más radical hasta la glorificaciónmonárquica de los emperadores más despóticos (cfr. Highet 1996; Can-tarella 1996; Giardina - Vauchez 2000). En este marco de general ambi-güedad, la teoría de la justicia de Dante no parece una excepción. Estudiarlas relaciones entre la justicia y la Romanitas en la Divina Comedia yotras obras del autor florentino es una tarea tan compleja como fascinanteque quizás pueda empezar por analizar una imagen: el águila. En general,toda la Comedia podría leerse, según la famosa interpretación de LuigiValli, como un juego de alegorías en el que el águila (junto con su com-plemento simbólico, la cruz) aparece en todo momento, de forma a me-nudo críptica, esotérica. De hecho, la obra principal de este estudiosoitaliano, gran amigo de Giovanni Pascoli, se titula precisamente Il segretodella Croce e dell’Aquila nella Divina Commedia (Valli 1996). Esta presencia del águila romana en el iter sobrenatural de Dante se

puede apreciar de manera explícita en el canto VI del Paraíso. Aquí el aveimperial es la auténtica protagonista de la translatio imperii que aconteceentre la fundación mítica de Roma por parte de Eneas hasta las disputasentre güelfos y gibelinos en la propia época del poeta, bajo el reinado deCarlos de Anjou. En los 111 versos en los que Dante recorre siglos dehistoria imperial, Julio César, Augusto, Constantino, Carlo Magno o elpropio Justiniano –el espíritu celeste que narra esta epopeya–, no son sinoinstrumentos en manos de un «sacrosanto segno» (Par.VI 32):1 el símbolo

1 La Divina Comedia se citará a partir de la edición italiana (Alighieri 1915) re-

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del Imperio, el águila. Preanunciando de alguna manera la noción hege-liana de astucia de la razón y de heterogonía de los fines (Hegel 1996:75), según el poeta es el águila la que protege con sus alas a los jóvenesPompeyo y Escipión en sus victorias militares, la que crea las condicio-nes para el nacimiento de Cristo bajo Tiberio, la que venga a través deTito «la venganza del pecado antiguo» (Pd. VI 93), esto es, a través de ladestrucción del Templo castiga a los judíos que, matando a Cristo, ha-bían liberado al hombre del pecado original. El canto VI del Paraíso, el canto del águila, no sólo tiene una gran

complejidad interna, sino que su comprensión se vuelve aún más difícilsi se analiza en el conjunto de toda la obra. En efecto, este canto derivadel cruce de dos movimientos dentro de la estructura general de la Di-vina Comedia (cfr. Rocco Lozano 2011: B7-B8). Se trata de un movi-miento ascendente, de carácter político, y de otro descendente, de carácterteológico-jurídico. Si empezamos por el camino ascendente, se puede ver cómo el canto

VI del Paraíso es la cúspide de un movimiento lógico de progresiva uni-versalización en los ámbitos políticos. En efecto, los cantos VI de las trescánticas están interconectados, pues en los tres se presenta una visión po-lítico-mesiánica con diferentes grados de generalidad. En primer lugar, enel canto VI del Infierno, Ciacco narra los conflictos políticos en el inte-rior de Florencia. Se trata, por tanto, del nivel de la ciudad, en un planológico de individualidad. En segundo lugar, en el canto VI del Purgato-rio, se presentan las disputas en Italia y la negligencia del emperador Al-berto de Austria en la península, pasando por tanto a un nivel lógicointermedio, de particularidad. Por último, en el canto VI del Paraíso, seanaliza la transmisión del Imperio por boca de Justiniano, emperador ro-mano. Corresponde por tanto al plano de la universalidad lógica.

señada en la bibliografía, señalando la cántica, el canto y lo versos correspondien-tes. La traducción española se tomará de la edición española utilizada (Alighieri2002). Para el Convivio y el De Monarchia también se citarán las ediciones re-señadas en bibliografía, a partir de los capítulos y parágrafos de las obras.

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Los tres ámbitos (ciudad, reino e imperio) corresponden, como se hadicho, a los tres niveles de individualidad, particularidad y universalidad,que entre sí forman un círculo lógico, pues –como veremos– en el cantoVI del Paraíso la universalidad regresa a la particularidad a través del es-tudio de una figura singular. Se trata por tanto de una circulatio. Las tresesferas deben cooperar, según la teoría política aristotélica (ENV 1030a-1031a),2 y guiarse por un criterio de moralidad. La alusión a la necesidad de articulación de los tres ámbitos (indivi-

dualidad, particularidad y universalidad) se puede ver, como se ha ade-lantado, en el hecho de que al final del canto VI del Paraíso, que trata launiversalidad imperial, se vuelva a la individualidad de un caso concreto,el de Romeo de Villanova. Este personaje, desterrado por Ramón Beren-guer IV a pesar de los eficaces servicios prestados, podría tener varias in-terpretaciones, que ha sistematizado Woodhouse (1997: 7). En primerlugar, podría referirse al propio Dante, exiliado también injustamente peroque asegura «ritornerò poeta» (Par. XXV 8), según su propia y fallidapredicción, justo gracias a la Comedia. En segundo lugar, el nombre deRomeo podría aludir al ‘Romeus’, al romero, al peregrino dirigido haciael lugar santo, refiriéndose de este modo a la Roma espiritual, cabeza dela Cristiandad y del mundo. En tercer lugar, interpretada de manera polí-tica, esta podría ser una alusión a un genérico ciudadano romano, a uncivis romanus de la edad de Dante, de acuerdo a la idea de gibelinismo po-pular romano que comentaremos después. Sea como fuere, este individuo, Romeo de Villanova, ocupa un lugar

preeminente en la tercera cántica, como bisagra entre los dos principalesmensajes de carácter político y teológico de la obra: por una parte, la ex-posición de la naturaleza del Imperio a lo largo de la historia y su relacióncon la justicia, y por otra la explicación de la insondable justicia divina enel castigo a los judíos por el deicidio. Se ha dicho anteriormente que el canto VI resulta de la unificación de

un camino ascendente, el que acabamos de analizar como una progresiva

2 Las obras de Aristóteles y Platón se citarán según el modo canónico, pero in-dicando también en nota las páginas de la edición consultada. En este caso, Aris-tóteles 2000: 134-136.

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universalización, y un camino descendente. Este es el que desde el cantoXVIII del Paraíso explica a posteriori el fundamento de este canto VI. Enel canto XVIII, en efecto, se describe el nacimiento del águila, el verda-dero protagonista del canto VI, a través de una alegoría complicada, cons-truida alrededor del versículo veterotestamentario «Diligite iustitiam, quiiudicatis terram» (Sap. 1, 1), fundamental para comprender la noción dejusticia política que plantea Dante. Describamos, por tanto, estos pasajes difíciles. En el cielo de Júpiter,

las almas de los reyes y gobernantes justos que allí moran empiezan a di-bujar ante Dante una serie de figuras, como si se tratara de bandadas deaves que en el cielo trazan formas cambiantes que seducen a la imagina-ción. De repente, el poeta se percata de que están dibujando letras, pri-mero una D, luego una I, una L, y así sucesivamente, hasta conformar laya citada frase del comienzo del Libro de la Sabiduría, cuya traducción es:«amad la justicia, vosotros que gobernáis la tierra» (Pd. VI 91, 93).

E come augelli surti di rivera, quasi congratulando a lor pasture,fanno di sé or tonda or altra schiera,sì dentro ai lumi sante creaturevolitando cantavano, e faciensior D, or I, or L in sue figure.[...]Mostrarsi dunque in cinque volte settevocali e consonanti; e io notaile parti sì, come mi parver dette.‘DILIGITE IUSTITIAM’, primaifur verbo e nome di tutto ’l dipinto;‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.

(Pd. VI 73-78, 88-93)3

3 «Y como aves que dejan la ribera / casi congratulando a sus pasturas, / quehacen de sí curvada u otra hilera, / así, en la luz, las santas criaturas / volitandocantaban, y se hacían / ya D, ya I, ya L, en sus figuras / […] Consonante o vocal,se han sucedido / cinco letras por siete en dos letreros, / y una por una yo las he

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Paulatinamente, de manera casi insensible, la M del acusativo final enque se había detenido la bandada de almas se transforma, formando uncuello y una cabeza en la parte superior de la letra y arqueando sus lados.La figura que resulta, ante el estupor del poeta, es un águila, el águila im-perial, brotada directamente de la justicia divina, que es administrada porlos reyes y los gobernantes rectos.

Poscia ne l’emme del vocabol quintorimasero ordinate; sì che Giovepareva argento lì d’oro distinto.E vidi scendere altre luci doveera il colmo de l’emme, e lì quetarsicantando, credo, il ben ch’a sé le move.Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsisurgono innumerabili faville,onde li stolti sogliono agurarsi,resurger parver quindi più di milleluci e salir, qual assai e qual poco,sì come ’l sol che l’accende sortille;e quïetata ciascuna in suo loco,la testa e ’l collo d’un’aguglia vidirappresentare a quel distinto foco.

(Par. VI 94-108)4

Esta representación –magnífica poéticamente– de la grandiosidad deláguila imperial que primero –desde el punto de vista lógico (aunque na-rrativamente en segundo lugar)– deriva de la justicia divina, para después

leído. / DILIGITE IUSTITIAM, los primeros / nombre y verbo, cada uno biendistinto; / QUI IUDICATIS TERRAM, los postreros.»4 «Luego, en la M del vocablo quinto / se ordenaron, y Jove parecía / de argentoser y verse de oro tinto. / Descender otras luces yo veía / a lo alto de la M y aquie-tarse / cantando, creo, al bien que las movía. / Y como del tizón suelen alzarse /chispas innumerables, si es golpeado / con que los tontos suelen augurarse, / asímás de mil luces se han alzado / más o menos, según dispuso el juego / el sol quecon su luz las ha inflamado.»

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protagonizar la historia universal “utilizando” para ello a los sucesivosemperadores, constituye una de las más poderosas imágenes literarias dela translatio imperii occidental (cfr. Rocco Lozano 2016: 182-183).El canto XVIII y el pasaje del «Diligite iustitiam qui iudicatis terram»

es fundamental porque en él se funden dos conceptos centrales en Dante,el amor y la justicia. John Took, que llama a Dante «el poeta del amor yla justicia» (Took 1997: 137), ha mostrado de qué manera el pasaje del Di-ligite unifica ambas esferas: la justicia puede ser objeto de amor. De ahíla invocación a los gobernantes de la tierra para que la amen. Al mismotiempo, el desarrollo general de lo que aquí hemos llamado el caminodescendente del Paraíso, que culmina en el canto VI, sugiere que la jus-ticia brota del Amor con A mayúscula, esto es, de Dios mismo. ¿Cómo entiende Dante esta justicia que puede ser amada y que al

mismo tiempo brota del Amor? En el Convivio (Cv. IV y XVIII), así comoen la Monarchia (I 11) encontramos una misma definición de la justiciacomo rectitud (respectivamente a través de los términos ‘dirittura’ y ‘rec-titudo’). La justicia para Dante, siguiendo a Aristóteles (EN V 1029b 28-34) es en primer lugar una virtud moral, presente en la parte racional delalma. Al ser la que más propiamente caracteriza al hombre, es la másamable de las virtudes, y por eso es digna de amor. Consiste, como se hadicho, en inclinar rectamente a la consecución de un fin (Took 1997: 151). ¿En qué tipo de fin está pensando Dante a la hora de configurar su con-

cepción de la justicia como rectitud? En realidad, se trata de un fin triple,siguiendo a Santo Tomás (Tomás de Aquino 2007: 34-43): la paz, la li-bertad y el orden, garantes a su vez de la auténtica felicidad del ser hu-mano. Estos tres fines que debe perseguir la justicia se articulansistemáticamente, derivando en una triple función del gobernante.5 Enprimer lugar, el príncipe debe ser pacificador, esto es, debe preservar algénero humano de la autoaniquilación (Cv. IV 4). En segundo lugar,

5 La aplicación de esta noción de justicia como rectitud a la tarea del gobernantese encuentra a su vez en el capítulo VIII del libro I del De Monarchia de SantoTomás (Tomás de Aquino 2007: 39-43).

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Dante sabe que la mera paz, la ausencia de conflicto, no es equivalente ala justicia. Por ello, el gobernante debe ser garante de la libertad moral.Esto, es, se debe procurar la paz al mismo tiempo que se preserva la li-bertad de los sujetos. Como dice Dante en la Carta a los florentinos, laobediencia a un gobernante que dicta leyes justas es justamente la liber-tad (Took 1997: 144). Pero en tercer lugar, el hecho de que el príncipe ga-rantice la paz y la libertad moral no le hace a él mismo una autoridadmoral; en este sentido, el tercer papel del gobernante es el de ser meroadministrador del derecho positivo. Lo que muestra la filiación entre elcanto VI y el canto XVIII del Paraíso es que la ley humana, el derechopositivo, codificado por Justiniano en el Corpus Iuris Civilis, desciendedirectamente de la justicia divina, universal, como se puede leer en la ale-goría de la canción Tre donne intorno al cor (Alighieri 2014: 362-364; vv.44-54). Por ello, el gobernante debe administrar el derecho positivo enpleno acuerdo con la ley natural (Cv. IV 9). En general, por tanto, tal y como destaca Took en el mencionado aná-

lisis, esta triple actividad del príncipe debe garantizar la felicidad y elbienestar del ser humano, pero nunca dictar la sustancia, el contenido dela moralidad y de la legalidad, dado que esta ya se encuentra claramentefijada en la ley natural. El emperador no es para Dante una autoridadmoral, sino sólo jurídica. Es por este motivo que Justiniano no es, pro-piamente, un creador de leyes, sino un ordenador del corpus jurídico,como si la metáfora del Demiurgo platónico (Tim. 29e-47e; Platón 1992:173-197) se trasladara a la legislación. El propio emperador lo deja claroen su autopresentación en el canto VI del Paraíso: «Cesare fui, e son Giu-stiniano, / che per voler del primo Amor ch’io sento, / d’entro a le leggitrassi il troppo e il vano» (Pd. VI 10-12).El canto XVIII del Paraíso, a través de la alegoría del águila compuesta

por todos los gobernantes justos que hablan al unísono, con un yo que esun nosotros, explica que en todas las leyes justas late el mismo contenido,y que este contenido sea dictado por Dios. Asimismo, la narración de lahistoria del Imperio en el canto VI del Paraíso nos muestra que el conte-nido de esta justicia no ha variado a lo largo de la historia, pues el águila

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que protagoniza las vicisitudes imperiales es siempre la misma. En estaimagen que fascinó a Borges (1982), por cierto, no puede dejar de perci-birse a redropelo, además de la ya citada astucia de la razón, una ciertaconcepción hegeliana de la sabiduría como tránsito del yo al nosotros, almenos tal y como se presenta al final del capítulo VII de la Fenomenolo-gía del Espíritu (Hegel 1980: 420-421).Por otra parte, el canto XVIII del Paraíso explica la radical diferencia

entre justicia humana y divina. La justicia humana está basada funda-mentalmente en la igualdad, considerada (desde EN V 1037a 34 - 1038a2 [Aristóteles 2000: 156-158], hasta Rawls 1995: 17-61) como imparcia-lidad o mera equidad. Desde esa perspectiva Dante pregunta (Pd. XIX70-78) si no es injusticia que el justo indio vaya al limbo sólo por no habersido bautizado. La justicia divina, en cambio, está basada en el amor, queinclina a todas las cosas hacia su propia perfección. No olvidemos que enel centro de la alegoría de la canción Tre donne intorno al cor (Alighieri2014: 355; vv. 1-4), a la que ya nos hemos referido, se encuentra justa-mente el amor, como núcleo de la imagen. Este amor se nos presenta en elpasaje del Paraíso que estamos comentando como constitutiva desigual-dad y violencia. En efecto, la justicia divina puede parecer perversa a losojos humanos (más propiamente, a los ojos del impío), porque es impre-visible. Al comienzo del canto XX del Paraíso, que narrativamente cons-tituye la continuación del canto XVIII que estamos comentando,encontramos el célebre verso «regnum coelorum vïolenza pate / da caldoamore» (Par.XX 94-95). La justicia divina es imponderable y no debe serjuzgada de acuerdo a la equidad miope, sino con los ojos de la fe y delamor a Dios. Con todo, a pesar de esta clara separación entre justicia humana y di-

vina, para Dante debe existir un vínculo entre ambas esferas, y es preci-samente el anclaje en el amor. Justiniano legisla movido por el «primoAmor», tal y como hemos visto en los versos ya citados (Par. VI 10-12).Dado que también la actividad legislativa de los hombres debe estar mo-vida por el amor, que es el vínculo con la justicia divina, por esa razónDante es claro al manifestar que la corrupción de los príncipes no es per-

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donable, porque es una ofensa contra el amor, esto es, el espíritu santo,lazo unitivo de las comunidades humanas (Took 1997: 151). La justicia, que desde el punto de vista moral es definida como recti-

tudo, se manifiesta en el plano político como jurisdicción, esto es, comorespeto a la separación de los diferentes ámbitos de aplicación de la jus-ticia. Como ha mostrado Gilson (1953: 143-151 y 276-277), cada una delas tres grandes obras de Dante nos muestra violaciones de estas separa-ciones, de estas jurisdicciones. En el Convivio estaría la violación de losderechos del filósofo frente al emperador. En la Monarchia tenemos lavulneración de los derechos del emperador frente al papa. En la DivinaComedia, por último, se describiría un movimiento mucho más complejo,una serie de enfrentamientos en diferentes ámbitos histórico-políticos: sinembargo, en todos ellos, el núcleo común es la violación de la esferaajena, la extralimitación. Por eso decíamos que la justicia equivale, en elámbito político, a la jurisdicción: toda esfera comete injusticia y por tantocorre el riesgo de destruirse a sí misma cuando quiere sobrepasar a la otra,cuando aspira a interferir en un ámbito que no es el suyo.Podría parecer que esta concepción de la justicia como respeto a las

distintas jurisdicciones es meramente conservadora, inmovilista, desti-nada a mantener las instituciones ya existentes, cada una en su propia es-fera de autonomía, tal y como ha sido querida por Dios (Gilson 1953:277). La justicia parecería así fidelidad a la tradición y respeto de lo me-ramente existente. Al fin y al cabo, los tres máximos pecadores del in-fierno (Judas, Casio y Bruto) son los traidores de la majestad divina yhumana (Inf. XXXIV 62-67). Sobre este punto volveremos más tarde,porque es más problemático de lo que puede parecer a simple vista.

2. LA INJUSTICIA COMO CUPIDITAS

Lo que queda claro es que para Dante la justicia se define sub contra-rio, frente a la cupiditas (Gilson 1953: 273-274), esto es, frente al deseoinmoderado de nuevos poderes y bienes. La cupiditas es la extralimita-

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ción, sobrepasar la propia esfera, tal y como Aristóteles la había definidoen la Ética Nicomáquea:

Parece que injusto es el transgresor de la ley, pero lo es también elcodicioso y el que no es equitativo: luego es evidente que el justoserá el que observa la ley y también el equitativo. De ahí que lojusto sea lo legal y lo equitativo, y lo injusto lo ilegal y lo no equi-tativo. Puesto que el injusto es también codicioso, estará en rela-ción con los bienes, no todos sino con aquellos referentes al éxitoy al fracaso, los cuales, absolutamente hablando, son siemprebienes, pero para una persona particular no siempre. Los hombreslos piden a los dioses y los persiguen, pero no deben hacerlo, sinopedir que los bienes absolutos sean también bienes para ellos, yescoger los que son bienes para ellos. El injusto no siempre escogela parte mayor, sino también la menor cuando se trata de malesabsolutos; pero, como parece que el mal menor es también, encierto modo, un bien, y la codicia lo es de lo que es bueno, parece,por esta razón, codicioso. Y no es equitativo, pues este término esinclusivo y es común a ambos. Puesto que el transgresor de la leyera injusto y el legal justo, es evidente que todo lo legal es, encierto modo, justo, pues lo establecido por la legislación es legaly cada una de estas disposiciones decimos que es justa (EN V1029b 1-15; Aristóteles 2000: 131-132).

La justicia, para Aristóteles y para Dante, es por tanto limitación en lapropia jurisdicción. Por ello, desde el punto de vista lógico, sólo es posi-ble si es administrada por un único monarca, que al tener ya jurisdicciónsobre todo, no puede desear nada más. Al tener ya todo bajo su control,hace ininteligible la misma noción de extralimitación (Gilson 1953: 177). Por lo tanto, la definición que Dante hace de la justicia está vinculada

a la justificación lógica del Imperio, de la monarquía universal. Sólo esposible alcanzar la justicia a nivel global si se hace imposible la extrali-mitación y la cupiditas. En virtud de esta estrecha conexión entre justiciay monarquía universal, el águila del canto XVIII que nace de la M finaldel versículo bíblico sobre el amor a la justicia es en el canto VI el sa-crosanto signo a la vez de la justicia y del Imperio. Frente a ella, la ima-

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gen de la cupiditas, esto es, de la injusticia, sería la loba, identificada conla Iglesia, que aspira a contraponerse al poder imperial en un plano polí-tico (Gilson 1953: 176-177). En Pd. XVIII 131-136, Dante critica condureza al papa Juan XXII, que ha traicionado a los fundadores de la Igle-sia, Pedro y Pablo, y se ha dejado deslumbrar por Juan Bautista, en alu-sión a la efigie del santo representado en los florines florentinos. En estesentido, la loba de la cupiditas casa bien con una imagen de una Iglesiacorrompida y que usa la excomunión como un arma de guerra y de enri-quecimiento. Sin embargo, siempre hay que estar en guardia contra losriesgos del simbolismo en Dante, dado que la loba es también uno de lossímbolos más conocidos de la otra Roma, la temporal, política e imperial,a través del mito de Rómulo y Remo. Así pues, la identificación con laIglesia puede parecer problemática. Sin embargo, en el caso de la identi-ficación entre el águila y el Imperio, casi todos los comentaristas están deacuerdo. Una de las pocas excepciones a este respecto es la de Julio Par-dos, que en un congreso sobre la Divina Comedia en el Círculo de BellasArtes, hace unos años, sostuvo que el águila es una metáfora cultural, nopolítica, que representaría a la tradición clásica que se va transmitiendoen la historia del mundo occidental.6

Si se deja a un lado por un momento esta sugerente aunque discutibleteoría, podemos afirmar que la justicia en Dante consiste en el respeto dela separación entre la esfera temporal, representada por el águila y el Im-perio, y la espiritual, representada por la Iglesia. Todo el propósito polí-tico de la Divina Comedia sería llevar a cabo una reforma geopolítica querealice esta concepción de la justicia (Rocco Lozano 2016: 182). Frentea las sospechas de inmovilismo de las que habíamos hablado antes, Dantepropone una operación extremadamente innovadora desde el punto devista conceptual y político: una restauración del Imperio como supremaentidad temporal frente a la Iglesia y sus injustas aspiraciones terrenales.No se olvide, al respecto, que en el interregno imperial Bonifacio VIII se

6 Esta conferencia fue la única que no se publicó en las actas del congreso (Barjay Pérez de Tudela 2009).

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había autonombrado emperador a la espera de la elección del siguiente.Por eso el símbolo del Imperio no sólo es el águila que brota de la justi-cia, sino también el veltro, el perro que caza a la loba y acorrala así la cu-piditas de la Iglesia. Hay que señalar que los fines políticos, que eran centrales en la Mo-

narchia, son secundarios en la Divina Comedia a un fin teológico-político,tal y como el propio Dante reconoce en su carta a Cangrande della Scala(cfr. Gilson 1953: 276). La convergencia de los temas políticos y teoló-gicos acerca de la naturaleza de la justicia en los cantos del Paraíso queestamos comentando puede ser analizada desde dos dimensiones que secruzan quiasmáticamente: la teológica y la política.

3. LA JUSTICIA TEOLÓGICA

Si empezamos por la dimensión teológica, esta convergencia puedeverse en el identificación plena del Imperio con Roma. La línea de trans-misión ininterrumpida entre el Imperio de Augusto (y es más, su antici-pación en las gestas de Eneas) y el de los tiempos de Dante se explicaporque el poeta atribuye a Roma y a su Imperio una doble misión en elplan de la Providencia. En primer lugar, el Imperio romano debe llevar acabo la pacificación y la unificación del mundo, unas operaciones con-cebidas desde la Patrística como la imprescindible praeparatio Christi. Eneste sentido, en el canto VI del Paraíso se hace alusión a Augusto comoel que, tras haber vengado el asesinato de César en la batalla de Filiposcontra Bruto y Casio, cerró las puertas del templo de Jano, inaugurandola ‘Pax augusta’ (Pd. VI 80-81). En segundo lugar, Roma es la protago-nista de la redención del pecado original a través del deicidio. El papel deRoma en la muerte de Cristo se expresa en el canto VI de una forma com-pleja. Por una parte, es la ejecutora material de la sentencia que lleva acabo «la venganza del pecado antiguo» (Pd. VI 93), esto es, la redencióndel pecado original. Pero por otra parte, la misma Roma es la que vengaesta venganza, esto es, la que castiga a los auténticos autores morales,según Dante, del deicidio, esto es, el pueblo judío (Pd.VI 91-93): el canto

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VI nos presenta así la destrucción del Templo a manos de Tito como eljusto castigo del deicidio.

Estas dos misiones, la pacificación mundial y la redención del pecadooriginal no pueden comprenderse por separado. Sólo cuando el mundoestá unido y en paz puede nacer Cristo. ¿Por qué? Sólo si el género hu-mano está unificado puede ocurrir, desde un punto de vista lógico, quetoda la humanidad sea redimida por la muerte de un solo hombre: la ne-gación de la individualidad permite la afirmación de la universalidad.Pero además este hombre tiene que ser Dios para evitar la soberbia de lahumanidad por haber salido del pecado original. La muerte del únicohombre inocente permite compaginar la compasión divina y el arrepenti-miento del género humano, libre así de toda soberbia. Por eso, esta justamisión debe ser llevada a cabo por la justicia del sacrosanto signo, por lastropas romanas bajo las órdenes de Poncio Pilato. Sin embargo, por otraparte, el justo castigo de esta muerte de un inocente, del inocente por an-tonomasia, debe ser llevada a cabo por el brazo de la justicia divina en latierra, esto es, de nuevo el Imperio romano. Este castigo debe llevarse acabo contra los que Dante considera los verdaderos responsables de estecrimen, los judíos.

Desde el nacimiento de Cristo y la ejecución del deicidio por el brazomaterial de las tropas imperiales, Roma está herida, separada en dos mi-tades que no pueden reconciliarse. Esta tesis de una Roma íntimamentedividida puede leerse no sólo en Dante, sino también en la Farsalia de Lu-cano, seguramente su fuente para muchos de los pasajes del canto VI delParaíso (cfr. Narducci 2002: 476 ss. y Rocco Lozano 2010: 15-23). Laspersecuciones a los cristianos, los conflictos entre emperadores y papasserían la muestra de que la historia de Occidente es en el fondo la luchaentre dos Romas, una terrenal y otra espiritual. Roma contra Roma. Sinembargo, Dante nos aclara que esta herida es provisional, tiene un carác-ter meramente terrenal y está destinada a ser restañada en el Paraíso, de-

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nominado de manera decisiva en el canto XXXII del Purgatorio como«esa Roma en la que Cristo es Romano» (Purg. XXXII 101-102).7

Claire Honess (1997: 102) ha mostrado la centralidad de la ciudad nosólo en laDivina Comedia sino también en el De Monarchia y otras obrasde Dante. Ha mostrado asimismo la importancia de una noción de ciuda-danía en conexión con la moralidad (Honess 1997: 120), interpretando elcanto XXX del Paraíso y la descripción de la ‘Rosa dei Beati’ como unaciudad, tal y como puede verse en el famoso verso «vedi nostra città quan-t’ella gira» (Par. XXX 130), y estudiando su reverso, axiológicamentenegativo, expresado en la primera cántica a través de la ciudad de Dite,en el Infierno. Sólo en el cielo se borra la distinción entre las dos ciudades, entre las

dos Romas, entre el Imperio y la Iglesia. Esta reconciliación se hace denuevo desde una perspectiva en la que la ciudadanía y la ciudad están enel centro de la filosofía política de la Divina Comedia; en efecto, las pa-labras de Beatrice a la hora de anunciar a Dante que pronto se reunirá conél en el Paraíso son las siguientes: «sarai meco sanza fine cive / di quellaRoma onde Cristo è romano» (Pg. XXXII 101-102). En este mismo sen-tido de unificaciones en el plano trascendente, el águila imperial es iden-tificada, según algunos intérpretes,8 con la misma Santa Lucía que protegea Dante (y que le permite sobrepasar la primera puerta del Purgatorio), envirtud del anagrama Lucia-Acuil (Cfr. Pg. IX 52-57 y Rocco Lozano2011). Por tanto, la unificación entre las dos Romas, la del Imperio y la de la

Iglesia, es un ideal asintótico, que sólo se alcanza en el infinito o en la in-mortalidad. En el mundo terrenal, cuando se intenta una contaminaciónentre las dos Romas, se produce la injusticia y la violencia. Justamente el

7 Para un análisis del sentido deliberadamente anti-agustiniano de esta nociónde la Roma celeste, cfr. Ghisalberti 2002: 125-134.8 Cfr. en este sentido el comentario de Giuseppe Campi a Purg. IX 55-57 (Ali-ghieri 1915: II 188): «Venne una [donna] sotto forma di Aquila, di vista acuta edi volto sublime; e disse: io sono Lucia».

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canto XXXII del Purgatorio narra de manera insuperable la historia deconflictos entre la Roma papal y el Imperio romano. Esta lucha es expre-sada a través de la imagen del carro (metáfora de la Iglesia), que tras habersido conducido por un grifo (representación de Cristo) hasta el árbol delbien y del mal (esto es, tras haber liberado a la humanidad del pecado ori-ginal), es inmediatamente atacado por un águila (una alusión a las perse-cuciones por parte de los romanos), que posteriormente deja el carromanchado con sus plumas. Esta sería una metáfora del Edicto de Cons-tantino y la concesión de poder temporal a la Iglesia. Al final, este carromanchado y corrompido se convierte en una gran prostituta que corteja alos emperadores, siendo sin embargo continuamente violada y golpeadapor estos (Pg. XXXII 109-160). Estos pasajes, cruciales para la concep-ción de la justicia como jurisdicción y de la lucha que se libra en el inte-rior de la historia de Roma, han sido estudiados en el importante libro Laputtana e il gigante (Pertile 1998).

4. LA JUSTICIA POLÍTICA

Se ha dicho anteriormente que la convergencia entre temas políticos yteológicos en la concepción de la justicia puede verse desde dos dimen-siones que se cruzan quiasmáticamente en laDivina Comedia. Tras haberanalizado la perspectiva teológica, podemos afrontar ahora la más estric-tamente política. Ya hemos visto que Dante atribuye una centralidad po-lítica indudable a Roma a lo largo de la Divina Comedia. También hemosexplicado la razón conceptual que liga la justicia como no extralimita-ción y la necesidad de una única monarquía universal, que tiene toda es-fera bajo su control y por eso no puede caer en el pecado de la cupiditas,de la injusticia. Por esta razón, para Dante los sucesivos regímenes en losque se posa el sacrosanto signo del águila deben configurarse como unImperio. Sin embargo, esta concepción imperial de Roma, de las Romasque se suceden en el canto VI del Paraíso, no es incompatible en Dantecon un cierto republicanismo. Esta es la tesis de Peter Armour (1997),quien acerca de este punto ha señalado la importancia de la Carta a los

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romanos escrita en 1265 por Manfredi, el hijo del emperador Federico II.En ella Manfredi exhorta a los ciudadanos romanos a desligarse del yugopapal, que les somete ahora que se encuentran sin una verdadera cabeza,esto es, sin un emperador. Para él sería deseable volver a una situación enque el senado, el pueblo y la comunidad de Roma pudieran elegir al em-perador (Armour 1997: 27-28). La colocación de Manfredi en el Purgatorio (Purg. III 112-145) a pesar

de haber sido excomulgado, sería una muestra de la simpatía de Dantehacia esta visión política y en general hacia esta particular forma de gi-belinismo (Armour 1997: 29). De hecho, en ese canto parece que el prin-cipal pecado del hijo de Federico II no está ligado a su excomunión y susconflictos con el papado, sino que es justamente la torpeza de no haber sa-bido conservar el título imperial. Este «gibelinismo popular romano» (Armour 1997: 37) de Dante, al

estilo de Manfredi, sería el fruto de la evolución política del poeta tras suexilio. Como es conocido, en Florencia Dante pertenecía a los güelfosblancos, que representaban una posición ambigua: por una parte estabanen contra del Papado ocupado por Bonifacio VIII (quien, como se hadicho, se había declarado César hasta que se proclamara un nuevo empe-rador, cometiendo una clara irrupción en una esfera ajena, esto es, unainjusticia). Por otra parte, también estaban en contra de la invasión im-perial en Italia, una actuación injusta porque no reconocía la indepen-dencia de las ciudades de la península, gobernadas autónomamente porlos comuni (Giardina - Vauchez 2000: 47-52). Dante, tras el exilio, comoprosecución lógica de esta posición intermedia, adoptó un gibelinismocomo el que proponía Manfredi. Esto es, para él era crucial que la elec-ción del emperador no se hiciera por parte de los príncipes alemanes, sinopor parte del pueblo romano. Si se acepta esta tesis de Armour, seguramente Roma deba ser enten-

dida como Italia en general, como todas las ciudades virtuosas de la pe-nínsula, o incluso como toda la humanidad ejemplificada en su centro,esto es, Roma (Giardina y Vauchez 2000: 50-51). Lo fundamental no es

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por tanto la cuestión pragmática de quién deba elegir al emperador, puesDante está discutiendo la fuente misma de legitimidad del poder imperial.Tras el exilio, el poeta pasó de la tesis güelfa según la cual el Imperio ro-mano fue creado con la violencia de las armas a la gibelina que sosteníaque fue el pueblo romano quien lo fundó según los planes de Dios. Portanto, en esta posición híbrida, intermedia, el poder del emperador vienedel pueblo, pero el del Imperio viene de Dios; no se olvide al respectoque en la Monarchia se tilda a los príncipes electores de meros «denun-tiatores divinae providentiae» (Mn. III XV 13). Por ello, en esta versión del gibelinismo Dante puede armonizar dos

elementos que parecían incompatibles: el autogobierno de los comuni ita-lianos frente al emperador, por una parte, y la legitimidad de un poderimperial de matriz divina frente a las aspiraciones del Papado, por otra.En definitiva, esta perspectiva defendida por Armour permite conciliaren Dante el republicanismo autonomista y la monarquía universal. Esta conciliación de los planos lógicos de la universalidad y la indivi-

dualidad es posible, desde un punto de vista pragmático, gracias al dere-cho romano, lo que nos devuelve a la centralidad del canto VI del Paraísoy a la figura de Justiniano como compilador del Corpus Iuris Civilis. Elderecho romano es universal: al derivar de la lex naturae coincide con laratio scripta, como hemos visto en la filiación de la codificación de Jus-tiniano directamente del águila del canto XVIII del Paraíso. Sin embargo,debe ser aplicado de maneras diferentes en distintas partes del mundo. Elelemento republicano de la diferencia convive con la unidad imperial, oincluso domina sobre ella. Esto es lo que interpretan algunos autores,como Narducci, al estudiar la colocación de algunas figuras centrales dela historia romana y de las luchas entre republicanismo y monarquía im-perial. En efecto, llama la atención que Catón el Uticense, a pesar de ha-berse suicidado, sea nada más y nada menos que el guardián delPurgatorio (Pg. I 31-108) y que sea ensalzado por Dante como mártir dela libertad (Narducci 2002: 349 ss.). En cambio, Julio César se encuentraen el limbo, sin pena ni gloria (If. IV 123), y sus gestas son comentadaspor Justiniano en alusión simplemente a su rapidez en las victorias mili-

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tares (Pd. VI 55-72). Sin duda la influencia de la Farsalia de Lucano y desu republicanismo militante es fundamental para comprender muchospuntos de la concepción de Dante de la justicia en relación con la Roma-nitas (cfr. Rocco Lozano 2010).Por otra parte, la tesis del gibelinismo popular romano de Dante expli-

caría el hecho de que en el canto VI del Paraíso se critique no sólo a losgüelfos, sino también a los gibelinos estrictamente seguidores del empe-rador, que se apropian con malas artes del sacrosanto signo de la justiciaimperial (Pd. VI 103-105). Anticipándonos a una posible objeción, cabe preguntarse: ¿es anacró-

nica la propuesta de Armour de un gibelinismo popular? ¿Es legítimo ha-blar en esta época de este protagonismo del pueblo en la legitimación delpoder político? La respuesta es que esta tesis no es anacrónica, si se piensaque el primer parlamento inglés es del año del nacimiento de Dante y queen la década de 1340 tenemos justamente en Roma la experiencia políticarepublicana del autoproclamado ‘último de los tribunos del pueblo’, estoes, Cola di Rienzo (Armour 1997: 44; Giardina y Vauchez 2000: 49-50).

5. JUSTICIA O MUERTE

Si volvemos ahora al canto VI del Paraíso, se puede comprender mejorese movimiento de translatio imperii desde Eneas hasta el Imperio de laépoca del propio Dante. Nótese que el verdadero protagonista del cantoes el Águila imperial, que se sirve de los diferentes emperadores como ins-trumentos para llevar a cabo un plan providencial de carácter teológico-po-lítico. Justiniano muestra que el derecho positivo nace del amor, esto es,que el Imperio viene de Dios (en paralelismo con el «Diligite iustitiam» delcanto XVIII del Paraíso). Al mismo tiempo, muestra que la actividad le-gislativa del emperador es meramente positiva. Según Woodhouse, Justi-niano es elegido por Dante para narrar las gestas del Imperio romano sóloa causa de su actuación legislativa, pero en realidad probablemente quiendebería haber descrito las gestas del Imperio desde Eneas es Virgilio, que

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sin embargo no puede acompañar a Dante en el cielo por no haber sidobautizado (Woodhouse 1997: 9). Justiniano, por tanto, habla como Vir-gilio, esto es, como la culminación de la cultura romana y el creador dela historia de justificación del Imperio desde Eneas hasta Augusto. A esteJustiniano-Virgilio se contrapondría Constantino, que aparece en el pri-mer verso como blanco polémico del canto (Pd. VI 1). La crítica a esteemperador no debe ser entendida, como se dice a menudo, meramente enel sentido de una filosofía de la historia, por haber violado el curso este-oeste, el ex oriente lux de la historia política que veremos muchos siglosmás tarde en la filosofía hegeliana (Hegel 1996: 469). En efecto, se tratasobre todo de una crítica política, porque al haber trasladado la capitaldel Imperio de Roma a Constantinopla, este emperador ha dejado elmundo en manos del Papa. La plasmación concreta de esta dejación defunciones sería el Edicto de Constantino, que para Dante es ilegal y cri-ticable, como se puede ver en al menos tres pasajes de la Divina Come-dia: en primer lugar, en el canto XIX del Infierno (XIX 115-117), en elmismo canto en que se condena ante litteram a Bonifacio VIII. En se-gundo lugar, en el canto XXXII del Purgatorio, al que ya nos hemos re-ferido, y en concreto en la parte de la alegoría en que el águila imperialpierde sus plumas (Pg. XXXII 124-126). En tercer lugar, de manera muyexplícita, en el canto XXVII del Infierno, donde se lleva a cabo una com-paración explícita entre Bonifacio VIII y Constantino (If. XXVII 94-99).El hecho de que Constantino aparezca entre los seis beatos que ocupan elojo del águila en el canto XX del Paraíso parece, por todo lo expuesto an-teriormente, como una mera obligación teológica, una deferencia hacia elprimer emperador cristiano (Pd. XX 55-60). En efecto, quien adquieretodo el protagonismo en ese canto es el emperador Trajano, un paganoque a pesar de ello ha podido ser salvado de su primera morada, elLimbo, gracias a la inescrutable justicia de Dios a la que ya nos hemosreferido. Constantino, desde luego, no era santo de la devoción de Dante(cfr. Woodhouse 1997: 10-11).Para concluir, por tanto, se puede decir que una atenta lectura del canto

VI del Paraíso y su compleja red de conexiones con otros pasajes de

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Dante nos presenta una concepción del Imperio y de la justicia muy arti-culada. En especial, las conexiones entre los cantos XVIII y VI del Pa-raíso nos muestran que el Imperio es independiente de la Iglesia, perodepende de Dios. El emperador debe administrar el derecho, sin olvidarque la justicia humana tiene relaciones de filiación con la divina. Y sinembargo, otros textos ponen de relieve que el emperador mismo provienedel pueblo, de esa Roma que no ha dejado de existir a lo largo de la his-toria y que por ello sigue conservando en su pueblo un enorme caudal delegitimidad política. La justicia, como se ha visto, si en el orden moral esfundamentalmente rectitud, en el político es jurisdicción, separación deesferas, contrapuesta aristotélicamente a esa extralimitación que es la cu-piditas. Dante es un filósofo del orden: cada esfera debe estar debida-mente distinguida de las demás para que haya una cooperación y unaarmonía global, basada en la comunión de todas en Cristo. La esperanzade Dante es por tanto separar las esferas que en su época se encontrabanen discordia y cuyos límites se habían vuelto borrosos; la lucha entre Igle-sia e Imperio, entre lo espiritual y lo terrenal, a su vez tiene hondas im-plicaciones en la jerarquía entre los saberes, esto es, la teología y lafilosofía. En definitiva, la tarea que Dante propone es la de mantener se-paradas las dos Romas en conflicto para lograr una armonía en estemundo, evitando de este modo toda confusión que ponga en peligro elorden y, junto con él, la justicia e incluso la misma vida.9

9 «No se trata por tanto sólo de la imposible conciliación entre la Roma imperialy la Roma cristiana; es también la que (no) se produce entre la Roma de los tex-tos jurídicos y las grandes obras de ingeniería, por una parte, y esa Roma mágica,supersticiosa, secreta, que desde Montesquieu hasta Aloïs Riegl no ha dejado defascinar y extrañar a los intérpretes. Dicho en otras palabras: la Roma visible yla invisible, siempre en conflicto la una con la otra. Y sin embargo, ¿no es acasoeste conflicto íntimo la expresión de que una reconciliación total entre estas dosesferas, en este caso ambas encarnadas en Roma, además de imposible, sería in-deseable? ¿No es el conflicto en cierto modo indispensable para la vida, y la uni-ficación perfecta, sin restos, sinónimo de muerte?» (Rocco Lozano 2016: 183).

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Dante e il‘dantismo giuridico’ del Trecento

CLAUDIA DI FONZO

Università degli Studi di [email protected]

RESUMEN:La presente investigación ilustra cómo y en qué medida se produce la reno-

vatio del derecho medieval en el pensamiento de Dante y analiza cómo, a partirde este elemento cultural, nace el “dantismo jurídico” de autores del siglo XIVcomo Pietro Alighieri, Alberico da Rosciate, Bartolo da Sassoferrato.

PALABRAS CLAVE: Derecho medieval, Dante, dantismo jurídico, Pietro Ali-ghieri, Alberico da Rosciate, Bartolo da Sassoferrato.

ABSTRACT:The present investigation illustrates how and to what extent it is possible to ve-

rify the renovatio of Medieval law in Dante’s thought and how, starting fromthese cultural elements, was born the “juridical Dantism” of the 14th century’sauthors as Pietro Alighieri, Alberico from Rosciate, Bartolo from Sassoferrato.

KEY WORDS: Medieval law, Dante, juridical Dantism, Pietro Alighieri, Albe-rico from Rosciate, Bartolo from Sassoferrato

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Ex hiis iam liquet quod ius, cum sit bonum, per prius inmente Dei est; et, cum omne quod in mente Dei est sitDeus, iuxta illud “Quod factum est in ipso vita erat”, etDeus maxime se ipsum velit, sequitur quod ius a Deo, proutin eo est, sit volitum. Et cum voluntas et volitum in Deo sitidem, sequitur ulterius quod divina voluntas sit ipsum ius

(Mn. II II).

Dal punto di vista ontologico la legge è per Dante l’espressione di unordine metafisico impresso dalla sapienza di Dio all’intero universo(legge divina); quella umana è giusta nella misura in cui a questo ordineconsuona.1 In questa prospettiva la Giustizia è il trascendentale per ec-cellenza.2 L’uomo può perseguire il sommo bene, che coincide con il benecomune, solo quando la sua volontà si conformi alla volontà divina. Nel-l’alveo di questa concezione il diritto è «civilis sapientia» e la giustizia èla volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo [diritto]: cosìscriveva Ulpiano nel Digesto (D 1, 1, 10)3 sulla base di una preesistenteformulazione di Cicerone ricordata da Accursio4 e così ricordava Dante

1 Pd. XIX 86-90: nella misura in cui consuona alla «prima volontà» (v. 86).Sarebbe altrimenti riduttiva qualsiasi legge e presuntuoso qualsiasi giurista. Cfr.Mn. II IX 20.2 In questo consiste la nuova maniera di far poesia, il Dolce Stil Nuovo: lodarela donna e i suoi trascendentali (il Bello, il Buono, il Giusto). La donna angeloscende dal cielo in terra ‘a miracol mostrare’. Beatrice è il «trascendentaledimenticato» di Dante (Mazzoni 1997) così come Clizia è la cristofora del poveronestoriano smarrito.3 D 1, 1, 10 ma anche anche Inst. 1, 1, 1 in Corpus Iuris Civilis, I Institutiones(Krueger 1872, 1877, 1895): 1.4 Cicerone, De inventione II 160: «Iustitia est habitus animi, communi utilitateservata, suam cuique tribuens dignitatem». Tale definizione è ricordata nellaMagna Glossa accursiana allorché Accursio dice che con volontà si intende la«mens» e con l’attributo «costante» si intende nel «bonum» quasi si trattasse diun habitus di ben volere. A questo proposito allega l’autorità di Cicerone e ladefinizione sopra menzionata e aggiunge che il Piacentino afferma che lagiustizia è la virtù «quae plurimum potest in iis, quae minimum possunt».Conclude dicendo che la giustizia è la adeguata disposizione a discernererettamente nelle singole circostanze. Si veda la glossa «Iustitia» ad Inst. 1, 1, pr

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nella Monarchia (I XI 7).5 Il diritto è l’«arte di bene e di equitade» (Cv. IVIX 8) che si codifica in «ragione scritta», canonica e civile.6 Dante stesso,nel Convivio, dichiara di ricavare la definizione attribuita a Celso («artedi bene e di equitade») dal principio del «Digesto Vecchio», sotto il titoloDe iustitia et iure (D 1, 1, 1).7

Che la definizione della giustizia nei termini di perpetuità e costanzaabbia originato un dibattito tanto presso i glossatori, Accursio in primis,quanto presso i teologi del calibro di Tommaso d’Aquino non suscita

in Institutionum Dn. Iustiniani Sacratiss. Principis Libri Quatuor... cum ScholiisAccursii, Lugduni, 1575, coll. 9-10 riprodotta criticamente in Appendice aQuaglioni 2004: 38-39, 147. 5 Mn. I XI 7: «Quantum vero ad operationem, iustitia contrarietatem habet inposse; nam cum iustitia sit virtus ad alterum, sine potentia tribuendi cuique quodsuum est quomodo quis operabitur secundum illam? Ex quo patet quod quantoiustus potentior, tanto in operatione sua iustitia erit amplior». Nella formulazionedantesca si combinano due fonti: la nozione di giustizia in quanto volontà diattribuire a ciascuno il suo è riferibile a D 1, 1, 10, cioè al tempo di Dante alDigesto Vecchio, mentre la nozione di giustizia in quanto virtus ad alterum èriferibile a Aristotele Eth. Nic. V 3, 1129 b 26 che Dante leggeva con ilcommento di Tommaso d’Aquino. Le due fonti a cui Dante fa riferimento (Eticae il Digesto) sono state segnalate rispettivamente nell’edizione della Monarchiacurata da Pier Giorgio Ricci (Alighieri 1965: 154) e nell’edizione di DiegoQuaglioni (Alighieri 2015: 150). 6 Cv. IV XII 9: «E che altro cotidianamente pericola e uccide le cittadi, le contrade,le singulari persone, tanto quanto lo nuovo raunamento d’avere appo alcuno? Loquale raunamento nuovi desiderii discuopre, allo fine delli quali sanza ingiuriad’alcuno venire non si può. E che altro intende di medicare l’una e l’altraRagione, Canonica dico e Civile, tanto quanto a riparare alla cupiditade che,raunando ricchezze, cresce? Certo assai lo manifesta e l’una e l’altra Ragione, seli loro cominciamenti, dico della loro scrittura, si leggono». 7 Cv. IV IX 8: «E con ciò sia cosa che in tutte queste volontarie operazioni siaequitade alcuna da conservare e iniquitade da fuggire (la quale equitade per duecagioni si può perdere, o per non sapere quale essa sia o per non volere quellaseguitare), trovata fu la ragione scritta e per mostrarla e per comandarla. OndeAugustino: “Se questa – cioè equitade – li uomini la conoscessero, e conosciutaservassero, la ragione scritta non sarebbe mestiere”; e però è scritto nel principiodel Vecchio Digesto: “La ragione scritta è arte di bene e d’equitade”». In meritocfr. Quaglioni 2011a: 27- 46.

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certo alcuna meraviglia.8 La questione, filosofica o giuridica che fosse, ri-guardava la praticabilità di una giustizia costante e perpetua oltre che larelazione tra tale giustizia e il diritto positivo che ne discende. Si ponevail problema di capire come e in quale misura il diritto fosse ‘atto’ dellagiustizia ‘in potenza’, se usiamo categorie aristoteliche, o come e quantopotesse essere manifestazione di un trascendentale, di un’idea platonica,lontana dall’uomo e tuttavia ‘forma’ di ogni giustizia possibile: in unaparola si trattava di stabilire quali fossero i limiti della giustizia umana equanto fosse specchio di quella divina. Da questa impasse discende la po-larizzazione tra una lex divina e una lex humana (Isidoro di Siviglia), trauna legge impressa direttamente da Dio alla natura e una legge positiva‘trovata’ dagli uomini.9 Aristotele nel quinto libro dell’Etica a Nicomacoparla di un «giusto» che è politico nel senso che regola e garantisce lavita della città-stato. Il filosofo declina il «giusto politico» in giusto na-turale e in giusto legale e Dante ne evoca la memoria nel sesto canto del-l’Inferno, allorché, alla domanda se, nella città di Firenze, «alcun v’ègiusto» Ciacco risponde che «giusti son due e non vi sono intesi [perse-guiti]» (If. VI 73).10

8 Cfr. la glossa a Iustitia in Inst. 1, 1 pr in Accursii Glossa in Codicem (ed. 1968),f. 1r e l’articolo primo della Summa Theologiae, IIª IIª e q. LVIII in SanctiThomae de Aquino Summa Theologiae (ed. 1988), p. 1332. Cfr. Quaglioni 2004:77, 147. 9 Isidoro, Ethimologiae V II 1-2. Graziano nella Concordia discordantiumcanonum D. 1, c.1, col. 1 cita il passo di Isidoro: «Hinc Ysidorus in V libroEthimologiarum ait: “Omnes leges aut divinae sunt, aut humanae. Divinaenatura, humanae moribus constat, ideoque he discrepant, quoniam aliae aliisgentibus placent”», in Corpus Iuris Canonici I, 1.10 In proposito si veda Di Fonzo 2010; poi in Di Fonzo 2016: 78-96, especialmente 90. Agostino ha selezionato e raccolto una serie di passi dell’AnticoTestamento che parlano della giustizia nello Specchio di precetti morali dallaSacra Scrittura, in Opere esegetiche X/3 (Agostino 1999: 195- 627). Nellasezione dedicata al Libro di Ezechiele (paragrafo 230 alle pp. 372-375) Agostinosceglie, il passo che parla dell’ingiustizia dei capi: «I capi sono in essa come deilupi che addentano la preda: spargono sangue e rovinano le anime cercandoavidamente [di accrescere] i loro guadagni. I suoi profeti li mascherano convernice senza colla: vedono visioni irreali, prevedono cose false e dicono: Così

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Tommaso, che alla giustizia ha dedicato la quaestio LVII della Summatheologiae IIa IIae, discutendo nel merito della concezione volontaristicadella giustizia a partire dalla definizione del Digesto (giustizia come vo-lontà costante e perpetua), si interroga, altresì, circa le prerogative di per-petuità e costanza della giustizia stessa che, come tali, parrebbero essereattributi di Dio piuttosto che dell’uomo.11 Egli conclude affermando chela costanza e la perpetuità della giustizia sono da intendersi come la di-sposizione della volontà dell’uomo giusto ad attribuire a ciascuno il suodiritto «sempre, cioè in tutte le circostanze e ripetutamente»: disposizionela cui eredità, forse, sopravvive oggi nel criterio della legittima aspetta-tiva. Dante, per il quale la trascendenza della Giustizia non impedisce aldiritto che ne discende d’esserne la manifestazione terrena, fornisce unaprima definizione del diritto inteso come «arte di bene e d’equitade» nelConvivio, ma perfeziona la sua riflessione nel secondo libro della Mo-narchia affermando che quella «descrizione» tratta dal Digesto (D. 1, 1,1) non basta a spiegare che cosa sia effettivamente il diritto.12 A ben ve-dere, infatti, il diritto è una proporzione: «ius est realis et personalis ho-minis ad hominem proportio» (Mn. II V 1, in Alighieri 2015: 204-205).Anche in questo caso il precedente più vicino a Dante è il quinto librodell’Etica Nicomachea. Il «giusto nella distribuzione» è insieme medio eduguale oltre che fondato sulla relazione: la misura di eguaglianza non con-siste in una quantità fissa ma in una medietà tra l’avere e il dare.13 Dante

dice il Signore Dio, mentre il Signore non ha detto niente. La gente minuta si dàalla calunnia, commette rapine e violenze; fa soffrire il povero e il misero edopprime il forestiero con calunnie senza retto giudizio. Ed ecco io ho cercato trafra loro un uomo che costruisse una siepe e si ergesse di fronte a me a favore delpaese, in modo che non lo sterminassi, ma non l’ho trovato» [Ez 22, 27-31].11 Importante in questa sede ai fini del nostro ragonamento il passo della Summanel quale, citando il De oficiis de Cicerone (I 7), Tommaso afferma che «gli uo-mini sono dichiarati buoni soprattutto per la giustizia» (Summa Theologiae IIae

IIae q. LVIII a). Cfr. Quaglioni 2004: 75-81, specialmente 81.12 Sulla definizione del diritto si veda anche Fiorelli 2008: 166.13 Etica Nicomachea V 1131a: «Poiché l’uomo ingiusto, e così ciò che è ingiusto,non rispetta l’uguaglianza, è chiaro che c’è anche qualcosa di mezzo tra gli

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attribuisce al diritto gli attributi che Aristotele attribuisce alla giustiziadistributiva anzi del «giusto nella distribuzione» dell’Etica Nicomachea,nella considerazione che il diritto discende dalla giustizia.14

In virtù di questa peculiare caratteristica relazionale, la giustizia è de-finita la più perfetta delle virtù nell’Etica, e la più amabile e la più umananel Convivio: è la virtù attraverso la quale l’agire morale si perfeziona re-duplicando l’ordine e la volontà della Giustizia divina nella relazione con

estremi disuguali. E questo è l’uguale, giacché in ogni tipo di azione in cui cisono il più ed il meno c’è anche l’uguale. Se, dunque, l’ingiusto è il disuguale,il giusto è l’uguale; cosa che tutti riconoscono anche senza bisogno di unragionamento. Ma poiché l’uguale è medio, il giusto dovrà essere un certo tipodi medio. Ma l’uguale presuppone almeno due termini. Pertanto, necessariamente,il giusto è insieme medio e uguale, e relativo, cioè è giusto per certe persone; e,in quanto è medio, è medio tra certi estremi (e questi sono il più e il meno); inquanto, invece, è uguale, è uguaglianza di due cose; in quanto è giusto, lo è percerte persone. Il giusto, quindi, implica necessariamente almeno quattro termini:infatti, le persone per le quali il giusto è tale sono due, e due sono le cose in cuisi realizza. E l’uguaglianza dovrà essere la stessa, tra le persone come tra le cose:infatti, il rapporto tra le cose deve essere lo stesso che quello tra le persone. Sequeste, infatti, non sono uguali, non avranno cose uguali; ma le lotte e lerecriminazioni è allora che sorgono: o quando persone uguali hanno o ricevonocose non uguali, o quando persone non uguali hanno o ricevono cose uguali.Questo risulta chiaro anche dal principio della distribuzione secondo il merito»(Aristotele 1993: ad locum).14 Giustizia e diritto non coincidono perfettamente. La distinzione tra una lexdivina e una lex humana è ascrivibile a Isidoro, Etimologie. Al diritto naturale(natura id est Deus nel Decreto) si affianca un diritto legale; i due diritti sono inqualche modo complementari. Concordo solo parzialmente con le affermazionidel Chiappelli. Concordo circa il fatto che Dante intendesse dare un respirospeculativo alle disquisizioni definitorie di carattere giuridico: «Queigiureconsulti scolastici non concepivano l’idea di un diritto indipendentementedalla volontà di un superiore, o dalla legge, e però l’Alighieri [Mn. II V] dopoaver colla sua definizione del diritto affermata la di lui preesistenza della leggee la sua indipendenza dall’ordine etico e religioso, scriveva “illa Digestorumdescriptio non dicit quod quid est iuris, sed describit illud per notitiam utendiillo” e proclamava i legisti inferiori “ab specula rationis”» (Chiappelli 1999: 132).Importante in questa sede ai fini del nostro ragionamento il passo della Summanella quale, citando il De officiis di Cicerone (I 7), Tommaso afferma che «gliuomini sono dichiarati buoni soprattutto per la giustizia» (Summa theologiae IIa

IIae q. LVIII a). Cfr. Quaglioni 2004: 75-81, specialmente 81.

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gli altri e con le cose. Nel Convivio, parlando della «prossimitade» inquanto fattore che genera l’amore e dopo aver menzionato come autore-voli i testi del De amicitia di Cicerone e dell’Etica a Nicomaco, Dantescrive che ogni virtù è amabile nell’uomo, ma «quella è più amabile inesso che è più umana, e questa è la giustizia, la quale è solamente nellaparte razionale o vero intellettuale, cioè nella volontade».15 Nella canzoneTre donne intorno al cor mi son venute (Rima 44 dell’ed. Giunta, in Ali-ghieri 2011b: 513-539) tre donne condividono con Dante la dolorosa sortedell’esilio e la prima di queste è ‘Drittura’, personificazione della giusti-zia divina che si realizza quando l’arbitrio liberato dalla cupidigia non faresistenza all’ordine creato dalla sapienza di Dio.16

La giustizia è la virtù cerniera tra la filosofia umana e la sapienza diDio. L’intelletto conosce e discerne il bene e il male, la volontà liberatadalla cupidigia e infiammata dall’Amore, sceglie o non sceglie, ogni voltae ripetutamente, di agire secondo giustizia. Solo in quell’anima razionalenella quale germoglia il seme di nobiltà piantato in lei da Dio, l’arbitrio

15 Cv. I XII 9-10: «E quanto ella è più propia, tanto ancora è più amabile; onde,avegna che ciascuna vertù sia amabile nell’uomo, quella è più amabile in esso cheè più umana, e questa è la giustizia, la quale è solamente nella parte razionale overo intellettuale, cioè nella volontade. Questa è tanto amabile, che, sì come dicelo Filosofo nel quinto dell’Etica, li suoi nimici l’amano, sì come sono ladroni erubatori; e però vedemo che ’l suo contrario, cioè la ingiustizia, massimamenteè odiata, sì come è tradimento, ingratitudine, falsitade, furto, rapina, inganno eloro simili».16 In proposito ricordo la proposta di Carlos López Cortezo che identifica le tredonne con le tre sorelle Ore: Diche, Eunomia e Irene. E nello stesso volumequella di Michelangelo Picone: «Le “tre donne” che aprono la canzone dantesca,e si intrattengono non col poeta stesso ma con Amore che abita nel suo cuore, nonsono delle creature umane come nella canso di Giraut [de Bornelh], ma degliesseri sovraumani: le personificazioni della Giustizia nelle sue tre fondamentalimanifestazioni. La prima di essa – l’unica a dialogare con Amore – dice dichiamarsi “Drittura” (v. 35), e personifica (nella chiave di lettura già fornita daPietro di Dante nel suo commento a Inf. VI, 73) la forma originaria della giustizia,il jus naturale dato da Dio all’uomo al momento della creazione nel giardinoedenico. Da lei è nata per partenogenesi la seconda donna, la giustizia umana ojus gentium (vv. 45-51); e quest’ultima, rispecchiandosi ha dato vita alla lex, lalegge positiva e comune (vv. 52-54)» (Picone 2007: 37-38).

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rettificato è capace di scegliere il bene e di esercitare la più umana e ama-bile delle virtù, la giustizia. Quell’anima diviene perciò specchio dellaGiustizia viva che è Cristo, giustizia di Dio,17 in virtù della giustificazioneoperata dalla kènosis di Cristo, unico giusto, che ha restituito alla natural’originaria conformità con la giustizia divina attraverso la perfetta obbe-dienza alla volontà del Padre.18

In questa concezione del mondo la ‘morale filosofia’, declinabile inetica e diritto, è la scienza che ordina tutte le altre scienze e che indirizzal’agire dell’uomo.19 L’iniquità nasce dalla mancata applicazione del dirittodegli uomini o dalla sua perversione. Se l’etica è impressa nella natura ra-zionale dell’uomo, ‘il giusto legale’ è il rimedio concreto che gli uomini«trovano» per vivere in una «ordinata civilitade» che intenda replicarel’ordine impresso da Dio al cosmo e che abbia come fine la pace, al modoin cui i cieli tutti sono ricapitolati nella quiete dell’ultimo cielo.20 Ciceroneevidenzia come sia un pregio della natura razionale dell’uomo percepireil valore dell’ordine, del lecito e della misura nei fatti e nelle parole. Dal-l’interazione di questi quattro elementi si determina, secondo Cice-rone,‘ciò che è onesto’.21

17 Cristo è giustizia viva in Pd. XIX 68; egli è la manifestazione della giustiziasempiterna (Pd. XIX 58). Il concetto era già presente nell’Etica di Aristotele (V7, 1132a) che Tommaso richiama come fonte autorevole parlando del giudice(Summa Theol. IIa IIae quaestio LVIII, De iustitia).18 L’idea che la giustizia sia la sola virtù capace di procurare all’uomo una vitafelice è da far risalire tanto a Platone quanto ad Aristotele. Celeberrimo in talsenso il discorso che nell’Apologia di Socrate Platone fa pronunciare al filosofoin occasione del processo nel quale fu condannato a morte.19 Solo dopo aver letto Etienne Gilson si vedano Di Fonzo 2014 e Di Fonzo 2016:37-59.20 Cv. II IV 13: «E non è contra quello che pare dire Aristotile nel decimodell’Etica, che alle sustanze separate convegna pure la speculativa vita. Comepure la speculativa convegna loro, pure alla speculazione di certe segue lacirculazione del cielo, che è del mondo governo; lo quale è quasi una ordinatacivilitade, intesa nella speculazione delli motori».21 De officiis I III 14: «Ecco perché, perfino in quelle cose che cadono sotto ilsenso della vista, nessun altro animale sente la bellezza, la grazia, l’armonia; solo

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Se l’agire morale è impresso nell’anima razionale, e la legge di naturaè legge divina, quest’ultima non è sovrapponibile «al giusto legale». Ildiritto positivo è un complesso di norme al quale l’uomo volontariamentesi vincola poiché la sua natura è stata ferita dalla disubbidienza di Adamoed è buono nella misura in cui discende dalla Giustizia. La Giustizia, ag-giunge Dante nella Monarchia, è al massimo grado solo quando è esaltatadal ‘retto amore’ e il retto amore può albergare massimamente solo nel-l’imperatore che per questo è il garante del diritto stesso:22

Inoltre, come la cupidigia, per quanto poca essa sia, offusca incerto modo la giustizia, così la carità o retto amore la esalta e la il-lumina. In colui nel quale massimamente può albergare il rettoamore, la giustizia può trovare la sua sede più alta; di tal fatta è ilMonarca; dunque, quando c’è il Monarca, la giustizia è o può es-sere nel più alto grado. [14] Che poi il retto amore compia quelche si è detto, si può vedere da questo: per il fatto che la cupidigia,sprezzando la perseità dell’uomo, si rivolge ad altro; la carità in-vece, disprezzando ogni altra cosa, ricerca Dio e l’uomo, e di con-seguenza il bene dell’uomo (Mn. I IX 13-14).

la natura razionale dell’uomo, trasferendo per analogia questo sentimento dagliocchi allo spirito, pensa che a maggior ragione la bellezza, la costanza e l’ordinesi debbano conservare nei pensieri e nelle azioni; e mentre essa si guarda dalcommettere cosa contraria al decoro e alla dignità dell’uomo, bada anche, in ognipensiero e in ogni azione, che non faccia e non pensi nulla obbedendo alcapriccio. Ora, dall’intrinseca unione di questi quattro elementi è formato quelloche andiamo cercando, cioè ciò che è onesto, il quale, anche se non gode di moltafama tra gli uomini, non cessa pertanto d’essere onesto; e anche se nessuno loloda, noi diciamo a ragione che questo, per sua natura, è ben degno di lode». Percoloro che sostengono che Dante non conoscesse il De officiis per intero faccionotare che quasi tutti i luoghi testuali da me richiamati in relazione a Dante, quie nei precedenti saggi dedicati a questo argomento, sono tolti dal primo libro delDe officiis.22 Mn. I XI 13: «Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiamquodammodo, quantumcunque pauca, obnubilat, sic karitas seu recta dilectioillam acuit atque dilucidat. Cui ergo maxime recta dilectio inesse potest,potissimum locum in illo potest habere iustitia; huiusmodi est Monarcha: ergo,eo existente, iustitia potissima est vel esse potest».

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Il papa e l’imperatore, il sole e la luna di cui si parla nella Monarchia,23

i due soli a cui Dante allude nel Purgatorio, sono le due guide preposte a«rimuovere i viventi in questa vita dallo stato di miseria» (Ep. XIII a Can-grande della Scala) e a condurli alla felicità. Una ripartizione chiara e di-stinta degli ambiti di competenza gravida di conseguenze: «la giustizia ènel più alto grado nel mondo, quando si trova in un soggetto dotato dellapiù ferma volontà e del potere più alto» cioè nel Monarca che è l’unità dicomando suprema.24

Per questo l’imperatore è considerato il garante e la fonte del diritto. Lalegge, invece è il «regolo» che permette di recuperare, attraverso molte-plici ordinamenti, l’ordine che il Creatore ha impresso al creato.25 Anzipeggio, la legge e il peccato sono l’uno la forza dell’altro. Paolo rivol-gendosi alla comunità dei Corinzi si chiede: «Dov’è morte il tuo pungi-glione?» E si risponde affermando che «il pungiglione della morte è ilpeccato [l’infrazione] e la forza del peccato [della infrazione] è la Legge»(Cor. 15, 54b-57). La legge in se stessa è la misura di una distanza e in-sieme lo strumento per colmarla. Essa è valida nella misura in cui è utilea recuperare l’ordine e l’armonia originaria, quell’armonia che fu ed è«costantemente e ripetutamente» compromessa dalla libertà dell’uomo eogni volta restaurata in virtù della croce di Cristo, fino alla fine dei tempi.L’armonia non è altro che la giustizia impressa da Dio all’intero cosmocosì come sosteneva, tra gli altri, Guglielmo di Saint-Thierry in aperta

23 L’uso che Dante fa dell’immagine del sole e della luna nella Monarchia èapertamente polemico. Egli contesta il significato che a questa immagine hannoattribuito i canonisti individuando gli errori dialettici e teologici presenti nelleloro dimostrazioni. Si veda in merito Quaglioni 2004.24 Il «monarca», in quanto unità di comando che tutto avendo non può altrodesiderare, libero dalla cupidigia e capace di tenere i regni contenti nei loroconfini, risolvere le controversie, ed essere sempre terzo tra due contendenti piùpiccoli, è potentissimo e dunque capace di un amore perfetto. Cfr. Mn. I XI 8citato sopra. 25 L’idea è ampiamente articolata e sviluppata nell’Itinerarium di Bonaventurada Bagnoregio.

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opposizione al sempre risorgente manicheismo.26 Interessante la formu-lazione di Matteo D’Acquasparta quando scrive che «la creatura razio-nale, in particolare, è governata ordinate e pulcre da Dio, il quale“sostiene ogni volontà orientata al bene, riprende ogni volontà orientataal male, dispone i mali dovuti alle colpe e quelli dati come pena, disponela pace e le circostanze avverse”» (Matteo D’Acquasparta 1990: 13). Eglicontinua dicendo che «In tale “governo sommamente ordinato” trovanoposto e spiegazione anche i mala mundi, giacché “se qualche male o qual-cosa di parzialmente disordinato sembra accadere, nondimeno ciò si ar-monizza con la totalità dell’universo”» (Matteo D’Acquasparta 1990: 13).

Risolto il problema teorico circa la qualità del rapporto esistente tra lagiustizia e il diritto la partita si svolge tutta nell’ambito della vita attivaed è affidata ai reggitori delle città e dei regni, ai custodi della legge, e,in ultima istanza, al garante supremo della legge in terra: l’imperatore.Quanti detengono il potere di legiferare e far rispettare le leggi, costorosono i veri colpevoli della deturpazione dell’ordine e della compromis-sione della «civile» e pacifica convivenza. Dante si rivolge, perciò, ai no-bili che non sono più i custodi del ‘valore’ e del costume antico (Pd.XV-XVII), ai capi del governo cittadino che lacerano la città e la travol-gono nelle contese tra fazioni (If. VI), alle due guide: l’una occupata avendere indulgenze (If. XIX), l’altra assente, fallita l’impresa di ArrigoVII (Pd. XXX); ma si rivolge pure ai religiosi che hanno abbandonato laRegola, scritta per loro da Benedetto, per seguire mammona (Pd. XXII).Tutti costoro sono responsabili della degenerazione della ‘umana civili-tade’ (cfr. Pd. XV-XVII): deputati a tutelare il bene comune, non lo cu-

26 Dante affronta e risolve la questione nel primo canto dell’Inferno quandoracconta che la lupa è stata liberata nella «selva oscura» dall’«Invidia prima» (If.I 111), il Principe del male che si oppone all’Imperadore dell’universo che inParadiso regge e «in tutte parti impera», dunque anche all’Inferno dove ci sonocoloro che furon ribellanti alla sua legge (If. II 125-127). Il dualismo tra ilprincipio del male (l’Invidia prima) e il principio del bene (l’Amore «che moveil sole e l’altre stelle») si risolve nella sovranità di un unico principio, quello delBene, che tutto regge e ovunque impera. Versi che escludono qualsiasi ipotesi disupposto catarismo.

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stodiscono e anzi si trasformano in una «banda di ladri» per dirla con unacelebre formula di Agostino di Ippona (La città di Dio 4, 4).

Quanto sia vero che l’imperatore sia per Dante il supremo garante dellagiustizia lo si comprende meglio ragionando sulla vicenda di Pier delleVigne, cancelliere dell’imperatore Federico II (If. XIII). Il suo è un sui-cidio esemplare sotto questo riguardo: è il suicidio di un cancelliere fedeleall’imperatore che partecipa dell’amministrazione della giustizia impe-riale e che si trova a sperimentare, a suo danno, il fallimento di quellastessa giustizia. Pier delle Vigne, fiducioso nel giusto legale rappresentatodal suo imperatore, quando vede fallire tale giustizia, non sa affidare lasua causa al tribunale della Giustizia divina come invece riesce a fare ilsuo doppio, Romeo di Villanova. L’Invidia, principio del male incontratoda Dante all’inizio della sua peregrinazione (If. II 127), meretrice dellecorti vizio, può deturpare la giustizia dell’uomo e può far periclitare ro-vinosamente coloro che non affidano la loro causa a quel supremo «Im-peradore» che in Paradiso regge ma che impera anche all’Inferno (If. I127).

La legge per Dante ha dunque il compito nobile di regolare e ordinarela società degli uomini congregati; l’imperatore (legislatore e giudice) hala funzione altissima di garantire questa «ordinata civilitade». Tuttavia lasua potestas non è legibus soluta, nè precede l’ordine e la volontà di coluiche ha creato l’ordine del cosmo tutto: è una potestas absoluta che con-formemente al paradigma codificato dal diritto comune è legibus alligataper la stessa volontà del principe che così facendo manifesta la sua auto-rità.27 Cino da Pistoia, giurista e amico di Dante, nella sua Lectura in Co-dicem risalente agli anni 1312-1314, a proposito della Lex Digna voxafferma che l’imperatore è libero dalla legge per quanto concerne la ne-cessità, ma è vincolato alla legge per quanto concerne l’onestà.28 Forse

27 Per quanto concerne il paradigma premoderno della giustizia e la compresenzadei due modelli di principe «legibus solutus» (Digesto 1, 3, 31) e «legibusalligatus» (Digesto 1, 14, 4), cfr. Quaglioni 2004: 25-29.28 Chiosa alla l. digna vox, C. de legibus et constitutionibus principum (C. 1, 14,4), nn. 2-3, in Cyni Pistoriensis In Codicem, et aliquot titulos primi Pandectorum

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proprio sulla base di questa conciliazione teorica fornita da Cino, Danteindividua nel ‘principe’ la sede nella quale Amore e Giustizia non pos-sono essere disgiunti. La legge, dunque, non è altro che il ‘vincolo’ alquale la società umana e lo stesso principe si sottomettono in vista delbene comune, come si legge in Monarchia (II V 3-4):29 inoltre «chiunquepersegue il bene della cosa pubblica, persegue il fine del diritto». Il po-polo romano ha perseguito il bene della cosa pubblica «amando la paceuniversale insieme con la libertà» (Mn. II V 5).

Una fiducia ontologica nella legge umana che tuttavia fa subito i conticon la libertà dell’uomo e con il vulnus della sua natura. Nel canto sedi-cesimo del Purgatorio, sopra menzionato, Dante scriveva che «Le leggison, ma chi pon mano ad esse» (Pg. XVI 97). La bontà della legge è in-sita nella domanda. Il problema non è certo la mancanza di norme quantopiuttosto la volontà dei cittadini di perseguire i due giusti che nell’inter-pretazione al verso 73 di Inferno VI di Jacopo della Lana si riducono piùsemplicemente alla giustizia e al diritto. Polarizzazione ripetuta dal giu-rista bergamasco Alberico da Rosciate che traduce la chiosa di Jacopodella Lana senza precisazioni ulteriori: «duo sunt qui non haberunt locumin civitate Florentie scilicet iustitia et ratio».30 Pur non potendo attribuirea quest’ultima chiosa alcun valore distintivo, non possiamo non segnalarequanto questo giurista sia tra le espressioni più significative del ‘dantismogiuridico del Trecento’, tanto per le farciture di carattere giuridico con lequali ha impreziosito il suo commento latino alla Commedia, quanto peraver fatto ricorso all’autorità di Dante nei testi di carattere giuridico al-lorché ha inteso sostenere la dipendenza diretta da Dio della auctoritas

Tomi, id est, Digesti veteris, doctissima Commentaria, Francoforte, 1578, fol26r.: «Dico ergo, quod Imperator est solutus legibus de necessitate: tamen dehonestate ipse vult ligari legibus, quia honor reputatur vinculum sacri iuris». Cfr.Quaglioni 2008: 60-61.29 Quaglioni nella chiosa puntuale ad locum della sua Monarchia osserva che ilpasso, attribuito da Dante a Seneca, è da far risalire a Pomponio in Digesto 40,5, 20 (Alighieri 2015: 210).30 Alberico da Rosciate, Codice Grumelli, Biblioteca Civica “Angelo Mai”, c 32 v.

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imperiale e la nullità della Donazione di Costantino prima che il Valla necertificasse la falsità.31

E se, per legittimare il primato del popolo romano che aveva ceduto lasovranità all’imperatore attraverso la Lex regia, Dante nella Monarchia sidilunga sulla questione della nobiltà di quello stesso popolo,32 oltre che suifatti miracolosi intervenuti nel corso della sua storia33 e sulla liceità delduello in quanto pratica ordalica rivelatrice della volontà divina, nellaCommedia, egli esprime la sua fede nella legge e nell’imperatore senzatuttavia dimenticare il primato della ‘giustizia di Dio’: nell’episodio delcancelliere che tenne ambedue «le chiavi / del cor di Federigo» (If. XIII58-59), si consuma il dramma di colui che ripose nelle leggi e nel garantesupremo della giustizia in terra (il curator orbis) tutta la sua fiducia. Il suosuicidio è il frutto della disperazione che afferra il «compagnevole ani-male» (Cv. IV IV 1) dimentico del volto bifronte della giustizia: Giustizia(divina) e Ragione (diritto).

Non è certo sul piano del formalismo giuridico che si possono indivi-duare le cause della corruzione della società. Dante non crede che le leggisiano fatte male o che non siano sufficienti. Lamenta piuttosto l’instabi-lità delle leggi statutarie (diritto proprio)34 denuncia il fatto che non ci sia

31 Per Alberico da Rosciate in rapporto a Dante si veda Di Fonzo 2000: 187-192.Su Alberico da Rosciate giurista e redattore di statuti si veda Quaglioni 1989: 9-75. Si veda infine il bel lavoro di ricerca di Zaniol 2014. 32 Alla nobiltà d’animo e d’azione dei Romani sono dedicate pagine importantinel Convivio prima che nella Monarchia (II v). In proposito si legga Brilli 2015:135-156.33 Sull’argomento si legga la chiosa puntuale di D. Quaglioni a Mn. II IV(Alighieri 2015: 193-205). Steinberg 2016: 431-444 è tornato sull’argomentoper sostenere che «The violation of the sovereignty of Dis, the trumping ofmunicipal laws, the inoperative scritta morta of “abandon all hope ye who enterhere” by higher ius commune principles is justified because the devils are alwaysalready guilty by their primordial violation of Heaven. They are “cacciati delciel, gente dispetta” (9.91)» (441-442). 34 Pg. VI 142-144: riferendosi alla sua città Dante dice che sono «tanto sottili /provedimenti, ch’a mezzo novembre / non giugne quel che tu d’ottobre fili».

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chi vi ricorra: «chi pon mano ad esse» (Pg. XVI 97). Il vero problema èquello della libertà dell’uomo. La legge, impressa nella natura, è divina:natura idest Deus.35 Tale legge divina presiede al cosmo dantesco che èscaturigine dell’amore («l’amor che muove il sole e l’altre stelle», Pd.XXIII 145); per questo tutte le creature sono soggette all’amore.36 Èl’amore, secondo Platone, che produce l’armonia delle sfere. Il pensierodi Platone giunge a Dante attraverso il Somnium Scipionis di Cicerone eattraverso Boezio. L’amore produce frutti di pace quando si accompagnaalla ‘giustizia potentissima’37 quella giustizia che da nulla ostacolata puòrisiedere nel solo ‘monarca’.

L’armonia del cosmo è garantita, già secondo Agostino, dalla divinasapienza.38 La sapienza e la volontà di Dio regolano l’ordine naturale:«Lex aeterna est ratio divina vel voluntas Dei, ordinem naturalemconservari iubens, perturbari vetans» (Contra Faustum XXII, 27 = PL42, c. 418). Tutto questo riguarda l’ordine naturale e il cosmo. Anche lecreature sono soggette alla legge universale dell’amore, ma nellaconcezione dantesca, l’amore si distingue in amore naturale o d’animo(Pg. XVII 91-96). L’amore naturale, conforme alla legge di natura, èsempre senza errore, così com’è dichiarato nel canto che è al centrodell’intera Commedia. Al contrario l’amore d’animo può errare: per maloobietto, per troppo o per manco di vigore e questo accade in virtù del fattoche le creature, dotate di anima razionale, hanno da Dio ricevuto il più

35 In proposito si vedano Gualazzini 1955 e il recente Saccenti 2016.36 Pg. XVII 91-93: «né creator né creatura mai / fu sanza amore, / o naturale od’animo; e tu ’l sai».37 Cfr. Mn. I XI 14: «Quod autem recta dilectio faciat quod dictum est, hinc haberipotest: cupiditas nanque, perseitate hominum spreta, querit alia; karitas vero,spretis aliis omnibus, querit Deum et hominem, et per consequens bonumhominis. Cumque inter alia bona hominis potissimum sit in pace vivere – ut supradicebatur – et hoc operetur maxime atque potissime iustitia, karitas maximeiustitiam vigorabit et potior potius».38 De diversis quaestionibus I 79, 1 = PL 40, c. 90: «lex universalis divinasapientia».

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grande dei doni, quello che le rende poco meno degli angeli e al contempocapaci di scegliere il bene e il male: la discrezione e dunque la libertà.39

Il racconto della cacciata di Adamo ed Eva dal giardino di Eden nelGenesi è proprio il tentativo teologico di spiegare il dramma della libertàdell’uomo. L’albero della conoscenza del bene e del male, del qualeAdamo non avrebbe dovuto mangiare il frutto, rappresenta l’ordine cheDio aveva impresso alle creature: è l’albero della legge di natura confor-mata alla sapienza divina, così come nel Nuovo Testamento l’albero dellanuova legge, quella dell’amore, è la croce sulla quale viene innalzato Cri-sto. La croce e l’incarnazione sono dunque la possibilità per l’uomo direcuperare l’ordine impresso da Dio al cosmo sconvolto dalla disobbe-dienza dell’uomo nel giardino di Eden.

Dante fa propria la riflessione di Anselmo. Anselmo, a sua volta, avevaargomentato circa la necessità dell’incarnazione di Cristo recuperando unconcetto giuridico del diritto romano, quello della redemptio: concettoche nei Libri penitenziali del XIII secolo aveva già preso la fisionomiadella satisfactio. Dante affronta il problema nei canti V-VII del Paradisoproprio quando parla della libertà. Non si tratta, dunque, di un concettoteologico giuridicizzato (come sosteneva Schmitt) ma piuttosto di un con-cetto giuridico teologizzato. Il vocabolo che, nella Commedia, manifestaquesto processo (dal diritto alla teologia) e svela le fonti (Anselmo d’Ao-sta) è satisfactio. Accanto a satisfactio dovremmo aggiungere almeno duetermini, ‘vendetta’ ed ‘esilio’: un bando quello, dal paradiso terrestre cheè la ‘giusta vendetta’ della colpa di Adamo a cui fa seguito la sanzione ela pena: l’esilio.40

39 Dante osserva che l’amore del male corrisponde all’amore del male altrui:«Resta, se dividendo bene stimo, / che ’l mal che s’ama è del prossimo; ed esso/ amor nasce in tre modi in vostro limo» (Pg. XVII 112-114:). Ma questatipologia d’amore comporta il corrompimento dell’ordine impresso da Dio edunque entra in conflitto con l’amore naturale: «Questo triforme amor qua giù disotto / si piange: or vo’ che tu de l’altro intende, / che corre al ben con ordinecorrotto» (Pg. XVII 124-126).40 Ai tempi di Dante la vendetta, anche quella privata, ha carattere remunerativo:era concepita come risarcimento per una ingiuria subita ed era contemplata negli

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L’uomo nel Paradiso terrestre ha sconvolto l’ordine che Dio aveva im-presso alle cose. Perciò anche il suo desiderio non è più ordinato alla vo-lontà di Dio che è sommo amore e somma giustizia. L’idea per cui nelmonarca alla volontà potentissima, disfrancata dalla cupidigia e non osta-colata da nulla, corrisponda la possibilità di amare gli uomini a lui affi-dati (reggerli, governarli), con una dilezione simile alla charitas divina,costituisce il fondamento della concezione antropologica e politica diDante che considera l’uomo per natura «compagnevole animale» (Cv. IVIV 1).41 Giunto sulla cima del Purgatorio, ormai padrone delle sue pas-sioni, il pellegrino Dante può dirigere la sua volontà all’imitazione di Cri-sto, ed è fatto capace di esercitare insieme l’amore e la giustizia. Dantenon sceglie casualmente Bernardo di Chiaravalle come ultima guida nellaCommedia: egli considera, infatti, l’amore volontario il cuore dell’iden-tità dell’uomo (Vannini 1999: 157-158).

L’amore, quello d’animo, spiega Dante, concerne le azioni volontarie:azioni per le quali l’uomo può meritare o demeritare: «per ben letizia, eper male aver lutto».42 L’esercizio della volontà implica l’esercizio dellalibertà «che se fatica / ne le prime battaglie col ciel dura, /poi vince tuttose ben si notrica» (Pg. XVI 76-78). L’esercizio della volontà liberata dallacupidigia è possibile in virtù di Cristo che ha restaurato la natura del-l’uomo con un’azione riparatrice uguale e contraria all’azione di disob-bedienza di Adamo. Per questo «la mala condotta / è la cagione che ’lmondo ha fatto reo, / e non natura che in voi sia corrotta» (Pg. XVI 103-105). Resta all’uomo la libertà di scegliere costantemente e ripetutamentetra il bene e il male «onde convenne legge per fren porre» (Pg. XVI 94).Così si consuma il dramma della libertà che per Dante è «lo maggior don

Statuti cittadini sulla base di una inveterata consuetudine. Vedi in propositoEnriques 1933: 137 sgg. e Dorini 1926: 3-43. Nella Commedia la sola «giustavendetta» è la giustizia di Dio. 41 Volgarizzamento della formula aristotelica ‘animale politico’. L’imperatorein questo sistema è il «cavalcadore della umana volontade» colui che presiede allalegge civile.42 Pg. XVI 72: «e non fora giustizia / per ben letizia e per male aver lutto».

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che Dio per sua larghezza / fesse creando e a la sua bontade / più confor-mato, e quel ch’e’ più apprezza» (Pd. V 19-21).43 La morale filosofia, cheordina tutte le altre scienze, è l’unica strada utile a esercitare una volontàlibera e tuttavia vincolata e ordinata al sommo bene. La filosofia moraleguida l’uomo ad operare secondo la «più umana delle virtù» essendo «lagiustizia una disposizione virtuosa verso un altro» (Mn. I XI 7, nella tra-duzione di Quaglioni 2015), cioè la virtù che è perfezione di tutte le virtùdell’uomo e che si esprime e realizza nella relazione con l’altro come giàteorizzato da Aristotele nell’Etica a Nicomaco.44 La libertà non consistenel solo esercizio della volontà ma nell’esercizio della volontà liberatadalla concupiscenza. Il primato della filosofia morale liberamente perse-guita è dunque un postulato. «Gli uomini lasciati a sè stessi, liberi dallatirannide dei loro simili e pari, limiteranno da sè, in piena libertà, la libertàdi abusare di sè e degli altri, e così fiorirà la giustizia e regnerà la pace».45

43 In proposito segnalo il contributo di Silvestrini 2012.44 Etica Nicomachea V 4 [1129b-1130a]: «Questa forma di giustizia, dunque, èvirtù perfetta, ma non in sé e per sé, bensì in relazione ad altro. Ed è per questoche spesso si pensa che la giustizia sia la più importante delle virtù, e che né lastella della sera né la stella del mattino siano altrettanto degne di ammirazione.E col proverbio diciamo: “Nella giustizia è compresa ogni virtù”. Ed è virtùperfetta soprattutto perché è esercizio della virtù nella sua completezza. Inoltre,è perfetta perché chi la possiede può esercitare la virtù anche verso gli altri e nonsolo verso se stesso: molti, infatti, sanno esercitare la virtù nelle loro cosepersonali, ma non sono capaci di esercitarla nei rapporti con gli altri. E per questosi pensa che abbia ragione il detto di Biante “il potere rivelerà l’uomo”: chiesercita il potere, infatti, è già per ciò stesso in rapporto e in comunità con gli altri.Per questa stessa ragione la giustizia, sola tra le virtù, è considerata anche “benedegli altri”, perché è diretta agli altri. [...] La virtù così determinata non è quindiuna parte della virtù, ma la virtù nella sua completezza, e l’ingiustizia che le sicontrappone non è una parte del vizio, ma il vizio nella sua completezza. In checosa, poi, differiscano la virtù e la giustizia così determinate è chiaro da quelloche si è detto: esse sono, sì, identiche, ma la loro essenza non è la stessa, bensì,in quanto è in relazione ad altro è giustizia, in quanto è una determinatadisposizione in senso assoluto è virtù» (Aristotele 1993: ad locum).45 Le parole qui riproposte sono di Giovanni Pascoli, dantista geniale e negletto,che completava il suo discorso come segue: «L’umanità non sarà felice, nellagiustizia e nella pace, se non quando sarà libera; e l’umanità non sarà libera senon quando l’uomo si sentirà libero non facendo se non il bene. Insomma, Dante

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Alla ‘rectitudo’ della volontà Anselmo di Aosta dedica un cospicuo nu-mero di pagine del suo De libero arbitrio (speciali modo libri V-VII) checostituiscono un contributo importante al dibattito al tempo di Dante.46

Vero è per Dante che l’uomo può meritare o demeritare attraverso lesole operazioni volontarie.47 Ma poiché tali operazioni sono soggette al-l’errore, per guidare l’uomo sulla strada dell’equità fu reperita la «ragionescritta» canonica e civile. Le operazioni volontarie sono dunque quellenelle quali è messa alla prova la rettitudine della nostra volontà: quantoessa sia salda nel perseguire «l’equitade» e nel fuggire «l’iniquitade» (Cv.IV IX 8). La ragione scritta è stata trovata per indirizzare e ordinare que-ste sole operazioni poiché esse presuppongono la libertà. «Onde dice Au-gustino: «Se questa, cioè equitade – li uomini la conoscessero, econosciuta servassero, la ragione scritta non non sarebbe mestiere; e peròè scritto nel principio del Vecchio Digesto: “la ragione scritta è arte dibene e d’equitade”» (Cv. IV IX 8).

Necessaria conseguenza di questo argomentare è che l’appetito del-l’animo deve essere cavalcato dalla ragione e che l’imperatore è il caval-catore della «umana volontade» (Cv IV IX 10). Ma poiché etica e dirittonon sono indipendenti l’una dall’altro48 «non repugna [la filosofica] au-toritade alla imperiale, ma quella senza questa è pericolosa, e questa sanza

afferma che non c’è questione politica o sociale al mondo, ma soltanto morale»(Pascoli 1981: 1526-1527).46 La libertà dalla cupidigia del «libero arbitro» è il tema dell’opera: la volontànon solo deve volere ciò che è giusto ma, per riuscire a farlo, lo deve volere conrettitudine. Cfr. Fedriga-Limonta 2016: 357-386.47 Cv. IV IX 7: «Sono anche operazioni che la nostra [ragione] considera nell’attodella volontade, sì come offendere e giovare, sì come star fermo e fuggire allabattaglia, sì come stare casto e lussuriare; e queste del tutto suggiacciono allanostra volontade; e però semo detti da loro buoni e rei, perch’elle sono proprienostre del tutto, perché, quanto la nostra volontade ottenere puote, tanto le nostreoperazioni si stendono». 48 Cfr. Goudet 1969: 66: «le passage où Dante rappelle l’union nécessaire de laphilosophie et de l’Empereur, la raison étant sans force si elle n’est pas soutenuepar l’appareil de l’Etat et donc, en particulier, de sa justice».

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quella è quasi debile, non per sé ma per disordinanza della gente: sì chel’una coll’altra congiunta utilissime e pienissime sono di vigore» (Cv. IVVI 17).

Come gli uomini retti, amanti della giustizia, devono lasciarsi guidaredalla morale filosofia, così i reggitori devono amare gli uomini e lasciarsiguidare dalla sapienza (Cv. IV VI 18 che cita Sap. VI 23). Questa rettitu-dine è il frutto più nobile della discrezione che custodisce il seme di no-biltà infuso direttamente da Dio nell’anima razionale.49

Più che chiedersi se Dante fosse o meno un giurista,50 bisogna piutto-sto ben considerare la componente di dottrina giuridica intrinseca alla for-mazione culturale del sommo poeta semplicemente per capire la suapoesia: lo stesso discorso si può fare per Cino da Pistoia, per Petrarca eper Boccaccio e per gran parte della poesia delle origini.

L’interesse che Dante ha per la giustizia e l’influenza che su di lui haavuto la renovatio del diritto appare con evidenza dall’esegesi trecente-sca della Commedia che costituisce un capitolo importante del ‘Dantismogiuridico del Trecento’. Si tratta di Pietro di Dante, giurista e figlio del-l’Alighieri, Alberico da Rosciate, esperto in utroque iure (canonico e ci-vile) e Francesco da Buti per nominare i maggiori.51 Un altro capitolo del‘dantismo giuridico’ riguarda i giuristi che hanno usato l’autorità di Dantenei trattati giuridici. Tra costoro ci sono certamente Alberico da Rosciatee Bartolo da Sassoferrato. La repetitio di quest’ultimo, della quale parle-remo più avanti, attesta l’ingresso del Dante volgare nel canone delle auc-toritates dei giurisperiti, ma anche il carattere trasversale (filosofico,teologico e giuridico insieme) della produzione letteraria dantesca.

49 Cfr. Lc. 8, 15. Nella parabola del seminatore Luca scrive che il seme cadutosulla buona terra «sono coloro i quali, avendo ascoltato la parola con cuore nobilee buono, la trattengono e portano frutto con perseveranza».50 Cosa che fecero in molti; a diverse riprese a partire da Williams (1906) perarrivare a Cancelli (1970) fino a Quaglioni. Significativi anche se negletti glistudi di Ginevra Zanetti (1950) che considerò Dante uno dei primi trattatisti didiritto pubblico. 51 Su Pietro Alighieri giurista segnalo il contributo di Gambale 2015: 173-190.

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Proprio da questo ‘dantismo giuridico’ bisogna ripartire per interpre-tare correttamente alcuni luoghi puntuali della Commedia. Per intenderei «due giusti» di Inferno VI bisogna ricorrere alla chiosa di Pietro di Danteche interpreta quel passo con la consapevolezza del giurista: alla domandadi Dante che chiede se in Firenze «alcun v’è giusto», Ciacco risponde«giusti son due e non vi sono intesi» (If. VI 73).52 Pietro spiega che sitratta del giusto naturale e del giusto legale, le due anime del ‘giusto po-litico’ dell’Etica a Nicomaco,53 non senza aver prima introdotto tre cate-gorie, due delle quali sono però da ricomprendere sotto il giusto legale.Similmente per spiegare lo stravolgimento della topografia dell’aldilà checon Dante si codifica e si articola in tre regni, tra i quali campeggia ilPurgatorio, metafora della vita presente (almeno per Pietro), è utile ri-correre ad Alberico da Rosciate che nel proemio al Purgatorio del suocommento-traduzione alla Commedia si serve delle categorie del dirittoper introdurre la cantica e che nel contempo inserisce il lemma purgato-rium nel suo Dictionarium utriusque iuris.54

Quello dedicato a Bartolo da Sassoferrato è un capitolo fondamentaledel dantismo giuridico del Trecento.55 Nel commentare il dodicesimolibro Codice (XII 1, 1), al fine di definire la nobiltà civile, Bartolo ricorrealla canzone Le dolci rime d’amor ch’io solea, quella commentata daDante nel quarto trattato del Convivio. Bartolo da Sassoferrato decide diricorrere a Dante e alla sua definizione di nobiltà dopo aver considerato

52 «Intesi» sta per ‘perseguiti’. In questa accezione è sempre usato il verbo nellaMonarchia di Dante quando accompagna il termine ius. 53 Etica Nicomachea V 7, 15-20 [1134b]: «Del giusto in senso politico, poi, cisono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che hadovunque la stessa validità e non dipende dal fatto che venga o non vengariconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferenteche sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una voltache sia stato stabilito [per convenzione]» (Aristotele 1993: 209).54 Alberici de Rosate Bergomensis Iurisconsulti celeberrimi Dictionarium Iuristam Civilis quam Canonici, Venetiis, MDLXXIII (rist. anast. Torino, 1971).55 Uno studio fondamentale a questo proposito è quello di Crosara (1962: 107-198).

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che nel Digesto non esiste una trattazione che approfondisca la nozionedi dignitas. Tale nozione può essere assimilata, a suo giudizio, alla no-zione di nobilitas in quanto indica una condizione di eccellenza di un in-dividuo rispetto agli altri. Tuttavia, al termine della sua trattazione,Bartolo conclude che al giurista interessa la sola nobiltà civile (alias po-litica), quella che il principe concede per legge, sulla base di una serie diconsiderazioni che contemplano le circostanze, idea che piacerà al Guic-ciardini. Il germe del divorzio tra etica e diritto è già in questo trattato nelquale Bartolo allega l’autorità di Dante, poeta civile, non senza ingag-giare con lui un confronto serrato. La concezione per cui la civilis sa-pientia supera nella prassi la ‘filosofia morale’ porterà frutti lontani dallacultura dello stesso Bartolo per il quale questa frattura non esiste. Il pro-cesso si compirà nel Principe di Machiavelli: il suo trattato non si confi-gurerà, sulla scia della tradizione, come uno speculum del principe e dellesue virtù, ma piuttosto come un manuale per ottenere, gestire e conservareil potere in funzione di una politica dell’equilibrio e nel contesto del raf-forzamento delle Signorie; la qual cosa implicherà la necessità di dare ca-riche (dignitates = nobiltà) a soggetti che siano adatti alla conservazionedel potere nella circostanza.56

Il fatto che Bartolo menzioni la ‘cantilena’ e non accenni all’auto-com-mento di Dante non basta ad affermare che Bartolo non conoscesse ilConvivio.57 La canzone ha certamente circolato indipendentemente maquesta considerazione non basta a risolvere la vexata quaestio.58 Ci basti,

56 Si legga Quaglioni 2011b: 57-75.57 Di «una studiata dissimulazione della conoscenza del Convivio» parla FilippoCancelli (1970: 526): «gli esempi del regno bruto, vegetale e animale, addotti adiversi fini, sono gli stessi in Dante (Cv. IV XIV 9 e XVI 5) e in Bartolo (n. 59).Entrambi citano l’Ecclesiastes 10, 17: D. in Cv. IV XVI 5, e B. n. 54. Inoltre latripartizione di B. trova qualche riscontro in Cv. IV XXI 1-2». Vedi in propositoil commento a Mn. II III 4 di D. Quaglioni (Alighieri 2015: 174-177). È di diversaopinione Borsa 2007. Per tutto questo vedi Di Fonzo 2018.58 Bartolo da Sassoferrato usa il termine ‘cantilena in vulgari’ con il genericosignificato di componimento poetico. Dante, prima di Bartolo, aveva usato iltermine cantilena in Paradiso ad indicare genericamente un canto religioso, una

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per ora, riassumere i termini della questione. Bartolo si domanda «checosa sia nobiltà, o dignità, considerato che sono la stessa cosa» (Bartolus1570: 46v). Per farlo egli riferisce l’opinione di

un certo poeta volgare, di nome Dante Alighieri da Firenze, di ve-nerabile e lodabile memoria, il quale fece una “cantilena” in vol-gare che inizia Le dolce rime d’amor che io solea cercar ne’ mieipensieri, etc. e in quella espose tre opinioni degli antichi. La primaè quella che dice che un tal Imperatore affermò che la nobiltà è ilpossesso di ricchezze e beni insieme con bei reggimenti e costumi.Altri sostennero che gli antichi buoni costumi rendono l’uomo no-bile. I terzi affermarono che nobile è colui che discende da padreo antenato valente, e tutte queste opinioni egli respinge. Infine egliafferma che chiunque è virtuoso è nobile (Bartolus 1570: 46v b;per la traduzione cfr. Di Fonzo 2018: 6-7).59

Enumerate e discusse le definizioni Bartolo osserva che l’opinione percui «quod ubicunque est virtus etiam ibi est nobilitas» «fu del poeta me-

salmodia: «Rispuose a la divina cantilena / da tutte parti la beata corte (Pd.XXXII 97-98). Anche Petrarca, in una postilla autografa, usa lo stesso terminequando dichiara di essersi ispirato ad Arnaut Daniel («cantilena ArnoldiDanielis») per scrivere il sonetto Aspro core (Rvf 265). Cfr. Pulsoni 2003: 338.Pietro Alighieri usa il termine cantilena per indicare la canzone Tre donne intornoal cor mi son venute nella chiosa puntuale al verso 73 di Inferno VI, giàmenzionata sopra. Cfr. Pietro Alighieri online nel Dartmouth Dante Project.59 Cfr. Bartolus a Saxo Ferrato 1570: 46r-48v, l. Si ut proponitis, C. dedignitatibus (C. 12, 1, 1), a p. 46v b (nn. 46-47): ««Tertio ergo quaero quid sitnobilitas, seu dignitas, prout idem sunt, et ut circa hac veritas elucescat multorumopiniones referam. Fuit enim quidam nomine Dantes Allegeri de Florentia poetavulgaris, laudabilis et recolendae memoriae, qui circa hoc fecit unam cantilenamin vulgari, quae incipit Le dolce rime d’amor, che io solea cercar ne’ mieipensieri, ecc. et ibi recitat tres opiniones antiquorum. Prima est, quae dicit quodquidam Imperator dicit quod nobilitas est antiqua aeris et divitiarum possessiocum pulchris regiminibus et moribus. Alii dixerunt quod antiqui boni moresfaciunt hominem nobilem, et isti de divitiis non curant. Tertii dicunt quod illeest nobilis qui descendit ex patre vel avo valentibus, et omnes istas opinionesreprobat. Ultimo ipse determinat quod quicumque est virtuosus est nobilis».

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desimo».60 Quindi conclude negando la veridicità di quest’ultima propo-sizione («Videamus ergo an praedicta sint vera et ostendo quod non»).Al giurista interessa la sola nobiltà civile («politica seu civilis») (Barto-lus 1570: 47rb-47va), quella che il principe attribuisce per legge specialeo che si attribuisce sulla base degli statuti cittadini. Così facendo Bartoloafferma la superiorità della giurisprudenza (civilis sapientia) sulle altrescienze. Se a Dante la definizione di nobiltà serve a individuare un prin-cipio direttivo che renda possibile praticare la giustizia e giungere alla fe-licità nella vita consociata, a Bartolo serve per giustificare l’ordine civiledeciso per legge e garantire la perfecta stabilitas della città: una prospet-tiva che fonde la concezione giuridico-romanistica con quella aristote-lico-tomista dello Stato.61

Bartolo sceglie di dialogare con Dante sia perché egli è diventato ilpoeta civile per eccellenza, sia perché allegare le proposizioni di poeti il-lustri non era estraneo alla tradizione giuridica: basti pensare alle fre-quenti citazioni dei poeti antichi nel Corpus Iuris Civilis. L’autorevolezzadel poeta della Commedia in materia di filosofia morale, la scienza che or-dina tutte le altre scienze, la competenza che dimostra in materia di dirittopubblico nella Monarchia è la ragione per cui Bartolo dialoga con Dantein più di una occasione: non solo quando affronta la questione della no-biltà, ma anche quando si occupa della competenza territoriale del giudice,questione sollevata a partire dalla condanna per lesa maestà pronunciatada Arrigo VII nei confronti di Roberto d’Angiò il 26 aprile del 1313: con-divide in questo caso il pensiero pur giungendo a conclusioni che lo con-

60 Cfr. Bartolus a Saxo Ferrato, In tres Codicis libros, cit., pp. 46r-48v, a p. 47va (n. 56).61 Se non è mio uso richiamare elementi biografici in sede di discussione di tesifilosofiche o giuridiche che siano, in questo caso voglio tuttavia far notare quantola trattazione relativa alla nobiltà di Bartolo, che prende la forma di una vera epropria disputa con il sommo poeta Dante, possa servire al giurista per accreditarela sua posizione sotto il profilo teorico. L’imperatore Carlo IV di Boemia, dopoaverlo nominato suo consiliarius con diritto a un blasone, gli conferì taluni Jurareservata maiestatis, come quello di legittimare figli bastardi e di concedere lavenia aetatis.

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traddicono.62 Per Bartolo la vera filosofia è la civilis sapientia della qualeil giurisperito è il sacerdote. Tuttavia egli sceglie di allegare, in funzioneautoritativa,63 il poeta civile per eccellenza, quel poeta che l’esegesi an-tica ha già reso canonico all’indomani della morte. Non casualmente dun-que Dante fa capolino anche in calce al De regimine civitatis dovecompare l’annotazione Hodie Italia est tota plena Tyrannis, traduzionedel verso 124 di Purgatorio VI: una reminiscenza che testimonia un le-game e un amore.

62 In Secundam ʃʃ. novi Partem, Venetiis, Apud Iuntas, MDLXX ad l. 1. §Praesides ff. de requirendis reis [D. 48, 17, 1,1] n. 2-3). Cfr. Cancelli 1970.63 In proposito cfr. Quaglioni 2004: 39-55.

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La ‘digressione politica’ di ‘Convivio’ IV IVe la ‘Politica’ di Aristotele

MICHELE CURNISUniversidad Carlos III de Madrid

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RESUMEN:

El problema de la lectura directa de la Política de Aristóteles por parte deDante sigue sin resolverse en los estudios sobre la formación intelectual y la bi-blioteca del poeta. La “digresión política” en el libro IV del Convivio permitetejer más factores de la tradición cultural que ha transmitido el pensamiento y eltexto de Aristóteles: desde la versión latina de Guillermo de Moerbeke y los co-mentarios de Tomás de Aquino y Pierre d’Auvergne hasta el tratado de EgidioRomano (probablemente conocido por Dante gracias a una vulgarización tos-cana). Los métodos de reutilización y transformación del texto de la Política tam-bién permiten reflexionar sobre la investigación hasta ahora utilizada con elobjetivo de rastrear cierta evidencia del conocimiento (o de la falta de conoci-miento) del tratado aristotélico por parte de Dante.

PALABRAS CLAVE: Dante, Aristóteles, Política, Tomás de Aquino, Egidio Ro-mano, Convivio, fuentes.

ABSTRACT:

The problem of Dante’s direct reading of Aristotle’s Politics continues to beunresolved in the studies on the poet’s education and personal library. The “po-litical digression” in the fourth book of the Convivio allows to weave more fac-

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tors of the cultural tradition that has conveyed Aristotles’s thought and text: fromthe Latin version of William of Moerbeke to the commentaries of ThomasAquinas and Pierre d’Auvergne up to the treatise of Aegidius Romanus (proba-bly known by Dante thanks to a Tuscan vulgarization). The methods of reusingand transforming the text of the Politics also make it possible to reflect on the sur-vey methodology, used hitherto with the aim of tracing certain evidence ofDante’s knowledge (or the lack of knowledge) of the Aristotelian treatise.

KEY WORDS: Dante, Aristotle’s Politics, Thomas Aquinas, Aegidius Romanus,Convivio, sources.

1. DANTE LETTORE DELLA POLITICA DI ARISTOTELE?

«Dante lesse direttamente la Politica e nell’unica traduzione pratica-mente accessibile, cioè quella di Guglielmo di Moerbeke [...]. In ognicaso il nucleo fondamentale del suo pensiero politico, sul quale s’inseri-scono i noti sviluppi originali, è di derivazione aristotelica» (Berti 1973:587). Con queste parole, dal palese intento conciliatorio e poste a con-clusione della voce Politica per l’Enciclopedia Dantesca, Enrico Berti sipropose di offrire una soluzione all’annosa questione: il poeta, che traConvivio e Monarchia si riferisce più volte alla Politica di Aristotele (cf.Minio-Paluello 1955), aveva avuto accesso al testo completo del trattato,oppure lo conosceva soltanto in forma indiretta e assai scarsa? Almeno dal1928 la questione aveva ricevuto una risposta di netto scetticismo: se-condo Allan Gilbert le modalità di citazione della Politica nell’opera dan-tesca inducevano a credere che «the poet had never studied the workitself» (Gilbert 1928: 612). Oltre alle ragioni testuali, Gilbert adducevaanche quelle contestuali: a suo dire le copie manoscritte della Politicanella traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke sarebbero state moltopoche in Italia, e procurarsene un esemplare sarebbe stato per Dante im-possibile. L’ottimistica soluzione di Berti prescindeva, in effetti, dalla di-samina di eventuali fonti manoscritte e della loro diffusione, macertamente influì sulla ricerca di Anthony Cassell a proposito della Mo-

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narchia: nella monografia dedicata alla controversia sulla teoria politicadi Dante, lo studioso inserì infatti un timido accenno alla consistenza deifondi librari degli studia fiorentini, dei Francescani presso il convento diSanta Croce e dei Domenicani presso Santa Maria Novella, pretendendodi concludere che «Dante absorbed theology and philosophy and, espe-cially, obtained a thorough Schoolman’s knowledge of Aristotle’s Nico-machean Ethics and aquired a passing acquaintance with the Politics»(Cassel 2004: 30). Appare evidente in Cassell la ricerca di un equilibriotra precedenti e antitetiche posizioni; equilibrio che, però, risulta pocosoddisfacente e ancor meno risolutivo. Pochi anni prima, all’interno diun’importante raccolta di studi sul rapporto tra concezione imperiale, sto-ria romana e fonti filosofico-politiche, Gennaro Sasso aveva bollato «ladiretta conoscenza, da parte di Dante, della Politica» come una questione«probabilmente insolubile» (Sasso 2002: 11 n. 24). In tempi molto piùrecenti, Andrea Robiglio ha invece orientato la discussione in termini de-cisamente scettici riguardo alla conoscenza diretta da parte di Dante deitrattati aristotelici, e forse della Politica in particolare: muovendo da unaproposta metodologica finalizzata a «capovolgere la prospettiva» (Robi-glio 2015: 193), lo studioso invita ora ad analizzare la tradizione di flori-legi e sillogi aristotelici, che potessero condensare il pensiero politico delFilosofo e offrire così a Dante la possibilità di rielaborarlo, anche senzaattingere al testo completo delle traduzioni latine.1 L’insistenza su quel

La presente ricerca rientra nell’ambito del progetto CONEX, finanziato dallaUniversidad Carlos III de Madrid, dallo European Union’s Seventh FrameworkProgramme per la ricerca e lo sviluppo tecnologico (n. 600371), dal Ministeriode Economía y Competitividad, Gobierno de España (COFUND2013-40258) edal Banco Santander. Le trascrizioni di Convivio e Monarchia seguono il testostabilito nell’edizione Alighieri 2014; i passi riportati dalla Commedia seguonol’edizione Alighieri 1966-1967; le citazioni tomistiche si appoggiano alle risorsedigitali della piattaforma www.corpusthomisticum.org. (ove non diversamentespecificato).1 La proposta di Robiglio è, in realtà, più complessa, giacché la verifica dellacongruenza tra riferimenti aristotelici in Dante e letteratura florilegistica (di cuisi assumono come modello le Auctoritates Aristotelis) costituisce soltanto laprima fase di un lavoro più articolato, tutto da compiere: «l’eventuale insuccessodella reductio ad ‘Auctoritates’, lungi dall’attestare la natura “originale” dei pre-

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complesso testuale che la filologia classica denomina (non del tutto pro-priamente) ‘tradizione indiretta’ è senza dubbio molto importante e pro-ficua; tuttavia, la stringata disamina di alcuni esempi da parte di Robiglionon raggiunge una conclusione definitiva applicabile alla ricezione dellaPolitica.2 L’evidenza del testo di Dante – in particolare di alcune paginedel Convivio che saranno oggetto di questa nota – risulta sempre più com-plessa rispetto ai tentativi di riduzione delle fonti aristoteliche a un solotipo di supporto o di tradizione testuale.Prima ancora che sul piano storico-letterario, il rapporto tra il trattato

aristotelico e la sua effettiva rielaborazione all’interno dell’opera di Dantedeve essere studiato su quello ideologico, cioè propriamente filosofico-politico: ‘insolubile’ – per riprendere l’aggettivazione di Sasso – è (quasi)

stiti aristotelici, non sarebbe che il primo di filtri successivi. Il passo seguenteconsterà nell’applicare la reductio ad ‘Propositiones’, accompagnata poi dallareductio ad commentarios (segnatamente i commenti aristotelici dell’Aquinate edi Alberto) e dall’assai laboriosa, ma inaggirabile, reductio ad ‘Sermones’» (Ro-biglio 2015: 196).2 Le Auctoritates Aristotelis, con la loro sezione desunta dalla Politica (145 sen-tenze, tratte da tutti gli otto libri del trattato, secondo l’edizione Auctoritates Ari-stotelis 1974: 252-263) sono l’unico florilegio su cui Robiglio fonda la suadisamina; sistematiche nella struttura ma decisamente schematiche nella forma– come è tipico di quasi ogni florilegio – esse non presentano alcun tipo di ar-gomentazione o exemplum, limitandosi alla definizione o alla conclusione di unadimostrazione. Lo sviluppo di temi aristotelici, sempre presente in Dante e cor-redato di argomentazioni, induce piuttosto a credere che la conoscenza da partedel poeta della tradizione della Politica andasse al di là delle sue versioni piùstringate (cf. infra Appendice 2). Alla ricerca filologico-testuale delle fonti ari-stoteliche disponibili Robiglio aggiunge un’avvertenza, a suo giudizio necessa-ria: «La biblioteca di Dante, certo quella empirica, fu assai ridotta, almeno finoagli ultimi scampoli di esistenza in Romagna. Quanto è profondo, allora, il di-vario con la biblioteca ideale del poeta: con quella costituita dall’intertestualitàesibita nell’opera letteraria?» (Robiglio 2015: 193-194). Anche questa premessarisulta importante, ma difficile da sviluppare in termini sicuri: se si assume chela biblioteca ‘empirica’ di Dante fosse esigua, e dunque non potesse trattenere leopere complete degli scrittori dell’antichità, risulta paradossale sostenere poi cheessa contenesse un’ampia scelta di antologie, florilegi, commentari e sermoni,ossia tutta quella letteratura ‘secondaria’, necessaria a restituire la cultura filo-sofico-aristotelica effettivamente rintracciabile negli scritti di Dante.

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certamente la questione per chi ambisce verificare, in termini concreti eprecisi, un rapporto diretto tra specifici contenuti testuali e l’accesso daparte di Dante, nonché l’ubicazione, la qualità e l’affidabilità delle suefonti primarie. Per converso, la questione riserva importanti novità a chiesamini piuttosto il bilancio tra ‘presenza’ e ‘assenza’ dei contenuti e delleargomentazioni della Politica in Dante, quali che siano i versanti dellatradizione coinvolti. La digressione sull’impero di Cv. IV IV, nella fatti-specie, prescinde dalla questione della legittimazione del potere impe-riale (un tema di origine ‘virgiliana’, si potrebbe dire, sempre prioritarioper il lettore moderno e contemporaneo)3 e del potere in genere (un tema,invece, propriamente aristotelico). Dante parla dell’uomo nei terminidell’‘animale aristotelico’ e dei progressivi stadi di aggregazione che con-ducono allo Stato, attraverso il percorso politico descritto da Aristotele nelI libro della Politica. Ma l’argomento filosofico-pratico più impegnativo,ossia come la città-stato aristotelica avesse potuto trasformarsi nel mo-dello di riferimento dello stato monarchico sovranazionale, e dunque del-l’impero, non fa parte delle analisi del Convivio, come se gli sviluppi cuiera approdata l’officina tomistica fossero ormai del tutto assodati.4 Ep-pure, le argomentazioni desumibili dai libri IV-VIII della Politica risul-tano del tutto assenti dall’opera dantesca;5 mancano, detto altrimenti,

3 Alla «Legittimazione dell’Impero romano» dedica un capitolo della sua im-portante ricerca Di Fonzo (2016: 60-78). 4 Si tratta, com’è noto, di una delle conclusioni più influenti del commento allaPolitica completato da Pierre d’Auvergne, centrato sulla risoluzione del dibattitoa proposito dell’optima politia in favore del regnum. Alle tecniche e agli obbiet-tivi del continuatore di Tommaso ha dedicato un’indagine impeccabile Lanza(2013: 17-71); una recensione di questa importante ricerca si legge in Curnis(2017). 5 È indispensabile, ma non sufficiente, il suggerimento di Robiglio (2015: 187n. 3), di ripartire dagli elenchi a suo tempo elaborati da Moore (1896: 334-343),in cui sono registrati tutti i passi danteschi in cui affiorerebbero citazioni del Cor-pus aristotelicum. Sarebbe ugualmente significativo (e utile ad alcune tesi dellostesso Robiglio) elaborare un regesto di passi aristotelici di primaria importanza(ad esempio in merito alla teoria politica) del tutto assenti nell’opera di Dante.Può essere dovuta a circostanze accidentali la mancanza di qualsivoglia riferi-mento ai libri IV-VIII della Politica, per esempio? (stride, a questo proposito, il

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proprio gli agganci e le referenze a quella parte di dottrina politico-ari-stotelica che Pierre d’Auvergne, continuando il commento di Tommasod’Aquino, aveva trasformato in un testo fondativo del principio monar-chico-imperiale, a costo di attenuare sensibilmente la struttura ‘repubbli-cana’ del trattato aristotelico. Del resto, per limitarsi alle presenzecomparabili direttamente con le fonti, è certo che Dante preferì compiereil percorso inverso rispetto a quello di Aristotele, concentrandosi da su-bito sul punto d’arrivo del processo:

Che, conosciuto direttamente o attraverso i commenti di Tommasoall’Etica e alla Metafisica, dell’argomentazione aristotelica il testodi Dante ripeta la formale movenza è evidente. Ma soltanto la mo-venza. Messo in salvo il principio, tutto quel che di ulteriore sitrovi in Aristotele qui cade. [...] Ed ecco quindi che, dopo avertracciata la linea che, partendo dall’uomo, s’innalza fino alla fa-miglia e da questa, passo dopo passo, fino all’universale Monar-chia, Dante la riprese dal punto di arrivo, la ripercorse all’indietroe dalla Monarchia ridiscese idealmente all’uomo che, a causa delcontesto in cui si trova a essere inserito, è felice (Sasso 2002: 13).

Homo civile animal è dunque il punto di partenza di un discorso poli-tico originale, ma il cui sviluppo è quasi di nulla debitore alla fonte ap-parentemente più adeguata e principale, la Politica aristotelica e la suatradizione.6 Anche questa conclusione può essere soggetta a qualche ri-flessione.

confronto con le citazioni o rielaborazioni dei contenuti dell’Etica Nicomachea,i cui dieci libri sono tutti rappresentati all’interno dell’opera di Dante).6 Anche perché il commentatore medioevale – a cominciare da Tommaso e dalcontinuatore Pierre d’Auvergne – non opera come uno storico delle idee o un fi-lologo, ma «introduce nella sua interpretazione dell’opera aristotelica categorieappartenenti al pensiero politico precedente alla riscoperta della Politica» (Lanza2013: 48), ossia inserisce e rivitalizza il pensiero di Aristotele nella realtà delproprio tempo.

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2. TRADIZIONE E DIFFUSIONE DELLA POLITICA TRA TOMMASOD’AQUINO E DANTE

Senza dubbio la Politica fu uno degli scritti aristotelici che il medioevolatino conobbe più tardi: priva di una tradizione di commentari in greco,in arabo o in altre lingue orientali, essa fu tradotta in forma completa sol-tanto nel 1260 da Guglielmo di Moerbeke, su richiesta di Tommasod’Aquino (Hertling 1884: 457; Flüeler 1992: I 16).7 È ben noto che lostesso Tommaso sia stato il primo a dedicarsi al commento-parafrasi del-l’opera, senza peraltro completarlo (dal capitolo III 7 in poi avrebbe prov-veduto Pierre d’Auvergne: Martin 1952; Flüeler 2015); ed è un fattoampiamente riscontrabile che le citazioni dirette della Politica presero apullulare nell’opera dell’Aquinate a partire dalla metà degli anni Sessanta(Martin 1951; Flüeler 1992: I 18-29; Pierpauli 2016). Contemporanea-mente alla rapida diffusione della versione di Guglielmo,8 da Parigi al

7 La notizia della traduzione completata da Guglielmo nel 1260 è stata stabilitada Hertling (1884: 457); Flüeler (1992: I 16 n. 51) annota che i redattori del-l’Aristoteles Latinus accolsero con riserva questa indicazione cronologica, mache nella bibliografia recente essa non è mai stata posta in dubbio con argomentialternativi. Grazie allo studio di Eschmann (1956), da aggiornare con Bataillon(1963), è stato appurato che nella Lectura super Matthaeum di Tommasod’Aquino compaiono cinque citazioni dalla Politica, tutte relative al I libro; sullabase della data di redazione tradizionale di tale trattato (il periodo 1256-1259),occorre concludere o che già a questa altezza cronologica Tommaso avesse co-noscenza almeno della parte iniziale della Politica, oppure che la composizionedella Lectura debba essere ritardata agli anni 1263-1265 (come ipotizzaEschmann). Flüeler (1992: I 17 n. 55) precisa che il confronto tra le cinque cita-zioni con il testo della translatio imperfecta (Aristoteles 1961) non approda adalcun risultato, dal momento che «Die Zitate sind so frei, dass sie aus beidenübersetzungen stammen könnten», riferendosi ovviamente alla traduzione com-pleta di Guglielmo di Moerbeke e a quella anonima incompleta (forse primo ab-bozzo del lavoro dello stesso Guglielmo). Del resto, la libertà della parafrasi nonimplica che la fonte di Tommaso in questa fase precedente al completamentodella versione di Guglielmo potesse essere proprio una copia della translatio im-perfecta.8 Per esempio, nella Divisio scientiae (circa 1280) Giovanni di Dacia allude alcontenuto della Politica, specificando che il trattato è suddiviso in otto libri;anche questo dimostra la rapida diffusione della versione di Guglielmo di Mo-

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resto dell’Europa, la Politica divenne oggetto di studio di uno scolaro ita-liano di Tommaso, Egidio Romano, che tra 1277 e 1280 redasse il De re-gimine principum su impulso di Filippo III l’Ardito per l’educazionedell’erede al trono (cf. Lambertini 2016). Nel 1282 il monarca chiese poiad Henry de Gauchy di tradurre il testo latino in francese, nel Livre duGouvernement des rois et princes; nel 1288, o forse anche prima, unesemplare di questa versione fu «tradotto in toscano da un Anonimo vol-garizzatore, probabilmente a Siena», come annota Fiammetta Papi, edi-trice del Livro del governamento dei re e dei principi (che costituiscesoltanto uno dei cinque volgarizzamenti noti: Livro del governamento2016: 28). Egidio dedica ampio spazio ai contenuti della Politica, para-frasando e discutendo nel dettaglio interi capitoli, riportando numerosecitazioni dalla traduzione latina di Guglielmo, richiamando insegnamentifilosofici della tradizione aristotelica secondo modalità più dinamiche ecomplesse di quelle di un commentario sistematico9 (si può osservarecome, a titolo di esempio, la seconda parte del libro III costituisca uncompendio di dottrina aristotelica, in particolare dei primi cinque libridella Politica). Sul piano storico-letterario, la conoscenza della Politicada parte di Dante non può pertanto essere dibattuta senza un costante ri-chiamo al commentario e alle citazioni aquinati, al De regimine principume alla sua intricata e plurilinguistica tradizione manoscritta.10

erbeke (Flüeler 1992: I 7). Cf. Czartoryski 1960. 9 Fondamentale il capitolo «La Politica di Aristotele e il De regimine principumdi Egidio Romano» in Lanza (2013: 233-292), cui si rimanda anche per la bi-bliografia pregressa.10 Concludendo il paragrafo sull’influenza di Avicenna nel pensiero politico me-dioevale, Christoph Flüeler giunse a includere anche Dante all’interno di una tra-dizione considerabile parallela – più che dipendente – alla lettura diretta dellaPolitica di Aristotele. «Die stark metaphysische Prägung der politischen Philoso-phie bis hin zu Marsilius von Padua lässt sich am besten als Fortsetzung diesesavicennischen Modells erklären. Petrus de Alvernia, der Mailänder Anonymusund schliesslich Dante sind in dieser Tradition zu sehen. Vor allem bei Dantezeigt sich, dass eine metaphysisch geprägte politische Philosophie nicht theolo-gisch orientiert zu sein braucht, sondern sogar als Instrument dienen kann, dietheologische Vorherrschaft im politischen Denken jener Zeit zu brechen»

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Una delle corrispondenze più rimarchevoli tra la versione volgare deltrattato di Egidio e l’evidenza del rimando aristotelico in Dante riguardaancora la definizione dell’homo civile animal. All’inizio del II libro, de-dicato all’istituzione coniugale e al governo famigliare (De regiminedomus, nelle edizioni latine), Egidio inserisce infatti la definizione ari-stotelica: «l’uom die vivare in compagnia naturalmente ed essere conpa-gnevole per natura, e che la compagnia, in fra l’altre cose, è la piùnecessaria a la vita umana» (Del reggimento de’ principi 1858: 127. L’at-tributo compagnevole compare già a p. 76, due volte, per ritornare ancoraa p. 132; cf. Nardi 1944: 104-106; Berti 1973: 586; Sasso 2002: 24). InEgidio è l’esito della specificazione aristotelica: per sua natura l’uomodeve trascorrere la vita in compagnia; e sempre per natura l’uomo ricercatale compagnia; quest’ultima non è dunque un obbligo di sopravvivenzama un carattere proprio. Nella versione latina il testo è alquanto diffe-rente: «videndum est quomodo se habeat homo ad esse communicativumet socialem. Sciendum igitur quod homo ultra alia animalia quatuor indi-gere videtur, ex quibus quadruplici via venari possumus ipsum esse com-municativum et sociale» (De regimine principum 1607: 214-215). Berti(1973: 586), come la maggior parte dei commentatori, utilizza un registrodi cautela, nel definire «verosimile la mediazione di Egidio» in Cv. IV IV1, dove compare lo stesso termine compagnevole: «E però dice lo Filosofoche l’uomo naturalmente è compagnevole animale» (in effetti, in Cv. IVXXIV 9, il poeta si riferisce esplicitamente ad altra pagina egidiana, ci-tando «quello che Egidio eremita ne dice nella prima parte dello Reggi-mento de’ Principi»; cf. la nota di Fioravanti in Alighieri 2014: 757). Main Cv. IV IV 1, oltre alla pregnanza lessicale del termine ‘compagnevole’– hápax in Dante – si può notare un altro elemento a sostegno del legamediretto tra la pagina di Egidio volgarizzato e la scrittura dantesca. Rife-rendosi all’obbiettivo della vita felice, Dante precisa che «nullo per sé èsufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo

(Flüeler 1992: I 15). Tuttavia, dopo questa promettente sintesi introduttiva Dantescompare dall’ampia ricerca, e – fatta eccezione per una citazione isolata dallaMonarchia a p. 66 dello stesso I volume – non ritorna più.

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abisogna di molte cose, alle quali uno solo satisfare non può». L’elencodettagliato delle ‘molte cose’ che necessitano competenze e tecniche dif-ferenti si legge appunto in Egidio, mentre non è né in Aristotele né nelcommentario di Tommaso: è il Governamento dei re e dei principi a spie-gare la necessità di cooperazione, finalizzata a produrre pane, abiti, uten-sili e quanto sia indispensabile all’esistenza; ebbene, tale argomentazionesegue la celebre definizione aristotelica dell’uomo (Del reggimento de’principi 1858: 127-129), prima che essa ritorni ancora, sempre sorrettadall’attributo ‘compagnevole’ (ibidem: 132). È possibile che proprio laricorrenza del termine all’interno del volgarizzamento abbia convintoDante dell’opportunità di un suo peculiare riuso. Non lo stesso percorsoha compiuto l’«umana civilitade» della stessa pagina del Convivio, giac-ché l’espressione è assente in Egidio e deriva piuttosto dal latino civilitas,intesa nella molteplice accezione di ‘Stato / costituzione’, e anche di ‘re-lazioni interne alla società civile’, secondo un uso tipico dei commenta-tori della Politica (non solo Tommaso, ma anche Alberto Magno eBartolomeo Fiadoni, meglio noto come Tolomeo da Lucca,11 tra gli altri).

3. LA «DIGRESSIONE POLITICA» E LE SUE RAGIONI

Nel capitolo IV IV del Convivio Dante è obbligato ad allontanarsi daltema principale, la ‘gentilezza’ nell’accezione della vera nobiltà, perchéper spiegare chiaramente il proprio pensiero deve recuperare le radicidell’‘imperiale autoritade’ (IV III 10). I capitoli IV e V si sviluppano dun-que come digressione – è Dante stesso a definirla in questo modo – di ca-rattere politico, finalizzata a dimostrare la necessità dell’istituto imperialequale indispensabile guida del consorzio umano. Nella seconda strofadella canzone che introduce il nuovo trattato, Le dolci rime d’amor ch’io

11 Non stupisce che la tradizione giuridica coeva a Dante recuperi alcuni luoghidella Politica sulla base di precedenti citazioni da parte di Tommaso o dellostesso Dante: è il caso, per esempio, di Pol. I 5, 1254a 21-36 nella Determinatiocompendiosa de iusrisdictione imperii di Tolomeo da Lucca (XVII II): si vedanoil testo e il commento di Chiesa e Tabarroni in Alighieri 2013: 287.

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solia, Dante aveva infatti ricordato l’opinione di un regnante a propositodella nobiltà, senza però precisare il nome di questo personaggio.

Tale imperò che gentilezza volse,secondo ’l suo parere,che fosse antica possession d’averecon reggimenti belli

(vv. 21-24; cf. Alighieri 2014: 517, 529-530)

Soltanto nel corso del commento (IV III 6) il poeta precisa trattarsi diFederico II, ultimo degli imperatori romani che avessero effettivamenteregnato su parte dell’Italia (Alighieri 2014: 558-559; sulla canzone si vedaBorsa 2014). I pochi versi poetici sul parere della nobiltà attribuito a Fe-derico e l’illustrazione dell’impero costituiscono i confini di uno spaziodi scrittura che, in maniera esplicita oppure implicita, presenta comun-que l’insegnamento di Aristotele. Proprio nel corso del IV capitolo si leggel’unica citazione esplicita della Politica all’interno di tutto il Convivio.Questa stessa coppia di capitoli, com’è noto, costituisce inoltre una primaversione della trattazione sulla nobiltà, sviluppata poi all’interno dellaMonarchia (II III 4: «Est enim nobilitas virtus et divitie antique, iuxta Phy-losophum in Politicis»).

Federigo di Soave, ultimo imperadore de li Romani – ultimo dicoper rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Andolfoe Alberto poi eletti siano, apresso la sua morte e delli suoi discen-denti –, domandato che fosse gentilezza, rispuose ch’era antica ric-chezza e belli costumi (Cv. IV III 5).

A questo punto sorge un problema tuttora irrisolto: perché Dante nelConvivio riferisce a Federico un’opinione che nella Monarchia attribui-sce invece, e correttamente sul piano filologico-testuale, ad Aristotele?12

12 Alcuni esegeti hanno spiegato lo scarto supponendo in Dante un corredo di co-noscenze diverse (proprio relativamente alla Politica di Aristotele), nel momentoin cui compose la canzone che apre Cv. IV e nella fase di elaborazione della Mo-narchia. È inevitabile supporre un momento puntuale in cui Dante si sia accostatoalla ‘tradizione della Politica’ (intesa in un’accezione molto pragmatica, di ac-

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La presenza del filosofo antico è palpabile in queste pagine sin dalla loroimpostazione metodologica; il procedere dialettico dell’intero gruppo dicapitoli iniziali del quarto trattato risente infatti del metodo aristotelicodella presentazione di doxai errate e della loro confutazione; è Dantestesso a ricordarlo in IV II 16. In più, il titolo di un’opera di Aristotele ègià citato nel testo della canzone d’apertura (l’Etica, al v. 85). La sen-tenza che il poeta attribuisce all’imperatore non trova nessuna corrispon-denza negli scritti trasmessi sotto il suo nome, sebbene alcuni interpretiabbiano indicato analogie tematiche anche laddove le fonti asserisconopiuttosto il contrario della doxa del Convivio.13 L’indagine sulla possibile

cesso alle fonti manoscritte che ne offrivano i contenuti: cf. infra Appendice 1);ed è certamente vero che «Tra il Convivio e la Monarchia c’è molto più che le“scuole de li religiosi” e le “disputazioni de li filosofanti”, c’è il “diritto comune”e c’è l’antropologia cristiana di Anselmo, o meglio la riflessione sulla centralitàdella incarnazione di Cristo, sapienza di Dio, perfezione della umana natura. Èquesta esperienza intellettuale a modificar la coscienza di Dante» (Di Fonzo2016: 66). Il Convivio porge comunque una serie di riflessioni politiche che nonpossono prescindere da tale ‘tradizione della Politica’ aristotelica, come l’ana-lisi della digressione lascia intendere. La differente attribuzione, dunque, poggiasu altre ragioni, testualmente molto più ardue da rintracciare. Sull’‘idea impe-riale’ in altre opere latine di Dante cf. ora Tavoni 2016.13 Cf. il commento di Fioravanti in Alighieri 2014: 559 e quello di Quaglioni allapagina parallela della Monarchia, sempre in Alighieri 2014: 1072-1075. E an-cora: «Dante presenta qui una posizione teorica piuttosto diversa rispetto a quellaespressa nel quarto libro del Convivio [...], dedicato in gran parte a sostenerne unaconcezione puramente etica. Per il Dante del Convivio la nobiltà è individuale,non è collegata alla ricchezza e non viene trasmessa per sangue; può essere, almassimo, una nobiltà collettiva, ma in quanto somma di singole nobiltà indivi-duali. In questo passo della Monarchia, invece, le ragioni dell’etica e quelle dellastirpe concorrono equamente a formare la nobiltà, in una linea che appare menorivoluzionaria e più adeguata alla dottrina aristotelica. [...] È possibile, soprat-tutto, che Dante abbia maturato una visione diversa anche in seguito a una mag-giore considerazione del passo della Politica che citerà subito dopo, che all’epocadel Convivio evidentemente non conosceva, o non conosceva come detto da Ari-stotele» (Chiesa e Tabarroni, in Alighieri 2013: 83. Anche nella pagina succes-siva i due commentatori tornano sull’ipotesi di una conoscenza differita deicontenuti della Politica, per giustificare la duplice attribuzione: «All’epoca incui scriveva il Convivio Dante non sapeva evidentemente che la frase risaliva adAristotele, tanto che in tale confutazione il filosofo viene spesso chiamato in

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fonte originaria di Dante non è affatto una questione secondaria, perchési tratta di quella tipologia di auctoritas che lo stesso Dante nel seguitodella trattazione indaga come fondamento del pensiero, sia in ambito po-litico sia in ambito filosofico (IV VI). In altre parole, risulta improbabileche Dante abbia attribuito in modo arbitrario a Federico una sentenza chederiva invece dal pensiero aristotelico e che egli riconosce come tale nellaMonarchia.14 Non è stata finora rilevata un’aporia cronologica che intro-duce il problema della diffusione della Politica aristotelica all’epoca diDante, dunque la questione se il poeta avesse avuto accesso al testo com-pleto del trattato; è un’aporia che allo stesso tempo impedisce ogni col-legamento tra Federico e il contenuto della Politica, almeno se si ritieneche anche Federico potesse essersi ispirato alla sententia del filosofogreco: nel 1250, anno della morte dell’imperatore, nessuna versione latinadi questo testo circolava ancora in occidente. Per di più, all’interno dellatradizione aristotelica in arabo, non esiste alcuna traccia di traduzioni ocommentari: le informazioni su quest’opera aristotelica in al-Farabi, Ge-rardo da Cremona, Domingo Gundisalvo sono scarse e quasi del tutto in-congruenti con il contenuto effettivo dell’opera (Polloni 2016).È opportuno, dunque, analizzare la modalità specifica con cui il poeta

introduce la sentenza di Federico nei capitoli politici del Convivio; scri-vendo infatti «domandato che fosse gentilezza ... rispose», il poeta ricorrea una struttura retorica antica, molto bene attestata nella letteratura gno-mica in greco e latino, vale a dire l’apoftegma. Un personaggio celebre,

causa come auctoritas favorevole a una concezione puramente etica della no-biltà»). Sulla presenza di Aristotele quale auctoritas nella redazione della Mo-narchia cf. Chiesa e Tabarroni, in Alighieri 2013: LXXIII-LXXIV, ove si insistesul possibile apprendimento della filosofia aristotelica da parte di Dante a le-zione, presso un maestro che legge e commenta.14 Nel Moralium dogma philosophorum Guillaume de Conches definisce la no-bilitas nel capitolo De bonis corporis (III B); si riferisce ad Aristotele (philoso-phus), ma in termini diversi rispetto alla citazione della Politica: «Quodsi in hacnobilitate aliquis fructus est, profecto is est quem monstrat philosophus his uer-bis: Optima hereditas a patribus traditur liberis, omni patrimonio prestantior, glo-ria uirtutis et rerum gestarum, cui dedecori esse nefas iudicandum est»(Guillaume de Conches 1929: ad locum).

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interrogato su di una questione etica, risponde con un detto dal caratteresentenzioso o addirittura proverbiale. Tale struttura retorica non è moltodiffusa nell’opera di Dante: l’unico parallelo nel Convivio si legge in IIIXI 5, ed è relativo a una sentenza di Pitagora a proposito del significato disapiente; in questo caso, però, il percorso gnomologico si ricostruiscemolto bene, giacché la sentenza è attestata in Agostino, rifluisce in Isi-doro, è raccolta da Uguccione da Pisa e da Brunetto Latini, ossia le fontienciclopediche più vicine a Dante. Nel caso della sentenza attribuita a Fe-derico, al contrario, manca qualunque tipo di riscontro; se però si ricercalo stesso contenuto in altri canali della produzione gnomologica, allora sipuò apprezzare l’analogia con un verso di Giovenale molto fortunato nelleantologie medioevali, che non a caso è menzionato anche nella Monar-chia. Anche le recenti indagini di Umberto Carpi (2004: 20-24) hannopiuttosto dimostrato che negli scritti di Federico l’opinione sul rapportotra nobiltà e ricchezza va in direzione opposta a quanto Dante gli attri-buisce nel Convivio. Con i termini schematici e precisi dell’apoftegma, èpossibile che il poeta voglia suggerire il genere letterario in cui cercareuna fonte, ovviamente apocrifa e posteriore almeno al 1260. Al di là dellaquestione filologica sull’origine testuale, la sentenza imperiale detieneuna funzione precisa, come ha osservato Diego Quaglioni, in quanto lasua confutazione serve a «escludere che la giurisdizione imperiale possaestendersi oltre i suoi limiti e regolare autoritativamente le materie filo-sofiche e spirituali» (in Alighieri 2014: 1074). Sasso (2002: 11) sostenneche Dante avesse raccolto l’opinione di Federico «da una tradizione, conogni probabilità, orale» ed estranea ai contenuti della Politica. Tuttavia,come il seguito dell’analisi permetterà di accertare, queste pagine delConvivio sembrano appoggiarsi, tra le altre fonti, anche alle conclusionidi Aristotele mediate da Tommaso d’Aquino ed Egidio Romano. Avendoa disposizione il testo del De regimine principum, probabilmente in unaversione volgarizzata, Dante avrebbe potuto ricorrere al capitolo in cuiEgidio differenzia la «gentileçça di costumi» dalla «nobiltà di lignagio»(II III 16, in Livro del governamento 2016: 492-494), per concludere che«la cortesia à in sé tutte le vertù, ed è l’uomo cortese en fare tutte l’op(er)e

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de le vertù», senza peraltro citare il testo della Politica o alludere ad al-cuna auctoritas. Dante operò diversamente, e con intento polemico, forsecreando egli stesso un apoftegma utile ad additare non già l’errore di unfilosofo (in questo caso l’Aristotele della Politica), ma l’arroganza di ungovernante.Nel cuore della digressione politica di IV IV si legge l’unica menzione

esplicita della Politica nel Convivio («parole del Filosofo ch’elli nella Po-litica dice, che quando più cose ad uno fine sono ordinate, una di quelleconviene essere regolante o vero reggente, e tutte l’altre rette e regolate»,IV IV 5), che i commentatori unanimemente spiegano con il rimando nona Pol. I 5, 1254a 28-31 («quaecunque enim ex pluribus constituta sunt etfit unum aliquod commune, sive ex coniunctis sive ex divisis, in omnibusvidetur principans et subiectum», Aristoteles 1872: 17), bensì al com-mento di Tommaso alla Metafisica («Sicut docet Philosophus in Politicissuis, quando aliqua plura ordinantur ad unum, oportet unum eorum esseregulans, sive regens, et alia regulata sive recta»). In effetti, la succes-sione argomentativa di Dante in questa pagina risente più del trattato diEgidio, nel versante del volgarizzamento senese (III II 3, in Livro del go-vernamento 2016: 528-529; cf. infra per la lettura sinottica con l’originalelatino e il modello di Tommaso), che della versione latina della Politicasecondo il testo di Guglielmo di Moerbeke. Il rimando esplicito al trattatoaristotelico a proposito della pluralità che tende a un unico fine si confi-gura quale inserto dottrinario nel tessuto contenutistico del capitolo, senzadipendere direttamente dalla fonte evocata. Dante richiama un insegna-mento aristotelico nella parafrasi tomistica, probabilmente sulla base dellamemoria, ma l’obbiettivo su cui sta riflettendo è il beneficio della pace,conseguenza della monarchia universale:

cioè un solo principato, e uno prencipe [...]; lo quale, tutto posse-dendo e più desiderare non possendo, li regi tegna contenti nellitermini delli regni, sì che pace intra loro sia, nella quale si posinole cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, [e] in questoamore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, l’uomoviva felicemente: che è quello per che esso è nato» (Cv. IV IV 4).

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A proposito della memoria dottrinaria sui plura che tendono ad unum,una volta assodata l’origine tomistica, è opportuno domandarsi perchéDante la inserisca nel Convivio come proveniente dalla Politica di Ari-stotele. Sono possibili, probabilmente, due risposte, di ambizione diffe-rente; la prima, la più semplice, è che Dante ricordasse con precisionenon soltanto la parafrasi di Tommaso ma anche la sua fonte, e si ponesselo scrupolo filologico di riportarla nella propria traduzione (va ricordatoche la citazione costituisce l’incipit del proemio al commentario alla Me-tafisica, dunque un passaggio incipitario e privilegiato, anche in terminidi rammemorazione; si veda in proposito Courtine 1999: 27). L’assenzadi tale referenza diretta alla Politica in tutte le altre occasioni, però, rendequesta prima risposta insoddisfacente; perché allora Dante non ha perce-pito un analogo scrupolo di riportare alla Politica (o anche all’Etica Ni-comachea), per esempio, la nota definizione dell’uomo «compagnevoleanimale» di pochi paragrafi prima? La seconda risposta alla questione èpiù ambiziosa, giacché cerca di indagare la strategia argomentativa concui Dante introduce l’istituzione dell’impero, presentandolo come già in-dividuato e giustificato dalla massima autorità scientifica, e per di più nellibro che specificamente Aristotele aveva dedicato al governo delle città.I paragrafi 5, 6, 7 propongono infatti al lettore una sequenza di sintesidottrinali, argomentazioni, inferenze dal particolare all’universale e con-clusione sull’unicità del «nocchiero» a guida della «umana spezie».

Convivio IV IV 5-7 Tipologia e finalità del testo[5] E a queste ragioni si possono reducere parole del Filosofo ch’elli nellaPolitica dice, che quando più cose ad uno fine sono ordinate, una di quelleconviene essere regolante o vero reggente, e tutte l’altre rette e regolate.

Sintesi dottrinaria

Sì come vedemo in una nave, che diversi officî e diversi fini di quella a unosolo fine sono ordinati, cioè a prendere loro desiderato porto per salutevolevia: dove, sì come ciascuno officiale ordina la propia operazione nel pro-pio fine, così è uno che tutti questi fini considera, e ordina quelli nell’ul-timo di tutti; e questo è lo nocchiero, alla cui voce tutti obedire deono.

Argomentazione (1) Esempio particolare

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[6] Questo vedemo nelle religioni, nelli esserciti, in tutte quelle cose chesono, come detto è, a fine ordinate.

Argomentazione (2) Inferenza

Per che manifestamente vedere si può che a perfezione della universale re-ligione della umana spezie conviene essere uno, quasi nocchiero, che con-siderando le diverse condizioni del mondo, alli diversi e necessari officîordinare abbia del tutto universale e inrepugnabile officio di comandare.

Conclusione15

[7] E questo officio per eccellenza imperio è chiamato, sanza nulla addi-zione, però che esso è di tutti li altri comandamenti comandamento.

Definizione politica dell’istituzione

E così chi a questo officio è posto è chiamato Imperadore, però che ditutti li comandamenti elli è comandatore, e quello che elli dice a tutti èlegge, e per tutti dee essere obedito, e ogni altro comandamento da quellodi costui prendere vigore e autoritade.

Nomen agentis dell’istituzione

E così si manifesta la imperiale maiestade e autoritade essere altissimanell’umana compagnia.

Corollario alla definizione aristotelica di uomo di IV IV 1-2

Il primo esempio, quello particolare della nave, è inserito da Berti(1973: 586) tra i passi danteschi a suo dire «più complessi che per la ter-minologia o per la concatenazione dei concetti riprendono molto da vicinol’opera aristotelica». Nella fattispecie, Berti indica l’esempio della navedi Cv. IV IV 5 quale ‘ripresa’ di Pol. III 4, 1276b 21-27; nella traduzionedi Guglielmo il testo aristotelico è così reso:

Nautarum autem quamvis dissimilium existentium potentia (hicquidem enim est remigator, hic autem gubernator, hic autem pro-

15 I «diversi e necessari officî» richiamano l’analoga espressione di Pd. VIII 119.Non a caso, il verso successivo di quello stesso canto («Non, se ’l maestro vo-stro ben vi scrive») appare come un riferimento alla citazione esplicitata nel Con-vivio e alla auctoritas filosofica di Aristotele (cf. Toscano 2015: 246-250, ancheper la bibliografia pregressa).

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rarius, hic autem aliam quandam habens talem denominationem)palam quod diligentissima uniusquisque ratio propria virtutis erit,similiter autem et communis quaedam congruet omnibus. salusenim navigationis opus est ipsorum omnium: hoc enim desideratunusquisque nautarum. similiter igitur civium, quamvis dissimi-lium existentium opus est salus communitatis, communitas autempolitia: propter quod quidem necessarium est esse civis virtutem adpolitiam (Aristoteles 1872: 162).

Parlare di ‘ripresa’ sembra però riduttivo: a parte il fine della salvezza(salus navigationis in Aristotele, amplificato nel «desiderato porto per sa-lutevole via» di Dante), l’utilizzo degli altri elementi è differente; mancain Aristotele la centralità del nocchiero, visto che il suo gubernator è unnauta come gli altri, mentre nel Convivio solo al nocchiero «tutti obediredeono»; ma soprattutto è diversa la funzione della similitudine: in Ari-stotele la nave e i suoi marinai rispecchiano la sicurezza della città a operadel buon cittadino, mentre in Dante la nave giunge felicemente in portosoltanto se tutti, assolvendo alle loro specifiche funzioni, obbediscono aquella superiore del nocchiero. Più che di ripresa, evidentemente, si trattadi una marcata rielaborazione, giacché Dante sta modificando l’assuntocentrale dei paragrafi 4-5-6 del libro III della Politica. A questa altezza deltesto il filosofo greco insiste infatti sulla duplice virtù del buon cittadino,di saper comandare e obbedire, secondo il meccanismo di alternanza nellecariche della città. Dante, invece, è intento alla costruzione di una strut-tura piramidale, alla cui base sono tutti gli agenti individuati da Aristotele(‘uomo compagnevole’, ‘compagnia domestica di famiglia’, ‘casa’, ‘vi-cinanza’, ‘cittade’)16 ma alla cui sommità è l’imperatore. Aristotele ri-torna ancora una volta sulla comparazione tra cittadini e marinai (cuiaggiunge i maestri di esercizio fisico, in Pol. III 6, 1279a 3-5), che Tom-maso parafrasa in questo modo:

Per se quidem et principaliter, utilitas subditorum, sicut videmusin aliis artibus, sicut ars medicinae intendit principaliter utilitatem

16 È precisamente la successione di Cv. IV IV 2, che richiama senza dubbio il pa-ragrafo iniziale della Politica di Aristotele.

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eorum qui medicantur, et ars exercitativa intendit principaliter uti-litatem eorum qui exercitantur: sed per accidens contingit, quodetiam utilitas redundat in ipsos qui habent artem. Ille enim quiexercitat pueros etiam ipse simul exercitatur; aliquando etiam estde numero eorum qui exercitantur, sicut gubernator unus est nau-tarum. Sic igitur exercitator puerorum et gubernator navis consi-derat per se subiectorum utilitatem: sed quia ipse est unus denumero eorum, ideo uterque per accidens participat utilitate com-muni quam procurat (Sententia libri Politicorum, III 5, 5, secondoil testo di Tommaso d’Aquino 1951: ad locum).

Il gubernator qui esemplificato dall’interprete aristotelico ha una fun-zione del tutto diversa da quella del nocchiero dantesco; in Aristotele eTommaso egli è un modello di competenza tecnica, analoga a quella deimagistrati che devono governare la città (Pol. III 11, 1282a 10), mentrein Dante il nocchiero è una guida universale. In tutto il Convivio il terminedel lessico marinaro ricorre soltanto all’interno di questo capitolo, men-tre nella Monarchia l’attestazione è duplice: in I V 8 compare il verbo(«oportet esse regem unum qui regat atque gubernet»), ma soltanto a Cri-sto compete la qualifica di gubernator di tutte le cose spirituali e materiali,come induce a credere l’offerta evangelica dei magi (Mn. III VII 1: «As-summunt etiam de lictera Mathei Magorum oblationem, dicentes Cristumrecepisse simul thus et aurum ad significandum se ipsum dominum et gu-bernatorem spiritualium et temporalium; ex quo inferunt Cristi vicariumdominum et gubernatorem eorundem, et per consequens habere utrorun-que auctoritatem», in Alighieri 2014: 1296; nella pagina successiva è ilcommento di Quaglioni al passo). Omnium spiritualium et temporaliumgubernator è ancora la suprema definizione di Cristo, con cui la Monar-chia si chiude in III XVI 18 (Alighieri 2014: 1414-1415); per conversonella Commedia, e sempre all’interno di un’altra digressione politica,quella di Purgatorio VI, il poeta definisce l’Italia come «nave sanza noc-chiere in gran tempesta» (V. 77), ossia bordello (v. 78), negazione della«umana civilitade che a uno fine è ordinata».

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La metafora della nave non costituisce affatto una componente gene-rica dell’argomentazione, come potrebbe sembrare a una prima lettura.Al contrario, è il diverso trattamento della sua immagine e di quella deimarinai nella parafrasi di Tommaso e nel trattato di Egidio a rendere piùricco il quadro delle possibili fonti dantesche.

Ad propriam enim virtutem uniuscuiusque pertinet, quod habeatdiligentem rationem et curam de proprio officio, sicut gubernatorde gubernatione, et sic de aliis. Communis autem virtus est quae-dam, quae convenit omnibus: omnium enim eorum opus ad hoctendit, ut navigatio sit salva: ad hoc enim tendit desiderium et in-tentio cuiuslibet nautarum: et ad hoc ordinatur virtus communisnautarum, quae est virtus nautae inquantum est nauta. Ita etiamcum sint diversi cives habentes dissimilia officia, et status dissi-miles in civitate, opus commune omnium est salus communitatis:quae quidem communitas consistit in ordine politiae.

Thomae Aquinatis, Sententia libri Politicorum, III 3, 2

Videmus autem quod si multi homines trahant navem, nisi iuvan-tur in tractu, ut cum unus trahit, alius trahat, nunquam navem tra-herent. Immo si omnes vires, quae sunt in pluribus trahentibus,congregarentur in uno, quia ille magis unite traheret, virtuosioresset in trahendo. quare si tota civilis potentia, quae est in pluribusprincipantibus, congregaretur in uno principe, efficacior esset, etille principans propter abundantiorem potentiam melius posset po-litiam gubernare.

Aegidii Romani, De regimine principum (1607: 457), III II 3

[...] qua(n)to la virtù è più ensieme tanto è ella più forte, sì comenoi vedemo che dodici uomini traghono mellio una nave che cia-schuno p(er) sè, donde se la città o ’·reame è ssocto un uomo, ellapuò mellio ess(er) chov(er)nata (e) mellio difesa che ss’ella fossesocto a dodici uomini (e) ciaschuno n’avesse alchuna p(ar)te,p(er)ciò che quello uomo solo avrebbe la força ch’avrebbero tuttigli altri che la segnoregiassero. Et p(er)ciò che la força d’uno èmeglio che q(ue)lla di dodici, qua(n)d’elli n’à tanta o più che i do-

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dici, la città e ’·reame (è) mellio che ssia recta da uno che da molti,p(er)ciò che qua(n)to la potença (è) più p(ar)tita tant’è meno forte.

Livro del governamento (2016: 528), III II 3 [= Del reggimento de’ principi (1858: 238)]

È già stato osservato quanta importanza rivesta l’obbiettivo della pacenella costruzione imperiale di Dante. Essa è condizione irrinunciabile aquel raggiungimento della felicità che è poi il fine dell’umana esistenza se-condo Aristotele. Non si tratta però di un tema aristotelico – ché anzi lapace è del tutto assente dal III libro del trattato – e neppure della ripresa delcelebre motivo virgiliano a giustificazione dell’impero (Aen. VI 853), bensìdello sviluppo di una riflessione della Summa theologiae di Tommaso:

Perfectio autem gaudii est pax, quantum ad duo. Primo quidem,quantum ad quietem ab exterioribus conturbantibus [...]. Secundo,quantum ad sedationem desiderii fluctuantis, non enim perfecte gau-det de aliquo, cui non sufficit id de quo gaudet. Haec autem duo im-portat pax, scilicet ut neque ab exterioribus perturbemur; et utdesideria nostra conquiescant in uno. Unde post caritatem et gau-dium, tertio ponitur pax (I-II, q. 70, art. 3, co.).17

Ed è ancora Egidio a impostare tutta la seconda parte del III libro delDe regimine principum sulla pace, intesa come condizione necessaria algoverno ancor prima che scopo del governante. L’osservazione non ri-sulterà oziosa, se si ricorda che appunto nei capitoli 2-13 di tale sezioneEgidio presenta al suo lettore un compendio degli insegnamenti aristote-

17 «Analoga la condizione che il termine pax denota per quanti commentano laPolitica ricorrendo al genere di commento per quaestiones, ove alla pace è ri-servata una riflessione autonoma, contrariamente a quanto accade nelle exposi-tiones litterales» (Lanza 2013: 197; cf. anche Lambertini 2001). Analoghedefinizioni di pax si leggono in Pierre d’Auvergne, Nicola di Waudemont e nel-l’anonimo commentario alla Politica del ms. di Milano, Ambr. A 100 inf. (il cuitesto dipende senza dubbio da Pierre d’Auvergne; cf. Lanza 2013: 197-198): Egi-dio e Dante stesso non trascurano l’esigenza comune di definire la pace, inse-rendola tra gli obbiettivi principali del governo politico.

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lici tratti dalla Politica, di cui perlustra almeno i primi cinque libri, di-mostrando una lettura scrupolosa della versione di Guglielmo.

1)[...] restat nunc exequi de alijs duabus partibus, videlicet de regi-mine regni et civitatis tempore pacis, et de huiusmodi regiminetempore belli. Sciendum igitur, quod tempore belli defendenda estcivitas per arma, sicut tempore pacis gubernanda est per leges iu-stas, et per consuetudines approbatas, que vim legum obtinent. [...]Viso igitur, tempore pacis gubernandam esse civitatem et regnumper leges iustas, et consuetudines approbatas: de levi patere po-test, quae et quot consideranda sunt in tali regimine. Videtur autemPhilosophus III Politicorum tangere, quatuor quae considerandasunt in regimine civitatis. Haec autem sunt princeps, consilium,praetorium et populus. Possumus autem ex ipsis legibus quibus re-genda est civitas tempore pacis duplici via investigare quod depraedictis quotuor considerandum est in regimine quo regenda estcivitas tempore pacis.

De regimine principum III II 1 (1607: 451-452)

Quellino che debbono chovernare la città en te(n)po di pace deb-bono guardare a quattro cose, ciò è al signore, etd ai co(n)sillieri,etd ai giudicatori, etd al p(o)p(o)lo.

Livro del governamento (2016: 526)[= Del reggimento de’ principi 1858: 236]

2)[...] restat ostendere inter principatus rectos quis sit melior. Assi-gnantur autem communiter quatuor viae quod regnum est optimusprincipatus et quod melius est civitatem aliquam sive provinciamtegi uno quam pluribus, sive illi plures sunt pauci sive multi. Primavia sumitur ex unitate et pace, quae debet intendi in regno et civi-tate tanquam finis. [...] nam pax et unitas civium debent esse fina-liter intenta a legislatore, sicut sanitas et aequalitas humorum estfinaliter intenta a medico: hanc autem unitatem et concordiammagis efficere potest quod est per se unum. magis autem per se

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unitas repetitur in uno principatu, si dominetur unus princeps,quam si dominentur plures. Immo cum plures principantur, num-quam potest esse pax in huiusmodi principatu, nisi illi plures sintuniti et concordes, et propter quod autem unumquodque et illudmagis. Si ergo est pax et concordia inter cives, si plures principessint quam unum, ergo si solus unus principaretur inter eos, non sicde facili turbari posset pax ipsorum civium.

De regimine principum III II 3 (1607: 456)

Ap(re)sso p(ro)varemo p(er) IIIJ ragio(n)i che la migliore signoriache ssia si è quella d’un omo solo qua(n)d’elli entende p(ri)nci-palm(en)te el bene co(mun)e, et ch’elli è magiore utilità a la città(e)d ai reami (e)d a le p(ro)vi(n)cie ched ellino sieno recti p(er) uncotal sig(no)re che p(er) più. Et la p(ri)ma ragio(n)e sì è che ’lp(ri)ncipale bene de la città si è che pace (e) co(n)cordia vi sia (e)che i cittadini sieno tutto uno; donde, p(er)ciò che questo può mel-lio fare uno che molti, se molti no(n) sono tutto una cosa (e) que-sto no(n) può bene ess(er), ché ll’uno enpedisce l’altro, la signoriad’uno solo (è) milliore che q(ue)lla di più.

Livro del governamento III II 3 (2016: 528) [= 1858: 238]

3)Non enim intelligendum est, simpliciter fuisse de intentione Phi-losophi dominium plurium esse comendabilius dominio unius, dumtamen utrunque sit rectum, cum ipse pluries dicat in eisdem Poli-ticis regum esse dignissimum principatum: inter principatus enimrectos, principatus unius, qui communi nomine tyrannis nuncupa-tur, est pessimus. Sed de hoc infra dicetur: ostendetur enim quodsicut monarchia regia est optima; ita quia maiori bono maiusmalum opponitur, monarchia tyrannica est pessima. Dominariautem plures dominio recto non est dignius quam dominari unum,cum nunquam plures recte dominari possint, nisi inquantum tenentlocum unius, et prout habent ad se invicem concordiam et unitatem;sed (ut supra dicebatur) propter quod unumquodque et illud magis.Quare si dominari plures in tantum est rectum et dignum, inquan-tum tenet locum unius, dominari unum et facere monarchiam, si

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debito modo fiat, erit omnino rectior et dignior. censendum est igi-tur, regnum esse dignissimum principatum, et secundum rectumdominium melius est dominari unum, quam plures.

De regimine principum III II 4 (1607: 459-460)

[...] co(n) tutto che ’l Filosafo tocchi queste ragio(n)i che ssonodette, tuttavia la sua ententio(n)e è p(ri)ncipalm(en)te che la mil-liore singnoria che ssia sì è quella d’uno uomo solo qua(n)d’elli en-tende el bene co(mun)e, et che uno fa più gra(n) pace (e) più gra(n)concordia ne la città che molti, p(er)ciò che i molti no(n) possonobene signoregiare né (n)no(n) singnoregiano se (n)no en qua(n)toellino sono uno (e)d à(n)no pace (e) co(n)cordia en fra lloro. Etp(er)ciò la signoria d’uno è milliore.

Livro del governamento III II 4 (2016: 530-531) [= 1858: 241]

Oltre al motivo conduttore della pace, in Egidio è evidente lo sforzo dipiegare il pensiero aristotelico al giudizio preferenziale sulla città gover-nata da un solo uomo, il principe, anziché da una pluralità o da un grupporistretto. In Dante, al contrario, questo atteggiamento non si riscontra,perché all’autore del Convivio non interessa presentare un pensiero ‘adat-tato’ sulla base di Aristotele, bensì un pensiero coerente, originale, lim-pido nella sintesi e nelle scelte argomentative. È certo, comunque, chedietro alla pagina del suo trattato si celi un intreccio di testi politici chederivano in primo luogo dal manuale di Aristotele, e in particolare dagliargomenti del III libro, già selezionati e commentati da Egidio Romano.Tra i capitoli III-IV-V di Convivio IV Dante affronta quattro argomenti

principali: nell’ordine in cui compaiono si tratta della nobiltà, dell’im-pero, della natura sociale dell’uomo e della pace. L’illustrazione integratae le relazioni tra i quattro argomenti seguono una metodologia aristotelica,come si è visto, ma soltanto il primo e il terzo sono di derivazione effet-tivamente aristotelica e possono essere individuati con precisione filolo-gica; il secondo e il quarto, invece, costituiscono una elaborazione diDante, consequenziale all’originalità del proprio pensiero politico. Sulpiano compositivo, il carattere più interessante è che anche gli argomenti

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non strettamente aristotelici siano presentati con il ricorso alla tradizionearistotelica più vicina alla Politica e all’Etica Nicomachea, grazie allemediazioni di Tommaso e di Egidio. L’esegesi d’autore della canzone Ledolci rime d’amor ch’i’ solia dimostra dunque quanto fosse importante perDante la forza persuasiva della Politica di Aristotele – non a caso citatacome auctoritas all’interno della pagina in cui esamina il significato del-l’impero – più che il dettato letterale del testo o la sua tradizione nei com-mentari.18 Del resto, voler ricondurre ogni contenuto e ogni formaargomentativa a una precisa fonte, intesa come punto di origine testuale,equivarrebbe al tentativo di sottrarre originalità al pensiero politico diDante, trattandolo alla stregua di una compilazione di fonti antiche e mo-derne, che ovviamente non è.

4. ACCESSIBILITÀ E RIUSO DEL TESTO ANTICO

Il problema del rapporto tra Dante e la Politica di Aristotele, per comeè stato posto finora, sembra condurre contro un muro massiccio; è la pa-rete del tempo, dei manoscritti perduti, dei volgarizzamenti, dei com-mentari e delle antologie oggi inaccessibili, perché se ne è persa quasiogni traccia. Inoltre, se Dante avesse letto e studiato la Politica diretta-mente su di un esemplare della traduzione di Guglielmo, ovvero su unacopia di tale versione arricchita dalle expositiones di Tommaso, ovveronel solo commentario di Tommaso, oppure ancora, come sostengono ipiù scettici, soltanto sui commenti tomistici all’Etica Nicomachea e allaMetafisica, è problema decisamente mal posto. Oggi pare assai più si-gnificativo cercare di comprendere in quali momenti di Convivio, Mo-narchia e Commedia Dante ritenesse opportuno riferirsi alla Politica, esoprattutto a quali contenuti della Politica; anziché nei termini secchidella Quellenforschung, basata sulla ricerca di corrispondenze testualiineccepibili, la ricerca deve essere impostata in termini qualitativi. Se è

18 Sulla ‘trasformazione’ – più che semplice ‘riuso’ – dell’accezione aristotelicadi ‘città’ in Dante si vedano: Peterman 1973 (in particolare 23) e Babbitt 1985:48 n. 82.

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impossibile ricostruire nel dettaglio la biblioteca di Dante, e dunque lefonti cui ebbe accesso nelle varie fasi della sua esistenza, è però possibileriscostruire – almeno nel caso della Politica – il quadro completo delle ci-tazioni e allusioni, per dedurre quali insegnamenti dell’opera aristotelicaDante considerasse degni di menzione, utili all’osservazione e all’argo-mentazione, anche a prescindere se si trattasse di prestiti diretti o mediatidai commentari di tradizione tomistica o dalla tradizione scolastica delleantologie e delle tabulae.19

Non sarà fortuito se l’ultima allusione alla dottrina aristotelica dellaPolitica nasca, nel finale del canto VIII del Paradiso, dalla celebre defi-nizione dell’homo natura civile animal, ossia dall’affermazione aristote-lica della tendenza naturale dell’uomo a vivere in consorzio e a ricercarel’organizzazione sociale. Nel Convivio il civile animal diventa «compa-gnevole», hapax dantesco derivato dalla felice resa dell’anonimo volga-rizzatore senese che sta traducendo Egidio Romano, a sua volta interpretedella Politica; nel Paradiso, invece, l’appropriazione è ancora più sinte-tica, e al tempo stesso racchiude l’ulteriore allusione all’uomo libero ro-mano, al civis appunto. «Or dí – incalza Carlo Martello – sarebbe il peggio/ per l’omo in terra, se non fosse cive?» (vv. 115-116). La parola appar-tiene ormai a quel vocabolario dantesco dall’alta densità di accezioni e disignificati (tanto che Natalino Sapegno, in Alighieri 1957: 885, spiegavail latinismo come «naturalmente disposto a vivere in una società civil-mente organizzata»). Ma il Dante poeta ambisce a chiudere la discussionecon il riconoscimento dell’auctoritas aristotelica, sospingendo alle ori-gini il congiungimento tra ordine civile e differenziazione delle indoli edei doveri: «E può elli esser – chiede ancora Carlo Martello, risponden-dosi da sé –, se giù non si vive / diversamente per diversi uffici? / Non,se ’l maestro vostro ben vi scrive» (vv. 118-120).20 In questa terzina Dante

19 Senza dimenticare di riflettere sugli insegnamenti politici aristotelici che Dantenon ha voluto registrare: ammoniva in tale direzione già Solmi (1922: 140).20 Per un commento di ampio respiro a questa celebre pagina e sul carattere del-l’uomo «dotato di linguaggio e di vita politica» si veda Tabarroni 2015: 880-883.

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stringe in termini dialettici la base del suo pensiero politico, punto di par-tenza della digressione del Convivio e dell’interaMonarchia; della Poli-tica c’è tutto quello che gli è necessario per proseguire e completarel’edificio morale. Già il redattore delle Chiose Filippine era in grado,commentando il v. 120, di esplicitare il riferimento alle opere del filo-sofo, con la terna di titoli confermata da tanta tradizione manoscritta siagreca sia latina: «Aristotiles qui composuit Etthicam, Iconomicam et Po-liticam, scilicet libros morales qui docent civilitatem» (Chiose Filippine2002: II 1183).

APPENDICE 1. MANOSCRITTI DELLA TRADIZIONE FILOSOFICO-POLI-TICA DI ORIGINE ARISTOTELICA

È impossibile stabilire a quali testimoni Dante abbia potuto avere accesso alfine di documentare le sue conoscenze di filosofia politica aristotelica; è tuttaviapossibile ricostruire un insieme di tipologie di manoscritto – grazie ad esemplaririsalenti ai secoli XIII, XIV e prima metà del XV – che hanno trasmesso preci-samente tali contenuti e i cui modelli potrebbero tutti risalire alla fine del Due-cento, ossia agli anni dell’immediata diffusione della Politica e della formazioneintellettuale di Dante. Il solo fatto che sia possibile raggruppare tanti manoscritti,così differenti per età, caratteristiche codicologiche e composizione, attesta l’im-portanza di una tradizione che, in qualche misura, Dante dovette certamente co-noscere. Relativamente alla consistenza dei fondi librari fiorentini in materia dilogica aristotelica e in rapporto al Convivio si veda ora l’importante indagine diDell’Oso 2018.

Tipologia n. 1 (traduzione completa della Politica nella versione di Guglielmo di Moerbeke).

– Vat. lat. 2995; Par. Arsenal. 699; Patavinus Bibl. Capit. C. 54 (AristotelesLatinus 1939-1961 [d’ora in poi AL]: I 75 n. 3). Sulla tradizione manoscritta dellaversione di Guglielmo si vedano Aristoteles 1872: XXXIV-XLIII; Aristotle1902: III VII-XXV; Schneider 1973; Curnis 2011: 34-37.

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Tipologia n. 2 (opere di Aristotele accompagnate dal commento tomistico).

– Campiliensis Bibl. Monasterii 155, sec. XIV (AL: I 257): la versione latinadi Ethica Nicomachea, Politica, Oeconomica è accompagnata dai rispettivi com-menti di Tommaso.– Vat. Borghesianus 47, sec. XIV, membr. (AL: II 1166): reca il testo della Po-

litica con il commento di Tommaso solo in corrispondenza dei primi due libridell’opera. – Par. lat. 16107, sec. XV (AL: I 561): all’antologia dell’Etica Nicomachea

segue il commento di Tommaso alla Politica (ff. 38v-208v).– Poppi, Biblioteca Comunale, 1, membr., secc. XIII-XIV: il manoscritto pre-

senta di seguito il testo di Ethica Nicomachea (con excerpta del commento diTommaso), Politica, Oeconomica: cf. la scheda di T. De Robertis, in Catalogodi manoscritti filosofici (1980: 79-80).

Tipologia n. 3 (raccolte di commentari).

– Par. lat. 16110, sec. XIV (AL: I 561-563, che però contiene una descrizioneimprecisa dell’ultima parte; cf. Schooner 1985: 310; Duns Scotus 1997: XIV-XV).Il manufatto è molto interessante poiché racchiude un’antologia ricchissima emolto varia di materiali aristotelici, certamente d’ambito universitario, oltre alcommentario alla Metafisica di Duns Scoto: estratti dalle versioni latine, capitolidi commentari (soprattutto di Averroè) e parafrasi; sembrerebbe un tipico pro-dotto di studio, vergato da più mani e destinato alla formazione degli studenti;non a caso proviene dalla Sorbona («olim de Sorbona, 612», AL: I 563) e ai ff.123rv offre anche una tipica regratiatio da parte di uno studente (cf. Glorieux1968: 157). Nell’ultima parte del codice, dedicata alla filosofia morale, si susse-guono il commentario di Tommaso all’Etica Nicomachea (ff. 151r-234v), l’ini-zio della Politica nella versione di Guglielmo (f. 235rv: un folium isolato; eraforse parte di una versione completa o di un’antologia del trattato? La mancanzadei capilettera più importanti e di qualsivoglia notabile fa pensare a un’affrettataricomposizione di materiale di provenienza disparata sul piano codicologico, maabbastanza omogenea su quello dei contenuti); la successiva unità codicologicaoffre in successione un testo anonimo di quaestiones in Ethicam (ff. 236r-276r),l’attacco delle Quaestiones in libros Ethicorum di Pierre d’Auvergne (ff. 276v-

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LA BIBLIOTECA DE TENZONE GRUPO TENZONE

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277v) e, per concludere, altre anonime e incomplete Quaestiones in libros Ethi-corum Aristotelis (questi ultimi tre testi sono corredati di notabilia e annotazionimarginali).– Par. lat. 16620, fine del sec. XIII (AL: I 579): presenta il commento di Tom-

maso alla Politica (in forma parziale) e quello di Roberto di Kilwardby agli Ana-litica priora. Anche questo è un esempio estremamente interessante di libro adusum degli studenti della Sorbona; il commento di Tommaso è riportato fino altermine del III libro (ff. 64r-118r). A f. 62v si legge: «Iste liber est pauperummagistrorum de Sorbona Parisiis studentium in theologica facultate ex legatomagistri Stephani de Gehennis, in quo continetur Liber Ethicorum inter libroslogicales» (in realtà del testo dell’Etica Nicomachea non resta nulla, forse per-ché il manufatto originario è stato smembrato e poi riassemblato con altre unitàcodicologiche; cf. Gauthier 1975: 76).– Vat. Rossianus 569, sec. XIV (AL: II 1202-2013): presenta il commento di

Tommaso all’Etica Nicomachea e quello di Tommaso e di Pierre d’Auvergnealla Politica, cui segue il De Bona Fortuna di Egidio Romano. Questo mano-scritto si configura pertanto come uno strumento esegetico completo per quantoriguarda la prospettiva tomistica della filosofia pratica di Aristotele. Il codice èstato trascritto in parte da un copista francese, in parte da uno italiano, e provieneancora da quell’ambiente universitario di libri destinati agli studenti (recanteanche il prezzo di vendita: una scheda dettagliata si legge in Aegidius Romanus1987: 117-120).– Vat. lat. 2016, sec. XIV, membr. (AL: II 1224): questo manoscritto di area

avignonese (celebre per le sue straordinarie miniature) e risalente all’inizio delXIII secolo merita una menzione speciale per la disposizione dei contenuti. Essopresenta infatti il testo latino della Politica (ff. 1v-344v) nello spazio centraledel folium e in corpo appena maggiore, ma tutto attorniato dal commento di Tom-maso (1r-81r), che lo precede in apertura (f. 1r) e che si impone alla vista del let-tore, acquisendo una dignità pari a quella del testo commentato. Segue loScriptum super libros III-VIII Politicorum di Pierre d’Auvergne (ff. 81r-344v),ossia la continuazione del commentario di Tommaso alla Politica, a partire dalcapitolo III 7 (cfr. in generale Flüeler 2015). Prodotto di lusso vergato per il pon-tefice avignonese (dedica e preghiera del copista si leggono nell’anonima sub-scriptio di f. 344v), questo codice pergamenaceo e di ampie proporzioni nonpresenta alcun segno di lettura, studio o annotazione; a differenza dei precedenti,più poveri manoscritti, esso si caratterizza come tipico esemplare ufficiale, da

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biblioteca di prestigio, documentando la diffusione della Politica e dei suoi stru-menti interpretativi anche nell’ambito più esclusivo della produzione libraria (ilcodice miniato) e prima dell’età umanistica; cfr. Leonardi-Lebreton 1987: 184-187.

Tipologia n. 4 (antologie).

– Cheltenam (Gloucestershire), Library of Sir Thomas Phillipps, ThirlestaineHouse, 891 [2702], sec. XIV (AL: I 362-363): il manoscritto si apre con la Sen-tentia Prologi Libri Politicorum Aristotelis secundum fratrem Guidonem (ff. I-IIr), cui segue il testo completo della Politica (ff. 1r-52r); la sezione conclusivaoffre estratti da Retorica, Metafisica e Economici.– Admont (Austria), Steiermark; Stiftsbibliothek, Bibl. Monasterii 608, inizio

del sec. XIV (AL: I 254 s.): compendio del testo della Politica (ff. 6v-10v), se-guito dalla Summa Alexandrinorum (ossia la traduzione latina di una scelta del-l’Etica aristotelica), dal già incontrato De bona fortuna di Egidio, altri testi dellatradizione aristotelica e un compendio del De officiis di Cicerone. – Bodl. Canon. lat. class. 271, saec. XIV (AL: I 391-392). Un breve compen-

dio della Politica si legge ai ff. 192v-198v; come nel manoscritto precedente,anche in questo il lettore incontra la Summa Alexandrinorum, ma l’elemento piùinteressante è offerto da un gruppo di testi apocrifi o anonimi, di commento o ap-profondimento alla Politica. Ai ff. 198v-215v si legge il Liber Aristotelis De Re-gimine Regum; ai ff. 215v-216v è un commentario anonimo sulla Ars bellica; aiff. 216v-218v un altro testo anonimo De bonis et malis tyrannis, che esplicita-mente fa riferimento e commenta il V libro dell’opera. Il manoscritto è attribuitoa mano italica.– Gray’s Inn Library (London), Bibl. Hospitii Grayensis 2, secc. XIII-XV

(AL: I 371-372): nel centro di questo codice fattizio si leggono una estesa Ta-bula Ethicorum Politicorum et Rhetoricorum (ff. 177r-214r), seguita da unaserie di excerpta dal testo della Politica (ff. 214r-217v). Di mano inglese, anchequesto manufatto costituisce un esempio significativo e antico di assemblaggiodi compendi e antologie di provenienza disparata ma unificati dal tema politico-aristotelico.

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APPENDICE 2. SULLE AUCTORITATES ARISTOTELIS

Il raffronto delle citazioni e delle allusioni alla Politica con il testo delle Auc-toritates Aristotelis non sortisce risultati di speciale interesse, giacché il florile-gio latino tradisce predilezioni e selezioni differenti da quelle riscontrabili neltesto di Dante. Delle 145 eclogae testuali che l’edizione di Jacqueline Hamesseriporta relative alla Politica (Auctoritates Aristotelis 1974: 252-263), soltanto lenn. 1, 3, 4, 72 si possono confrontare con passaggi specifici del testo di Dante,seppure con il riscontro di differenze formali e lessicali. A titolo di esempio, laecloga n. 72, Ingenuitas et nobilitas sunt virtutes et divitiae antiquae, si caratte-rizza come una traduzione dittografica rispetto al celebre passaggio di Pol. IV 8,1294a 21-22 (reso da Guglielmo come Ingenuitas enim est virtus et divitiae an-tiquae, mentre i commentari di Pierre d’Auvergne e Alberto sostituiscono inge-nuitas con nobilitas; in Mn. II III 4 si legge Est enim nobilitas virtus et divitiaeantiquae, su cui cfr. il commento di Quaglioni, in Alighieri 2014: 1072-1075).Il redattore delle Auctoritatesmolto probabilmente conosceva entrambe le reda-zioni e provvide ad agglutinarle insieme (che non si tratti di una semplice va-riante confluita nel testo, è garantito dall’unanime presenza del verbo al plurale).Inoltre, se non si trovasse attestata la definizione che si concentra sulla sola no-bilitas prima di Dante, occorrerebbe supporre che quella delle Auctoritates siauna redazione posteriore, o almeno cronologicamente parallela, rispetto alla ste-sura della Monarchia, e comunque esterna rispetto al campo delle possibili let-ture di Dante. Lo sviluppo argomentativo di numerose questioni politiche,reperibile nella sua redazione originaria appunto all’interno del trattato aristote-lico, dimostra che le letture di Dante non si limitarono a una collezione di breviexcerpta o di flores della Politica; questi ultimi si addicono alle esigenze di sin-tesi degli ambienti scolastici o allo studio personale di un intellettuale, ma nonpossono costituire gli elementi di un’argomentazione complessa e articolata comequella che dalla digressione politica del Convivio permette di rimandare a una se-zione estesa della Politica. In particolare, la figura metaforica del timoniere e latrattazione che lo riguarda in Cv. IV IV costituiscono la prova di una riflessionesul testo aristotelico, fosse nella traduzione di Guglielmo, nel commentario diTommaso-Pierre o nella rielaborazione di Egidio Romano (i tre supporti testualiche Dante avrebbe potuto conoscere; probabilmente affiancati nello stesso ma-noscritto i primi due, separatamente il terzo). L’esito del confronto induce a cre-dere che il materiale testuale relativo alla Politica di Aristotele utilizzato da Dantee le selezioni scolastiche o antologiche confluite nelle Auctoritates Aristotelisabbiano percorso strade differenziate, coincidenti soltanto in misura minima.

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Del pensamiento de Dante en la obra de Christine de Pizan

ANA VARGAS MARTÍNEZ

Instituto de Historiografía Julio Caro BarojaUniversidad Carlos III de Madrid

[email protected]

RESUMEN:En este artículo se efectúa un repaso de la presencia del pensamiento de Dante

en la obra de la escritora en lengua francesa Christine de Pizan. Serán las obrasde esta autora, sobre todo Le Chemin de Longue Étude, las que marquen una pri-mera etapa de conocimiento del poeta florentino en los círculos intelectualesfranceses de finales de la Edad Media. Christine llama la atención sobre la obrade Dante, en particular la Divina Commedia, a la que presenta como modelo deautoridad literaria y moral frente al famoso y aplaudido Roman de la Rose deJean de Meun.PALABRAS CLAVE: Christine de Pizan, Dante, Jean de Meun, Roman de la Rose,

Le Chemin de Longue Étude, Divina Commedia, literatura medieval francesa.

ABSTRACT:In this article, we review the presence of Dante’s thought in the work of the

French-language writer Christine de Pizan. The works of this author, especiallyLe Chemin de Longue Étude, mark a first stage of knowledge of the Florentine

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poet in the French intellectual circles of the late Middle Ages. Christine draws at-tention to the work of Dante, particularly the Divine Comedy, which she presentsas a model of literary and moral authority against the famous and applaudedRoman de la Rose by Jean de Meun.KEY WORDS: Christine de Pizan, Dante, Jean de Meun, Roman de la Rose, Le

Chemin de Longue Étude, Divine Comedy, Medieval French Literature.

Mais se mieulx vuelz oïr descripre paradis et enfer, […] lisle livre que on appelle le Dant, ou tu pourras plus prouffi-ter que en ton Roman de la Rose, et cent fois mieux com-posé.

(Le débat sur le Roman de la Rose, Pizan 1977: 141)

A comienzos del siglo XV tiene lugar el debate en torno al Roman dela Rose de Jean de Meun, considerado el primer debate literario aconte-cido en Francia, que es conocido generalmente como la Querelle de laRose. El Roman de la Rose había sido escrito hacia 1225 por Guillaumede Lorris, obteniendo un grandísimo éxito en casi toda Europa. Se tratade un largo poema en la tradición del amor cortés del que Jean de Meunescribió, unos cincuenta años después (entre 1275-1280), una segundaparte completamente distinta. A diferencia del poema de Lorris, esta se-gunda parte es fuertemente misógina y misógama, y expresa una férreaanimadversión hacia las mujeres y el matrimonio. Es un verdadero com-pendio de la misoginia medieval. En este debate público que sobre losméritos de Jean de Meun se estaba dando, y que duró aproximadamentedos años (1401-1402), intervinieron figuras del primer humanismo fran-cés, hombres laicos y religiosos, intelectuales y políticos de prestigio. Fueiniciado por Jean de Montreuil, uno de los secretarios del rey y obispo deLille, y en él participaron otros intelectuales como Gontier Col, secreta-rio del rey, y su hermano Pierre Col, Canónigo de Notre Dame y de Tour-nai, todos ellos defensores de Jean de Meun, o como el filósofo Jean

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Gerson, canciller de la Universidad de París y uno de los personajes lite-rarios y políticos más importantes de la época, que criticó abiertamente elRoman de la Rose.1 No obstante, el debate no hubiera ocupado el lugarque tiene en la historia de la literatura y en la historia de las ideas de noser por la intervención de Christine de Pizan, la primera profesional de laescritura conocida en Francia, que fue la verdadera impulsora del debate.Su intervención supuso un giro transcendental en la polémica.En un primer momento lo que se discutía eran los méritos literarios de

Jean de Meun, pero pronto la controversia se centró en torno al valor y ladignidad de las mujeres.2 Christine, una mujer de lúcido talento intelec-tual y político, tomó la palabra públicamente3 para denunciar las injuriasy desvalorización contra el sexo femenino presentes en el Roman de laRose, y oponerse a los partidarios y defensores de Jean de Meun, con elapoyo del citado Jean Gerson,4 entre otros. Va a ser en torno a este debate,de la mano de Christine de Pizan, cuando por primera vez se introduzcaa Dante Alighieri en el contexto de las letras francesas. Su obra, en con-creto la Divina Commedia, y el propio autor, son utilizados por Pizancomo el referente de autoridad que opone frente a los partidarios de Jeande Meun. En este sentido, Christine aconseja irónicamente a Pierre Col,uno de los férreos defensores de los méritos de Jean de Meun, que pida aalguien que le traduzca y explique la obra de Dante –escrita en lenguaflorentina– pues le sería de más provecho que el Roman de la Rose. Christine de Pizan se manifestó contraria a unos argumentos que deni-

graban a su propio sexo y le negaban todo valor. Sus opiniones recibie-

1.Véase Pizan 2014: 297-324. 2 Entre la mucha bibliografía citable: Badel 1980; Willard 1984; Hicks 1995;Solterer 1995; Brown-Gant 2000; Allen 2002.3 Que una mujer tomara la palabra públicamente para defender a su sexo era unhecho transcendental e insólito en la cultura en la que vivía Christine de Pizan,una cultura patriarcal en la que los hombres eran los depositarios de la palabra yprohibían que las mujeres hicieran uso público de ella. 4 Sobre la relación intelectual entre Jean Gerson y Christine de Pizan, véase Ri-chards 2000.

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ron duras críticas, sus adversarios manifestaron además el menospreciopor la capacidad intelectual de su oponente, llegando incluso al insultopersonal y a poner en entredicho su reputación (Kelly 1984). Frente a laagresiva dimensión que estaba alcanzando el debate, la autora decidióreunir en un dossier, Epistres sur le Roman de la Rose, todas las cartas ydocumentos que se habían producido en un primer intercambio de la dis-cusión, preparó dos ejemplares del mismo y los envió, en 1402, a Isabeaude Bavière, reina de Francia, y a Guillaume Tignonville, obispo de París,junto con una carta en la que pedía su apoyo (Pizan 1977; Pizan 2014).Con este gesto la escritora implicó a los poderes de la ciudad (civil y re-ligioso), elevando el debate a una cuestión pública y poniendo de testigoa la propia corte. Se trata, pues, de una iniciativa decisiva, de un gesto degran repercusión, por el que Christine puede ser considerada verdadera-mente la impulsora de otorgar a la polémica una dimensión política y ex-traliteraria, que es considerada el precedente de la Querella de las Mujeres(la Querelle des Femmes).5 Sintiéndose plenamente autorizada como es-critora, Christine de Pizan se defendió a sí misma y al conjunto de lasmujeres. A propósito de las acusaciones de Jean de Montreuil, por su osa-día al criticar a Jean de Meun, al poner en cuestión la auctoritas, afirma:

Et ne me soit imputé a follie, arrogance ou presompcion d’oser,moy femme, repprendre et redarguer aucteur tant subtil et soneuvre admenuisier de louenge, quant lui, seul homme, osa entre-prendre a diffamer et blasmer sans excepcion tout un sexe (Pizan1977: 22).

5 La Querella de las Mujeres es el nombre con el que se conoce el encendido de-bate que comenzaría tiempo más tarde y que abarca varios siglos en Francia yotros países del occidente europeo, como España e Italia. En él se cuestiona ladignidad de las mujeres y su capacidad intelectual y política. Se trata de un de-bate en gran parte erudito, que se expresa fundamentalmente con la palabra ypor la palabra, en el que participan mujeres y hombres de los círculos cultos y po-líticos de la época. Se manifestó públicamente en tertulias y generó un ingentenúmero de escritos entre los siglos XV y XVIII (Vargas Martínez 2016: 19).

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Frente a este “autor tan sutil”, nuestra autora apela a la autoridad lite-raria y moral de Dante. Como así hace, en primer lugar, en una carta en-viada al ya citado Pierre Col (datada el 2 de octubre de 1402), en la quedice:

Mais se mieulx vuelz oïr descripre paradis et enfer, et de par plussubtilz termes plus haultement parlé de theologie, plus prouf-fitablement, plus poetiquement et de plus grantefficasse, lis le livreque on appelle le Dant, ou le te fais exposer pour ce que il est enlangue florentine souverainnement dicté: la oyras autre proposmieux fondé plus subtilment, ne te desplaise, et ou tu pourras plusprouffiter que en ton Roman de la Rose, et cent fois mieux com-posé; ne il n’y a comparasion, ne t’en courouces ja. (Pizan 1977:141-142)

Christine acude a Dante como fuente de autoridad que utiliza comoparte de su respuesta a sus oponentes dentro de la polémica. Es, pues, enel contexto de la Querelle de la Rose en el que por primera vez se va a dara conocer al poeta italiano en Francia, de la mano de su compatriota,Christine de Pizan, «quella valentissima donna», como la llama ArturoFarinelli (1905: 120) es a «cui appartiene il vanto d’aver rivelato Dantealla Francia». Ella no solo cita a Dante, sino que es la primera persona quese inspira en los escritos del poeta (en particular en la Divina Comme-dia), y que presta una seria atención a su obra, lo que nadie hasta esosmomentos había hecho en el contexto de las letras francesas (Burgwinkle2013: 21). Ninguno de sus contemporáneos estaba leyendo a Dante ymenos aún se estaban dejando influir por él (Richards 1985: 101).6 La in-fluencia del poeta italiano en la obra de la escritora francesa y el interésde Christine por Dante ha merecido la atención de la crítica y mucho se haescrito a propósito de ello (Farinelli 1905 y 1922; Merkel 1921; Jeanroy1924; Petroni 1967; Batard 1975; Richards 1985; Hout 1985; De Rentiis

6 Poco antes de que Christine citara a Dante, al parecer lo hizo Philippe de Mé-zières, contemporáneo y viejo amigo de la familia de Christine (Richards 1985:101; Fenster 2016: 104).

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1994; Brownlee 1995).7 Mi intención en este artículo es hacer un repasode la cuestión y ofrecer una panorámica general sobre ello.

1. CHRISTINE DE PIZÁN, «QUELLA VALENTISSIMA DONNA», INTRO-DUCTORA DE DANTE EN LAS LETRAS FRANCESAS

Christine de Pizan, reconocida escritora del siglo XV en lengua fran-cesa e introductora de Dante en Francia, es en realidad de origen italiano.Su vida es bien conocida, y contamos con un importante número de es-tudios sobre ella cuantitativa y cualitativamente significativos.8 Nace enVenecia en 1365, un siglo después que Dante, y el mismo año en que escoronado en París Carlos V de Valois, a cuya corte se traslada su familiacuando tenía cuatro años. Su padre, Tommaso de Pizzano (Pizzano era poraquel entonces un pequeño burgo cercano a Bolonia), estudió e impartiódocencia de medicina y astrología en la prestigiosa universidad de Bolo-nia. Antes de fijar su residencia en Francia, vivió en la República vene-ciana, donde ostentaba el cargo de consejero, y donde contrajomatrimonio con la hija del anatomista Tommaso Mondino da Luzi, unviejo camarada de estudios.9 En 1369, Tommaso de Pizzano se traslada aParís con toda su familia invitado por el rey Carlos V, momento en el queafrancesa su apellido cambiando Pizzano por el de Pizan, y fue contratadocomo médico y astrólogo, llegando a ser también consejero íntimo delrey.10 Durante el reinado de Carlos V (1365-1380), conocido como el

7 Aquí cito los estudios generales relacionados directamente con el tema en cues-tión, no aquellas publicaciones sobre Le Chemin de Longue Études que puedenaludir al tema de forma tangencial. 8 Entre las monografías existentes sobre su vida y su obra, cito solo una de las clá-sicas (Willard 1984) y una de las más recientes (Margolis 2011). 9 Al contrario de la figura paterna, cuya admiración se manifiesta en varios es-critos de la autora, llama la atención la escasez de noticias sobre la madre dePizan, de la que no conocemos ni el nombre. Siempre es citada como “la hija”de Tommaso Mondino de Luzi.10 De ello nos habla Christine en la presentación que ofrece a Carlos VI de Epís-tola de Othea: «Hija del que fue filósofo y doctor, y de Vuestro padre humilde

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“Rey Sabio”, la familia de Tommaso de Pizan goza del favor y la gene-rosidad real. Una situación que sin duda es favorable para la formación in-telectual de Christine, que desde muy niña mostró tener una graninteligencia e interés por el estudio. Conocida en la corte como “la hija delastrólogo”, fue educada en los estudios humanistas y recibió formación in-telectual de su propio padre en lengua materna, el italiano, en francés, sulengua de adopción, y en latín, que era la lengua culta del momento y enla que se escribían los textos universitarios y eruditos. Es muy probableque fuera su padre, que dispuso muy posiblemente de una copia de laCommedia, el primero que le hablara de Dante (Batard 1975: 272), yaque a finales del siglo XIV principios del XV no circulaban manuscritosde la Commedia en París (Richards 1985: 101).11 Desde pequeña, Chris-tine frecuentaba la corte francesa, de ambiente humanista, lo que le per-mitió conocer de cerca la vida cortesana y, sobre todo, tener acceso a suingente y prestigiosa biblioteca,12 que su propio padre había ayudado aengrandecer con un gran número de manuscritos de las más diversas ma-terias (ciencia y filosofía, entre otras) que trajo desde Bolonia. A losquince años, Christine se casó con el joven intelectual y secretario delrey, Éstienne du Castel, un matrimonio feliz, según nos relata la propia au-tora, en el que fue madre de dos hijos y una hija. Sin embargo, diez añosdespués de casarse, cuando tenía veinte y cinco años, su vida cambió ra-dicalmente. En 1380 muere Carlos V, su protector; en 1386 muere su

servidor, cuando lo llamó para que viniera desde la opulenta Bolonia donde na-ciera, Maese Tommaso da Pizzano, de sobrenombre ‘El bolonés’, que gozó degran fama por su destacada sabiduría» (Pizan 2005: 11).11 Petroni (1967: 379-380) señala al respecto que cabe la posibilidad de que al-guna princesa italiana casada con un príncipe francés, como es el caso de Va-lentina Visconti, duquesa de Orleans (1364-1408) y contemporánea de Christine,tuviera entre sus libros una copia de la Commedia. Dicha posibilidad ya fue con-templada por Farinelli (1905) y, por otra parte, entre ambas mujeres existía unarelación. En los inicios de su carrera, Christine tiene contactos con la corte deLuis de Orleans, hermano del rey Carlos VI, y con la duquesa de Orleans, mujerinteligente y muy culta, de origen italiano como ella. 12 A la muerte de Carlos V, en 1380, su biblioteca llegó a albergar 917 volúme-nes (Closson 1998: 66).

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padre, completamente arruinado, y unos años después, en 1389, mueresu marido. Christine se encontró desamparada, en una situación econó-mica precaria, y con la responsabilidad de cuidar de su familia: su an-ciana madre, su hija y sus dos hijos, y una sobrina que había quedado asu cargo.13 A partir de estos momentos se inició una etapa en la vida denuestra autora que duró aproximadamente una década, hasta 1400, llenade dificultades de todo tipo, en la que tuvo que hacer frente a la adversi-dad y la hostilidad social. Estos años resultaron cruciales para Christine,puesto que en ellos se forjó su vocación de escritora y tomó conciencia dela subordinación en que vivían las mujeres en su sociedad, especialmentelas viudas. Con coraje, decisión e inteligencia, Christine supo enfrentarse a las ad-

versidades sociales en esta difícil etapa, y ante la necesidad económica enla que se hallaba, buscó los recursos y maneras para mantenerse ella y asu familia. Comenzó a escribir y trató de encontrar mecenas que apoya-ran y financiaran sus obras, para lo que le resultó de gran valía su cono-cimiento de la vida y de algunas personas de la corte. Obtuvo el favor deIsabeau de Baviera, reina de Francia, casada con el rey Carlos VI, de laque había sido camarera antes de convertirse en femme de lettres, y gozódel apoyo de aristócratas y otros personajes importantes de la corte quele encargaron y compraron sus libros (McGrady 1998). Es el caso de LeLivre des Faits et Bonnes Mœurs du roi Charles V le Sage, que escribióen 1404 por encargo del duque Felipe de Borgoña, lo que le otorgó unagran notoriedad, ya que fue la única persona de letras del reino, escritorao escritor, a quien se le encargó una tarea semioficial. Christine se con-virtió así en la primera cronista de la corte (Albistur-Armogathe 1977:55). Gracias a todo ello, consiguió vivir de sus escritos, convirtiéndosetambién en la primera profesional de la escritura en Francia, como ya hasido apuntado, y en la primera editora. Además de escribir, Christine tra-bajó como copista y participó en la producción de sus manuscritos.

13 Sus dos hermanos volvieron a Italia a las propiedades de su padre (Tiliette1985).

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Prolífica hasta su muerte, en 1430, a la edad de sesenta y cinco años,Christine fue autora de un gran número de obras. En su producción lite-raria cultivó tanto la lírica como la prosa, en distintos géneros literarioscomo la alegoría, la epístola o la autobiografía. De los temas amorosos,escritos en las baladas que componía en los inicios de su carrera, pasamuy pronto a los temas sociales y políticos (que mayoritariamente es-cribe en prosa). La educación de las mujeres y la situación política enFrancia está presente en casi toda su producción, y forma parte de su pro-pia experiencia (recordemos que toda la vida de Christine transcurre den-tro del contexto de la Guerra de los Cien Años, que tiene lugar desde 1337a 1453). Sus vastos conocimientos le permitieron escribir sobre un amplionúmero de cuestiones: moral, filosofía, derecho, política, estrategia mili-tar, resolución pacífica de conflictos, y otros. Sus libros pronto se tradu-jeron al portugués, al holandés y al inglés, reportándole fama y bienestareconómico, y convirtiéndola en una escritora célebre, cuya reputación deerudita era conocida más allá de las fronteras de Francia. Una gran tenta-ción para ella fue la invitación que recibió en 1402 de Gian Galeazzo Vis-conti, primer duque de Milán, ofreciéndole un nuevo mecenazgo yprometiéndole tener una espléndida posición en Milán (Merkel 1921: 256;Tiliette 1985), o la invitación que le hizo Enrique IV de Inglaterra para en-trar a su servicio (Pizan 1989: 10; Gauvard 1973: 419 n. 1), propuestasque Christine no aceptó, por lo que nunca viajó a otra corte, ni volvió aItalia. Nunca dejó Francia, pero recuerda con afecto su lugar de origen, su«cité amée / ou mainte gallee est armee» (Pizan 2000: 6297-6298). Es durante los primeros años de su carrera literaria, en particular en las

obras escritas en los primeros años del cuatrocientos, ente 1400-1407,donde el pensamiento de Dante está más presente y visible en los textosde Christine. De esa época data L’Epistre d’Othéa (1401),14 un modelo deeducación de adolescentes –lo que solía llamarse Espejo de Príncipes–,

14 Existe una traducción parcial en castellano, véase Pizan 2005: 95-175. En laselección que aquí se presenta no se incluye la figura de Minos, que correspon-dería al número cuatro de las figuras mitológicas glosadas según el orden de apa-rición en la obra.

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escrita por encargo, en la que por primera vez hace una alusión a la Di-vina Commedia, aunque no de forma explícita. En ella, Christine cita la fi-gura de Minos, y lo hace apoyándose en la expresión “como dicen lospoetas”. Describe dicha figura, a la que imagina como juez implacabledel inframundo, tal y como es presentada en el Inferno de Dante, aunquesin nombrarlo, y no como el Minos de la Odisea o de Virgilio (Batard1975: 272). Sí lo hará, en cambio, de forma explícita y significativa en elcontexto del debate sobre el Roman de la Rose15 como hemos tenido oca-sión de ver, parte del cual es recogido en sus Epistres sur le Roman de laRose (1402), con lo que finaliza el debate en cuestión. También en esemismo año, y muy poco tiempo después de concluir el debate, componeLe Chemin de Longue Étude (acabado en 1403), la obra más importanteen cuanto a la presencia del pensamiento de Dante en la obra de Christinede Pizan, pues se trata de un poema alegórico moral y político, conside-rado el primer texto christiniano y el primer texto francés inspirado en laDivina Commedia. Incluso hay un sector de la crítica que considera quese trata de una reescritura (De Rentiis 1994: 34) o de una nueva versiónde la obra dantesca. Volveré a ello más adelante. Casi paralelamente a lacomposición de Le Chemin escribe La Mutacion de Fortune (1401, aca-bada en 1403), un voluminoso texto, en gran parte autobiográfico, queconstituye una historia universal enmarcada por una historia personaldonde, según Yvonne Batard (1975: 274), la idea primera nos remite a ladescripción dantesca del poder de la Fortuna, aunque en este caso Chris-tine no comparta la visión de Dante. Christine no ve a Fortuna como la hijade Dios, la criatura impasible y alegre, sino que su idea de Fortuna remitemás a una Circe con sus dos caras, engañosa y formidable.16 La Mutacion

15 En relación con la utilización de Dante por primera vez directa y explícita-mente por Christine en el debate sobre el Roman de la Rose, argumenta Richards(1985: 104 n. 5): «that Christine’s predilection of Dante was directly proportio-nal to her aversión to the Roman de la Rose». 16 Así la había descrito ya en la fábula 74 de Epístola de Othea (Pizan 2005:162): «En Fortuna, la Gran Diosa, / no confiéis, ni siquiera en sus promesas, / por-que repentinas son sus mudanzas, / y a quienes más alto elevó, vuelve a arrojaral fango».

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de Fortune es todo un compendio de conocimientos enciclopédicos, dedoctrinas teológicas y filosóficas, a la vez que la autora evoca su dolorosavida, la pobreza en la que ha estado y la soledad. Para esta autora, la fi-gura de la diosa Fortuna –que como se sabe gozó de gran popularidad entoda la Edad Media y el Renacimiento, véase por ejemplo Petrarca o Juande Mena–, no es solo un tópico literario, pues los reveses de la Fortunafueron parte de su propia experiencia. Pero, al igual que Dante, Christinese levanta y endereza ante los golpes de infortunio. Sintiéndose muy afec-tada por los sucesos que se producían en Francia, como así escribe en LaMutacion de Fortune, piensa en Italia en los tiempos del poeta y políticoflorentino y, dirigiéndose a los franceses, les recuerda las luchas insensa-tas y fraticidas de güelfos y gibelinos, tal y como son descritas por «Dantede Florence», dice Christine, en su bello libro y muy notable, palabras conlas que la autora se refiere a la Divina Commedia.

Dante de Florence, le vaillantpoete, qui tout son vaillantperdi pour cel estrif grevable,en son bel libre tres notableen parlant moult en les blasmant

(vv. 4645-4649).17

A continuación Christine traslada las irónicas primeras líneas del cantoXXVI del Infierno:

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande che per mare e per terra batti l’ali e per lo ’nferno tuo nome si spande!

(If. XXVI. 1-3)

Seguidamente Christine pasa a clarificar el contenido de estos versospara la audiencia francesa, estas son sus palabras:

17 Recojo la cita de Richards (1985: 106); anteriormente en Farinelli (1905: 143)y Friederich (1950: 59).

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Et Dante, en parlant a Flourence,ou il avoit sa demourance,en maniere de moquerielui dit que «s’ esjouisse et rie,car sur terre et sur mer se batentses eles et meismes s’embatentjusqu’en Enfer, en quel maisona de ses citoiens foison»

(vv. 4663-4669, citados en Richards 1985: 106).

No será aquí la única ocasión en la que Christine recuerde y refiera lasluchas fraticidas de güelfos y gibelinos, así como habían sido descritas porDante, lo hará también después en Lamentation sur les maux de la gue-rre civile (1410):

Ha! France! France, jadiz glorieux royaume! […] Car ne seras-tupas acomparée de cy en avant aus estrangers nacions, là où les frè-res germains, cousins et parens par faulse envie et convoitise s’en-tre-ocient comme chiens? Ne diront-ilz en reprouchant: Alez, alez,vous François, qui vous vantiez du doulz sang de voz princes, notyrans, et nous escharnissiez de nos usaiges de guelfes et guibelins.Or sont-ils nez en vostre terre. La semence y est germée, que jàn’y fauldra; les país y sont venuz. Or abaissiez voz cornes, carvostre gloire est deffaillie (Thomassy 1838: 145).

A la primera etapa corresponde igualmente L’Avision-Christine, unaautobiografía alegórica, escrita en 1405, en la que una vez más Christinerefiere sus inquietudes ante los acontecimientos políticos de Francia, y,como observa Richards (1985: 107), supone otro ejemplo más de la sen-sibilidad de Christine hacia Dante. En un momento de la obra, en la quese habla sobre las virtudes y los vicios y en la que mantiene una discusiónde la figura alegórica que representa el fraude, la autora menciona a Ge-rión. En la descripción que hace de esta figura demoniaca alude de nuevoa la que Dante hace en el Infierno (Batard 1975: 274-275; Hout 1985:368-369; Richards 1985: 107). De forma deliberada e irónica, Dante uti-liza el encuentro con la verdadera encarnación del fraude como la ocasión

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para invocar y afirmar la veracidad de todo su poema. Se trata de un re-curso que Dante diseña para desterrar la esperada incredulidad de sus lec-tores (Richards 1985: 107):

Sempre a quel ver c’ha faccia di menzognade’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el pote,però che sanza colpa fa vergogna;ma qui tacer nol posso; e per le notedi questa comedía, lettor, ti giuro,s’elle non sien di lunga grazia vote,ch’i’ vidi per quell’aere grosso e scurovenir notando una figura in suso,maravigliosa ad ogni cor sicuro

(If. XVI 124-132).

Observa Richards (1985: 107), de quien tomo los siguientes comenta-rios sobre esta cuestión, que Christine utiliza este pasaje de tal maneraque indicaría que ella entendió la pequeña broma de Dante en un nivelmucho más obvio. Es un buen ejemplo de intertextualidad avant la lettre.Christine, muy enojada, pregunta a la alegoría del fraude en su poema(L’Avision) si Dante no la había visto ya, aunque de forma ligeramente di-ferente, «ne te vid pas en fourne dorrible serpent / a longue queue iadisles tres sage / poete Dante de Florence sus le palus / denfer quant la le con-voya Virgile / si comme en son livre le recite?». La cita que Christinehace de la reunión de Dante con Gerión, formulando ingeniosamente unapregunta, afirma Richards, muestra que ella incorpora el juego alegóricode Dante en su propia narrativa. Dirigiéndose a la figura del fraude en pri-mera persona, y por tanto girando la broma de Dante contra sí misma,«Christine does Dante one better».Del mismo año que La Vision de Christine, 1405, es La Cité des

Dames,18 que cito no tanto por su relación con los escritos de Dante (eneste caso la relación es sobre todo con el también italiano Boccaccio),sino porque –escrita simbólicamente en forma de ciudad, una ciudad para

18 Existe traducción en castellano: Pizán 1995.

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ser habitada exclusivamente por mujeres– es la obra más conocida y re-conocida de Christine de Pizan en la actualidad, su más brillante elabo-ración teórica y política en defensa de las mujeres. Es, además, una delas obras más emblemáticas del pensamiento femenino y del pensamientooccidental en los inicios de la modernidad (Vargas Martínez 2010). Eltexto da comienzo presentando a la autora en su estudio, rodeada de li-bros, en un estado de desazón y abatimiento. Desazón que, ella mismarelata, siente ante la misoginia y los prejuicios de tantos hombres hacia lasmujeres. Estando «profundamente inmersa en estos tristes pensamientos»(Pizan 1995: 7) se le aparecen tres Damas: Razón, Derechura y Justicia,que le dan consuelo y le ayudan a salir de su confusión y dudas. Algunoscríticos, apunta Slerca (1995: 221-222), han señalado una aproximaciónentre estas tres damas y cierto pasaje del Infierno (II 124 y ss.) de Dante,en el que el poeta evoca a tres mujeres que le han rescatado: la VirgenMaría, Beatriz y Lucía. Podría añadirse también, señala Slerca (ibídem),una de las canciones del exilio (la número 104) de las Rime de Dante,donde el primer verso dice: «Tre donne ’ntorno al cor mi son venute»,las tres mujeres en cuestión son Drittura, Larghezza y Temperanza, lacoincidencia con la alegoría de Chrisitine, afirma Slerca, es llamativa.El año de 1405 fue muy prolífico en la creación de nuestra autora y

poco tiempo después de acabar La Cité des Dames, compone Le Livredes Trois Vertus o Le Tresor de la Cité des Dames, un tratado sobre laeducación de las mujeres, cuestión que consideraba de suma importanciay que siempre tuvo presente en sus escritos; también compone Epistre aIsabelle de Bavière, reine de France (escrita el 5 de octubre de 1405), enla que Christine exhorta a la reina para que intervenga entre los príncipescon el fin de mantener la paz en Francia al borde de la guerra civil,19 puesla tensión entre el duque de Berry y el duque de Orleans iba en aumento.Un año después, en el momento en que comienza la guerra civil entre ar-

19 Christine defiende el derecho y la autoridad de la reina Isabeau de Baviera aintervenir en la política como regente de su hijo Luis, delfín de Francia y duquede Guyena. Frente a la imagen que se le atribuye a la reina de corrupta y licen-ciosa, Christine hace una defensa y valoración de su figura (Green 2006).

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magnacs y borgoñones, escribe Le Livre du Corps de Policie (1406-1407),un texto en el que –sugiere Burgwinkle (2013: 27)–, siguiendo Le Che-min de Longue Étude, la autora refleja su movimiento hacia la teoría po-lítica, y en el que podría verse cierto paralelismo con la Monarquía deDante, pero no ahonda más en ello. Además de las obras citadas, Christine de Pizan compuso un tratado

sobre estrategia militar, Le livre des fais d’armes et de chevalerie (1410),y un tratado sobre la Paz, Le Livre de la Paix (1412), una cuestión por laque siempre estuvo preocupada y frente a la que no dejó de alzar su voza lo largo de toda su vida (Raymond 1838 150-170), en lo que tambiéncoincidiría con el pensamiento y la sensibilidad de Dante. Escribió asi-mismo varios textos para ofrecer consuelo a quienes muy directamentepadecen los desastres de la guerra, como hizo en Epistre de la prison devie humaine (1415), destinada a reconfortar a las mujeres que habían per-dido a su padre, marido o hijos en la que fue una de las batallas más cruen-tas de la Guerra de los Cien Años, la batalla de Azincourt.20 Su últimaobra fue Le Ditié de Jehanne d’Arc un elogio de este relevante personajehistórico escrito en 1429. Christine de Pizan muere un año más tarde, en1430, a la edad de 65 años, en la abadía dominicana San Luis de Poissy,a la que se había retirado en 1418, alejada de todo, huyendo de conspira-ciones, enfrentamientos y demás cuestiones que se daban en la corte, paravivir con su hija María, que era monja. Como hemos visto, aunque sin ahondar en ello, la inspiración o in-

fluencia dantesca se manifiesta sobre todo en los escritos de Christine quecorresponden a la primera etapa de su carrera, y, dentro de este conjunto,es Le Chemin de Longue Étude el más relevante. Veamos a continuaciónalgunas consideraciones generales de la relación entre Le Chemin y laobra de Dante.

20 Esta batalla, que duró tres horas en las que murieron de 7.000 a 10.000 perso-nas, supuso un gran desastre para la caballería francesa y llevó al rey inglés En-rique V a la victoria.

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2. LE CHEMIN DE LONGUE ÉTUDE Y LA DIVINA COMMEDIA

Le Chemin de Longue Étude es uno de los primeros textos de Christineen el que se lamenta de los males que asolan Francia a la vez que em-prende el relato de su camino intelectual. Un camino de largo estudio quesu padre comenzó a trazar y al que la autora va a dedicarse con pasión alo largo de toda su vida: «C’est toute mon affeccion / en ce monde, car adevis / n’est plus deduit, ce m’est avis» (vv. 1168-1170),21 reconoceChristine. Escrito en honor de Carlos VI (hijo y sucesor del que habíasido protector suyo y de su padre, Carlos V) la obra fue presentada alduque de Berry en 1403.

Le Chemin se presenta como un sueño alegórico encuadrado y contex-tualizado por una narración autobiográfica. La autora cuenta en primerapersona este sueño, lo que le permite hacer referencia a muchos datos per-sonales. Compuesto por 6392 versos, la obra comienza con la Dedicato-ria, en la que Christine hace un elogio del rey Carlos VI y del duque aquien dedica su obra, y donde hace, además, referencia a «ce grand débat,disputé par plusieurs» (Pizan 2000: 89), esto es, el debate del Roman dela Rose, que justo acababa de finalizar. A continuación sigue el Prólogo,en el que la autora nos habla de sus infortunios, de cómo logra encontrarconsuelo, y en el que piensa y medita acerca de los múltiples conflictosdel mundo. En ello está cuando se queda dormida y tiene una visión en laque recibe la visita de la Sibila de Cumas, que la llevará a realizar un viajecon el que da comienzo el poema. Pizan emprende así «un viaje iniciáticoa modo de Dante en la Divina Commedia» (FALTA REFERENCIA).22Veámoslo un poco más detenidamente.

21 Cito de la edición Pizan 2000. 22 Sobre la imagen del discípulo siguiendo/imitando al maestro/modelo, la cru-cial importancia de ambos en la Divina Commedia y en El Chemin de longueÉtude, y lo que estos conceptos significan entre los siglos XIII y XV, véase DeRentiis 1994.

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La obra empieza presentándonos a la autora, una mujer viuda y solita-ria, en su cuarto de estudio,23 donde comienza a narrar la forma en que leha golpeado la Fortuna. Llora a su marido muerto hace trece años (vv. 185-188) y describe el gran amor que sentía por él y lo dolorosa que resultó supérdida (vv. 61 y ss.). Datos que coinciden con la vida real de la escritora.Frente a la desolación que siente, busca entre sus libros alguno que puedaservirle de consuelo. Va a hallar el que será para ella un libro eficaz, un se-dante para los reversos de la fortuna, la Consolación de la filosofía de Bo-ecio, que le ayudará a superar la ira y el dolor que le afligen:

En musant sus quelque livreou pour passer temps au mains.et lors me vint entre mainsun livre que moult amay,car il m’osta hors d’esmayet de desolación:ce ert De ConsolacionBöece, le prouffitablelivre qui tan est notable

(vv. 200-208).

La Consolación de la Filosofía de Boecio es el primer referente litera-rio al que alude explícitamente Christine en Le Chemin. El segundo, ymás importante, es la Divina Commedia de Dante, como veremos másadelante. En la referencia a Boecio, es posible que Christine hubiera te-nido presente también el Convivio de Dante (Slerca 1998: 139), en con-

23 Hallarse en su estudio trabajando, leyendo, escribiendo o pensando, esto es, de-dicada al trabajo intelectual –como diríamos hoy–, es una forma de presentarseque la autora utiliza en varias de sus obras. En Le chemin: «Un jour de joye re-mise / je m’estoie a par moy mise / en une estude petite, / ou souvent je me de-lite / a regarder escriptures / de diverses aventures» (vv. 171-176). Poco después,en La Ciudad de las Damas (Pizán 1995: 5): «Sentada un día en mi cuarto de es-tudio, rodeada toda mi persona de los libros más dispares, ya que el estudios delas artes liberales es un hábito que rige mi vida».

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creto dos pasajes del capítulo XII (2-3) del segundo tratado de esta obra,donde el poeta florentino afirma que un día, pasado un tiempo de lamuerte de Beatriz, por apaciguar su dolor, comenzó a leer el De conso-latione de Boecio, así como el De amicitia de Cicerón, donde puede verseun paralelismo con lo que escribe Christine en Le Chemin en los versosantes citados y en los siguientes:

[De Consolacion]Lors y commençay a lire,et en lisant passay l’ireet l’anuyeuse pesancedont j’estoie en mesaisance-car bon exemple ayde moulta confort, et anuy toult

(vv. 209-214).

A la manera de Boecio, Christine debe encontrar un bien que la Fortunano pueda arrebatarle, que sea más duradero y no dependiente de los hechosque le rodean, y este va a ser la virtud. Christine decide abandonar las cosaspersonales para consagrarse a una vida de estudio y de meditación, peroeso no supone retirarse de la realidad y el mundo en el que vive, sino todolo contrario (Tarnowski en Pizan 2000: 30-31). Al igual que Dante, Chris-tine siempre se preocupó de los asuntos sociales y políticos de su tiempo.En ese sentido, la autora reflexiona en el texto sobre los múltiples conflic-tos que hay en el mundo, corrupción,24 ambición, ausencia de paz:

Comment si corrompt est le mondequ’a peine y a personne monde.Si pensoie aux ambicions,aux guerres, aux afflictions,aux trahisons, aux agais faulxqui y sont, et aux grans deffaulx

24 La preocupación de Pizan por la corrupción se manifiesta en otros de sus tex-tos y directamente en la Epístola, que escribió, en 1403, al poeta Eustache Des-champs, en la que manifestaba su pesar por la corrupción reinante en Francia.

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que l’en fait, don’t c’est grant meschefsqu’on doubte si pou les pechez,moy merveillant don’t peut venirc’on ne se peut en paix tenirdessoubs le ciel tout maine guerre

(vv. 321-331).

Incluso piensa en la Iglesia de Dios que, dice la autora, está más deso-lada que nunca, «L’Eglise de Dieu desolee / est plus qu’onques maisadoulees; / or en sont ferus les pastours / et les brevis vont par destours»(vv. 371-374). El mundo que describe Christine en la obra (un reino am-bicioso, guerras, aflicciones, traiciones, corrupción) contiene alusionesdirectas y explícitas al contexto político, social y religioso en el que vive.Contexto, recordémoslo una vez más, en el que están teniendo lugar losenfrentamientos recurrentes entre ingleses y franceses (la Guerra de losCien Años), la guerra civil provocada por las disputas entre el duque deBorgoña y el duque de Orleans, y dentro de la Iglesia se está produciendoel Cisma de Occidente (1378-1417). Meditando sobre todo ello, y des-pués de un largo día de estudio, como es lógico el cansancio le vence yse queda dormida. Es en este momento cuando tiene la visión, la visita dela Sibila de Cumas, que la proclama su “hija espiritual” y, entendiendo suamor por la sabiduría, decide conducirla a otro mundo más agradable.Guiada por ella, Christine emprende un largo viaje, un viaje en el que ad-quiere conocimientos enciclopédicos y saberes verdaderamente extraor-dinarios. Un camino que tiene grandes virtudes y que la Sibila definecomo de «Lonc Estude» (v. 1103). Este es tal vez el aspecto más rele-vante de la relación entre Le Chemin y la Commedia. Según consideraDe Rentiis (1994: 39), Christine se apropia de la relación entre Dante yVirgilio, la reelabora y la transforma. Mientras Dante emprende el viajeguiado por Virgilio, nuestra autora lo hará con la Sibila, que remplaza elpapel tutelar de Virgilio guiando el poeta. El hecho de que Christine elijacomo guía una figura femenina no es un hecho banal, y que esta figura seauna sibila, la Sibila de Cumas, menos aún. Christine busca una guía es-piritual, una autoridad femenina que respalde su búsqueda de la sabidu-

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ría y la legitime como auteur (De Rentiis 1994: 40-42; Brownlee 1995;Pomel 2004). En la época de Christine, la sibila representa a una mujersabia, es una figura que siempre está ligada al saber y a los libros, unsaber que no le viene a través de intermediarios, sino que es el saber pro-fético, que emana directamente de Dios. La Sibila de Cumas es la queanunció la venida de Cristo. En los términos en que se presenta la Sibilaen la obra, da a conocer rápidamente su origen virginiano:

Ancor que mieulx croyes me dis,celle suis, qui mena jadis eneas, l’exillé Troyen; sans autre conduit ne moyenpar mi enfer le convoyay.puis en Ytalie l’avoyay,et suis celle qui lui monstra les merveilles, et demonstrace qui lui ert a avenir

(vv. 595-603).

Reconociendo a la Sibila como su guía y maestra, a la que va a seguiren este largo camino, le dice: «Si suis vostre humble chamberiere. / Alezdevant! G’iray derriere» (vv. 697-698). Unos versos que, como ha sido se-ñalado por Farinelli (1905: 127), Merkel (1921: 199), Brownlee (1995:120) y otros, evocan el último verso del primer canto del Inferno. En élse describe el principio del viaje del protagonista, Dante, y su guía, Vir-gilio, «Allor si mosse, e io li tenni retro» (If. I 136).25 Pero hay un aspectoen el que difieren los caminos que ambos emprenden: mientras que Vir-gilio conduce a Dante por el camino del infierno, la Sibila escoge condu-cir a su “alumna” por las maravillas de la tierra.

25 Para Slerca (1998: 140-141) estos versos de Christine están tomados íntegra-mente de los que una dama dice al rey de Navarra en el poema de Guillaume deMachaut, Jugement du roi de Navarra (v. 1479): «Alez devant –j’iray aprés»,obra que Slerca considera ha influido en Le Chemin, y también en otros escritosde Christine de Pizan, pero esta es poco conocida.

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El viaje que emprende Christine guiada por la Sibila tiene dos partesbien diferenciadas, pero ligadas entre sí (Brownlee 1995: 114-115). En laprimera (vv. 714-2554) hay desplazamiento físico, se hace un viaje alre-dedor del mundo, como veremos seguidamente. En la segunda, no haydesplazamiento, sino que se trata alegóricamente de un debate moral ypolítico.

Un segundo aspecto del paralelismo de Le Chemin con la obra de Dantese localiza al inicio de la primera parte del viaje. Christine, como su pre-decesor, es conducida por la Sibila al monte Parnaso y a ver la “Fuentede la Sabiduría”. Retomando aquí el mito de las nueve musas (vv. 977 yss.), dice la autora: «Celles gouvernent la fontaine / qui tan test belle, clereet saine; / si tiennent la l’escole sainte / qui de grant scïence est ençainte»(vv. 993-996). Los grandes filósofos han bebido de sus aguas, le dice laSibila, y a continuación Christine enumera un gran número de autorida-des, básicamente filósofos de la Antigüedad, Aristóteles, Sócrates, Platón,Demócrito y Diógenes, entre otros (vv. 1020 y ss.), que recuerda igual-mente a unos pasajes de la Commedia (If. IV 134-144). Finalizada la vi-sita al monte Parnaso, la Sibila acompaña a la autora alrededor del mundo,hasta el quinto cielo, el firmamento (vv. 714-1170), visita ciudades comoConstantinopla, lugares santos como Jerusalén, Judea, Troya, la isla deRodas, Alejandría, Babilonia y otras (vv. 1198-1479 y ss.). Christine noshabla de espacios mitológicos, bíblicos y reales, y la descripción de todoello es una prueba evidente de los amplios conocimientos, históricos, ge-ográficos, filosóficos y bíblicos que posee. Una evidencia más del préstamo que Pizan hace de la Commedia está

plasmada en el propio título de su poema, Le Chemin de Longue Étude.Cuando la Sibila habla de la sabiduría, de la fuente del saber, del caminoemprendido, es cuando le revela cómo se denomina este camino. Le dice:

Mais de ce chemin ou nous sommes,dont ne te diroie les sommesdes grans bontez en tout ton aage

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le non te diray du passage:saches qu’il a nom “Lonc Estude”

(vv. 1099-1103).

Lo que está tomado directamente de Dante, del canto uno del Infierno(v. 83):

O delli altri poeti onore e lume,vagliami ’l lungo studio e ’l grande amoreche m’ha fatto cercar lo tuo volume

(If. I 82-84).

Será después de que la Sibila revele a Christine el nombre de su ca-mino cuando la autora cite por primera vez a Dante, en tanto que modelopara su propia obra. Así lo expresa:

Mais le nom du plaisant pourprisoncques mais ne me fu appris, fors en tant que bien me recordeque Dant de Florence recordeen son livre qu’il composaou il moult beau stile posa,quant en la silve fu entrezou tout de paour ert oultrez,lors que Virgile s’aparua lui dont il fu secouru,adont lui dist par grant estudece mot: “Vaille moy lonc estudequi m’a fait cercher tes volumespar qui ensemble accointance eumes”

(vv. 1125-1138).

Con los últimos versos, Pizan se refiere explícitamente a las expre-siones que Dante dirige a Virgilio en el primer canto del Inferno:«Vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuovolume. / Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore» (vv. 83-85). La referen-

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cia a Dante como modelo intelectual para su obra, así como la admiraciónque siente por el autor florentino, aparece también claramente expresadaen los siguientes versos:

Que le vaillant poete Dant, qui a lonc estude ot la dent, estoit en ce chemin entrez,quant Virgile y fu encontrez qui le mena par mi enfer, ou plus durs lïens vid que fer.Si dis que je n’oublieroiecelle parole, ains la diroieen lieu d’Evvangille ou de croixau passer de divers destroisou puis en maint peril me vis;si me valu, ce me fu vis

(vv. 1141-1152).

Seguidamente, Christine vuelve a reafirmar su amor a la sabiduría, sudeseo de saber, y dirigiéndose a la Sibila, le dice:

Ha compaignie gracieuse,dame de grand savoir aduite,par qui suis apprise et conduite,ou lieu ou n’a mal n’eresie,moult m’avez fait grant courtoisie,qui a lonc estude meneem’avez, car je suis destineea y user toute ma vie;ne jamais je n’aray enviede saillir hors de ceste voyequi a tout solas me convoye.Ne vueil autre perfeccion;c’est toute mon affectionen ce monde, car a devisn’est plus deduit, ce m’est avis

(vv. 1156-1170).

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Después de viajar alrededor de todo el mundo, la Sibila la conduce alcielo estrellado (vv. 1569 y ss.) para descender enseguida al primer cielo,el del aire, donde le habla de cinco reinos y va a encontrarse con cincodamas (vv. 2054-2554). Con ello daríamos paso a la segunda parte delviaje, más extensa que la primera (vv. 2556-6270), en la que no hay des-cripción física ni desplazamiento, sino que supone una experiencia ex-clusivamente intelectual y discursiva, un debate alegórico entre cincoreinos distintos, representados por las damas Nobleza, Caballería, Sabi-duría y Riqueza. Se trata de un debate que tiene lugar en la corte de ladama Razón, para discurrir sobre la mejor manera de salvar al mundo.En esta parte de la obra es donde su autora expone abiertamente sus ideaspolíticas acerca de la gobernabilidad del reino (Merkel 1921: 249-251).Como Dante, Christine, que sueña con la separación de poderes, cree enuna monarquía universal donde reine la paz. La autora expone así su ra-zonamiento sobre la bondad de que gobierne “un solo hombre”:

Que la plus grande cause qui soitau monde, qui l’omme deçoit,c’est couvoitise de regnerl’un sus l’autre et de gourverner.Et pour ce les princes poissans,dont ou monde a millers et cents,par leur puissance font les guerresmaintenir, pour nouvelles terresacquerir; et ne leur souffitriens, tant y ayent grant prouffit.Si seroit doncques necessaire,pour tout le bas monde a paix traire,q’un seul homme ou monde regnastqui toute terre gouvernast,en paix la tenist, et feïstjustice de qui meffeïst

(vv. 3031-3046).

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La cuestión que se plantea, y se va a debatir entre las damas, gira entorno a las cualidades que debe tener el príncipe que acceda al trono im-perial para detentar la monarquía universal (Brownlee 1995: 115). Dichocon otras palabras, el problema que se presenta es establecer los criteriospor los que escoger al emperador del mundo, el salvador político, queconduciría a la paz y la prosperidad. Cada una de las damas propone un candidato y las cualidades en que

se sustenta. Como era de esperar, sus opiniones son discrepantes. ParaNobleza, el candidato ideal ha de ser aquel que tenga un ilustre linaje; encambio para Caballería, el apropiado será quien tenga las cualidades deun caballero invencible en el combate. El hombre más rico del mundoserá el candidato para la reina Riqueza, y el que posea un mayor sabery bondad, el elegido por Sabiduría. Esta dama es quien expone un parla-mento más largo (vv. 4080-6072), en el que nombra abundantes citas deauctoritates latinas sobre la mejor manera de salvar al mundo. Final-mente, va a ser también Sabiduría la que recapitule todos los argumentosexpuestos a lo largo de la discusión, concluyendo que de todas las cuali-dades aludidas, la virtud es realmente el único bien. La decisión final dequién será ese candidato no compete tomarla en el cielo, sino que debetener lugar en la tierra. Con tal fin, la Sibila se presenta ante Razón paraque haga de ella la mensajera que trasmitirá la esencia del debate a lacorte de Francia, la mejor y más digna, donde se podrá tomar en consi-deración una resolución definitiva.Para Christine es la monarquía francesa, la de la flor de lis, la legiti-

mada para ser la que represente al emperador universal, a diferencia deDante, para quien su modelo es el Imperio romano. En ese sentido y apropósito del paralelismo entre Le Chemin y la producción dantesca, se-ñala Slerca (1995: 139) que hay que mencionar también De Monarchia.En particular, el contenido del libro II de ese tratado (concerniente al pro-blema de la legitimación del Imperio romano) que ofrece algunas analo-gías con el debate que se está desarrollando en Le Chemin, en relación alsentido de elegir un rey universal.

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Finalmente, la Sibila propone ante Razón los servicios de su pupilaChristine para llevar el mensaje a la corte francesa. Christine desciendedel primer cielo hasta la tierra para cumplir su cometido, pero se despiertabruscamente (Brownlee 1995: 115) cuando su madre, preocupada porquellevaba mucho tiempo dormida, toca a la puerta de su estudio para des-pertarla:

Ja estoye bas desjucheece me sembloit, quant fus hucheede la mere qui me porta,qu’a a l’uys de ma chambre hurta,qui de tant gesir s’esmerveille,car tart estoit, et je m’esveille

(vv. 6393-6398).

Con este acto cotidiano, por otra parte muy recurrente en las obras dePizan,26 finaliza la visión y el poema. Le Chemin de Longue Étude es,como ya he comentado, el ejemplo más evidente de la inspiración deDante en la obra de Christine de Pizan. Como igualmente se ha mencio-nado, existe un sector de la crítica para quien esta obra supone una rees-critura, incluso una nueva versión, de la Divina Commedia. Sin entrarahora a hacer más valoración sobre ello, lo que sí quiero poner en valor,una vez más, es el transcendente papel que jugó Christine de Pizan comotrasmisora del legado de Dante en las letras francesas a inicios de la mo-dernidad. Son sus obras, conocidas y reconocidas ya en su época, las queabren la primera etapa del conocimiento del poeta florentino en la Fran-cia del siglo XV. Lo hace de forma explícita por primera vez, como hemostenido ocasión de ver, en el contexto del famoso debate del Roman de laRose, presentando al poeta como referente de autoridad literaria y moralfrente a los defensores de Jean de Meun. Un gesto de gran calado, pues,

26 La cuestión de la cotidianidad a la que alude aquí Pizan, nombrando a su madreque la viene a despertar, es un tema significativo en las obras christinianas, puesse trata de un elemento recurrente en sus escritos que ha merecido la atención porparte de la crítica.

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entre otras cosas, la escritora rechaza abiertamente la genealogía literariafrancesa representada por el Roman de la Rose (el gran best-seller de laépoca) y la sustituye por una genealogía literaria positiva en lengua ita-liana representada por la Commedia (Brownlee 1995: 113). Pero el refe-rente de Dante en la obra de Christine va más allá de la cuestión literariay trasciende a la realidad social y política de la época. Ambos comparteninquietudes e ideas sobre cómo procurar una forma de gobernar en dondeprime la paz entre los pueblos. Una cuestión de primer orden para ambos.No es de extrañar, pues, que Pizan, mujer de letras y política de singularinteligencia y coraje, quisiera difundir el saber del gran Dante, el “poetavaliente”, en los círculos intelectuales franceses. El conocimiento de laobra del autor italiano en Francia se ampliaría en el siglo XVI, tambiénde la mano de una escritora, Margarita de Navarra.

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La ‘Divina Comedia’ “a contrapelo” en la obra dePeter Weiss: ‘DC-Projekt’ y ‘Estética de la resistencia’

CARLOTA CATTERMOLE ORDÓÑEZUniversidad Complutense de [email protected]

RESUMEN:El artículo se ocupa del dantismo del dramaturgo alemán Peter Weiss (1916-

1982) y recorre diacrónicamente los episodios que atraviesa el intenso diálogoque el escritor establece con Dante Alighieri (1265-1321), desde el DC-Projekt(1964-1969) hasta La estética de la resistencia (1975-1981). El objetivo es de-mostrar que las modalidades de interpretación con los que Peter Weiss se apro-xima a los versos del poeta, así como los mecanismos de apropiación de losmateriales y contenidos de la Divina Comedia, son indicadores de una dinámicainterpretativa alegórica. El análisis revela también que el alegorismo de PeterWeiss se desplaza hacia posturas que coinciden con el concepto de alegoría ela-borado por el filósofo alemán Walter Benjamin (1892-1940). PALABRAS CLAVE: Peter Weiss, Dante, Auschwitz, alegoría, Walter Benja-

min.

ABSTRACT:This paper focuses on German playwriter Peter Weiss’ (1916-1982) Dantism,

analysing diachronically some different episodes of his intense dialogue with

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Dante Alighieri, from DC-Projekt (1964-1969) to The Aesthetic of Resistance(1975-1981). I will argue that both Peter Weiss’ different interpretative approachesof Alighieri’s work and his appropriation mechanisms of Divine Comedy’s ma-terials and content prove to be allegorical. This research also demonstrates thatPeter Weiss’ allegory becomes closer to German philosopher Walter Benjamin’s(1892-1940) theory of allegory.

KEY WORDS: Peter Weiss, Dante, Auschwitz, allegory, Walter Benjamin.

1. REESCRIBIR LA DivinA ComEDiA DESPUÉS DE AUSCHWITZ

Con su célebre dictum sobre la complicidad de la lírica con la barba-rie, Theodor W. Adorno (1903-1969) abre el intenso debate sobre la(im)posibilidad del arte después de (y sobre) Auschwitz que tiene lugardentro y fuera de Alemania a partir de los años sesenta: «La crítica de lacultura se encuentra frente al último peldaño de la dialéctica de cultura ybarbarie: escribir un poema después de Auschwitz es barbarie y esto co-rroe también el conocimiento que dice por qué hoy es importante escri-bir poemas» (Adorno 2008: 25). Pronunciada por el filósofo de la Escuelade Fráncfort en el año 1949, esta sentencia tiene, como es sabido, un im-pacto enorme sobre los escritores alemanes de los años sesenta, quienes,según el testimonio de Günter Grass, interpretan el veredicto adornianode manera equivocada, esto es, como una prohibición irrefutable, másque como una invitación a revisar en profundidad la función crítica –yautocrítica– de la filosofía y del arte en general (cfr. Grass 1999). Deacuerdo con Enzo Traverso, el veredicto de Adorno no se traduce en unaimpugnación de toda la esfera de la cultura. Se trata más bien, a entenderdel historiador italiano, de una constatación de la imposibilidad de hacerarte «come si faceva prima», obviando que Auschwitz representa una ce-sura tan radical dentro del presunto proceso civilizatorio de Occidenteque «ci costringe a ripensare il mondo moderno alla luce della catastrofeche lo ha sfigurato per sempre» (Traverso 2004: 110).

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Debido a la incomprensión que suscita esta controvertida máxima entrela intelectualidad alemana de la época, Adorno vuelve a reflexionar sobrela condición del arte después de Auschwitz en varios momentos de su obra,sin renegar completamente de su postura anterior pero sí explicando y ma-tizando su punto de vista. Así, por ejemplo, de acuerdo con las aclaracio-nes que introduce en Compromiso (1952), el horror impensable del campode exterminio no desemboca automáticamente en una condena de la prác-tica artística en su totalidad, sino que, por el contrario, lo que hace es cer-tificar la situación profundamente aporética (cfr. Zamora 2000) en la quese encuentra confinado el arte después del genocidio perpetrado por losnazis: «Es la propia situación de la literatura la que es paradójica. […]. Elexceso de sufrimiento real no tolera ningún olvido […]. Pero este sufri-miento, la conciencia de la aflicción, como dice Hegel, también exige lacontinuación del arte que él mismo prohíbe» (Adorno 2003: 406). Parailustrar este contrasentido, Adorno recurre a Un Superviviente de varsovia(1947) de Schönberg, una pieza donde se musicaliza el testimonio de unsuperviviente del gueto polaco. En su opinión, esta obra responde a la in-eludible exigencia de recordar Auschwitz pero, por su condición misma deobra de arte, no puede evitar transformar el dolor de las víctimas en «ima-gen» (ibíd.). Como consecuencia, la operación de Schönberg es ilegítimaporque obtiene placer estético del sufrimiento humano, transfigurando ymitigando sobremanera el horror de la experiencia concentracionaria. Deahí, para Adorno, la difícil paradoja que afecta sin excepción a la produc-ción artística posterior a Auschwitz, atrapada en un callejón sin salida entrela obligación de recordar la catástrofe y el riesgo de su estilización estética:«Al convertirse incluso el genocidio en posesión cultural dentro de la li-teratura comprometida, a ésta le resulta más fácil seguir desempeñando supapel en la cultura que produjo el asesinato» (ibíd.). Esta compleja problemática se aborda en términos semejantes también

en Dialéctica negativa (1966), donde el pensador alemán crítica el ca-rácter justificativo de la tradición filosófica occidental, pues esta, dedi-cándose exclusivamente a elogiar lo existente, ha aprisionado al mundoen una totalidad autorreferencial de conceptos abstractos que impide la

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imaginación de alternativas. En este contexto, el filósofo reitera que lacultura, después de que Auschwitz demostrara su más absoluto fracaso,se encuentra en una situación intrínsecamente aporética: «Quien abogapor la conservación de una cultura radicalmente culpable y gastada sehace cómplice, mientras quien rehúsa la cultura fomenta inmediatamentela barbarie como la cual se reveló la cultura» (Adorno 2005: 336). Enotras palabras, por una parte, no se puede renunciar al arte y a la filoso-fía porque esto supondría olvidar el crimen –«el sufrimiento perenne tienetanto derecho a la expresión como el martirizado a aullar, por eso quizáshaya sido falso que después de Auschwitz ya no se podía escribir ningúnpoema» (ibi: 332)– pero, por otra parte, restaurar la cultura anterior al ge-nocidio como si nada hubiera pasado –o estetizar el sufrimiento de lasvíctimas– bien puede desencadenar una barbarie de proporciones seme-jantes. Para actuar de acuerdo con el «nuevo imperativo categórico» queAdolf Hitler ha impuesto a los hombres –«orientar su pensamiento y suacción de tal modo que Auschwitz no se repita, que no ocurra nada pare-cido» (ibi: 333)– es necesaria una producción creativa autocrítica, capazde rechazar la condición de autonomía que la esfera estética se ha atri-buido a sí misma. Se trata de crear un arte que reconozca y exhiba su ori-gen social y su imbricación en la historia que desemboca en la barbarie,pues si la cultura alimenta la ilusión de su inutilidad e independencia conrespecto de los procesos materiales de la sociedad no estará capacitadapara evitar futuras barbaries y será nuevamente un cómplice culpable delsufrimiento humano.También el dramaturgo alemán Peter Weiss (1916-1982) interviene de

manera indirecta en el debate generado por las controvertidas reflexionesde Adorno y constata, en términos que recuerdan a los del filósofo deFráncfort, la situación aporética en la que se encuentra el arte después dela fractura de Auschwitz. Por un lado, esta debe hacerse cargo del impe-rativo de la memoria; por otro lado, al no haber sido capaz de impedir elasesinato masivo del pueblo judío, el arte ha perdido cualquier tipo de le-gitimidad para cumplir con un mandato tan necesario. Esta es, por lomenos, la postura que mantiene el narrador de Punto de Fuga (1962) en

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uno de los pasajes centrales de esta obra, que es la segunda de las nove-las autobiográficas del escritor. Se trata del momento en el que se describeel enorme impacto que produce sobre la conciencia del narrador la visiónde esas «imágenes definitivas» (endgültige Bilder) de las víctimas de loscampos de exterminio nazis que, bajo el imperativo de las autoridadesbritánicas y estadounidenses, se publican diariamente en la prensa inter-nacional después de la liberación del campo de Auschwitz. Ante la pri-mera prueba material de un horror de proporciones inéditas, que desbordacualitativa y cuantitativamente cualquier pronóstico, el narrador se veobligado a poner en duda la legitimidad de toda la tradición cultural queha permitido la barbarie.

Dann, im Frühjahr 1945, sah ich den Endpunkt der Entwicklung,in der ich aufgewachsen war. Auf der blendend hellen Bildflächesah ich die Stätten, für die ich bestimmt gewesen war, die Gestal-ten, zu denen ich hätte gehören sollten. Wie saßen in der Gebor-genheit eines dunklen Saals und sahen, was bisher unvorstellbargewesen war, wir sahen es in seinen Ausmaßen, die so unge-heuerlich waren, daß wir sie zu unsern Lebzeiten nie bewältigenwürden. Es war ein Schluchzen zu hören, und eine Stimme rief,vergeßt dies nie. Es war ein kläglicher, sinnloser Ruf, denn es gabkeine Worte mehr, es gab nichts mehr zu sagen, es gab keine Er-klärungen, keine Mahnungen mehr, alle Werte waren vernichtetworden. Dort vor uns, zwischen den Leichenbergen, kauerten dieGestalten der äußersten Erniedrigung, in ihren gestreiften Lum-pen. Ihre Bewegungen waren unendlich langsam, sie schwanktenumher, Knochenbündel, blind füreinander, in einem Schattenreich.Die Blicke dieser Augen in den skeletthaften Schädeln schienennicht mehr zu fassen, daß die Tore geöffnet worden waren. Wowar der Styx, wo war das Inferno, wo war Orpheus und seiner Un-terwelt, von Flotëntrillern umrieselt, wo waren die Größen Visio-nen der Kunst, die Bildwerke, die Skulpturen, die Tempel, dieGesänge und Epen. Es war alles zerstäubt, und nie mehr konntedaran gedacht werden, nach neuen Gleichnissen, nach Haltepunk-ten zu suchen, vor diesen endgültigen Bildern. Dies war kein To-tenreich. Dies waren Menschen, in denen das Herz noch schlug.

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Dies war eine Welt, in der Menschen lebten. Dies war eine Welt,die von Menschen errichtet worden war. Und dann sahen wir sie,die Wächter dieser Welt, sie trugen keine Hörner, keine Schwänze,sie trugen Uniformen. […]. Es schien nicht mehr möglich, wei-terzuleben, mit diesem unauslöschlichen Bildern vor Augen(Weiss 1969a: 135-136).1

En la compleja situación que expresa este fragmento de la novela weis-siana se halla el origen del dantismo del escritor alemán, quien, en diálogoexplícito con el dictum de Adorno, se dirige precisamente al poeta flo-rentino en busca de un guía poético que le ayude a superar el impasse re-presentativo, poético y existencial que produce la quiebra de Auschwitz.Comienza aquí uno de los casos de recepción productiva (Kuon 1993:22-23) de la Divina Comedia más originales y fascinantes del siglo XX,un episodio singular dentro del amplio y heterogéneo horizonte del dan-tismo creativo contemporáneo: «Probabilmente nessun’altra opera al-l’interno della letteratura tedesca –apunta, por ejemplo, Michael

1 «Más tarde, en la primavera de 1945, presencié el fin de la evolución que habíaseguido mi desarrollo. Sobre la pantalla, de una luminosidad cegadora, vi loscampos en los que había estado destinado, los fantasmas entre quienes debíahaber estado. Estábamos sentados al abrigo de una sala oscura y contemplábamoslo que hasta entonces había sido inimaginable. Se oyó un sollozo y una voz gritó:“nunca olvidéis esto”. Era un grito lastimero, sin sentido, pues ya no había pala-bras, nada se podía añadir, no había explicaciones ni advertencias, todos los va-lores estaban aniquilados. Allí, ante nosotros, entre montañas de cadáveres, searrastraban los fantasmas de la máxima degradación, con sus harapos a rayas.Sus movimientos eran interminablemente lentos, se tambaleaban, atados de hue-sos, ciegos para los demás, en un reino de sombras. Las miradas de esos ojos enlas calaveras esqueléticas ya no parecían comprender que se habían abierto laspuertas. Dónde estaba la laguna Estigia, dónde estaba el Infierno, dónde estabaOrfeo y su mundo de tinieblas, mecido por flautas armoniosas, dónde estabanlas grandes visiones del arte, los cuadros, las esculturas, los templos, los cánti-cos y las epopeyas. Todo quedaba reducido a polvo y ante esas imágenes defi-nitivas ya nunca sería posible buscar nuevos símbolos, nuevas justificaciones.No era un reino de los muertos. Eran hombres cuyo corazón aún latía. Era unmundo en el que vivían hombres. Era un mundo construido por hombres. Y en-tonces los vimos a ellos, los guardianes de ese mundo, no llevaban cuernos, nicola, llevaban uniforme […]. Ya no parecía posible continuar viviendo, con esasimágenes imborrables ante los ojos» (Weiss 1970: 186).

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Dallapiazza– permette di osservare in presa diretta il tentativo e l’impe-gno di un autore di fare propria un’altra opera e di amalgamarla alla suacome nel caso del Dante-Projekt di Peter Weiss» (Dallapiazza 2010: 135).La excepcionalidad del diálogo creativo entre ambos autores tiene quever, por una parte, con las modalidades concretas que definen la apropia-ción weissiana de los contenidos y estructuras de la Divina Comedia y,por otra parte, con el carácter ininterrumpido y casi obsesivo –P. Kuon(1997: 42) habla a tal propósito de una «obsesive Fixierung»– de su in-tensa confrontación con el poema medieval. Para el dramaturgo alemán,los versos dantianos no representan, efectivamente, ni una fuente de citasdispersas ni el punto de partida para reflexiones episódicas. Por el con-trario, el poema medieval se convierte en objeto de un interés atento ysistemático, que entronca directamente con el núcleo de sus preocupa-ciones políticas y estéticas y que desemboca creativamente, por un lado,en las diferentes fases del DC-Projekt –el proyecto inacabado de reescri-tura actualizante de la Comedia, al que se dedica el dramaturgo alemánentre los años 1964 y 1969– y, por otro lado, en los tres volúmenes de Laestética de la resistencia (1975, 1978 y 1981 respectivamente), el ensayo-novela de los años setenta que todavía no ha sido traducido al italiano yque representa sin duda una de las obras cumbre de la narrativa alemanacontemporánea.Aunque la crítica weissiana haya reconocido sin excepción la centra-

lidad absoluta del diálogo con el Alighieri en la tortuosa trayectoria inte-lectual y creativa de Peter Weiss, la magnitud efectiva de este encuentrose ha desvelado de manera gradual, esto es, a través de una serie sucesivade descubrimientos que culmina, en el año 2000, con el afortunado ha-llazgo del drama inferno.2 A la luz de este último testimonio del dantismo

2 Es Cristoph Weiß quien descubre el manuscrito de la desconocida obra en elarchivo Peter Weiss de la Akademie der Kunste de Berlín mientras trabaja en suestudio sobre la controvertida recepción de La indagación (1965) en la Alema-nia de la Guerra Fría (Weiß 2000). El investigador es también el responsable dela edición, en el año 2003, del hasta ese momento inédito inferno. Por su parte,Marco Castellari ha traducido al italiano y publicado la pieza en el año 2008 (cfr.Weiss 2008).

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de Peter Weiss y después de que Yannick Müllender (2007) haya re-construido las diferentes fases en que se articula el DC-Projekt, se revelaurgente repensar globalmente el fenómeno para identificar un criteriocapaz de explicar, al margen de las peculiaridades de cada obra concreta,la obsesiva aproximación del dramaturgo al poema medieval. Este artí-culo pretende responder precisamente a dicha exigencia y cifrar en el ale-gorismo de la Divina Comedia la clave del diálogo creativo que PeterWeiss establece con Dante Alighieri desde la mitad de los años sesenta enadelante. La complejidad del propósito resulta evidente si se tiene encuenta que no existe un consenso critico en torno a la definición del ale-gorismo dantiano y se piensa en lo intricada y huidiza que es la historiade dicho concepto más allá de su particular configuración en el poemadantiano. Se trata, en efecto y según refiere Francesco Muzzioli en su re-ciente Allegoria (2016), de una historia doblemente fracturada. En pri-mer lugar, porque la evolución del concepto está dividida en dossegmentos temporales por un periodo de condena y de marginación queactúa como espacio fronterizo entre la alegoría clásica (cerrada y conllave) y la alegoría moderna (normalmente abierta y sin llave). En se-gundo lugar, porque el término se emplea comúnmente para definir dosoperaciones diferentes pero complementarias, el procedimiento expresivodel aliud verbis aliud sensu y la actitud hermenéutica correspondiente,ya se configure esta actitud como «interpretazione eccedente» (Eco 1982:27) de un texto escrito sin intención alegórica, ya como exégesis del sen-tido segundo ubicado efectivamente más allá del significado literal de untexto. Estas dos dimensiones de lo alegórico, bien presentes, como es sa-bido, en la Divina Comedia de Dante Alighieri, en cuanto que texto deli-beradamente polisémico, a la vez que depósito de relecturas actualizantesde textos sagrados y profanos (cfr. Pépin 1970), caracterizan también eldantismo, que ahora se puede definir doblemente alegórico, de PeterWeiss. Por lo que respecta al dantismo alegórico weissiano desde el puntode vista de la interpretación, que es el aspecto concreto que se explora eneste artículo, se pueden considerar alegóricas las modalidades de lecturacon las que el escritor se aproxima a la obra de Dante. Más aún, en su

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evolución desde el DC-Projekt hasta La estética de la resistencia, el ale-gorismo del dramaturgo se desplaza, como se demuestra a continuación,hacia posturas coincidentes con el complejo concepto de alegoría elabo-rado por el filósofo alemán Walter Benjamin (1892-1940).3

Desde esta óptica, que el Peter Weiss lector de Dante no busque nuncala identificación inmediata con la Divina Comedia y que, por el contra-rio, asuma como condición para el diálogo con el Alighieri la concienciade la fractura ideológica y temporal que lo separa del poema es el primersíntoma de una aproximación alegórica a los versos dantianos. Es posiblereconocer la primera manifestación de este gesto interpretativo alegóricodesde la fase ideativa del primer DC-Projekt, concebido, según ha con-firmado Yannick Müllender (2007), durante la traumática visita berlinesadel 1964 (febrero-mayo), una visita que permite al dramaturgo asistircomo público a varias de las sesiones de los juicios de Fráncfort (1963-1965) en los que son juzgados precisamente en aquellos años algunos delos responsables directos del genocidio judío en Auschwitz. La dura con-frontación con la amnésica República Federal Alemana (RFA) de los añossesenta, por una parte, reactiva en Peter Weiss la conciencia de su mar-ginación y de su condición de apátrida; por otra, revela las contradiccio-nes del dudoso proceso de desnazificación alemán, así como la represióncolectiva de los crímenes del pasado, violentamente desplazados por elimperativo del crecimiento económico y por la promesa de un futuro deprogreso. En concreto, la percepción del fracaso de un sistema de justicia retri-

butiva como el que regula la relación entre pecado y pena en la Divina Co-

3 Como es sabido, Walter Benjamin desarrolla el concepto de alegoría de maneradiscontinua, en dos momentos cronológicos diferentes y en relación a dos obje-tos de estudio distantes. En primer lugar, en los años veinte, en el contexto delestudio sobre el Trauerspiel alemán que desemboca en la publicación de su tesisde habilitación para la docencia: El origen del drama barroco alemán (1928). Ensegundo lugar, durante los años treinta, cuando Benjamin se ocupa nuevamentede la alegoría, esta vez en relación directa con el inconcluso proyecto sobre lospasajes de París y con el opúsculo Sobre el concepto de historia (1940), conce-bido como la armazón teórica de El libro de los pasajes (1927-1940).

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media, se traduce en la concepción de una trilogía dramática que recu-pera y niega al mismo tiempo la habitual recuperación de la imaginería in-fernal dantiana como metro de comparación para describir la realidadindecible del campo de exterminio. De hecho, las profundas diferenciasentre el fundamento divino de la estructura moral del poema sacro y laanulación de toda norma jurídica en el campo de exterminio condicionadesde el primer DC-Projekt la reapropiación weissiana de los contenidosy estructuras de la Divina Comedia. Efectivamente, ya en el Ejerciciopreliminar para el drama en tres partes Divina Comedia (1965), el me-tatexto del primer proyecto dantiano de Peter Weiss, el dramaturgo poneel acento sobre el estricto e incuestionable sistema de justicia que regulapor mandato divino la convivencia ultramundana en el poema sacro:

Dante empfand das Leiden, so wie wir es heute / empfinden, Mi-tleid und Haß empfand er wie wir, er aber glaubte, er überblicken/ zu können, kraft / der Vereinfachung, die ihm überliefert wordenwar. / Er hatte Benennungen / für alle Taten, er konnte verurteilennach deutlich / abgezirkelten Regeln / […] / alles war festgelegt,jede Bestrafung, / jede Gnade. / Trauer überkam ihn, Grauen undOhnmacht, doch zweifelte / er nie, daß seine Visionen göttlicheAbsichten entsprachen (Weiss 1968a: 135).4

Peter Weiss también constata la radical inactualidad de este esquemade penitencia y salvación, que no guarda ninguna relación de semejanzacon la arbitrariedad jurídica que impera en (y después de) Auschwitz:«Wie weit war dies entfernt von mir» (ibíd.).5 No obstante, el reconoci-miento de esta distancia no implica una renuncia al modelo medieval. Por

4 «Dante sintió el dolor como lo sentimos / la compasión y el odio los sintiócomo nosotros, pero él creía poder / mirarlo en perspectiva, / a vista de pájaro,gracias a la significación que le legaron. / Él tenía nombres / para cada hecho,condenaba según reglas trazadas en círculos claros, / […] / todo estaba fijado,todo castigo, / toda gracia. / La pena le agobiaba, el horror y el abatimiento, peronunca dudó / de que sus visiones correspondían a intenciones divinas» (Weiss1969b: 132).5 «Qué lejos / de mí, todo aquello» (ibíd.).

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el contrario, la conciencia de la inadecuación del poema sacro para re-tratar una realidad donde no tiene vigencia el contrappasso obliga al dra-maturgo a subvertir el esquema ideológico y estructural de la DivinaComedia con el propósito de adaptarlo a un nuevo horizonte de sentidosin rastro de justicia divina. En concreto, Peter Weiss consigue descontarla enorme distancia que nos separa del poema medieval a través de un pro-ceso de resignificación actualizante de la topografía infernal dantiana,cuyos términos concretos se explicitan en el ya citado Ejercicio preliminar:

Dante sollte / er seine Wanderung / noch einmal antreten, müßte /nach anderen Mitteln suchen, seine Zeit / zu vergegenwärtigen,grundlegend müßte er de Sinn revidieren, den er den OrtschaftenInferno / Purgatorio und Paradiso beigemessen hatte. […]. DasGrundmuster zeigte sich wir folgt: Inferno / beherbergt alle die,die nach des früheren Dante Ansicht zur unendlichen Strafe ver-urteilt wurden, die heute aber hier weilen,, zwischen uns, den Le-bendigen, und unbestraft / ihre Taten weiterführen, und zufriedenleben mit ihren Taten, unbescholten, von vielen bewundert […] /Purgatorio dann ist die Gegend des Zweifelns, des Irrens, der miß-glückten / Bemühungen / die Gegend des Wankelmuts und desewigen / Zwiespalts, doch immerhin / gibt es hier die Bewebung,es gibt den Gedanken an die / Veränderung / der Lage / selbst wennes unmöglich scheint, den Wulst / zu durchbrechen, der jede unserRegungen einengt. […]. Deutlich sah ich / die Landschaft des Pa-radiso, wo jene zuhause sind, denen Dante einmal Glückseligkeitzusprach. Heute / da von Belohnung nicht mehr die Rede ist, undallein das bestandenen Leiden gewertet wird / bleibt dem Wande-rer / nichts andres übrig / als mitzuteilen / vas er erfahren hat vondiesem Leiden (Weiss 1968a: 136-138).6

6 «Dante, puesto a repetir / aquella peregrinación / tendría que buscar otros me-dios para que / su época volviera a vivirse tendría que revisar a fondo el sentido/ que dio a sus localidades, Infierno, / Purgatorio y Paraíso. […]. El guion debase era como el que sigue: el infierno / aloja a aquellos, que, en opinión del an-tiguo Dante / están condenados al castigo eterno, pero que hoy en día viven aquí,entre nosotros, / los vivos e impunes / siguen cometiendo sus actos y satisfechos/ viven con sus actos, sin reproche de nadie, admirados por muchos. […]. / Luego

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En línea con este programa de transformación radical del hipotexto me-dieval –que puede entenderse como la primera manifestación de la diná-mica interpretativa alegórica que define el dantismo de Peter Weiss– elescritor proyecta una secularización de los tres reinos de ultratumba queubica a los culpables del exterminio, aún impunes, en el infierno con apa-riencia paradisíaca de la República Federal Alemana, y a sus víctimas,desaparecidas sin ningún tipo de recompensa, en el paraíso de los sin-nombre. Entre ambos territorios, el reino fronterizo del purgatorio repre-senta el espacio de la duda y de la esperanza frustrada de un cambio; elespacio, en otras palabras, de la política. Sobre la base de este esquema,Peter Weiss escribe en primer lugar el drama inferno, cuyo intricado pro-ceso redaccional es indicativo también de una clara intencionalidad ale-górica. Esto es evidente, por ejemplo, en el esquema preparatorio de lareescritura (cfr. Müllender 2007: 65-102), un documento revelador quemarca la transición entre el momento receptivo y el momento creativo deldantismo de Peter Weiss. En concreto, este esquema pone de manifiestocuáles son las modalidades interpretativas que definen el acercamientoweissiano a la Comedia. Se trata de un escrito en el que el dramaturgo, amedida que avanza en la lectura de los cantos dantianos –ayudado por lasnotas explicativas del texto, así como de variada literatura secundaria–,establece arriesgadas correspondencias entre los personajes y espacios delinfierno dantiano y ciertos referentes extratextuales del mundo contem-poráneo: los funcionarios infernales se convierten, bien en dirigentes delTercer Reich, bien en personalidades políticas e intelectuales de la pos-guerra. Las almas penitentes se identifican, por lo general, con personas

el Purgatorio es la región de la duda, del errar, del malogrado / esfuerzo, la re-gión de no osar y el conflicto perpetuo, / pero, sin embargo / se da allí un movi-miento, se da el pensamiento de un cambio / de la situación, / por más que parezcaimposible pinchar / la ampolla / que nos estorba todo gesto […] Vi con claridad/ el paisaje del Paraíso, donde moran por justo derecho aquellos / a los que Danteprometió felicidad. Como hoy / de recompensa ya no cabe mención, y solo se davalor al dolor soportado, al peregrino / e queda solo contar lo que ha experi-mentado / en punto de dolor. Y encontrará la más entera / devastación, los espa-cios celestes no son para él más que vacío» (Weiss 1969b: 133-134).

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del entorno biográfico de Peter Weiss, así como con sus familiares y ami-gos de juventud. A través de esta operación de atribución de sentido, eldramaturgo descubre en los versos dantianos ese sobresignificado alegó-rico que se ubica más allá del nivel literal del texto y que es necesario paraconfirmar su actualidad en el mundo presente. Por esta vía, Peter Weissconsigue reducir la distancia que lo separa de la Comedia sometiendo loscontenidos originales a continuados procesos de resignificación alegórica,de modo que hereda del propio Dante Alighieri la actitud hermenéuticacon la que el mundo medieval logra recuperar gran parte de la tradiciónliteraria pagana a través de una relectura alegórica cristianizante o mora-lizante de los textos de Homero, Virgilio u Ovidio. El resultado de la reelaboración y del montaje de las actas de los jui-

cios de Fráncfort, que habría de corresponder a la tercera parte de la tri-logía dramática weissiana, se desvincula del proyecto dantiano, paraestrenarse en el año 1965 como La indagación. oratorio en once cantos.Sin embargo, la publicación autónoma del polémico drama, que abre laetapa documental y, por lo tanto, explícitamente política del dramaturgoalemán, no implica una renuncia definitiva al modelo medieval, pues tam-bién la fase documental de la producción dramática weissiana se rela-ciona con un nuevo DC-Projekt, al cual se dedica el escritor desde abrildel año 1965 hasta mayo del año 1966 (cfr. Müllender 2007: 205-247).Desde esta óptica, el primer paso hacia la superación del impasse creativoque supone Auschwitz se concreta en la elaboración de una dramaturgiacon función explícitamente crítica que responde con éxito al imperativocategórico adorniano. Efectivamente, las obras documentales que PeterWeiss desarrolla a raíz de su diálogo con Dante Alighieri están escritascon plena conciencia de su imbricación en los procesos materiales de la so-ciedad. Escribir dramas con el proposito de incidir en la realidad, modifi-cando las pautas de comportamiento de los diferentes actores sociales,implica necesariamente un rechazo de la condición de autonomía que elarte se atribuye a sí misma. En definitiva, el drama documental weissianose configura como una modalidad creativa que, en vez de ser cómplice dela barbarie por declararse independiente de los procesos sociales, reivin-

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dica su utilidad para impedir el retorno de nuevas catástrofes. En defini-tiva, la recuperación de la función crítica y desmitificante del producto ar-tístico es para Peter Weiss la única manera de devolverle a la esfera estéticala legitimidad que esta ha perdido por su rotundo fracaso en Auschwitz. En línea con esta nueva modalidad dramatúrgica de clara herencia

brechtiana, el escritor concibe el segundo proyecto de reescritura de laDivina Comedia sobre el esquema de un –alegórico– teatro del mundo,donde retratar, en forma de documento, el conjunto de las injusticias y delas miserias del mundo contemporáneo. Por lo que respecta a las moda-lidades que definen el acercamiento weissiano al poeta medieval en estenuevo proyecto, que también permanecerá inacabado, se mantiene la ac-titud interpretativa actualizante del primer DC-Projekt. De hecho, el Diá-logo sobre Dante (1965) –el metatexto correspondiente a este nuevo plande reescritura– está construido, como ya el Ejercicio preliminar, pero enesta ocasión, si cabe, de manera más acentuada, en torno a la tensión quese establece entre la percepción de la distancia radical de la Divina Co-media y la constatación de los numerosos elementos de actualidad quecontiene el poema. Desde esta óptica, está en lo cierto André Combescuando afirma que los dos metatextos relativos a cada una de las fasesdel DC-Projekt son claros indicadores de «ein doppelter Aneignungsge-stus der Identifikation und Distanz produktiv verknüpt» (Combes 1996:357).7 En el Diálogo sobre Dante es posible entrever desde el inicio deltexto una dinámica interpretativa que, por utilizar la terminología de Wal-ter Benjamin, reduce el valor cultual (Kultwert) de la Divina Comedia enfavor de su valor de exhibición (Austellungswert).8 Así, el interlocutor A

7 «Un gesto de apropiación doble que une de manera productiva identificacióny distancia» (la traducción es mía).8 Existe, por lo tanto, una relación estrecha entre la decadencia del aura y la ale-goría. Por lo que respecta a la interpretación, la mirada alegórica aumenta, efec-tivamente, el valor de exhibición de la obra de arte. Desde el punto de vistacreativo, tal y como refiere el filósofo en un significativo fragmento del Libro delos pasajes: «No parece desencaminado suponer que las épocas que se inclinana la expresión alegórica han experimentado una crisis del aura» (Benjamin 2005:372). Para todas estas cuestiones remito a Fürnkäs (2014); sobre la relación entre

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comienza el Diálogo con una constatación de la distancia “aurática” deDante Alighieri y de su poema:

A: Dante war für mich lange nur dieser Portalheilige zur aben-dländischen Kunst. Steht da mit seinem Lorbeerkranz, mit seinerKappe, deren Zipfel über die Ohren herabhängen, mit seinem Lan-gen Mantel. Er sieht etwas vergrämt aus, und doch hoheitsvoll,unberührbar. Ich spürte kein größeres Verlangen, seine Werke zulesen. Sie schienen mir allzu weit von meiner eigenen Welt ent-fernt (Weiss 1968b: 142).9

A pesar del desinterés que acompaña a esta percepción de la inaccesi-bilidad del sommo poeta, el intérprete no se limita a negar con sarcasmola calidad estética de los versos dantianos. Por el contrario, el interlocu-tor combate el prestigio sacro de Dante Alighieri, que neutraliza el valorexpositivo, y por tanto político de su poema, y consigue romper con laimagen “altiva e intocable” que de este transmite la tradición, a través deldescubrimiento del significado actual de la actitud humana, poética y po-lítica del florentino. Queda así mermada la lejanía de la Comedia y elpoeta medieval consigue aproximarse a sus lectores de hoy, quienes po-drán transformar al Dante histórico desde el presente, proyectando signi-ficados actuales sobre su figura:

Und in diesen Einzelheiten tritt mir plötzlich ein Lebender entge-gen. Dieser Dante, der vor 700 Jahren geboren würde, hat mir Zei-chen hinterlassen, mit denen er bestimmte Vorgänge aus seinemDasein festgehalten hat. Mit diesem Dante kann ich sprechen. Derzeigt mir, was er da alles hineingeladen hat in sein Oratorium […].

la caída del aura y la alegoría, véase Muzzioli (2016).9 «A: Durante mucho tiempo, Dante no ha sido para mí más que una figura sa-grada del portal del arte occidental. Allá está él con su corona de laurel, su bo-nete con las puntas que le cubren las orejas, su vara de peregrino y su largomanto. Parece un poco angustiado, y sin embargo, altivo, intocable. Yo no sen-tía gran deseo de leer sus obras. Me parecían demasiado alejadas de mi propiomundo» (Weiss 1969c: 139).

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Dieser Dante kann ich in meine heutige Welt aufnehmen. Ich kannihn dort angreifen und verändert (Weiss 1968b: 144). 10

Como ya en el Ejercicio preliminar para el drama en tres partes Di-vina Comedia, también en el Diálogo sobre Dante, Peter Weiss insisteen la inactualidad radical del esquema ideológico que estructura y fun-damenta los contenidos del poema sacro: «Das Weltbild das Dante schil-dert, ist für mich sehr entlegen. Es ist ein heiles Weltbild» (ibíd.).11También admite que, como lector, no posee ni la «geschichtliche Bil-dung» (cultura histórica) necesaria para poder reconocer a los personajesdel poema y entender los criterios morales que los ubican en una zona uotra de la topografía del más allá, ni los «theologische und philosophis-che Grundlagen» (cimientos teológicos y filosóficos) necesarios parapoder acceder a la comprensión del Paraíso. No obstante, también en estaocasión Peter Weiss consigue descontar la distancia histórica e ideoló-gica que lo separa de la Comedia a través de un proceso de reinterpreta-ción alegórica que no ambiciona recuperar los versos dantianos «von denAnlässen her, aus denen Dante sie konzipierte, sondern von den Asso-ziationen her, mit denen sie sich in meiner heutigen Welt aktualisieren.[…]. Ich versetzte diese mittelalterliche Welt immer nur in meine Ge-genwart» (Weiss 1968b: 144-149).12

En concreto, Peter Weiss opta, también en esta ocasión, por reducir ladistancia con el poema sacro a través de la secularización –y de la sub-versión– de la topografía dantiana, ubicando a los culpables impunes en

10 «Y en estos detalles se me aparece de pronto un ser viviente. Aquel Dante, quenació 700 años atrás, me ha dejado signos en los que se encierran determinadoshechos de su existencia. Con aquel Dante puedo hablar. Él me señala todo lo queha metido en su oratorio. […]. A aquel Dante puedo acogerlo en mi mundo dehoy. Y aquí puedo atacarlo y cambiarlo» (Weiss 1969c: 141).11 «La imagen del mundo que Dante describe me queda muy lejos. Es una ima-gen sagrada» (ibíd.).12 «No a partir de las bases sobre las que Dante los concibió, sino (a partir) delas asociaciones gracias a las que se actualizan en [su] mundo de hoy […] Siem-pre traslado aquel mundo medieval a mi actualidad» (Weiss 1969c: 140-146).

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el infierno, y a sus víctimas enmudecidas en el paraíso. Sin embargo,mientras que Auschwitz es el núcleo temático del primer DC-Projekt, estavez la crítica política se extiende y se radicaliza, pues el exterminio seconvierte en uno solo de los múltiples temas que pretende tratar la obra(Müllender 2007: 207). El propósito no consiste ahora ni en señalar a losresponsables de la persecución y del asesinato del pueblo judío, que vivenimpunemente en la República Federal de Alemania, ni en dar voz a lamemoria de los supervivientes de los Lager nazis. En el nuevo plan, estosúltimos son reemplazados por todo el colectivo de los oprimidos y, enconcreto, por las incontables víctimas, generadas por el capitalismo y porlas políticas imperialistas, pues estas son las únicas que se merecen unaexistencia paradisíaca. En el infierno contemporáneo habitan, por el con-trario, los opresores y los tiranos que mantienen un sistema radicalmenteinjusto y que se benefician de la explotación ajena. En último lugar, elpurgatorio se configura como el espacio de la praxis política pero, mien-tras que en el Ejercicio Preliminar el tono es de escepticismo y de frus-tración, en el Diálogo sobre Dante el purgatorio se transforma en el lugarde la confianza en las posibilidades estético-políticas de una superaciónreal de las situaciones cotidianas de opresión:

A: In einem Welttheater, das der Struktur der Göttlichen Komödiefolgte, wäre das Material hier überwältigend. Dante könnte unter-suchen, wer da alles in den Kerkern unserer Gefängnisse sitzt, erkönnte in die Hinterhöfe der Städte gehen und durch die Länderund Erdteile streifen, die von Diktatoren und Kolonisatoren regiertwerden, er könnte das Netzt der ökonomischen Interessen aufdec-ken, unter dem Bevölkerungen erwürgt werden, er könnte die ihrerRasse wegen Verurteilten zeigen, er könnte die Fabriken aufsu-chen und den Lohnkämpfen der Arbeiter zuhören. So wie im in-ferno-Teil die Mächtigen dieser Welt in ihren Hochburgen darstelltund dabei deutlich macht, daß ihre Herrschaft noch ungebrochenist, führt er uns im Paradiso die Seligen vor, die immer noch aufdie Befreiung warte. Und er wird heute wissen, daß es diese Be-freiung für sie nur hier und zu ihren Lebzeiten geben kann, unddaß ihnen eine Befreiung nichts nützt, wenn sie tot sind. Was

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immer er auch beschreibt, und wir unzugänglich und unbekanntes auch ist, er muß es mit Worten beschreiben, die ihnen Standortauf der Erde deutlich machen (Weiss 1968b: 168).13

Ante estas y otras declaraciones semejantes del hablante A en el Diá-logo, todas ellas manifestaciones de un gesto interpretativo actualizante, elhablante B deduce que su interlocutor, al mismo tiempo que recupera a unDante libre de dogmas religiosos, lee la Divina Comedia como un hereje:

Du liest also Dante gegen den Strich. Du liest ihn nicht in der Ri-chtung, die zu einer kosmischen Allmacht führt, zu einer Versöh-nung, zu einem mystischen Gleichgewicht, sondern zu denAusgangspunkten der Ungewissheit, der Verwirrung, des Zwei-fels. Du liest Dante als Ketzer (Weiss 1968b: 148; la cursiva esmía).14

Para demostrar que la referencia intertextual a una de las expresionesclave de las Tesis sobre el concepto de Historia (1940) de Walter Benja-min (gegen den strich) no es una simple coincidencia terminológica, sinola descripción consciente y precisa de la actitud hermenéutica alegóricacon la que Peter Weiss se aproxima al poema medieval es necesario diri-

13 «En un teatro universal que siguiera la estructura de la Divina Comedia, elmaterial sería abrumador. Dante podría investigar quiénes están encerrados en lasceldas de nuestras cárceles, podría ir a los suburbios de las ciudades y cruzar lospaíses y continentes gobernados por dictadores y colonizadores, podría descubrirla red de intereses económicos que ahogan a los pueblos, podría señalar a loscondenados por razón de su raza, podría entrar en las fábricas y unirse a los obre-ros en sus luchas por un salario mejor. Así como en el Infierno presenta a los po-derosos de este mundo en sus castillos, y muestra que su poderío no ha cesado,en el Paraíso introduce a los benditos que siguen esperando la liberación. Y hoysabrá que, para ellos, esta liberación sólo puede darse aquí y mientras vivan, yque una liberación no les servirá de nada cuando estén muertos. Sea lo que sealo que describa, y por inasequible e ignorado que sea, tiene que describirlo conpalabras que expresen inequívocamente una situación en la tierra» (Weiss 1969c:165-166).14 «De modo que lees a Dante a contrapelo. No lo lees en la dirección que llevahacia una omnipotencia cósmica, hacia una conciliación, hacia un místico equi-librio, sino hasta los puntos de partida en la incertidumbre, el desconcierto, laduda» (Weiss 1969c: 145; la cursiva es mía).

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gir la atención al último episodio en el que se materializa textualmente eldantismo del escritor alemán, no sin antes recordar la tesis del opúsculobenjaminiano en la que aparece la célebre expresión:

Es ist niemals ein Dokument der Kultur, ohne zugleich ein solchesder Barbarei zu sein. Und wie es selbst nicht frei ist von Barbarei,so ist es auch der Prozeß der Überlieferung nicht, in der es vondem einem an den andern gefallen ist. Der historische Materialistrückt daher nach Maßgabe des Möglichen von ihr ab. Er betrach-tet es als seine Aufgabe, die Geschichte gegen den Strich zu bürs-ten (Benjamin 1980: 696-697; la cursiva es mía).15

2. UN EPISODIO DE LECTURA DAnTiS EN LA ESTéTiCA DE LA RESiSTEn-CiA DE PETER WEISS

La estética de la resistencia de Peter Weiss, publicada en tres volú-menes entre los años 1975 y 1981, tiene, de la misma manera que la Di-vina Comedia de Dante Alighieri, y como previamente tenía el proyectodramático del teatro del mundo, una clara aspiración totalizante. En los al-bores de una época que reclama con resignación la muerte del arte, el finde la historia y la pérdida de legitimidad de los grandes metarrelatos, PeterWeiss escribe un monumento de «prosa pensante» (Sastre 2013: 9) quereivindica la función política de la estética y reconstruye con estilo do-cumental la historia de la resistencia antifascista, desde el año 1937 hastael final de la Segunda Guerra Mundial. Las peripecias de tres jóvenes ber-lineses de origen proletario, Horst Heilmann, Hans Coppi y el anónimonarrador de la novela, conforman el marco ficcional a través del cual serelata esta historia de lucha y resistencia que es comúnmente excluida dela historiografía vigente. En efecto, las vicisitudes de estos personajes

15 «No hay un solo documento de cultura que no lo sea a la vez de barbarie. Y siel documento no está libre de barbarie, tampoco lo está el proceso de transmisiónde unas manos a otras. Por eso el materialista histórico toma sus distancias en lamedida de lo posible. Considera tarea suya cepillar la historia a contrapelo» (Ben-jamin en Mate 2006: 130).

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constituyen solo una sencilla fábula a partir de la cual se despliega todala historia del movimiento obrero del siglo XX y se recorren las esperan-zas y las derrotas del proletariado europeo. Así, en el primer volumen de La estética, dividido en dos partes, se

narra el viaje a España del protagonista de la pieza, quien interviene en laGuerra Civil Española (1936-1939) para defender la causa republicanajunto a las Brigadas Internacionales. En vez de participar en las grandesbatallas de la contienda bélica, el voluntario alemán se instala en la Cuevade la Tia Potita, un centro de convalecencia para combatientes heridos si-tuado cerca de Albacete y regentado por el psicoanalista Max Hodann. Altratarse de un lugar periférico y alejado del frente, la finca favorece la re-flexión distanciada sobre el desenlace de la guerra y da pie a un debatemás sosegado y formativo sobre los enfrentamientos, fatales para el bandorepublicano, entre anarquistas, comunistas y socialistas. En el segundovolumen de la obra, también dividido en dos partes, el narrador, conven-cido de la necesidad de crear un frente común para combatir el fascismoeuropeo, rememora su paso por París tras la disolución de las Brigadas In-ternacionales. También relata su experiencia de exilio en Estocolmo,donde colabora con Bertolt Brecht, que se encuentra en Dinamarca, parala redacción del drama, finalmente inconcluso, sobre el insurgente suecoEngelbrekt (1390-1436). En la capital escandinava, tanto su incipienteactividad creativa como su actividad de militancia clandestina en el Par-tido Comunista se ven condicionadas por la inmensa decepción provo-cada, por un lado, por el Pacto de no agresión entre Alemania y la UniónSoviética (1939) y, por otro lado, por la actitud colaboracionista que man-tiene el gobierno sueco, presuntamente neutral, ante la ocupación nazi deFinlandia y Noruega (1940). Por último, las dos partes del tercer volu-men de La estética se centran en la actividad clandestina contra el na-zismo que lleva a cabo el grupo de la Rote Kapelle (Orquesta roja oCapilla roja en español) en Berlín. Esta actividad se describe desde laperspectiva de una de sus integrantes, la comunista Lotte Bischoff, quienviaja en barco desde Estocolmo hasta Alemania para unirse a la resisten-cia antifascista. Se narra también, y de manera exhaustiva, la desarticu-

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lación de esta célula de disidentes por parte de la Gestapo, en un procesoque culmina en la prisión berlinesa de Plötzensee en al año 1942, con latortura y la ejecución de once de sus integrantes, entre los que se en-cuentran también Hans Coppi y Horst Heilmann. La linealidad de esta narración se ve constantemente interrumpida por

extensas digresiones de la más diversa índole: minuciosas descripcionesde paisajes naturales y urbanos –como las calles de París, el litoral va-lenciano o el centro de Estocolmo–, encendidos debates sobre complejasproblemáticas políticas y culturales que reproducen, por ejemplo, discu-siones internas del Partido Comunista, así como extensas reflexiones es-téticas, estimuladas, en la gran mayoría de los casos, por la confrontacióncon obras de arte de diferente procedencia y estilo. Estas últimas desvia-ciones son tan numerosas que La estética de la resistencia puede leersetambién, de acuerdo con José Luis Sagüés, como una «peculiar historiadel arte» (2000: 205), pues en la novela se hace un recorrido no cronoló-gico «por el arte griego-helenístico, el gótico, el periodo clasicista, el ro-mántico-naturalista, por el arte ruso y por el realismo soviético, por elcubismo, el surrealismo, por el modernismo o por el impresionismo»(ibíd.). Para definir esta dimensión esencial de la novela de Peter Weiss,Fredric Jameson, en el prólogo de la edición inglesa del primer volumende la novela, prefiere hablar de una «pedagogía estética» (cit. en Guerra2009: 44), pues en la pieza se describe, efectivamente, el proceso deaprendizaje autodidacta que experimentan los tres jóvenes berlineses.Después de una jornada laboral agotadora, Heilmann, Coppi y el anónimonarrador de La estética se dedican diariamente a lo que ellos denominan«Kulturarbeit» (Weiss 1975: 59; el «trabajo cultural» de Weiss 2013: 80).Conscientes de que «Untrennbar von der ökonomischen Begünstigungwar die Überlegenheit des Wissens» y con la convicción de que «Die Be-vorteilten versuchten, den Unbemittelten den Weg zur Bildung so langewie möglich zu verwehren» (Weiss 1975: 53),16 los tres amigos se apro-

16 «La superioridad en el saber era inseparable de los beneficios económicos».«Los favorecidos intentaban vedar el camino a la educación a los carentes demedios durante tanto tiempo como fuera posible» (Weiss 2013: 74).

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ximan, con extrema dificultad y por voluntad propia, a aquellos produc-tos culturales que, por su origen proletario, deberían resultarles ajenos einaccesibles. Tan magno esfuerzo tiene su recompensa, pues la apropia-ción del arte es el requisito para poder desarrollar una capacidad creativapropia, es decir, para poder producir un arte combativo que relate desdeel punto de vista del proletariado las experiencias de opresión y de resis-tencia del siglo XX. En una dinámica semejante a la de la Divina Come-dia de Dante Alighieri, los medios de expresión se adquieren por lo tantode manera gradual, para desembocar finalmente en el acto de escritura-re-memoración que lleva a cabo el narrador-protagonista de La estética.Entre el amplio desfile de piezas artísticas que son objeto de la admi-

ración y del esfuerzo interpretativo de los personajes de la novela, se en-cuentran, además de numerosos cuadros, esculturas y construccionesarquitectónicas, un gran número de obras literarias, entre las cuales cobraespecial relevancia precisamente la Divina Comedia de Dante Alighieri.En concreto, la primera referencia explícita al poema medieval se en-cuentra en el primer volumen de La estética, cuando el anónimo narradorde la novela se reúne con Hans Coppi y Horst Heilmann para intentar des-cifrar, en el Berlín del año 1937, los primeros cinco cantos del inferno.Para llevar a cabo esta auténtica lectura Dantis, que recupera la dimen-sión colectiva de la primera recepción de la Comedia, los jóvenes berli-neses cotejan dos traducciones alemanas del poema –la de HermannGmelin y la de Rudolf Borchardt– y se apoyan en los rudimentarios co-nocimientos de francés y de latín que posee Horst Heilmann. Los intér-pretes son conscientes de que esta ardua hazaña exige aproximarse a losversos dantianos con una mirada racional, capaz de analizar cada detalle:«Wir wollten bei der Lektüre jedoch nichts Mystisches, Irrationales auf-kommen lassen und bemühten uns jeden Anklang ausführlich in seineKomponenten zu zerlegen» (Weiss 1975: 80).17 A pesar de leer el infiernoa partir de tales premisas, estos tres intérpretes contemporáneos de la Co-

17 «No queríamos sin embargo dejar que durante la lectura surgiera nada místico,irracional, y nos esforzábamos por descomponer cada asonancia detalladamente»(Weiss 2013: 103).

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media perciben inmediatamente, como ya Peter Weiss en los dos meta-textos del DC-Projekt, la extrañeza radical del poema sacro:

Die Divina Comedia war ebenso beunruhigend, rebellisch und for-mal und thematisch scheinbar vor allem Bekannten entfernt wieder Ulysses, den wir auch erst bruchstückhaft, als eine Rebus, ken-nengelernt hatten (Weiss 1975: 79).18

Llama la atención que la extrañeza y la dimensión enigmática delpoema dantiano se asocien desde el primer momento con el Ulysses deJoyce, así como que en el párrafo que introduce este episodio de meta-lectura, el nombre de Dante Alighieri se relacione con otros representan-tes del arte de vanguardia: «Wir verstanden darauf, daß Joyce und Kafka,Schönberg und Strawinski, Klee und Picasso der gleichen Reihe ange-hörten, in der sich auch Dante befand, mit dessen Inferno wir uns seit ei-niger Zeit beschäftigen» (ibíd.).19 Esta inclusión tan desconcertantepermite ubicar los versos dantianos dentro de la segunda tipología deobras con las que los jóvenes se topan durante el proceso de aprendizajeque llevan a cabo para salir de su condición de «opresión espiritual»(Weiss 2013: 77):

Wir fragten uns, ob die Themen der Bücher, die wir lass unsern Er-lebnissen verwandt waren, ob sie Menschen schilderten, die unsnahstanden, ob sie Stellung bezogen und Lösungsversuche anbo-ten. Es gab Werke, die in keiner direkten Beziehung zu unsernNormen standen, und die, grade weil sie Unbekanntes enthielten,unser Interesse weckten. Zumeist prüften wir Text oder Bild, wo-rauf wie in einer Zeitschrift, in einem Museum, gestoßen waren, ob

18 «La Divina Comedia era igualmente perturbadora, rebelde y formal y temá-ticamente alejada de todo lo conocido como el Ulises, el cual al principio tam-bién habíamos conocido de modo fragmentario, como una especie de jeroglífico»(Weiss 2013: 102; la cursiva es mía).19 «Nos manteníamos firmes en la opinión de que Joyce y Kafka, Schönberg,Stravinski, Klee y Picasso formaban parte del mismo frente en el que también seencontraba Dante, de cuyo infierno nos ocupábamos desde hacia algún tiempo»(ibíd.).

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es sich im politischen Kampf verwenden ließ, und akzeptierten es,wenn es von offener Parteilichkeit war. Dann wieder stießen wirauf andres, was eine unmittelbare politische Wirksamkeit nicht zuerkennen gab und doch beunruhigende und, wie uns schien, wich-tige Eigenschaften besaß (Weiss 1975: 56; la cursiva es mía).20

Entre estas piezas «sin efectividad política inmediata», que el narradordefine como «beunruhigend» (inquietantes), utilizando, por lo tanto, elmismo término con el que describe la perplejidad que causa la Comediasobre los tres jóvenes obreros, se incluyen las manifestaciones creativasdel Surrealismo, del Dadaísmo, del Cubismo o del Constructivismo. Laadscripción del poema medieval a este tipo de obras no implica necesa-riamente que Heilmann, Coppi y el narrador consideren el poema sacrocomo una obra vanguardista; lo que hace es indicar que estos aplican elmismo procedimiento interpretativo sobre los versos dantianos que el queaplican sobre las manifestaciones creativas vanguardistas. En este sen-tido, la ardua confrontación con la Comedia debe analizarse a la luz de lasconsideraciones sobre la significación política del arte de vanguardia quese encuentran unas páginas antes, en el contexto de un intenso debate querecupera los términos de la controversia sobre el Expresionismo que tienelugar en los años treinta en Alemania. Horst Heilmann apoya los proce-dimientos expresivos de las vanguardias y rechaza con contundencia lasdirectrices del realismo socialista, pues estas, al mostrar solo una aspectode la realidad, subestiman las capacidades intelectuales del público al quese dirigen. En concreto, y en clara contraposición con Hans Coppi, de-fensor de la necesidad de un arte que refleje explícitamente las situacio-

20 «Nos preguntábamos si los temas de los libros que leíamos estaban relaciona-dos con nuestras experiencias, si describían personajes próximos a nosotros, sise posicionaban y ofrecían intentos de solución. Había obras que no estaban enrelación directa con nuestras normas y que despertaban nuestro interés precisa-mente porque contenían algo desconocido. En la mayoría de los casos examiná-bamos el texto o cuadro con que nos habíamos topado en una revista o en unmuseo, si podía ser utilizado en la lucha política y lo aceptábamos si era de unaabierta imparcialidad. Otras veces, en cambio nos topábamos con otros que nopermitían apreciar una efectividad política inmediata y que, sin embargo, segúnnos parecía, tenían cualidades inquietantes e importantes» (Weiss 2013: 77-78).

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nes de opresión del proletariado, Heilmann considera que el problemafundamental de la estética que promueve la Unión Soviética radica enque no hay concordancia entre forma y contenido: «In die Abbildungenrevolutionäre Vorgänge mischt sich ein Stil, der verbraucht ist» (Weiss1975: 65).21 Por su parte, el anónimo narrador de la novela, además de de-fender, de la misma manera que Heilmann, los procedimientos expresivosde las contradictorias obras de la vanguardia, reivindica también la po-tencialidad subversiva que puede contener cualquier manifestación cul-tural, independientemente de su origen y de su intencionalidad explícita.Desde su perspectiva, tanto en las obras experimentales del capitalismotardío como en gran parte del arte burgués del siglo XIX, se pueden des-cubrir espacios de contestación política, pues todas ellas son susceptiblesde trascender su origen histórico para contribuir a la transformación es-piritual y política de la colectividad:

[…] warum sollte dann nicht auch in den Werken des spätbürger-lichen Grübler und Experimentatoren, Aufschlussreiches unser In-teresse wecken können: Hatten Marx, Engels, Luxemburg, Leninnicht der Gedanken angeregt, daß kulturelle Äußerungen nichtimmer infolge der materiellen Bedingungen ihrer Zeit, sondern oftim Gegensatz zu ihnen erbracht wurden, daß Künstler mit List,Trotz und Ironie die Schranken und Gegebenheiten der Produk-tionsverhältnisse durchbrachen und, mit neuen Erkenntnissen, zurBewusstseinsveränderung beitrugen (Weiss 1975: 78).22

21 «En la representación de acontecimientos revolucionarios se mezcla un estiloque ya está agotado» (Weiss 2013: 87).22 «¿Por qué no podían despertar nuestro interés los aspectos notables en lasobras de los pensadores y artistas experimentales del capitalismo tardío? ¿No ha-bían sido Marx, Engels, Luxemburg, Lenin, los que habían sugerido la idea deque las manifestaciones culturales no siempre se producían a consecuencia delas condiciones materiales de su época sino, a menudo, en oposición a ellas, deque los artistas rompieran con astucia, obstinación e ironía las barreras y lo dadode las relaciones de producción y de que contribuyeran con nuevos conocimien-tos a la transformación de la conciencia?» (Weiss 2013: 101).

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La dificultosa confrontación de los tres jóvenes proletarios con la Di-vina Comedia de Dante Alighieri debe entenderse como la confirmaciónmás evidente de este posicionamiento teórico, pues pone de manifiestocómo también las obras en las que no se aprecia una eficacia política in-mediata pueden servir para el presente de la lucha antifascista. En otraspalabras, incluso aquellas piezas que no reflejan de manera realista elmundo cotidiano de los trabajadores y que, por lo tanto, parecen en unprimer momento alejadas de todo lo conocido, se pueden utilizar en be-neficio propio. Para conseguir este efecto, es necesario abandonar las in-terpretaciones de los productos artísticos que transmite la tradición yproyectar sobre ellos las necesidades concretas del momento presente. Enrelación con este tema, en un fragmento decisivo de sus Cuadernos denotas, Peter Weiss explicita que los tercetos dantianos, a pesar de laenorme distancia que nos aleja irremediablemente de ellos, tienen la in-mensa fuerza de hacerse presentes, y haciéndose presentes, de influir y en-riquecer a sus lectores contemporáneos:

Natürlich ist Dante ein Produkt seines gegebenen soziales Milieus.Doch liegt sein Wert nicht nur darin, daß er uns die Psychologieeiner bestimmten Klasse zu einem bestimmten Zeitpunkt zeigt[…]. Diese Werk kann uns noch beeinflussen, anrühren, berei-chern. Der intensive, mächtige Ausdruck dieses Werkes sprengtseine Zeitgrenzen (Weiss 1982: 628).23

Esta convicción desemboca en la dinámica interpretativa alegórica quedefine el acercamiento a la Divina Comedia de los tres amigos, los cua-les reproducen de esta manera la actitud actualizante que se ha visto tam-bién en el Ejercicio preliminar y en el Diálogo sobre Dante. Como en losdos metatextos del proyecto de reescritura dramática de la Comedia, tam-bién en La estética la constatación inicial de la distancia y de la extra-

23 «Naturalmente Dante es un producto de su entorno social. Pero su mundo noconsiste solamente en mostrar la psicología de una clase concreta en un momentohistórico concreto. […]. Esta obra todavía nos puede influir, tocar, enriquecer. Laintensiva y poderosa expresión de esta obra hace volar sus fronteras temporales»(la traducción es mía).

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ñeza radical del poema sacro conduce a la búsqueda de su contenido deverdad y a la atribución de ese sobre-significado alegórico que, comoafirma Peter Kuon, «colma l’abisso tra Medioevo e Novecento e permettedi collegare l’esperienza di Dante con la propria vita» (Kuon 1995: 60):

Es war nicht mehr notwendig, daß wir die Aussagen so verstanden,wie sie vielleicht vor sechshundert Jahren gemeint waren, sonderndaß sie sich in unsre Zeit versetzen ließen, daß sie hier, in dieserParkanlage, neben dem Kinderspielplatz, hier, zwischen diesenfrisch aufgeschütteten Gräbern, unterhalb der Sankt Sebastian Kir-che, Leben annahmen, denn das war es, was sie dauerhaft machte,daß sie unsere eignen Erwägungen weckten, daß sie nach unsernAntworten verlangten (Weiss 1975: 82).24

La novedad más importante de este episodio de metalectura reside enel contexto en el que se inserta, pues la interpretación alegórica de losversos dantianos se configura, como anticipábamos, como una etapa másen el proceso de aprendizaje autodidacta que llevan a cabo los protago-nistas de la novela, en su lucha por la superación de las restricciones declase que les impiden el acceso a la cultura:

Es reichte ja nicht, drauf aufmerksam zu machen, daß die Biblio-theken offen standen, erst mußte die generationenalteZwangsvorstellung, daß das Buch für dich nicht da war, über-wunden werden. Wir saßen sonntags im Humboldt Hain […] undversuchten herauszufinden, was die Divina Comedia mit unsermLeben zu tun hatte (Weiss 1975: 81).25

24 «Ya no era necesario que entendiéramos las afirmaciones en el sentido que talvez se les había dado hace seiscientos años, sino que se dejasen trasladar a nues-tro tiempo, que adquirieran vida aquí, en este parque, al lado del lugar de juegosde los niños, aquí entre las tumbas recién cavadas junto a la iglesia de San Se-bastián, pues eso era lo que las hacía perdurables, que despertaran nuestras re-flexiones, que exigiera nuestras respuestas» (Weiss 2013: 105).25 «No bastaba con llamar la atención sobre el hecho de que las bibliotecas eranpúblicas, primero tenía que ser superado el viejo prejuicio de generaciones deque el libro para ti no estaba allí. Los domingos nos sentábamos en la arboledade Humboldt […] e intentábamos averiguar qué tenía que ver la Divina Come-

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En su reivindicación del derecho a los libros y a la cultura que les hasido negado por su origen proletario, los tres jóvenes antifascistas berli-neses reconocen el primer paso en el largo y dificultoso camino que leshabrá de conducir a la emancipación política. Más allá de los contenidosconcretos de actualidad que estos tres lectores tan obstinados de DanteAlighieri consiguen descubrir en los tercetos dantianos –y a pesar de la in-negable importancia del principio estético de la anestesia que los jóvenesformulan sobre imitación del modelo dantiano (cfr. Birkmeyer 1994: 139-153)–, el aspecto decisivo del productivo diálogo que Horst Heilmann,Hans Coppi y el narrador de La estética de la resistencia establecen conel poeta medieval radica en el acto mismo de su proceso de acercamientoal poema sacro. Efectivamente, su confrontación con la Comedia adquierela dimensión de una auténtica lectura gegen den Strich (“a contrapelo),ahora en sentido claramente benjaminano, pues, en el preciso momentoen el que los tres trabajadores berlineses leen el poema como un espaciolleno de significación para el presente, y no como un objeto de culto inac-cesible y admirado por simple convención, consiguen liberar a la obra dearte dalla «gabbia d’oro dell’art pour l’art» y ponerla «al servizio della re-sistenza contro il fascismo» (Kuon 1995: 60). De esta manera, descu-briendo los núcleos de actualidad del poema medieval, estos tresinexpertos lectores participan en una batalla hermenéutica. Su lucha con-siste en recuperar para la causa proletaria una parte de ese patrimonio cul-tural que, como ha enseñado Walter Benjamin en la séptima de sus Tesissobre el concepto de historia, tampoco en su «proceso de transmisión» esinmune a la barbarie (Benjamin en Mate 2006: 130). Es sabido, de hecho,que el régimen nazi utilizó el patrimonio cultural y literario alemán enbeneficio propio, adueñándose de las obras del pasado y manipulando suscontenidos para que estos resultaran funcionales a sus fines (cfr. Grass1999). No obstante, quizás no sea tan conocido que, según ha demostradoMirjam Mansen en su estudio sobre la recepción de Dante en Alemaniadurante la primera mitad del siglo XX (2003), las autoridades nazis so-metieron también la obra del autor florentino –y sobre todo la monar-

dia con nuestras vidas» (Weiss 2013: 105).

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chia– a un proceso de mitificación e instrumentalización política, de talmanera que el poeta se llegó a convertir en el símbolo de la alianza polí-tica y cultural entre la Italia del Duce y la Alemania de Hitler (cfr. Man-sen 2003: 99).En definitiva, la aproximación a la Divina Comedia de los tres jóvenes

berlineses contribuye a politizar la estética a través de «un acto herme-néutico de apropiación» (Compagnon 2005: 65) que reduce la distanciaaurática del poema medieval y lo acerca al horizonte vital de sus intér-pretes en el presente. En un momento de peligro como es el que se viveen el Berlín nazi del año 1937, Heilmann, Coppi y el anónimo narradorde la novela interpretan a Dante “a contrapelo” para salvarlo de las lec-turas falsas y deformadas del enemigo. Los jóvenes participan con éxitoen dicha batalla hermenéutica, pues consiguen atribuir a la Divina Co-media significados nuevos, de manera que la obra del poeta medievalpueda leerse bajo una nueva luz. Este gesto interpretativo actualizante, que descubre el potencial subver-

sivo que contienen los versos dantianos si se conectan con las experienciasde sus lectores se desvincula del contexto dantiano para pasar a definir ensu conjunto el proceso de aprendizaje estético-político que llevan a cabolos protagonistas de la novela de Peter Weiss. Efectivamente, la mismamodalidad de lectura define también la actitud que desarrollan los traba-jadores berlieses en su encuentro con cualquier obra de arte del pasado: elAltar de Pergamo (II siglo a. C.), El castillo de Franz Kafka (1926) o Guer-nica de Pablo Picasso (1937), entre otras. De la misma manera que el An-gelus novus de la novena tesis Sobre el concepto de historia de WalterBenjamin, todas estas obras se pueden salvar para el presente a través deun proceso de resignificación alegórica. Desde esta perspectiva, la “es-tética de resistencia” que propone Peter Weiss en la novela se configuracomo una estética fundamentada en una práctica de interpretaciónalegórica, esto es, una hermenéútica materialista (Luperini 1990) que de-scubre el plus de significado que contienen cualquier producto cultural sise reinterpreta desde la perspectiva de los vencidos de la Historia.

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Este es precisamente el programa estético con el cual el dramaturgoalemán consigue finalmente superar el impasse creativo y existencial enque desemboca, tal y como se anuncia en Punto de Fuga, la impactantevisión de las imágenes de los campos de exterminio nazis. En este sentido,la cita de La estética que se reproduce a continuación –ubicada en el con-texto de la extensa digresión inicial sobre el Friso del Altar de Pérgamo–confirma el rol decisivo que desempeña en la obra el diálogo a tres vocesentre Dante Alghieri, Walter Benjamin y Peter Weiss. De hecho, cuandoHans Coppi describe el principio hermenéutico alegórico que fundamentatoda La estética, además de introducir una expresión de evidence eco ben-jaminiano (gegen den Strich), establece al mismo tiempo una relación in-tratextual con el Diálogo sobre Dante, donde, como se ha explicado en elapartado anterior de este artículo, aparecía esa misma expresión:

Wollen wir der Kunst, der Literatur annehmen, so müssen wir siegegen den Strich behandeln, daß heißt wir müssen alle Vorrechtedie damit verbunden sind ausschalten und unsre eignen Ansprüchein sie hineinlegen (Weiss 1975: 41).26

Se instaura de este modo una compleja e interesantísima red de rela-ciones que vincula la segunda fase del DC-Projekt a La estética de la re-sistencia y que permite ubicar el origen de los procedimientos alegóricosde la novela en una lectura con lentes benjaminianas de la Divina Come-dia. Se puede concluir entonces que el análisis diacrónico del dantismodel escritor alemán revela que la confrontación weissiana con el poemasacro resulta decisiva para su evolución intelectual, pues permite trazaruna línea de continuidad entre las primeras obras de argumento dantianodel dramaturgo y La estética de la resistencia. Por lo tanto, a pesar de quela crítica mas reciente haya excluido definitivamente cualquier vinvula-ción directa entre los proyectos de reescritura del poema medieval y el en-

26 «Si queremos hacer nuestro el arte, la literatura, entonces tenemos que tratarlaa contrapelo, es decir, tenemos que eliminar todos los privilegios que van unidosa ello y situar en su lugar nuestras propias aspiraciones» (Weiss 2013: 60).

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sayo-novela sobre la resistencia, la relación que se establece entre estosdos episodios de dantismo exceden el plano del proyecto, pues las con-vinciones estéticas y políticas del último Peter Weiss se pueden atribuira su durarero diálogo con Dante y a su concienzuda lectura de los versosdel poeta.

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Dante Alighieri, Comedia, prólogo, comentarios y traducción de JoséMaría Micó, Barcelona, Acantilado, 2018, 936 págs.

Queremos saludar con esta reseña una nueva traducción de la Comme-dia al español, que ve la luz en el momento en que estamos terminandode editar nuestro número anual de Tenzone. Haremos, pues, una rápidadescripción y valoración del libro, sin entrar en el análisis profundo quela obra merece pero que la premura editorial impide, y quede para másadelante un examen más detenido.La edición, de cuidada factura editorial, tanto en la impresión como en

el diseño gráfico, supone sin duda un paso adelante importante en el acer-camiento a la gran obra dantesca con respecto a las ya existentes, y ellono solo por la propuesta de una nueva traducción, lo cual es siempre algoque celebrar, sino porque el texto va acompañado de un interesante apa-rato crítico que facilita la lectura a un lector, como el español, no fami-liarizado con el mundo del poeta florentino. Se cubre así, aunque seaparcialmente, una destacada laguna de nuestro mundo editorial, y cultu-ral en general, pues, si bien es verdad que contamos con excelentes tra-ducciones de la obra (Luis Martínez de Merlo para Cátedra, AbilioEcheverría para Alianza, la célebre de Ángel Crespo para Seix Barral, ola traducción en prosa de Violeta Díaz-Corralejo para Sial, sin olvidar lastraducciones argentinas de Jorge Aulicino para Edhasa o la clásica de Bat-tistesa para la Sociedad Dante Alighieri de Buenos Aires), en todas ellasel texto carece del aparato crítico de mediación necesario para una lecturacabal de la obra (salvo la glosa con que Díaz-Corralejo explica el texto ensu edición). Esta laguna, como decimos, viene cubierta parcialmente, puesaunque el texto no lleve el necesario commento, sí está apoyado por al-gunos interesantes y bien elaborados instrumentos de mediación.Para empezar, el texto traducido va seguido, a pie de cada página, a

dos columnas y en cuerpo menor, por el texto italiano, lo que puede en-riquecer la lectura del lector de habla española, incluso sin ser conocedorde la lengua italiana, dada la cercanía genética de ambos idiomas. Más im-

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portantes son los apéndices finales, con los “mapas” del universo dan-tesco, así como de cada uno de los tres reinos ultraterrenos, habituales enediciones italianas (pp. 833-836), y, sobre todo, con un excelente «Índicerazonado» (con nada menos que 100 páginas), que no solo incluye nom-bres propios de personas y lugares, sino también algunas expresionescomplejas, especialmente latinas (como «Labia mea, domine» o «Perverba», etc.), todo ello definido de manera concisa y precisa y con refe-rencia al pasaje o pasajes en que aparece el nombre, lo cual, en entradascomo «Dios» o «Beatriz», resulta especialmente rico y sistemático (pp.837-936). Algunas dudas me ofrecen, en cambio, las llamadas “notas in-troductorias” a cada canto, que son en realidad una paráfrasis del texto,en una especie de re-traducción o de mediación entre la traducción y ellector, y que podrían de alguna manera dificultar el acceso directo al textotraducido, como si este no fuese suficientemente claro, y mitigar sus efec-tos narrativos, sus sorpresas o misterios exegéticos y, en general, la fres-cura y dificultad de una traducción capaz de transparentar los efectos deltexto original. Por supuesto, el lector es muy libre de enfrentarse al textooriginal sin recurrir a esta mediación añadida, y recurrir solo a ella encaso de necesidad, pero quizás entonces habría sido mejor ponerla enlugar posterior a cada canto y no considerarla una introducción al mismo.En todo caso, no cabe duda de que este recurso facilita el acceso del lec-tor al texto y, en este sentido, si es usado con inteligencia, resulta útil anteun texto tan difícil como el dantesco. Lo mismo sucede con una muy bientrabajada «Cronología» (pp. 811-819), en la que de manera ágil y bienexpuesta se dan cuenta de los principales acontecimientos en la vida deDante, ajustándose, como es lógico, a las opiniones mayoritarias estable-cidas en el dantismo (dos ejemplos: en cuanto al lugar de redacción delConvivio dice: «tal vez en Bolonia o más probablemente en Treviso, bajoel amparo de Gherardo da Camino», p. 815; no hay referencia alguna a laposibilidad del Libro de las canciones enviado a Malaspina).Comentario aparte merecen el estupendo prólogo, de 23 páginas, y la no

menos interesante «Nota sobre el texto y la traducción», de 11 páginas.

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El prólogo (pp. 7-29) se trata de una introducción de verdadero dantista,addetto ai lavori danteschi, que es quizás la característica más destacadade José María Micó, quien, a diferencia de otros importantes traductores,une a su condición de poeta, y músico, la de experto académico en elAlighieri y su obra. Por ello, el prólogo y la “Nota” demuestran conoci-mientos muy puestos al día, un amplio manejo de la principal bibliogra-fía actualizada, y consciencia de los principales problemas críticos yexegéticos a la hora de ponerse ante el texto de la Commedia. Además, enel prólogo Micó hace un excelente trabajo de síntesis y consigue ofreceren sus pocas páginas, no solo un resumen de las principales informacio-nes necesarias sobre la Commedia, sino algunos rasgos críticos que apun-tan hacia una personal y fundamentada “idea de Dante”. Tras hacer unbrevísimo recorrido por la actividad literaria dantesca antes de la magnaobra, en el que muestra creer en la veracidad de la carta de fray Ilaro co-piada por Boccaccio y, por tanto, en la posibilidad de una versión latinade algunos cantos infernales escrita en periodo florentino, Micó pasa, enprimer lugar y como era de esperar, a fundamentar la elección quizás másllamativa de su edición, que es la de titularla (creo que por primera vezen español) simplemente Comedia, sin el adjetivo “divina” que sueleacompañar al sustantivo desde la edición de Ludovico Dolce en 1555, de-cisión francamente minoritaria en la tradición editorial dantesca pero quetiene ilustres antecedentes como la Pasquini-Quaglio (1987-1988), la Ga-ravelli-Corti (1993), la de Antonio Lanza (1995) o la de Hollander (2011),sin olvidar la edición Petrocchi, texto de referencia del autor (1966-1967).Argumenta su postura en los conocidos pasajes de If. XVI 128 y XXI 2 yen los testimonios de Francesco da Barberino en sus Documenti d’amore(1314) y el controvertidísimo (véase Quaglioni en este mismo número deTenzone) de Mn. I XII 6. Aduce también los habituales argumentos lin-güísticos y argumentales que en la Epístola XIII fundamentan la atribu-ción al texto al género “comedia”, y añade una interesante consideraciónacerca del status de los títulos en el mundo medieval, sin la plenitud quese le da actualmente, que le lleva a concluir que «tal palabra [Comedia]

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no constituye un título en sentido pleno o moderno» sino una caracteri-zación general y parcial del texto.Tras esto, Micó pasa a una descripción de la obra, atento a sus claves

numerológica (p. 12) y al «control de la extensión y de la forma» (p. 13)que muestra Dante:

En Dante asombra la capacidad de convertir todo eso en una na-rración lineal, llevando a pleno rendimiento un complejo meca-nismo prefigurado hasta el más mínimo detalle, con su sofisticadanumerología, su estructura tripartita, su preanunciado itinerariocomo camino de perfección, su contundente centenar de cantos desimilar longitud, su precisa jerarquía de culpas, sus cohesivas es-trellas al final del Infierno, el Purgatorio y Paraíso y tantas otrasrecurrencias de un texto cerrado y controladísimo (pp. 13-14).

Tras repasar el argumento (pp. 15-21), Micó identifica tres grandesámbitos temáticos en la obra: el filosófico-teológico, el político y el lite-rario (pp. 22-23), para a continuación tratar de la obra como ficción, vi-sión y alegoría (pp. 23-26). Aunque entiende que «la verdad del relato noes únicamente ficcional» (p. 25) y recoge el significado alegórico pro-puesto en la Epístola XIII, comparte la idea mayoritaria en el dantismo deque «la alegoría en la Comedia, sin embargo, no tiene el carácter siste-mático y convencional que presenta en otros textos medievales» (p. 26).Para terminar, señala la invención de una lengua por parte del florentino,movido por la «voluntad de construir una realidad completa y autónoma[…] un mundo imaginado y onírico que era el trasunto de otras realida-des, naturales, teológicas o simbólicas» (p. 28), pues, concluye Micó,«para Dante no existe nada que no pueda decirse poéticamente» (p. 29).La «Nota sobre el texto y la traducción» (pp. 31-41) dedica 7 páginas

a la cuestión textual (pp. 31-37), en las que el editor y traductor demues-tra un preciso y aggiornato conocimiento de los problemas de transmisióntextual de la Comedia, con las últimas ediciones críticas post-Petrocchi,como las de Lanza, Sanguineti e Inglese, cuyos criterios describe, o in-cluso con trabajos aún en curso como el Paolo Trovato y su equipo. Tras

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este repaso, sucinto pero eficaz y completo, informa de su decisión de –tras revisar el texto original en términos rigurosamente filológicos, in-cluso consultando manuscritos originales e ilustraciones miniadas (p. 37)–atenerse al texto de Petrocchi, sin admitir variaciones significativas deotros editores y comentaristas (salvo algunos casos de puntuación quetoma de Chiavacci Leonardi), pues «Aquí se trata de asegurar la presen-cia testimonial y pacífica del texto italiano» (p. 36). Dedica a tratar de sutraducción, en cambio, solo 4 páginas (pp. 38-41), que a este lector le hansabido a poco, máxime conociendo que el traductor ha desarrollado enalgunos artículos académicos importantes reflexiones sobre la traduccióny más específicamente sobre la de Dante (por ejemplo, «Traducir hoy laComedia de Dante», en Poeti traducono poeti, a c. di P. Taravacci,Trento, Università degli Studi di Trento, 2015, pp. 129-145), aunque en-tendemos perfectamente que el traductor quiera que su traducción hablepor sí sola y que esté convencido de que «la traducción no consiste enuna predisposición teórica, sino en una actividad práctica que hay queacomodar […] a las exigencias de cada caso» (p. 38). Fundamenta, contodo, su elección (a nuestro entender indiscutible) de escoger el endeca-sílabo suelto como forma de su traducción, basándose en «la obligacióndel traductor de respetar, además del sentido original, la legibilidad del re-lato y sus matices estilísticos, sin añadir elementos ajenos, extemporá-neos o forzados por la necesidad de rimar» (p. 38), y apunta, muyfugazmente, a que sus objetivos en la traducción han sido buscar una pul-sión narrativa y una variedad lingüística similar a la del original, sin, porsupuesto, caer en una lengua de época que impida al lector «sentir comocontemporáneo a un gran poeta que vivió hace siete siglos» (pp. 38-39).Comenta luego algunos casos puntuales: las traducciones de lonza, as-sessin (If. XIX 50, traccia, Pd. VIII 148, los nombres de los diablos-ba-rattieri, tres casos en que ha añadido un juego de palabras inexistente enel original (If. XIX 72, Pg. XI 125-126, Pd. XXIII 113-114), el manteni-miento de nombres proverbiales italianos como doña Berta y seor Mar-tino (Pd. XIII 139), los neologismos, etc.

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La edición lleva, además, una muy abundante «Bibliografía selecta»(pp. 821-831), en la que constan solo libros (no artículos), seleccionadacon muy buen criterio, de modo que recoge los principales best-sellers dela dantística en los últimos años.Así, pues, no estamos completamente de acuerdo con el editor y tra-

ductor cuando afirma que «si este volumen tiene algún interés es porquecontiene una nueva versión de la Comedia de Dante» (p. 38), pues con-sideramos que todo lo que hasta aquí expuesto, como decíamos, produceuna edición en español muchísimo más completa que las que teníamoshasta ahora. Sin embargo, es evidente que el valor fundamental, aunqueno único, de la misma es el de aportar a nuestra cultura una nueva tra-ducción española de la Comedia. No podemos, en estas apresuradas pá-ginas, realizar un análisis traductológico, ni siquiera incipiente, del textode un traductor de reconocidísimo prestigio, especialmente por su tra-ducción del Orlando furioso, en el que se unen armónicamente las con-diciones de poeta y de profesor universitario. Estamos seguros de que estatraducción producirá importantes estudios, si no, como es habitual en elmundo de la traducción, enriquecedoras controversias y polémicas. Comodice el traductor, «Todas las versiones son mejorables y ninguna es des-preciable» (p. 38). Completar la hazaña de traducir la Divina Comedia –«una labor extenuante, física y mentalmente», como dice el traductor (p.40)– ya nos parece en sí mismo algo tan asombroso que nos llena de ma-ravilla y gratitud.Con todo, no querríamos terminar estas páginas sin alguna fugacísima

valoración al respecto: nos encontramos con una traducción de excelentefactura y calidad, cuidadísima en todos sus detalles. Podrán gustarnosmás o menos algunas de sus soluciones puntuales, como suele suceder,pero nadie podrá negar que el texto fluye de manera admirable, que tienemomentos de elevadísima retórica en la lengua de llegada. En general,podemos decir que la traducción sigue una estrategia que podríamos lla-mar facilitadora o de acercamiento al lector, en lo cual coincide con otrastraducciones anteriores, en el sentido de que la legibilidad es su objetivoprincipal, pues se entiende como texto sustitutorio del original y no como

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texto de mediación. Por ello, a veces el traductor busca perífrasis que dencuenta del sentido del texto, o aclara algunas metáforas, alejándose deloriginal siempre con mucha prudencia y buen criterio filológico y poético,de modo que produce un texto que, como decíamos, se lee bien, con frui-ción e incluso con fluidez, en la lengua de llegada. Esto plantea un inte-resante problema traductológico, que no solo afecta a esta traducción sinoa otras de la Comedia, y es el hecho de que se pierde, no completamentepero si en alguna medida, la radical alteridad que el texto dantesco tiene,no solo para el lector italiano actual, sino sobre todo para el lector de supropia época. Se produce entonces una curiosa paradoja, y es que la tra-ducción española para un español de hoy es un texto mucho más cercano,explicativo, entendible y, quizás, disfrutable, que el texto original paraun italiano actual y, probablemente, para un italiano contemporáneo delautor. Por supuesto, se trata de un problema de difícil, si no imposible, so-lución, porque tal vez, si se mantuviesen algunas de las forzature, si po-demos usar este término, del texto original, el texto de llegada pareceríaestar “mal traducido”. A ello se le une una circunstancia de historia de lapoesía que también produce este mismo efecto: el hecho de que el ende-casílabo español es, indefectiblemente, y a pesar del paso por el Roman-ticismo y el Modernismo, un endecasílabo petrarquista, basadoprincipalmente en los acentos de 6ª sílaba, o 4ª y 8ª, con acceso muy li-mitado a otros ritmos, como el endecasílabo de gaita gallega o el ende-casílabo de rima aguda, etc., mientras que el endecasílabo dantesco es unendecasílabo, digamos, “apetrarquista”, y tiene una variedad acentual yuna riqueza mayor. Debido a esto, la traducción en endecasílabo españolresulta también, en cierta manera, “normalizante”, de modo que se ganaen fluidez pero se pierde en contrastes y concentración expresiva.José María Micó lidia con estas dificultades con excelente sentido po-

ético, con el pensamiento puesto tanto en el lector como en el texto departida. Puede decirse que el filólogo llega a una comprensión precisa deltexto, después de haberlo deglutido bien gracias a los comentarios y lasparáfrasis que abundan en la tradición exegética, crítica e interpretativa,y luego el poeta acerca al lector a ese punto de llegada, no siguiendo tér-

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minos y expresiones al pie de la letra, sino poniendo en juego los recur-sos necesarios para que ese sentido se traslade al lector. De este modoMicó consigue que el texto se lea de corrido y que el lector se vea cauti-vado por la cadencia del discurso poético, y acceda al significado de unamanera suave (relativamente suave, por supuesto: esto es Dante).Creo, pues, que la traducción y la edición de Micó será una muy buena

herramienta para acercarse y penetrar en las gozosas honduras de lamagna obra de Dante Alighieri.

JUAN VARELA-PORTAS DE ORDUÑA

Universidad Complutense de [email protected]

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NORMAS DE PUBLICACIÓN

1. Los artículos serán originales, referidos a una investigación que versesobre Dante y su obra, y tendrán una extensión no superior a 30 páginastamaño A-4, con letra Times New Roman, 11 puntos, con interlineado1,5, incluyendo notas (tamaño 10 puntos), cuadros y bibliografía.

2. El texto no llevará ningún tipo de formato ni tabuladores. Sólo sepermitirán cursivas (nunca negritas) para títulos de libros y destacados.Las citas, si ocupan más de cuatro líneas, vendrán sangradas y en letra de10 puntos. Si ocupan menos de cuatro líneas, irán como texto normal entrecomillas bajas [« »]. Las comillas altas [“ ”] se reservarán para palabrascon sentido trasladado y citas indirectas en español, mientras que en ita-liano para el sentido trasladado y las citas indirectas se usarán las comi-llas simples (‘ ’), quedando las comillas altas (“ “) sólo para citas dentrode citas. Las comillas bajas también se usarán en los títulos de artículosy capítulos de libros. Se usarán guiones de tipo medio (rayas) [ – ] paralos incisos, y de tipo pequeño [ - ] para palabras compuestas y cifras.

3. Las notas se presentarán como notas finales. Sólo se insertarán notaspara comentarios o añadidos, y nunca sólo para referencias bibliográficasescuetas. Éstas se harán en el cuerpo del texto, según el método anglosa-jón. Ejemplo: “En un reciente estudio (Pinto 2006: 122), se afirmaque…”; o “Como afirma Pinto (2006: 122)…”. Lo mismo al final de unacita explícita.

4. La referencias bibliográficas aparecerán al final del artículo, orde-nadas alfabéticamente, adecuándose a los siguientes ejemplos:

ALIGHIERI, D. (2002): Rime, ed. nazionale a c. di D. De Robertis, Fi-renze, Le Lettere.

CARDUCCI, G. (1942): «La canzone di Dante ‘Tre donne intorno alcor’», in ID.: Opere, ed. nazionale, Bologna, Zanichelli, vol. X, pp. 203-251.

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MAZZONI, G. (1901): «Se possa essere il ‘Fiore’ di Dante Alighieri», inRaccolta di studi critici dedicata ad A. D’Ancona, Firenze, Barbera, pp.657-692.PINTO, R. (2006): «Circe e la rotta di Ulisse», Tenzone 7, pp. 111-136.Nunca se hará la referencia por el editor del libro. Si se quiere citar una

nota se hará así (De Robertis in Alighieri 2002: ad locum, 232). Las in-troducciones, prefacios, prólogos, etc., se considerarán como capítulosde libros. 5. Los artículos irán encabezados por el título, el nombre y apellido(s)

del autor, la universidad o institución académica a la que pertenece, y ladirección de correo electrónico del autor. A continuación se incluirán dosresúmenes (abstracts) y dos listas con siete palabras clave (key words): enitaliano y en inglés. La redacción de Tenzone traducirá los abstracts ita-lianos al español en los artículos escritos en lengua italiana.6. Los autores enviarán además su dirección postal y un número de te-

léfono, para eventuales necesidades de comunicación urgente.7. Los artículos que no cumplan con todos los requisitos de formato y

presentación podrán ser devueltos a sus autores.8. Las fechas de recepción de artículos para cada número anual será

entre el 1 de octubre del año anterior y el 1 de junio del año de publica-ción. El comité de redacción, a través del secretario de la revista, notifi-cará a su autor, primero la recepción del artículo, y finalmente, antes del15 de septiembre del año de publicación, la aceptación o no del mismo porparte del Comité Científico. En caso de no aceptación, se hará un informede las causas de la misma.9. La redacción de Tenzone se reserva el derecho a no enviar pruebas

a los autores si las necesidades de publicación así lo exigiesen. En todocaso, dichas pruebas se enviarán en formato electrónico (Pdf).10. Los autores tendrán derecho a un ejemplar del número.11. El autor será el único responsable del contenido de su artículo.

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NORME DI PUBBLICAZIONE

1. Gli articoli saranno originali, riguardanti una ricerca su Dante e lasua opera e avranno un’estensione non superiore a 30 pagine formato A4,in Times New Roman corpo 11 interlinea 1,5, compresi note, tavole e bi-bliografia.2. Il testo non dovrà avere nessun tipo di formato né di tabulazioni. Si

permette solo la corsiva (ma non il grassetto) per titoli di libri e sottoli-neati. Le citazioni superiori a quattro righe andranno con il rientro e incorpo 10. Se sono inferiori a quattro righe, saranno in corpo 11 tra virgo-lette basse [« »]. Le virgolette basse si useranno anche per titoli di articolie capitoli di libro. Per parole con senso traslato e citazioni indirette si use-ranno in spagnolo le virgolette alte [“ ”] e in italiano le virgolette semplici(‘ ’). Le virgolette alte (“ ”) si useranno in entrambe le lingue per citazioniall’interno di un’altra citazione. Si useranno trattini medi [ – ] per gli in-cisi e piccoli [ - ] per parole composte e cifre.3. Le note si presenteranno a fine articolo. Si inseriranno note al pie’

solo per commenti o aggiunte, mai per meri riferimenti bibliografici.Questi ultimi si faranno nel corpo del testo, secondo il metodo anglosas-sone. Esempio: “in un recente studio (Pinto 2006: 122), si afferma …”; o“Come afferma Pinto (2006: 122)…”. Lo stesso alla fine di una citazioneesplicita.4. I riferimenti bibliografici appariranno alla fine dell’articolo, ordinati

alfabeticamente, adegunadosi ai seguenti esempi:ALIGHIERI, D. (2002): Rime, ed. nazionale a c. di D. De Robertis, Fi-

renze, Le Lettere.CARDUCCI, G. (1942): «La canzone di Dante ‘Tre donne intorno al

cor’», in ID.: Opere, ed. nazionale, Bologna, Zanichelli, vol. X, pp. 203-251.MAZZONI, G. (1901): «Se possa essere il ‘Fiore’ di Dante Alighieri», in

Raccolta di studi critici dedicata ad A. D’Ancona, Firenze, Barbera, pp.657-692.

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PINTO, R. (2006): «Circe e la rotta di Ulisse», Tenzone 7, pp. 111-136.Non si farà riferimento al curatore o editore di un testo. Se si vuol ci-

tare una nota si farà nel seguente modo: (De Robertis in Alighieri 2002:ad locum, 232). Introduzioni, prefazioni, prologhi ecc. si considererannocome capitoli di libro.5. Gli articoli avranno come intestazione il titolo, il nome e cognome

dell’autore, l’università o istituzione accademica di appartenenza e l’in-dirizzo elettronico dell’autore. Seguono riassunti (abstracts) e due elenchidi sette parole-chiave (key words), uno in italiano ed uno in inglese. La re-dazione di Tenzone tradurrà gli abstracts italiani allo spagnolo negli arti-coli scritti in lingua italiana.6. Gli autori dovranno inviare inoltre il proprio indirizzo postale e un

numero di telefono per eventuali necessità di comunicazione urgente.7. Gli articoli che non soddisfino tutti i requisiti di pesentazioni po-

tranno essere rimandati indietro.8. Le date di ricezione degli articoli per ogni numero annuale andranno

dal 30 ottobre dell’anno precedente alla pubblicazione al 30 aprile de-ll’anno di pubblicazione. Il comitato di redazione, attraverso il segretario,notificherà all’autore la ricezione dell’articolo e poi, prima del 15 di set-tembre dell’anno di pubblicazione, l’accettazione o meno dello stesso daparte del Comitato scientifico. In caso di mancata accettazione, lo si mo-tiverà per iscritto. 9. La redazione di Tenzone si riserva il diritto di non mandare bozze agli

autori se lo richiedono esigenze di pubblicazione. In ogni caso, le bozzesi invieranno in formato elettronico (Pdf).10. Gli autori avranno diritto a una copia del numero.11. L’autore sarà l’unico responsabile del contenuto del proprio arti-

colo.

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SOBRE TENZONE

Tenzone es una revista de periodicidad anual, fundada en 2000 por laAsociación Complutense de Dantología como instrumento de comunica-ción científica en el campo de la dantología. Sus páginas están abiertas atodos los dantólogos, tanto de dentro como de fuera de España, y aceptatrabajos en castellano, italiano y otras lenguas de amplia difusión.

EDICIÓN: Asociación Complutense de Dantología. Departamento de Fi-lología Italiana. Universidad Complutense de Madrid.

CORRESPONDENCIA: Juan Varela-Portas, Asociación Complutense deDantología, Departamento de Filología Italiana, Universidad Complu-tense, Ciudad Universitaria, 28430 Madrid.

PÁGINA WEB: Pueden consultarse los números anteriores en http://www.ucm.es/info/italiano/acd/tenzone/index.htm(responsable Rosa Affatato).

DEPÓSITO LEGAL: M- 39482-2000ISSN: 1576-9216

MAQUETACIÓN: Juan Varela-Portas de Orduña.

IMPRESIÓN: Reproducción Digital y Servicios CEMA. Tlfno:915051498.

VENTA Y SUSCRIPCIÓN: Rosa Affatato ([email protected] ) o en la di-rección postal arriba indicada.

PRECIOS: suscripción anual, 30 euros en España y 35 en el resto de paí-ses.

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