ISTITUTO ITALIANO DI STUDI COOPERATIVI “LUIGI LUZZATTI” · e sue conseguenze 1. Ciclo di vita...

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ISTITUTO ITALIANO DI STUDI COOPERATIVI “LUIGI LUZZATTI” TESI DI LAUREA VINCITRICE DEL PREMIO “CARMELO AZZARÀ” EDIZIONE 2003_04 MUSEO VIRTUALE DELLA COOPERAZIONE www.movimentocooperativo.it

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ISTITUTO ITALIANO DI STUDI COOPERATIVI

“LUIGI LUZZATTI”

TESI DI LAUREA VINCITRICE DEL PREMIO

“CARMELO AZZARÀ” EDIZIONE 2003_04

MUSEO VIRTUALE DELLA COOPERAZIONE

www.movimentocooperativo.it

Premio d i laurea “Carmel o Azzarà” ediz ione 2003_04 D’ Alessandro E l isa L’o rgan i zzaz ione ne l le soc ie tà cooperat i ve : la cooperat i va murator i e cement is t i d i Ravenna

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI ROMA TRE Facoltà di Economia “Federico Caffè”

TESI DI LAUREA

L’ORGANIZZAZIONE NELLE SOCIETA’ COOPERATIVE: LA COOPERATIVA MURATORI

E CEMENTISTI DI RAVENNA

Relatore: Chiar.mo Prof. Filippo Battaglia Correlatore: Chiar.mo Laureanda: Prof. Gaetano Troina Elisa D’Alessandro

Anno accademico 2003/2004

Premio d i laurea “Carmel o Azzarà” ediz ione 2003_04 D’ Alessandro E l isa L’o rgan i zzaz ione ne l le soc ie tà cooperat i ve : la cooperat i va murator i e cement is t i d i Ravenna

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INDICE DEGLI ARGOMENTI

Introduzione

CAPITOLO I

Le origini storico-economiche dell’impresa cooperativa

1. La cooperazione 6

2. Origini del movimento cooperativo in Europa 7

3. La diffusione e lo sviluppo della cooperazione in Italia 11

4. L’esordio della cooperazione cattolica 17

5. L’età giolittiana 19

6. Tra guerra e dopoguerra: crisi e sviluppo 21

7. Fascismo e cooperazione 23

8.La ricostruzione dell’Italia e della cooperazione 25

9. Gli anni della guerra fredda 28

10. Dal miracolo economico alla fine degli anni ’60 29

11. La crescita degli anni ’70 31

12. I difficili anni ’80 36

13. Le cooperative alla fine del XX secolo 39

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CAPITOLO II

Principi e caratteristiche

1. I principi dell’alleanza cooperativa internazionale 42

2. La classificazione delle cooperative 47

3. La duplicità degli obiettivi 50

Il momento ideale 52

Il momento economico 56

4. La disciplina giuridica 60

La costituzione 60

La disciplina civilistica 64

Le leggi speciali 67

CAPITOLO III

Vita della cooperativa: aumento della complessità organizzativa

e sue conseguenze

1. Ciclo di vita dell’impresa cooperativa 70

2. Il dibattito su autogestione e partecipazione nel movimento

cooperativo 84

3. L’autogestione 86

4. Autogestione e gestione aziendale: relazione tra autogestione ed

efficienza aziendale 87

5. Relazione tra autosfruttamento ed alienazione 94

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CAPITOLO IV

La Cmc: cooperativa muratori e cementisti di Ravenna

1. Cmc: profili dell’organizzazione 98

2. La missione 99

3. I Fase: le origini (1901-1950) 103

4. II Fase: verso la costruzione dell’impresa industriale (1950-1972) 106

5. III Fase: l’espansione geografica 113

6. IV Fase: dalla ristrutturazione degli anni ‘90 ai giorni nostri 120

7. Alcuni dati sui soci cooperatori 125

8. Evoluzione della cooperativa 131

Conclusioni 142

Indice bibliografico 146

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INTRODUZIONE

Il movimento cooperativo - è ormai un dato comprovato da tutti coloro che

hanno affrontato scientificamente il problema - si è diffuso in tutto il mondo

capitalistico. Si è diffuso via via che la riproduzione allargata del capitale si

espandeva ben al di là degli originari confini europei e americani, giungendo fino

agli estremi confini del mercato e del suo affermarsi in mondi che sino a pochi anni

fa erano ancora estranei alla produzione delle merci.

Bastano pochi dati a testimoniare la vitalità della forma cooperativa e il suo

ruolo nella crescita economica e sociale dei diversi paesi. Nel mondo i soci di

cooperative sono quasi 800 milioni, distribuiti in 100 paesi. Le cooperative danno

lavoro, complessivamente, a più di 100 milioni di persone; secondo l’ONU una

persona su due beneficia, direttamente o indirettamente, dell’agire delle cooperative.

In molte parti del mondo, il movimento cooperativo è quotidianamente impegnato

ad offrire l’opportunità di migliorare la propria vita a milioni di esseri umani esclusi

dai benefici della globalizzazione e afflitti da povertà, disoccupazione, mancanza di

sistemi sociali adeguati. Si è detto che la cooperazione rappresenta, insomma, il

“volto umano della globalizzazione”.

Significativi, in tal senso, sono i crescenti riconoscimenti che il movimento

cooperativo sta guadagnando presso le istituzioni internazionali, anche grazie

all’azione attiva di rappresentanza delle organizzazioni nazionali e dell’Alleanza

Cooperativa Internazionale, la più importante tra le organizzazioni non governative

accreditate dall’ONU.

Il ruolo di indubbia significatività, nell’ambito dell’economia italiana e non

solo, svolto dalle società cooperative, ispira questo lavoro, il quale mira a dare un

contributo all’inquadramento di tale fenomeno dal punto di vista organizzativo in un

momento in cui la cooperazione deve affrontare un’ulteriore sfida rappresentata

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dall’adeguamento ai modelli delineati dalla recente riforma del diritto societario.

Si va, dunque, delineando una nuova concezione di modello cooperativo,

delle ragioni dello stare insieme e dello scambio sociale.

Negli ultimi anni, sono state introdotte modificazioni sostanziali che hanno

ridefinito i contesti legislativi e societari e introdotto novità importanti nei rapporti

fra il socio lavoratore e la cooperativa: il socio dovrebbe continuare certo a mantenere

la propria identità ancorata ai valori etici fondanti del lavoro e della solidarietà, ma

nello stesso tempo deve essere consapevole della necessità di affermare un’impresa

cooperativa più competitiva.

Al fine, dunque, di studiare l’inquadramento dell’esperienza cooperativa dal

punto di vista organizzativo, ho scelto come oggetto di analisi una delle più grandi

cooperative italiane, la Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna (Cmc), il cui

studio ha permesso di raccogliere dati quantitativi e qualitativi sulle diverse fasi del

suo sviluppo. Sono stati consultati documenti aziendali, pubblicazioni e interviste

attraverso cui è stato possibile ricostruire la storia centenaria della Cmc, le scelte

strategiche, organizzative, la cultura.

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CAPITOLO I

LE ORIGINI STORICO-ECONOMICHE DELL’IMPRESA

COOPERATIVA

1. La cooperazione

L’idea della cooperazione è molto antica1.

Essa, quale forma di solidarietà e collaborazione tra gli uomini, è nata per

una tendenza naturale dell’individuo ad associarsi, allo scopo di affrontare e

superare le difficoltà e gli ostacoli che incontra, sia nel soddisfacimento di alcuni

bisogni primari che nel raggiungimento di condizioni di vita più elevate che gli

permettano un migliore sviluppo della sua personalità, nell’ambito della famiglia,

dell’ambiente di lavoro, nella società. Infatti sembra che 3000 anni a.C. esistessero a

Babilonia2 delle società mutualistiche per le affittanze collettive della terra e che nel

44 a.C. ad Ostia operassero delle forme associative tra muratori e operai del posto.

Inoltre le “agapi” (fraterne refezioni in comune) dei primi Cristiani, i

“collegia” romani (gruppi di artigiani e piccoli imprenditori), le Corporazioni di arti

e mestieri del medioevo possono essere considerate altre forme associative,

contenenti in embrione i principi della cooperazione.

La prima società cooperativa - intesa nel senso moderno del termine - nasce

però nel 1844 a Rochdale, in Inghilterra. Scopo della società era - nelle parole dei

Pionieri - “quello di adottare provvedimenti per assicurare il benessere materiale e

1 Si veda “Cooperazione e cooperativa” in Enciclopedia Giuridica, Istituto enciclopedico giuridico,

1988.

2 Si veda FILIPPELLI, E., Il sillabario del cooperatore, Editori Riuniti, 1986.

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migliorare le condizioni familiari e sociali dei soci…”. Un operaio ebbe l'idea di

aggregare tra loro alcuni soci che versarono del capitale sociale, grazie al quale

furono acquistati generi di consumo. Questi ultimi avevano prezzi inferiori a quelli

degli altri negozi, grazie al fatto che la cooperativa poteva acquistare considerevoli

quantità di merci.

L'operaio aveva semplicemente proposto ad altri (i soci della cooperativa) di

collaborare al fine di raggiungere un interesse comune (la possibilità di risparmiare

sull'acquisto di beni), insomma aveva proposto loro di cooperare. I soci avevano così

raggiunto un risultato che, da soli, non avrebbero mai potuto ottenere.

La cooperazione si é poi diffusa in tutto il mondo ed in tutti i settori

economici; vanta oggi milioni di soci e fatturati di tutto rispetto. Tali risultati non

sarebbero stati raggiunti se i cooperatori non avessero svolto, sin dalle origini,

un'intensa e capillare attività di educazione cooperativa.

2. Origini del movimento cooperativo in Europa

I primi tentativi cooperativi si affacciano alla storia del mondo nel momento

stesso in cui la rivoluzione industriale inglese ha sconvolto l’assetto produttivo e la

configurazione sociale del Paese.

Una breve ma significativa analisi storica dell’ambiente economico e sociale,

in cui si è affermato il movimento cooperativo, si rende necessaria per comprendere a

pieno sia il ruolo effettivo che lo stesso ha svolto in passato, sia la realtà della

moderna impresa cooperativa.

Lo sviluppo di questo fenomeno risale all’epoca della “rivoluzione

industriale”, intorno alla metà del XIX secolo in Inghilterra dove, grazie

all’introduzione di innovazioni tecnologiche e di moderni macchinari, si registrò un

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rapido incremento della produttività agricola e manifatturiera3.

Il processo di industrializzazione, però, causò ingenti costi sociali; infatti, i

proprietari dei nuovi mezzi di produzione cacciarono dalle campagne milioni di

contadini che emigrarono verso le città industriali, creando così un forte

sovrappopolamento delle aree urbane. Inoltre, le nascenti imprese industriali, se da

un lato gettarono le basi di un imponente sviluppo economico, dall’altro

provocarono situazioni di forte disagio sociale. Le misere condizioni di vita dei

lavoratori, i bassi salari, lo sfruttamento del lavoro minorile e femminile sono solo

alcuni esempi del degrado realizzato.

Tale situazione suscitò l’interesse di economisti e studiosi, che affermavano

l’esigenza di trovare una nuova solidarietà capace di conciliare capitale e lavoro. Il

primo sostenitore di questa tesi fu Robert Owen, imprenditore tessile che si impegnò

a migliorare le condizioni di vita dei suoi operai introducendo piccole riforme sociali

e creando la c.d. “New Harmony”, una comunità nella quale i prodotti agricoli si

sarebbero distribuiti in proporzione al fabbisogno di ciascun membro.

Ma la nascita della vera cooperazione si ebbe nel 1844: ventotto tessitori di

Rochdale4 (una cittadina del Lancashire) minacciati dalla fame inauguravano alla

vigilia di Natale di quell’anno il primo spaccio cooperativo al fine di migliorare la

situazione economica e sociale dei soci.

L’esperienza di Rochdale ebbe enorme successo, e nel 1863 fu creata la

“Cooperative Wholesale Society”, la quale riuniva 59 cooperative di consumo con ben

18.337 soci. Più tardi si svilupparono altre forme di cooperative (di credito, di

produzione, agricole, ecc.), ma il loro ruolo restò strumentale a quella di consumo. Il

diffondersi del movimento fu rilevante non solo dal punto di vista commerciale, ma

anche da quello culturale, contribuendo così alla trasformazione sociale della

popolazione inglese.

3 LEONARDI, A., “Modernizzazione economica e cooperazione in Europa“, in Rivista della

Cooperazione, n. 2, Istituto Luigi Luzzatti, 1986.

4 Si veda MAZZOTTI, G., in Società cooperative, Edito da AGCI, 1996.

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Estendendo l’analisi agli altri Paesi europei si può notare che, rispetto al

Regno Unito, il fenomeno in questione si diffuse in maniera meno eclatante; le cause

furono individuate negli aspri conflitti politici e nelle continue lotte d’indipendenza,

contrasti ormai superati in Gran Bretagna che invece si presentava un paese

politicamente unito.

Nonostante ciò, in Francia si svilupparono le prime ed importanti

cooperative di produzione: promotore delle stesse fu Charles Fourier1 che, con le sue

“comptoirs communaux” (casse comuni), aveva l’obiettivo di fornire ai soci i mezzi

di produzione necessari alla realizzazione di determinati beni.

Tuttavia, le vere e proprie cooperative di produzione sono riconducibili agli

“ateliers nationaux” che davano lavoro a disoccupati impiegandoli in opere

pubbliche. Verso la seconda metà del XIX secolo in Francia si svilupparono anche le

cooperative agricole, che favorivano i soci nei processi di trasformazione e

commercializzazione dei prodotti.

A sostegno di tali cooperative si istituirono gli istituti di credito agrario

preposti al finanziamento delle suddette attività.

L’insorgere di questi istituti trova un primo sviluppo in Germania, dove

nacquero due forme di credito cooperativo: le “banche popolari” basate sulla

responsabilità solidale dei soci, e le “casse rurali” costituite su iniziativa di Raiffesen2.

Queste ultime, a differenza delle banche popolari, finanziavano il credito a medio-

lungo termine e contribuirono enormemente alla repressione dell’usura nell’ambito

1 Charles Fourier studiò politica ed economia; famosa è l’opera “teoria dei quattro movimenti” nella

quale ipotizzava che la società poteva essere gestita come un’organizzazione cooperativa, affinché si

potesse affermare una vita libera nel rispetto dei diritti umani. La società doveva essere ripartita in

falangi di circa 1600 persone riunite ognuna in un falanstero, gestito attraverso norme che favorivano

l’occupazione ai soggetti più meritevoli e l’eliminazione delle differenze sociali. Il progetto, però, non

ebbe successo e Fourier continuò ad occuparsi dei suoi commerci. MUZZUOLI, G., “Riandando alle

origini“, in Rivista della cooperazione, n. 2, Istituto Luigi Luzzatti.,1999.

2 MUZZUOLI, G., 1999, op. cit..

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della compravendita del bestiame, acquistando lo stesso per i soci e diventandone

proprietari fino a quando il socio non avesse onorato il debito.

Le banche popolari, più orientate al breve termine, furono promosse da un

magistrato di orientamento liberale, Hermann Schultze-Delitzsch. La prima

cooperativa di credito sorse nel 1850 e nell’arco di una decina di anni raggiunsero il

numero di 111 banche popolari7. Queste erano costituite tramite i conferimenti dei

soci, consistenti nei mezzi necessari all’attività d’impresa, nonché l’obbligo degli

stessi di rispondere agli impegni assunti limitatamente alla quota conferita.

L’orientamento al breve termine era incompatibile con le esigenze del credito agrario,

pertanto fu nominata una commissione per affrontare il problema. Fu deciso, quindi,

di costituire casse di risparmio per la piccola agricoltura, società mutualistiche tra i

contadini e associazioni per tutelare il bestiame contro le malattie infettive.

Se la Germania può essere considerata la patria delle cooperative di credito,

in altri Paesi, come la Svizzera, presero piede una serie di cooperative di consumo di

stampo rochdaliano, oltre a quelle di trasformazione di prodotti caseari, agricoli,

latteari.

Si può affermare, quindi, che la cooperazione assumeva configurazioni

diverse secondo le singole realtà nazionali, ma con un unico orientamento comune:

migliorare le condizioni di vita di quell’ampia fascia della popolazione collocata ai

margini della società e che sentiva l’esigenza di emergere e di migliorarsi.

7 Sul tema si veda MANGILI, F., 1883, Il credito agrario. Citato in MUZZUOLI, G., op. cit..

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3. La diffusione e lo sviluppo della cooperazione in Italia

Lo sviluppo del movimento cooperativo italiano presenta caratteristiche del

tutto particolari rispetto agli altri Paesi europei. In primo luogo, è opportuno

evidenziare il ritardo della sua diffusione, legato alle vicende riguardanti

l’unificazione politica, alla precaria situazione economico-sociale, causata in primis

da un altrettanto ritardato sviluppo industriale, ed infine all’assenza di norme a

tutela della cooperazione; in secondo luogo, le origini del fenomeno si legano al c.d.

“movimento associativo di classe” 8.

All’epoca dell’unificazione, l’Italia era ancora considerata un paese

prevalentemente agricolo; le prime industrie, nate in Lombardia ed in Piemonte,

realizzavano essenzialmente prodotti artigianali, pertanto l’uso delle macchine era

molto limitato; inoltre, anche lo sviluppo del movimento operaio si caratterizzava

per un certo grado di arretratezza9.

Dopo la promulgazione dello Statuto Albertino in Italia sorgevano,

soprattutto in Piemonte, tutta una serie di associazioni di mutuo soccorso che

formeranno il primo tessuto connettivo e la prima base organizzativa per il

movimento cooperativo nel nostro Paese. E’ infatti la Società degli Operai di Torino

che il 4 ottobre 1854 prende l’iniziativa, per arrestare gli effetti di una grave carestia

agricola e di un pauroso rincaro dei prezzi, di aprire un magazzino di previdenza.

Nasce la prima cooperativa di consumo in Italia.

I promotori ignorano l’esperienza già maturata a Rochdale e vendono a

prezzo di costo più le spese amministrative, non praticano il ristorno, vendono in

genere a credito e ai soli soci.

A due anni di distanza dal magazzino torinese nasce nel 1856 l’Associazione

artistico-vetraria di Altare, un piccolo centro in provincia di Savona, che rappresenta

8 Si veda MUZZUOLI, (1999), op. cit..

9 Per un ulteriore approfondimento si veda DEGL‘INNOCENTI, M., Storia della cooperazione in

Italia 1866-1925, Editori Riuniti, 1977.

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la prima cooperativa italiana di produzione e lavoro. A fondarla sono 80 artigiani

stremati da una tremenda epidemia.

Le prime cooperative nascono, insomma, per dare una risposta, sulla base di

un principio di solidarietà, a problemi immediati e particolari come la

disoccupazione e l’aumento del costo della vita.

Quei primi esperimenti ebbero felice esito e si propagandarono rapidamente

in Piemonte e dopo l’unità in tutto il Paese.

Al 31 dicembre 1862 risultano esistenti 443 società di mutuo soccorso delle

quali 66 anteriori al 1848, 168 fondate tra il 1848 ed il 1860 e 209 dal 1860 al 1862. Il

maggior numero di società si registra in Piemonte e Liguria, Emilia, Lombardia,

Toscana, Umbria e Marche. Quarantadue province del Regno hanno almeno una

società ciascuna, ma il comune di Milano ne conta 38 e quello di Torino 13. Esclusa

Sondrio sono tutte meridionali le province che non hanno neanche una società10.

Un contributo notevole allo sviluppo della cooperazione fu dato dalle idee di

Mazzini; quest’ultimo, infatti, affrontò la “questione sociale” non solo dal punto di

vista politico, ma anche sul piano economico11. Egli riteneva indispensabile la

creazione di norme per agevolare il reperimento di capitale attraverso risparmi

fiscali, la creazione di banche di credito cooperativo, azioni tutte orientate a

contribuire alla diffusione di questo fenomeno.

È nel decennio successivo al 1870 che si registra un ampio sviluppo delle

imprese cooperative italiane; tuttavia, si può osservare che la cooperativa di consumo

affrontava maggiori difficoltà di sviluppo rispetto alle altre attività cooperativistiche.

Una delle principali motivazioni riguardava la modalità di vendita: vendendo a

prezzo di costo, l’impresa non era in grado di accumulare capitali sufficienti per

fronteggiare crisi improvvise; così cominciarono a diffondersi cooperative di

consumo sul modello inglese12, delle quali si ricordano in particolare quella di Como

10 Fonte: Legacoop.

11 ZANGHERI, R., Storia del movimento cooperativo in Italia, Einaudi Editore, 1978.

12 Il modello inglese di stampo rochdaliano prevedeva la vendita a prezzi di mercato e la ripartizione

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e quella di Milano costituite per iniziativa di Francesco Viganò e Luigi Luzzatti.

Un maggior sviluppo ebbe invece la cooperazione di credito sulla base del

modello realizzato da Schulze-Delitzsch in Prussia. La prima cooperativa nacque a

Lodi nel 1864 su iniziativa di Luzzatti, un giovane di orientamento liberale, a

testimonianza del fatto che della cooperazione si interessavano non solo i

democratici di ispirazione mazziniana.

Diverso però era il punto di osservazione: mentre Mazzini guardava la

cooperazione principalmente come mezzo per creare un nuovo assetto sociale,

Luzzatti vedeva la stessa come una forma d’impresa inserita nel contesto capitalistico

con la particolare differenza, rispetto alle imprese private, di poter crescere con il

solo risparmio dei soci.

Grazie alla indefessa attività di Luigi Luzzatti, in questi anni si registra anche

un forte incremento delle banche popolari che al loro primo congresso nel dicembre

del 1876 giungono al centinaio.

Dopo il successo dell’iniziativa di Luzzatti nel campo della cooperazione di

credito, Leone Wollemborg sviluppa, soprattutto nel Veneto, un'efficace azione in

favore del credito rurale e il 20 giugno 1883, dietro l’ispirazione ed il sostegno

economico di Alessandro Rossi, fonda a Loreggia, in provincia di Padova, la prima

cassa rurale di ispirazione laica sul modello di quelle costituite in Germania da F. G.

Raiffeisen.

Inoltre, in questi anni si rafforzava la consapevolezza dei lavoratori di

costituire forme cooperative per migliorare le proprie condizioni di vita, combattere

la disoccupazione e l’usura, fenomeno allora profondamente radicato nella società

dell’epoca.

Nasce infatti l’Associazione Generale Operai Braccianti di Ravenna, fondata

da trecento braccianti minacciati dalla disoccupazione e con la sola alternativa

dell’emigrazione: è la prima cooperativa di lavoro fra operai della campagna.

fra i soci degli eventuali utili realizzati (principio del ristorno).

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La cooperativa è propugnata ed organizzata da Armando Armuzzi,

segretario viene eletto Nullo Baldini già internazionalista e poi seguace di Andrea

Costa; l’anno dopo egli guiderà 500 operai alla volta di Roma per andare a bonificare

le paludi di Ostia, Maccarese e Fiumicino infette dalla malaria.

Nel 1885 l’Associazione generale operai braccianti di Ravenna ottiene la

conduzione di alcuni terreni agricoli. E’ il primo esperimento di affittanza collettiva

che poi avrebbe avuto la massima diffusione nel biennio rosso. La forma prevalente

di affittanza collettiva è quella a conduzione unita ed aperta dove il lavoro viene

distribuito a turni per squadre, più rara è l’affittanza chiusa che ammette un numero

di soci proporzionale alla quantità di lavoro richiesto, dall’estensione e dal tipo di

coltura.

La cooperazione si fa lentamente strada in un Paese caratterizzato da

arretratezze diffuse e tra tentativi illiberali di soppressione delle garanzie

costituzionali previste dallo Statuto Albertino. Nascono in quegli anni società

cooperative destinate ad avere un peso ed un rilievo nazionale: nel 1880 la Tipografia

Operaia di Milano e la Società Cooperativa di Bologna; nell’82 il Magazzino

Cooperativo di Produzione dei Calzolai di Pisa; nell’83 la Fonderia di

Sampierdarena; nell’84 l’Associazione fra gli Operai Braccianti del mandamento di

Budrio.

Nel Ravennate si diffondono con successo le fabbriche cooperative di

maioliche e stoviglie sull’esempio della gloriosa Cooperativa Ceramica d’Imola.

Da una serie di rilevazioni statistiche fu rilevato che tra il 1893-94 le

cooperative di lavoro tra braccianti regolarmente riconosciute erano 525 così

ripartite: 125 in Emilia, 87 nel Veneto, 76 in Lombardia, 44 in Toscana, 42 nel Lazio,

22 in Campania, 21 in Sicilia, 8 nelle Marche, 7 in Basilicata, 7 in Puglia, 6 in Umbria,

6 in Calabria, 2 in Sardegna e una in Abruzzo13.

13 MAIC, Statistica delle società cooperative. Società cooperative di lavoro fra braccianti, lavoratori ed

affini al 31 dicembre 1894. Citato in Muzzuoli, op. cit..

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La peculiarità del movimento cooperativo italiano si identificava nel continuo

appoggio da parte di uomini di diversi schieramenti politici. Due erano le linee di

tendenza dominanti: da un lato i repubblicani, radicali e liberali diffondevano la c.d.

“cooperazione neutrale”, consistente nel sostegno allo sviluppo in senso corporativo

in alternativa alla lotta di classe; dall’altro lato i socialisti, che ritenevano la

cooperazione espressione dell’emancipazione dei lavoratori14.

La diffusione del movimento fu tale che culminò nella costituzione di una

federazione riconosciuta a livello nazionale. Il 10 ottobre 1886 si tiene a Milano il

primo congresso dei cooperatori italiani che sancisce la nascita della “Federazione

delle società cooperative italiane”, la quale poi per voto del 5° congresso cooperativo

tenutosi a Sampierdarena nel 1893 assume la denominazione di Lega Nazionale delle

Cooperative italiane (attuale LEGACOOP). Alla sua costituzione partecipano le

correnti ideali del tempo: quella socialista con Costantino Lazzari, Nullo Baldini e

Antonio Vergnanini; quella repubblicana con Luigi De Andreis; quella radicale con

Carlo Ramussi; quella liberale con Luigi Luzzatti e Leone Wollemborg, nonché quella

cattolica con l’abate Rinaldo Anelli.

Inizialmente alla federazione aderiscono 148 società cooperative: 39 di

consumo, 8 forni sociali, 41 di produzione e lavoro, 15 di costruzione case, 29 di

credito per operai e contadini e 16 latterie sociali: il primato spettava alla Lombardia,

seguita dall’Emilia considerata area emergente e la Toscana, regione ad alta intensità

cooperativa.

Ben presto, però, l’Emilia diventa la patria della cooperazione italiana alla

quale facevano ricorso non solo operai, bracciantili e artigiani, ma anche

imprenditori, piccoli proprietari terrieri convinti di doversi associare

autonomamente per raggiungere obiettivi comuni d’ordine economico, sociale e

politico. Ed è proprio questa concezione matura della cooperazione che ha permesso

14 Sui rapporti tra il movimento cooperativo e il PSI in quegl’anni si veda DEGL‘INNOCENTI, M.,

Cooperazione e movimento socialista (1886-1900), a cura de Il movimento cooperativo nella storia

d’Europa, Autori vari, Franco Angeli Editore, 1988.

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alla regione un florido sviluppo, e che rappresenta tutt’oggi un esempio da poter

seguire per chi voglia cooperare per raggiungere determinate finalità e interessi.

Partecipano al congresso anche i rappresentanti di 130 società con la presenza

di cooperatori stranieri, tra cui dall’Inghilterra Geroge Jacob Holyoake, e deputati, tra

cui Andrea Costa. Il congresso vota una mozione in cui si afferma la necessità ed

urgenza di una Federazione fra le cooperative italiane ed elegge un Comitato che ha

l’incarico della propaganda e della difesa degli interessi cooperativi e di preparare

uno statuto che stabilisca i principi che dovranno determinare il carattere della

Federazione stessa. Compito del Comitato é anche quello di promuovere la

fondazione di un periodico che rappresenti gli interessi dei sodalizi cooperativi.

Il 1 gennaio 1887 esce a Milano La Cooperazione Italiana, organo della

Federazione delle società Cooperative italiane diretto da Carlo Ramussi; il giornale

oltre alle informazioni pratiche e utili per le cooperative, pubblica a puntate, una

"Storia dei probi pionieri di Rochdale".

Il 9 novembre di quell’anno al secondo congresso, sempre a Milano, si vota

l’ordinamento definitivo della Federazione con l’approvazione dello Statuto. Il

congresso proclama Antonio Maffi segretario generale della Federazione e applaude

alla costituzione di una Alleanza cooperativa internazionale per promuovere

dovunque la cooperazione e rinsaldarne i legami sovranazionali.

L’ultimo decennio del secolo risulta decisivo per il definitivo consolidamento

del movimento cooperativo: l'unità nazionale è stata appena raggiunta, il processo di

industrializzazione e di sviluppo economico comincia a manifestarsi nelle regioni

settentrionali dove un'enorme concentrazione di braccianti analfabeti, senza terra e

spesso senza lavoro, premono alle porte della città richiamati dalle grandi opere

pubbliche.

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4. La cooperazione cattolica

Il "non expedit" di Pio IX aveva impedito al mondo cattolico la

partecipazione alla vita politica del Paese.

Nel 1891 nell’Enciclica di Papa Leone XIII "Rerum Novarum" è centrale la

questione sociale, la quale indica gli obiettivi sociali della Chiesa.

Assistiamo, infatti, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, ad un intervento ampio ed

incisivo dei cattolici nella vita sociale. La motivazione a monte di tale condotta

risiedeva in parte nell’esigenza di contrastare la crescente influenza esercitata dai

socialisti sul proletariato rurale e urbano, ma soprattutto dall’aspirazione di fare

emergere il proprio specifico orientamento di pensiero e di programma nei confronti

della questione del secolo: la questione sociale.

Prima di allora i cattolici avevano agito istituzionalmente e socialmente

attraverso l’Opera dei congressi e dei comitati cattolici d’Italia, fondata a Venezia nel

1874.

L’obiettivo era quello di attivare un osservatorio privilegiato sulle molteplici

necessità dei ceti popolari, dei quali si incoraggiava lo spirito di solidarietà con i ceti

proprietari, stimolati anch’essi, sul versante sociale, a tenere conto di alcune esigenze

organizzative e di vita dei loro dipendenti. Contemporaneamente si affidò alla

creazione di società di mutuo soccorso, di orientamento cattolico, particolarmente

diffuse in alcune province lombarde, il compito di tutela e difesa di alcuni

fondamentali diritti dei ceti artigiani e operai.

Tale strumento era tuttavia palesemente inadeguato a soddisfare le esigenze

delle classi popolari. Così alla fine degli anni ‘80 venne costituita a Padova l’Unione

cattolica per gli studi sociali: tale istituto nasceva con lo scopo di trovare una

soluzione compatibile con le nuove sfide che proponeva l’incipiente trasformazione

della società e dell’economia italiane o perlomeno di alcune aree e regioni del paese.

Si pensò che la soluzione potesse essere la nascita e lo sviluppo di

organizzazioni sindacali cattoliche. L’emanazione dell’enciclica di Leone XIII,

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incoraggiando la tendenza all’associazionismo e, soprattutto, legittimando la

formazione di società composte di soli operai, consolidò la proposta dell’Unione

cattolica.

Il settore del credito, mediante la promozione delle casse rurali, si rivela un

fertile terreno di fioritura per l’associazionismo e il solidarismo cattolici. Merito delle

casse rurali fu quello di promuovere lo sviluppo delle aree rurali, combattendo in

particolare il fenomeno dell’usura.

Nel 1892 Don Luigi Cerutti, cappellano di un piccolo centro in provincia di

Venezia, fonda la prima cassa rurale di matrice cattolica. L’iniziativa di Don Luigi

Cerutti si sviluppa ben presto anche al di fuori del territorio veneziano; nel 1896,

dopo una sua visita in Sicilia, un giovane sacerdote, Don Luigi Sturzo fonda una tra

le prime casse rurali a Caltagirone, sua città natale. Nello stesso anno, su sua

iniziativa, è fondata a Verona la Società Cattolica di Assicurazione.

Le forze cattoliche, nonostante l’iniziale orientamento verso il credito, si

impegnano anche attivamente nella costituzione di cooperative agricole e di lavoro,

di latterie e di cantine sociali; principalmente in ambiente rurale che non urbano,

maggiormente al Nord che non al Centro o nelle regioni meridionali. In particolar

modo in Trentino a cavallo del secolo nascono per iniziativa di alcuni sacerdoti

decine di cooperative di consumo, di credito e agricole.

Particolare caratteristica della cooperazione agricola di matrice cattolica è il

tipo di affitto agrario: l’affittanza collettiva a conduzione divisa. Essa prevede che un

certo numero di agricoltori, riuniti in società cooperativa, assuma in locazione da un

proprietario, o da un ente, un’ampia tenuta, che viene successivamente suddivisa in

poderi di ampiezza variabile assegnati in conduzione ai singoli soci.

L’affittanza collettiva a conduzione divisa, che si contrappone all’affittanza a

conduzione unita, sostenuta dalle forze che si richiamavano alla tradizione socialista,

non solo si sposa meglio con gli ideali sociali del cattolicesimo, ma sembra anche

adeguarsi in modo migliore alle prevalenti condizioni tecniche, produttive, colturali

e contrattuali delle zone di diffusione.

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La prima forma di affittanza divisa viene costituita nel 1883 a Cavelzano, un

piccolo centro in provincia di Bergamo; ad essa fece seguito la formazione di altre

due affittanze a conduzione divisa in Sicilia. E’ tuttavia l’affittanza promossa nel 1887

a Treviglio, un grosso borgo rurale della bassa bergamasca, da un sacerdote, don

Ambrogio Portaluppi, a divenire il modello di riferimento per quelle avviate dal

movimento cattolico nell’alta pianura lombarda.

5. L’età giolittiana

Con l'avvento di Giovanni Giolitti a capo del governo inizia una nuova fase

nella storia del Paese.

Precedentemente, durante il governo di Francesco Crispi, il paese attraversa

una profonda crisi economica, caratterizzata da miseria diffusa, crolli bancari,

emigrazione di massa; la crisi si accompagna ad una feroce repressione di ogni

protesta. Neanche in seguito, dopo la caduta del governo Crispi, la situazione

cambia; la crisi economica per le gravi misure autoritarie diventa politica e sociale

fino a culminare nella sanguinosa repressione dei moti milanesi del maggio 1898. In

questa situazione anche la Cooperazione viene colpita duramente: alcuni fra i

massimi dirigenti del movimento, vengono arrestati, decine di cooperative vengono

chiuse dalle autorità di polizia, i beni vengono confiscati, i consigli di

amministrazione sciolti e sostituiti con commissari.

La situazione inizia a mutare nel periodo giolittiano.

Ad iniziativa della Lega delle cooperative si costituisce nel 1901 fra la Lega

stessa, la Federazione Italiana delle Società di Mutuo Soccorso e la Confederazione

Generale del Lavoro la "Triplice Alleanza" del lavoro, un comitato composto dai

maggiori esponenti dei movimenti cooperativi, mutualistici e sindacali che si

propone di coordinare l’attività delle tre grandi organizzazioni con lo scopo di poter

offrire sempre maggiore assistenza alle classi operaie e di presentarsi come un

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gruppo compatto per poter contare nelle questioni di carattere aventi per scopo la

situazione giuridica ed economica dei lavoratori.

L’economia italiana mostra segni di rilevante dinamismo, traendo impulso

dalla favorevole congiuntura internazionale, dalla ristrutturazione del sistema

bancario, dal ruolo dello Stato in qualità di committente, dalla nuova politica

industriale impostata dal ceto dirigente liberale.

Il movimento cooperativo cresce, anche quantitativamente, grazie al nuovo

clima economico, sicuramente più dinamico, dovuto alla nuova situazione politica e

ai cambiamenti istituzionali e ad una legislazione più favorevole al movimento

operaio.

Tra il 1904 e il 1910 sono infatti ben dodici i provvedimenti legislativi volti a

favorire più o meno direttamente la cooperazione.

Un momento legislativo di estrema rilevanza per il movimento cooperativo è

rappresentato dalla legislazione sulla cooperazione varata nel 1904, per iniziativa del

Ministro Luigi Luzzatti. L’importanza di tale normativa è dovuta al fatto che da una

parte ne riconosce l'esperienza e la validità, dall'altra le apre prospettive di sviluppo

di grande importanza e ne prefigura un ruolo strutturale nell'allargamento della

democrazia e per la trasformazione dell'economia del Paese.

A riconoscimento dell’importanza assunta dal movimento cooperativo

italiano la Lega Nazionale delle Cooperative viene ammessa a far parte in Italia dei

Consigli Superiori del Lavoro, della Previdenza, dell’emigrazione e della

Commissione centrale delle cooperative e, all’estero, dell’Alleanza Cooperativa

Internazionale.

Nel 1907 e nel 1908 vengono promossi vari provvedimenti recanti

agevolazioni creditizie e fiscali alle cooperative. Nel 1909 viene promulgata una legge

sulla erogazione dei sussidi alle cooperative.

Dalle 3800 società esistenti nel 1902 la cooperazione passa nel 1910 a 5065

società, alle quali si devono aggiungere le 746 Banche popolari; i soci ammontano a

oltre un milione e mezzo. L’allargamento della sfera di azione delle cooperative, la

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larga mole dei lavori pubblici e l’estensione delle terre affidate alle cooperative

implicano un forte bisogno di credito. Di qui il sorgere di numerosi istituti di credito

creati esclusivamente per il funzionamento delle cooperative.

6. Tra guerra e dopoguerra: crisi e sviluppo

Nel 1915 l'Italia entra nel conflitto mondiale. Milioni di uomini sono chiamati

alle armi e la loro partenza apre enormi vuoti anche nelle cooperative.

I disagi che porta con sé il conflitto sono innumerevoli: restrizioni

nell’erogazione del credito, svalutazione della moneta e aumento dei costi che si

riflettono negativamente sui contratti di appalto già stipulati e non modificabili,

inciampi e rallentamenti sul mercato dei beni di consumo e della loro distribuzione,

lievitazione dei costi dei materiali da edificazione e in generale dei beni strumentali.

L’insieme di questi fattori negativi investe tutto il fronte cooperativo e, salvo i

settori che rispondono in modo diretto alle misure di mobilitazione bellica, come gli

spacci e la maggior parte delle cooperative di lavoro agricole, l’intera macchina

associativa deve affrontare un periodo di spinosi problemi e di aggiustamenti delle

proprie strutture per adeguarle al processo di profonda trasformazione in corso

nell’apparato politico-economico dello Stato.

Nel 1915 una statistica della Lega indica l’esistenza di 7429 cooperative con

un milione e 800 mila soci. Di queste 2408 appartengono al settore di consumo, 3022

alla produzione e lavoro, 1143 al settore agricolo, 105 alle assicurazioni.

La maggiore presenza delle cooperative continua a registrarsi nel Nord del

Paese: in quattro sole regioni, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Toscana, si

trova concentrato il 60% delle cooperative.

Con la conclusione del conflitto si assiste ad uno sviluppo senza precedenti

della cooperazione: nel 1919 e nel 1920 nuclei di disoccupati e di contadini, decimati

dall'aumento dei prezzi, fanno appello da un lato agli spacci e ai magazzini di

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consumo e dall'altro alle cooperative agricole nelle campagne.

Nel 1921 si contano 25000 cooperative con oltre due milioni di soci.

All’interno della Lega, una frattura tra la corrente ideologica di ispirazione

laico socialista e quella di ispirazione cattolica è la causa dell’allontanamento di

quest’ultima che costituisce nel 1919 la Confederazione delle cooperative nazionali.

Nello stesso periodo nasce la Federazione delle cooperative fra ex

combattenti, il Sindacato nazionale delle cooperative ed il Sindacato italiano delle

cooperative di matrice fascista.

La Confederazione sorta formalmente nel 1919 si costituisce di fatto a Treviso

nell’aprile del 1921 in occasione dello svolgimento del suo primo congresso

nazionale.

La sua costituzione corona il progetto a lungo accarezzato dai dirigenti del

movimento cooperativo cattolico di dare vita ad un forte organismo unitario a livello

nazionale. Alla nuova Confederazione aderiscono tutte le Federazioni di categoria

cattoliche già esistenti. Secondo i primi dati rappresentava 7365 società.

Per un ulteriore potenziamento il movimento cooperativo cattolico, sostenuto

politicamente dal Partito popolare di Don Luigi Sturzo, fa largo affidamento su un

nuovo istituto di credito creato quasi contemporaneamente alla Confederazione: la

Banca Nazionale del Lavoro e della cooperazione che, sostenuta dal Banco di Roma,

svolge la funzione di organismo finanziario della cooperazione cattolica.

Ma la Lega regge al confronto in virtù soprattutto dei processi di

ristrutturazione avviati e al suo interno.

Sono anni, questi, compresi tra lo scoppio della guerra libica e la concessione

del suffragio universale, in cui il movimento operaio è lacerato da drammatiche

scissioni tra riformisti e rivoluzionari.

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7. Fascismo e cooperazione

Il fascismo colpisce duramente fra il 1919 e il 1924 la cooperazione

democratica di ispirazione socialista, cattolica e repubblicana. Lo squadrismo fascista

individua nelle Case del Popolo, nelle Camere del Lavoro, nelle Cooperative e nei

Circoli operai i principali obiettivi delle sue violente incursioni.

Non esiste una statistica precisa delle distruzioni sofferte dalle sedi

cooperative; ma alla vigilia della marcia su Roma si calcola fossero più di 200 le sedi

distrutte. “Contro le cooperative - scrive Italo Balbo - si è agito con lo stesso spirito

con cui si distruggono in guerra i depositi del nemico”.

Con il 1923 cambia la politica del fascismo nei confronti del movimento

cooperativo: dalla fase distruttiva si passa ad una fase di controllo. Viene infatti

intrapresa la tattica dell'annessione dei patrimoni altrui. Non più distruzioni dunque,

ma una opera più lenta e finalizzata all'estensione e al controllo del consenso al

fascismo.

I fascisti da una parte cercano di imporre alle cooperative alcuni principi

economici “meno solidaristici” e dall’altro infiltrano a diversi livelli propri esponenti

in modo da acquisire, con un certo consenso, la gestione delle cooperative stesse.

Nei riguardi dei grandi Consorzi e delle più affermate cooperative si procede

attraverso la "gestione straordinaria" imponendo di fatto apparati dirigenti di sicura

fede politica.

Inoltre mentre alcune cooperative vengono decisamente liquidate per

compiacere i ceti che hanno appoggiato il fascismo, è il caso delle cooperative di

consumo dove bottegai e commercianti sono ben contenti di essere liberati di uno

scomodo concorrente, nel caso delle cooperative di produzione e lavoro il fascismo

cerca di procedere in modo diverso rifacendosi ad una sorta di teoria “efficientistica”

della cooperazione modellata sulla tipologia di gestione delle aziende private.

Il fascismo scioglie nel 1925 la Lega e nel 1927 la Confederazione, costringe i

capi del movimento cooperativo ad abbandonare ogni attività pubblica e, in molti

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casi, a lasciare l’Italia, e dà inizio alla riorganizzazione dei settori cooperativi: nel

1926 viene creato l’Ente Nazionale Fascista per la cooperazione con sede a Roma e le

cooperative vengono inquadrate nell’ordinamento corporativo.

L'adesione al nuovo ente cooperativo è formale e il più delle volte determina

la chiusura delle singole cooperative in una dimensione aziendalistica. Il regime

fascista non manca di esaltare con la consueta retorica la cooperazione, tuttavia la

"Carta del lavoro", che è del 1927, la ignora. In sostanza la cooperazione resta ai

margini dell'interesse e della politica di regime.

Ovviamente, quindi, il contributo della cooperazione allo sviluppo

economico generale durante il fascismo è molto modesto, se si eccettua il settore

agricolo nel quale predomina una cooperazione ancora più burocratizzata e

subalterna agli interessi del capitalismo agrario: quella dei consorzi agrari.

Quando poi il fascismo comincia la sua crisi cerca di riacquistare consensi con

demagogiche promesse come l’espropriazione delle terre incolte e aziende mal

gestite a favore di cooperative, l’aumento di spacci aziendali e cooperative.

Una nuova piattaforma politica sta invece nascendo, con ben altro prestigio e

credibilità, fra i monti e nelle stesse città presidiate dai nazifascisti, nelle proposte dei

CLN, l'organismo interpartitico espressione degli ideali unitari ed antifascisti della

resistenza, e dei partiti impegnati nella resistenza. Nel periodo della Resistenza, dal

1943 al 1945, dietro la facciata di alcune cooperative legalizzate si organizza una

azione di appoggio alla lotta contro i nazifascisti, si pongono le premesse per la

costruzione o la ricostruzione di cooperative libere e democratiche.

I partigiani e i dirigenti politici, nel vivo della lotta armata contro i tedeschi e

i fascisti, già pensando al dopoguerra e a come riorganizzare lo stato, le strutture

economiche e la società prevedono nei piani per la ricostruzione del paese le un ruolo

anche per la cooperazione. Comunisti, socialisti, azionisti, repubblicani, cattolici,

sinistra cristiana, democratici del lavoro e perfino liberali, includono il movimento

cooperativo tra le forze che avrebbero dovuto contribuire alla rinascita e allo

sviluppo di un'Italia prospera, libera e democratica.

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Certo ci sono tra loro differenze e gradi di convinzione diversi, ma tutti

s'impegnano a favorire la cooperazione, specialmente come elemento per la riforma

agraria e il riassetto produttivo e tecnico dell'agricoltura.

Sul finire della guerra e nella regione di più viva tradizione cooperativistica,

l'Emilia Romagna, il problema cooperativo viene posto in termini netti e precisi; il

Comitato legislativo clandestino del CLN prepara tra l'altro un decreto legge che

vuole affrontare la "questione del maltolto " rendendo nulli tutti gli atti di

spossessamento e di esproprio portati avanti durante gli anni venti dal regime

fascista.

8. La ricostruzione dell’Italia e della cooperazione

La fine della democrazia aveva segnato la fine dell’esperienza

cooperativa, basata sulla partecipazione attiva dei soci, che affondava le proprie

radici nei principi dei probi pionieri di Rochdale.

La rinascita venne con l’uscita dalla dittatura e dalla guerra.

Mentre le truppe alleate attraversano la penisola, nei territori liberati

nascono spontaneamente cooperative di lavoro e di consumo.

A Roma, in piena guerra, si festeggia il centenario dei Probi pionieri di

Rochdale nel novembre del 1944, di cui danno notizia tutti i giornali.

Il 15 maggio 1945, ricorrendo l’anniversario della Rerum Novarum di

Leone XIII, un gruppo di cooperatori cattolici ricostituisce la Confederazione

Cooperativa Italiana. Pochi mesi più tardi anche la Lega Nazionale delle

Cooperative e Mutue viene ricostituita.

Ma se in base al fervore dei tempi della liberazione sembrava dovercisi

aspettare una funzione trainante del movimento cooperativo nella ricostruzione

del paese e delle strutture economiche, in realtà pareva che il problema

cooperativo non fosse affatto presente nell’attività dei primi governi.

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Su iniziativa unitaria della Lega e della Confederazione e promossa da un

emerito studioso nonché sostenitore della cooperazione, Alberto Basevi, viene

approvata il 14 settembre 1947 con D.L.C.P.S. n. 1.577 la legge contenente

"Provvedimenti per la cooperazione", che fissa sia i principi solidaristici e

democratici cui dovevano ispirarsi le società cooperative, sia le clausole che

avrebbero certificato il rispetto del requisito della mutualità sancito dalla

Costituzione.

La legge vieta inoltre l’ammissione di soci che esercitano in proprio

imprese identiche o affini a quella cooperativa. Il rispetto di queste clausole, tese

a definire il requisito mutualistico delle cooperative, completate dall’obbligo

dell’iscrizione al registro prefettizio e allo schedario generale della cooperazione,

permette l’accesso alle agevolazioni previste dalla legge.

La legge Basevi si propone la tutela del sano movimento cooperativo.

Questo però non ha soltanto bisogno di essere difeso dalla pseudo cooperazione

bensì di essere incoraggiato, spinto, aiutato e potenziato in forma concreta. A

favorire lo sviluppo della cooperazione, specie in alcuni settori, concorrono varie

leggi che, particolarmente nel campo agricolo e in quello edilizio apportano

efficaci provvidenze.

L'opera legislativa a favore della cooperazione culmina con l'art. 45 della

Costituzione: la cooperazione acquista ogni titolo per poter essere considerata fra

le forze economiche e sociali che più hanno diritto ai legittimi aiuti dello Stato per

poter crescere e svilupparsi nel migliore interesse della nazione.

Nei primi anni del dopoguerra il movimento cooperativo continua la sua

crescita.

Nel 1948 la Lega e la Confederazione vengono riconosciute dallo Stato

come "Associazioni nazionali di rappresentanza, tutela e assistenza del

movimento cooperativo". Nello stesso anno la Confederazione aderisce

all'Alleanza Cooperativa Internazionale che a maggio riunisce a Roma il proprio

comitato centrale.

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Il XXII Congresso Nazionale della Lega si tiene nel 1949 a Firenze. Di

fronte alla svolta conservatrice della politica italiana segnata dalle elezioni del

1948 e dal conseguente appesantimento delle già dure condizioni dei lavoratori,

programma un'azione rivendicativa e di rafforzamento del movimento

cooperativo mediante la fusione e la concentrazione delle cooperative e di

appoggio alle iniziative politiche e sociali dei lavoratori mediante lo sviluppo dei

piani economici, il sostegno ai lavoratori nel corso degli scioperi e delle agitazioni

e la cura dell'educazione infantile e della ricreazione popolare con la creazione di

biblioteche e colonie per bambini.

Nella conclusione dell'onorevole Cerreti si afferma tra l'altro che :

"La cooperazione deve essere una forza di propulsione e di

collegamento unitario fra le masse lavoratrici e fra tutti quei ceti sociali

che hanno quale interesse comune un profondo rinnovamento delle

strutture e delle sovrastrutture della società italiana, fra le zone

economicamente e socialmente più deboli (Mezzogiorno e Isole) e

quelle di maggior sviluppo. Quindi la Cooperazione deve restare

aperta a tutti con l'intento di fare opera profondamente organica ed

educatrice al fine di rendere i soci e gli amici della Cooperazione

coscienti degli scopi immediati e generali che essa si prefigge nel campo

economico-politico-sociale".

Tra il 1949 e 1950 il Governo approva vari provvedimenti che favoriscono

l’edilizia popolare e cooperativa; ciò favorisce la crescita delle cooperative

d’abitazione che conoscono un vero e proprio boom.

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9. Gli anni della guerra fredda

Sulle speranze di un profondo rinnovamento sociale, suscitate dal ruolo

primario assegnato al lavoro dalla Carta Costituzionale, cala il gelo della guerra

fredda fra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica che divide il mondo in due blocchi

contrapposti interrompendo bruscamente l'esperienza dei governi d'unità

nazionale.

Le società e il numero dei soci registrano un progressivo aumento ma

nonostante ciò gli anni cinquanta non saranno anni facili per il movimento

cooperativo. La Lega denuncia forme di discriminazione da parte del governo

Scelba, ritenendo che le disposizioni varate da quest’ultimo abbiano come

obiettivo non di accertare il rispetto dei requisiti mutualistici, ma di liquidare le

"retrovie del movimento operaio". Funzionari ministeriali compiono

continuamente ispezioni straordinarie nelle cooperative "rosse", come le

chiamano i democristiani, accusandole di finanziare i partiti di sinistra e di

sostenere le lotte contro il Governo. Alle cooperative di consumo che chiudono gli

spacci durante gli scioperi in segno di solidarietà con i lavoratori vengono ritirate

le licenze.

Le cooperative di lavoro ed i loro consorzi non vengono più invitati alle

gare da diverse stazioni appaltanti.

In questo clima di forte contrapposizione nel 1952, a seguito

dell'assunzione della maggioranza negli organismi dirigenti della lega della

componente comunista, si verifica una nuova scissione ad opera dei

socialdemocratici e di parte dei repubblicani che danno vita all'Associazione

Generale delle Cooperative Italiane.

L'attacco scelbiano impone alle cooperative aderenti alla Lega di

arroccarsi in difesa dei propri diritti e le costringe ad invertire la linea di tendenza

che le portava ad aprirsi all'esterno, costringendole al blocco.

Il movimento cooperativo non rinuncia tuttavia, a sviluppare le sue

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iniziative a difesa dei ceti più deboli.

Si intensificano le azioni della Lega per rimuovere i limiti imposti al suo

sviluppo. In occasione delle elezioni politiche del 1953 il Consiglio direttivo della

Lega lancia un appello ai cooperatori perché diano il loro voto solo a quei

candidati che si impegnano a porre in Parlamento le rivendicazioni del

movimento cooperativo.

Contro il carattere arbitrario dell'azione governativa, che rappresenta un

attentato alla libertà delle organizzazioni cooperative e contro la pesante

campagna denigratoria di alcuni grandi organi di stampa, le forze democratiche

si battono tenacemente in Parlamento invocando l'abolizione di tutte le restrizioni

varate a danno delle cooperative.

Ma è la mobilitazione dei partiti democratici che, in collaborazione con la

Lega, organizzano il 16 gennaio 1955 un'imponente manifestazione a bloccare

infine l'ondata di perquisizioni, di scioglimenti arbitrari e di ispezioni prefettizie

che avevano investito il movimento cooperativo.

10. Dal miracolo economico alla fine degli anni ‘60

I fatti del 1956 in Europa e le nuove scelte strategiche adottate in Italia sia dai

partiti che dai sindacati indicarono una nuova via di intervento anche alla Lega.

Gli anni sessanta si inaugurano con un forte ripensamento sui temi

dell'economia e dell'autonomia del movimento cooperativo e di sottolineatura della

gestione collettiva e dei fini sociali dell'impresa in alternativa agli obiettivi di

accumulazione capitalistica perseguiti dalle grandi concentrazioni monopolistiche.

La cooperazione di consumo regredita a 3.694 cooperative con 23.000 addetti

circa avvia il processo di ristrutturazione della rete distributiva con la creazione di

organismi di medie dimensioni e di punti di vendita moderni. I successi di vendite e

di incassi dei primi punti di vendita cooperativi rimodernati rafforzano la volontà di

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misurarsi con le grandi catene di supermercati privati.

Si può dire che questi anni concludono la fase storica del cooperativismo con

una maggiore attenzione delle unità su dimensioni che permettono una migliore

gestione quantitativa, qualitativa ed economica dell'attività: si affermano i grandi

consorzi nazionali come Coop. Italia destinata a contrattare gli acquisti di tutte le

cooperative di consumo.

La Lega esce dal XXVI congresso, che si tiene a Roma nel 1962,

profondamente modificata e con obiettivi che non rimangono sulla carta. Negli anni

successivi si lavora a sfoltire e selezionare con criteri di economicità e funzionalità la

mappa della cooperazione; si procede al ricambio dei gruppi dirigenti; si rivedono i

rapporti con le Associazioni; si creano nuovi strumenti di promozione.

Il 13 maggio 1962, ad opera di 14 gruppi d'acquisto cui aderiscono 420 soci,

viene costituito a Bologna il Consorzio Nazionale Dettaglianti (Conad) con lo scopo

di organizzare in comune i rifornimenti e gli acquisti di generi alimentari, bevande e

beni di consumo.

Sempre a Bologna nel 1963 inizia l'attività di Unipol. Nello stesso anno si

costituisce l’Istituto di Credito delle Casse Rurali ed Artigiane (ICCREA). La sua

nascita viene salutata positivamente in quanto si auspica ponga fine all'isolamento

delle casse rurali dal resto della cooperazione organizzata.

Il 23 gennaio 1965 si apre la decima assemblea della Confederazione che

ormai rappresenta undicimila società di primo grado, due milioni di cooperatori con

94 unioni territoriali e con dieci federazioni nazionali di categoria.

Il 27 settembre 1968, in occasione del dibattito sul bilancio, il Ministro del

Lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, fa rilevare alla Camera l’importanza del

movimento cooperativo per la programmazione e quindi chiede "un’azione più viva,

più incisiva, per molti versi nuova... di impulso ad una adeguata politica creditizia

che il Ministero è in grado di svolgere...".

Gli anni ’60 si chiudono a livello nazionale con il XXVIII congresso nazionale

della Lega che si tiene a Roma dal 9 al 13 aprile 1969; per la prima volta dopo il 1945

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vi partecipa un Ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini. Il presidente Silvio Miana

afferma nella sua relazione che "si è cominciato ad affermare in Italia un grande ed

unitario sistema nazionale di forme cooperative e associative fondato

sull’autogestione dei loro soci".

Il Congresso indica alla Lega alcune scelte di fondo: l'impegno per il

Mezzogiorno; lo sviluppo dell'agricoltura; la soluzione dei problemi delle grandi

città, ma soprattutto la realizzazione di un sistema nazionale di cooperative

fortemente unite fra di loro in adeguati organismi cooperativi consortili nazionali,

settoriali ed intersettoriali, portando avanti nel contempo i processi di unificazione e

di concentrazione aziendale e di ristrutturazione.

11. La crescita degli anni ‘70

Gli anni ’70 si aprono con la XII Assemblea della Confederazione, tenutasi a

Roma, alla Domus Mariae. Dall’Assemblea scaturiscono i lineamenti della riforma

statutaria che entrerà in vigore cinque anni dopo.

La XII Assemblea dà avvio al quadriennio delle riforme, privilegiando

particolarmente il decentramento regionale e la specializzazione delle Federazioni di

categoria, nonché il collegamento con movimenti, organizzazioni professionali ed

iniziative agenti secondo una identica ispirazione.

In questi anni iniziano a susseguirsi una serie di progetti di riforma della

Legge Basevi. Solo nel 1971 essi giungono a una conclusione di proporzioni però

assai circoscritte. La Legge n. 127 del 27 gennaio 1971, nota come "piccola riforma",

dedica grande spazio al rafforzamento imprenditoriale delle cooperative con una

serie di provvedimenti decisivi al fine di un loro più moderno funzionamento ed

introduce importanti agevolazioni fiscali fra cui in particolare l’esenzione

dell’imposta sulle società estesa anche ai consorzi cooperativi che rispondevano ai

principi della mutualità, e l’estensione dell’imposta di ricchezza mobile sugli

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interessi delle somme versate a titolo di prestito da soci, fino ad un certo limite.

Nel 1971 un gruppo di cooperatori, di area cattolica, costituisce l’Unione

Nazionale Cooperative Italiane (U.N.C.I.). La nuova centrale cooperativa si propone

come programma la valorizzazione dell’elemento umano e dei veri principi

mutualistici, evitando lo scadimento del fenomeno cooperativistico a puro fatto

economico.

Negli stessi anni la Lega prosegue il processo di riqualificazione delle

strutture cooperative: anche attraverso processi di unificazione. L'ACAM , azienda

nata nel 1960 per offrire alle cooperative bolognesi un servizio di

approvvigionamento collettivo, diviene Consorzio Nazionale delle Cooperative di

Produzione Lavoro; nel 1972, per rispondere alle nuove esigenze poste

dall'evoluzione produttiva e tecnologica nascono nuove strutture e vengono avviati

processi di unificazione: l'urgenza di aggiornare e coordinare le attività di studio,

sperimentazione e ricerca condotte nel campo dell'industrializzazione edilizia porta

alla costituzione dell'Istituto Cooperativo per l'Industrializzazione Edilizia (I.C.I.E.) .

Dalla unificazione fra la cooperativa Granarolo, aderente alla Lega, e la

cooperativa Felsinea, associata alla Confcooperative, nasce il Consorzio Emiliano

Romagnolo Produttori Latte .

L'economia italiana si trova investita da una preoccupante stasi della

produzione e da un forte aumento dei prezzi che determinano la più lunga e grave

crisi del dopoguerra durante la quale cresce l'inflazione e il disavanzo pubblico del

Paese afflitto peraltro dall'inasprirsi del fenomeno terroristico, avviatosi con la strage

di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, e da preoccupanti segni di instabilità

governativa.

Il 7 maggio 1973 si apre a Firenze il XXIX Congresso Nazionale della Lega. Il

movimento cooperativo prende piena coscienza della propria potenzialità socio-

economica e si pone come una forza in grado di dare un importante contributo alla

risoluzione dei gravissimi problemi che travagliano il paese qualificandosi come

indispensabile strumento strutturale di un disegno di avanzamento democratico.

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L’anno seguente prende avvio una stagione di forte potenziamento della

presenza nazionale della cooperazione che in particolare nell’ambito delle

celebrazioni del 90’ anniversario della fondazione della Lega troverà formulazioni

teoriche la cui validità sarà poi confermata dagli sviluppi seguenti.

Attorno alla cooperazione si accendono in quegli anni, fra l’altro, diffuse

speranze fra i giovani disoccupati e nel mezzogiorno.

Ma è all'indomani del terremoto elettorale registratosi nel 1975-1976 a favore

della sinistra e particolarmente del PCI che viene riproposto sulla scena nazionale in

tutta la sua efficacia il ruolo del movimento cooperativo quale originale protagonista

imprenditoriale, "terza via" nello sviluppo economico del Paese, alternativa sia al

capitalismo privato che al sistema delle pubbliche imprese.

Questi anni sono segnati anche da un profondo processo di rinnovamento

organizzativo e politico all’interno della cooperazione cattolica: nascono consorzi

nazionali, in particolare nel settore agricolo, viene costituita una nuova società

finanziaria, si avviano processi di formazione dei cooperatori. E’ comunque il primo

congresso confederale del 1975 che imprime una svolta storica alla politica ed alla

organizzazione della Confederazione sia per il forte ricambio generazionale, sia per

la maggiore attenzione che viene prestata per il nuovo che emerge dalla società e

dall’economia e per le profonde trasformazioni della domanda cooperativa che

coinvolge ceti sociali più ampi rispetto al passato. Viene infatti coinvolto un numero

crescente di ceti sociali e di categorie professionali rispetto al passato e per motivi

non più riconducibili alla sola tutela dei più deboli. La domanda cooperativa si

caratterizza in particolare fra i giovani e le donne, come domanda di lavoro

qualificato, da autogestione e di una migliore qualità della vita. La cooperazione

rilancia il suo impegno sul piano politico in concomitanza con il completamento del

trasferimento dallo Stato alle regioni delle competenze previste dalla Costituzione

che consente di avviare definitivamente una nuova esperienza di decentramento

istituzionale e di valorizzare le autonomie locali.

I mutamenti che avvengono in questi anni non sono puramente quantitativi.

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Prendono corpo forme di cooperazione nuove. La Lega dà vita alle Associazioni fra

le cooperative dei servizi, fra i dettaglianti, fra gli operatori culturali, fra quelli del

turismo.

Inoltre, al fine di promuovere la crescita delle imprese cooperative in campo

finanziario e di assicurare loro servizi adeguati, si attiva a Bologna nel 1977 il

Consorzio Fincooper.

In pochi mesi il capitale del Fincooper passa da 352 milioni a 2 miliardi e

mezzo sottoscritti da oltre cinquecento cooperative. Alla nascita e crescita del

Fincooper si accompagna in quegli anni un programma di sviluppo della politica

finanziaria nelle cooperative, basata sul prestito dei soci.

Infine in questi anni, a fronte delle difficoltà incontrate dalla realizzazione di

un modello di Welfare-State che vede l’Ente pubblico come un unico protagonista,

nascono le prime cooperative operanti nel settore dei servizi socio-sanitari.

L'interesse che il movimento cooperativo è riuscito a suscitare con la politica

di rilancio in una congiuntura economica avversa trova la conferma più significativa

nella convocazione da parte del Governo nell'aprile 1977 di una conferenza nazionale

sulla Cooperazione.

La conferenza nazionale indetta dal Governo rappresenta una svolta sia

perché riunisce dopo più di 30 anni le diverse componenti della cooperazione in una

sorta di assemblea generale sia perché ristabilisce ufficialmente i rapporti fra il

movimento cooperativo e le istituzioni pubbliche. Aprendo i lavori, il 27 aprile 1977,

il presidente del Consiglio Giulio Andreotti afferma: "La cooperazione è un

fenomeno vivo. In venticinque anni le cooperative italiane sono passate da 14000 a

64000. Ed è significativo il notare che là dove vi è stato un serio impulso

cooperativistico si è avuto il maggior progresso economico e sociale. Senza nulla

togliere ad altre forme organizzative, può affermarsi che una espansione di autentica

cooperazione potrebbe rimuovere da molti settori condizioni critiche e disfunzioni.

In una società che lamenta l'alto costo del denaro, una presenza maggiore delle Casse

di credito cooperativo sarebbe certo giovevole. Come pure un ruolo specifico deve

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vedersi ai fini di una moderazione nei prezzi di vendita: esempi di cooperazione tra

commercianti attestano quanto questo sia valido nei costi di distribuzione, accanto

alla classica cooperazione di consumo che in qualche regione italiana ha una

tradizione antica ed una consistenza efficiente...".

Uguali riconoscimenti vengono da tutti i rappresentanti di governo e di

partito succedutisi alla tribuna, nonché dagli esponenti delle confederazioni sindacali

e della Confapi.

Gli anni tra il 1977 ed il 1979 rappresentano un periodo di eccezionale

sviluppo del movimento cooperativo e non a caso essi coincidono con la fase

culminante della politica di "solidarietà nazionale".

In quegli anni la Lega tocca indici di sviluppo inusitati tanto che a metà degli

anni '70 raggiunge un giro d'affari di oltre 3.000 miliardi. Ma a segnare le cadenze di

sviluppo delle cooperative non sono solo i risultati di ordine quantitativo, sorgono

infatti nuove forme associative e nuove strutture in settori prima di allora ignorati e

trascurati: per i servizi culturali e sociali, per quelli turistici, per la formazione

professionale.

Nel gennaio 1978 si tiene a Roma il XXX Congresso Nazionale della Lega, il

congresso è dominato da due temi, quello dell'imprenditorialità della cooperazione e

quello di un suo rinnovato impegno meridionalista. Durante i lavori emerge la tesi

della cooperazione come terza componente dell'economia italiana, questa formula

viene accreditata dalle forze politiche. Fra i dirigenti comunisti fu lo stesso Berlinguer

a perorare l'esistenza di un terzo settore produttivo ed il PCI che ancora partecipa

alla maggioranza di solidarietà nazionale chiede che lo Stato esprima in direzione

dell'impresa cooperativa un impegno di portata paragonabile - e certo di più rigorosa

efficacia - a quello già messo in atto per lo sviluppo dell'industria a Partecipazione

statale anche prevedendo appositi strumenti di incentivazione, promozione ed

assistenza.

D'altro canto il governo si accinge ad approvare il piano decennale per la

casa, nuove misure per l'agricoltura e la legge per l'occupazione giovanile e c'è

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quindi motivo di ben sperare. Le disposizioni varate dal Parlamento nell’agosto 1978

confermano queste speranze.

Nel giugno 1979 si tiene presso l’Auditorium della Tecnica di Roma il

secondo congresso nazionale della Confederazione che ha come tema "Il contributo

della Confcooperative per una società più giusta e solidale". Il congresso affronta con

forza il problema dei rapporti della Confcooperative con le altre centrali cooperative

con i sindacati, con i partiti politici perché "non può operare da sola una

organizzazione come la nostra, chiamata ad impegnarsi nel sociale, nell’economico,

nel politico. Non possiamo evidentemente né concepire né attuare alcun progetto

prescindendo dagli altri". La mozione finale del congresso impegna il nuovo

consiglio nazionale della Confederazione e gli altri organi confederali a proseguire

nella politica dei Consorzi nazionali e della regionalizzazione.

12. I difficili anni ‘80

Negli anni ottanta le grandi trasformazioni del sistema produttivo pongono

al movimento cooperativo problemi nuovi e decisivi: come affrontare il mercato e la

concorrenza per non essere spinto ai margini del sistema economico; come

consolidare i processi di autonomia dalle forze politiche; come accentuare e

valorizzare le interconnessioni funzionali tra le imprese; come ampliare l'orizzonte

delle attività oltre i confini nazionali e oltre i canali tradizionali dell'interscambio

cooperativo; come attrezzarsi modernamente sul piano del management, della

tecnologia e della finanza; come adeguare la legislazione cooperativa. Il tutto senza

perdere di vista i valori costituenti della cooperazione ovvero la solidarietà e la

mutualità.

Questi problemi trovano nel XXVII° congresso dell'Alleanza Cooperativa

Internazionale tenutosi a Mosca nel 1980 un primo momento di confronto; il rapporto

che riassume le tesi congressuali, noto come "Rapporto Laidlaw" costituisce il punto

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di partenza per una riflessione sui compiti della cooperazione volta a "contribuire a

fare un mondo diverso e migliore".

Il 28 marzo 1984 si apre a Roma il terzo congresso nazionale. E’ il congresso

del risanamento, del rinnovamento e del rilancio confederale. Nella mozione finale

viene evidenziata l’esigenza di assumere i problemi dell’occupazione del

Mezzogiorno, dell’agricoltura e della imprenditoria minore come motivi di impegno

costante e prioritario dell’organizzazione. Gli oltre settecento partecipanti al

Congresso Nazionale vengono ricevuti in udienza da Papa Giovanni Paolo II che

richiama l’attenzione dei presenti sulla portata storica della cooperazione e sul

servizio reso nel corso degli ultimi anni.

Per la Lega gli anni ’80 sono caratterizzati da un forte impegno sul terreno

della finanza a seguito della crescente finanziarizzazione dell'economia. Ingenti

risorse sono richieste per la ristrutturazione delle imprese e del sistema anche se esse,

purtroppo, saranno utilizzate prevalentemente per processi di concentrazione e in

partecipazioni, piuttosto che per l'innovazione tecnologico-produttiva.

La cooperazione ha più che mai bisogno di capitali, in quanto la

sottocapitalizzazione delle imprese cooperative costituisce una debolezza storica. Per

soddisfare questa sua necessità la Lega, al Convegno finanziario nazionale che si

tiene a Venezia il 14 maggio del 1984, sceglie due strade: l'accesso al mercato dei

capitali, pur restando un'impresa di persone, e non di capitali, con fini mutualistici;

l'aumento dell'autofinanziamento. Circa l'accesso al mercato dei capitali si decide di

creare, come Lega, strumenti finanziari settoriali ed intersettoriali, per poter

rastrellare capitali e risparmio privato da finalizzare allo sviluppo dell'impresa

cooperativa: si costituisce una banca nazionale, la Banec, con sede a Bologna, si

potenzia Fincooper, si quota in Borsa Unipol; questa scelta è determinata dalla

necessità di sviluppare anche in campo finanziario la capacità propositiva già

dimostrata in quello assicurativo.

Relativamente all'autofinanziamento, sul piano rivendicativo il movimento

cooperativo riesce ad ottenere nel 1985 la cosiddetta "legge Marcora" n. 49 del 27

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febbraio 1985 contenente provvedimenti per il credito alla cooperazione e misure

urgenti a salvaguardia dei livelli di occupazione. La Legge prevede tra l’altro la

costituzione di un fondo speciale a favore delle cooperative costituite tra lavoratori in

cassa integrazione guadagni utilizzabile sia per l’acquisto dell’azienda in difficoltà

presso la quale avevano lavorato, sia per la costituzione di una nuova società (al di

fuori del settore agricolo). Il fondo speciale eroga contributi a fondo perduto a

finanziarie appositamente costituite il cui capitale è controllato per almeno l’80% da

società cooperative di produzione e lavoro. A questo scopo la Confcooperative, la

Lega e l’AGCI d’intesa con i sindacati confederali CGIL, CISL e UIL formano la

Compagnia Finanziaria Industriale (CFI) .

Alla fine degli anni ottanta nasce su iniziativa della Confcooperative della

Basilicata il Consorzio C.S. Cooperazione e Solidarietà, il primo consorzio sociale

costituito nelle regioni meridionali. Alcuni anni dopo il Consorzio apre l'adesione

alle cooperative aderenti alla Lega, diventando in tal modo uno strumento unitario

per lo sviluppo della cooperazione sociale.

Preceduta dalla stesura di due rapporti sullo stato dell’Organizzazione e da

una fitta rete di pre-conferenze dal 2 al 5 aprile 1987 si svolge a Giardini Naxos la

Conferenza Organizzativa della Confcooperative. E’ un momento di serrato

confronto sulle ipotesi di una nuova riorganizzazione strutturale interna. Tra le

risultanze della Conferenza la definizione della costituzione di una Consulta

Economica, successivamente istituita nel novembre 1987.

Gli anni ottanta sono anche caratterizzati da una forte capacità espansiva

delle cooperative nel settore delle costruzioni che si proiettano verso zone di

intervento sempre più ampie, in Italia e all'estero; si determina una crescita

quantitativa straordinaria che obbliga le società a riflettere sulle caratteristiche del

proprio essere cooperative. Gli anni ottanta segnano inoltre una ripresa del dibattito

sull'unità cooperativa e si accentuano i momenti di incontro tra le tre centrali

cooperative.

Il 12 dicembre 1987 si costituisce a Bologna, per opera di un folto gruppo di

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cooperatori dell'Emilia Romagna, che riflettono tutte le componenti ideali e storiche

della cooperazione, il Club 87; un circolo che svolge un'attività culturale, informativa

e di sensibilizzazione che vuole valorizzare la specificità cooperativa.

Alcuni giorni dopo il 23 marzo si apre il quarto Congresso della

Confcooperative. Dal Congresso emergono tre obiettivi fondamentali: rilanciare

l’idea e la pratica cooperativa nell’attuale fase dell’economia e della società italiana;

operare un grande ammodernamento, senza snaturamenti, delle imprese cooperative

e della stessa organizzazione; impegnare il movimento cooperativo con un forte

impulso di promozione per lo sviluppo del Mezzogiorno e delle aree in ritardo e per

l’occupazione.

Il 10 novembre 1989 a Roma si celebra il 70° della Confederazione

Cooperative Italiane ed il 75° della Federazione Italiana delle Casse Rurali e

Artigiane. Alla manifestazione partecipa tra gli altri il Presidente del Consiglio dei

Ministri onorevole Giulio Andreotti.

13. Le cooperative alla fine del XX secolo

Il 31 dicembre 1992 viene emanata la legge n. 59 che introduce nel nostro

ordinamento alcune importanti novità concentrate attorno ad alcuni aspetti

finanziari della società cooperativa che certamente sono destinate a svolgere un ruolo

di grande rilevanza per il futuro sviluppo del settore.

Le novità principali riguardano senza dubbio le modalità di finanziamento

delle cooperative introdotte allo scopo di avviare a soluzione l’annoso problema

della loro sottocapitalizzazione. La Legge istituisce una nuova categoria di soci

sovventori le cui risorse finanziarie possono essere utilizzate nell’ambito di fondi per

lo sviluppo tecnologico e per la ristrutturazione e il potenziamento aziendale; la

destinazione del 3% degli utili societari annuali alla promozione e allo sviluppo della

cooperazione. Per le cooperative aderenti ad una associazione di rappresentanza

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questo contributo è destinato ad un fondo costituito appositamente.

A seguito di ciò la Lega nel 1992 costituisce Gestifom, un fondo mutualistico

alimentato dal 3% degli utili annuali delle cooperative aderenti, con la funzione di

promuovere iniziative di imprenditorialità cooperativa nella aree più arretrate del

Paese.

Contestualmente la Confcooperative crea il Fondosviluppo S.p.A., società per

la promozione e lo sviluppo della cooperazione, in particolare nel Mezzogiorno, che

opera come Gestifom della Lega sulla base della destinazione del 3% degli utili delle

cooperative associate.

Oggi la Cooperazione si pone l'obiettivo di rilanciare la presenza nella società

per svolgere un ruolo non alienabile nella economia che non guarda solamente al

profitto, che vuole offrire a tutti gli uomini l'opportunità di realizzare la propria

esistenza nel modo più completo:

• Nell'agricoltura con caseifici, stalle sociali, cooperative di

conduzione terreni.

• Nella distribuzione con le cooperative di consumatori e le

cooperative tra dettaglianti.

• Nelle costruzioni con grandi e medie imprese edili, di impiantistica

e di progettazione.

• Nell'industria manifatturiera.

• Nei servizi con cooperative di autotrasportatori, di facchinaggio, di

pulizia, di ristorazione, sanitarie e sociali.

• Nel settore della casa con le cooperative di abitazione.

• Nel turismo, nell'assicurazione e nelle mutualità.

• Nei servizi reali all'impresa e nella cultura.

Questo obiettivo può essere raggiunto attraverso una sempre maggiore

consapevolezza della natura sociale dell'impresa cooperativa, attraverso la

valorizzazione del ruolo del socio, la puntualizzazione dell'identità economica

dell'impresa cooperativa in modo da evidenziare adeguatamente l'identità sociale, la

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riaffermazione della missione cooperativa, il rilievo della mutualità esterna e della

promozione, la capacità di elaborare.

Da ultimo la riforma del diritto societario che è operativa dal primo gennaio

di quest’anno, introduce notevoli cambiamenti nella regolamentazione e nella vita

delle principali tipologie di società previste dal Codice Civile e quindi anche delle

società cooperative. Tale riforma nasce con la dichiarata volontà di armonizzare

l’impianto nazionale a quello comunitario, congiunta alla necessità di aggiornare una

serie di norme ormai divenute obsolete15.

15 La trattazione dell’argomento sarà effettuata nel capitolo secondo.

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CAPITOLO II

PRINCIPI E CARATTERISTICHE

1. I principi dell’Alleanza Cooperativa Internazionale

“Una cooperativa - secondo una definizione elaborata dall’ACI (Alleanza

Cooperativa Internazionale)3 - è un'associazione autonoma di persone che si

uniscono volontariamente per soddisfare i propri bisogni economici, sociali e

culturali e le proprie aspirazioni attraverso la creazione di un'impresa a proprietà

comune, controllata democraticamente“.

Le cooperative si fondano sui valori dell'autosufficienza, dell'auto-

responsabilità, della democrazia, dell'eguaglianza, dell'equità e della solidarietà.

Fedeli allo spirito dei padri fondatori, i soci delle cooperative aderiscono ai valori

etici dell'onestà, della trasparenza, della responsabilità sociale e dell'altruismo.

I principi cooperativi sono linee guida mediante le quali le cooperative

mettono in pratica i propri valori. Il fenomeno cooperativo si ispira ai sei enunciati

fissati dall’ACI nel 1966 che si rifanno a quelli stabiliti dai probi pionieri di Rochdale:

1. Adesione libera e volontaria. Le cooperative sono organizzazioni

volontarie aperte a tutti gli individui capaci di usare i servizi offerti e desiderosi

di accettare le responsabilità connesse all’adesione, senza nessuna

3 Organizzazione internazionale che riunisce tutti gli organismi cooperativi rappresentativi dei vari

movimenti cooperativi nazionali, la quale provvede a rivedere ed aggiornare periodicamente i cc.dd.

“principi della cooperazione“. Nel corso dei suoi periodici congressi dibatte i problemi dello sviluppo

della cooperazione.

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discriminazione sessuale, sociale, razziale, politica o religiosa. Caratteristica

necessaria e indefettibile di una società cooperativa deve essere la costante

apertura della stessa verso i terzi che abbiano interesse a farne parte, possedendo

naturalmente i requisiti di legge per appartenervi. Questo principio viene anche

detto della porta aperta: le cooperative, infatti, devono avere carattere aperto

perché, anche attraverso le agevolazioni loro concesse, devono soddisfare in

maniera quanto più estesa possibile i bisogni di categorie sociali meritevoli di

protezione più che i bisogni di singoli individui.

2. Amministrazione democratica. Le cooperative sono organizzazioni

democratiche controllate dai propri soci, che partecipano attivamente a stabilirne

le politiche e ad assumere le relative decisioni. Gli uomini e le donne eletti come

rappresentanti sono responsabili nei confronti dei soci. La realizzazione della

democrazia cooperativa si manifesta nel principio della unicità del voto: ciascun

socio cooperatore ha un voto qualunque sia il valore della sua partecipazione

sociale.

3. Interesse limitato sul capitale. Letteralmente questo principio afferma che

se viene versato un interesse sul capitale sociale, il tasso deve essere limitato. In

senso lato il principio si riferisce allo scopo mutualistico.

4. Distribuzione dei residui. Si riferisce alla fondamentale caratteristica che

differenzia la società cooperativa da una impresa privata: l’assenza di un

imprenditore speculatore e la redistribuzione ai soci del profitto spettante a

quest’ultimo.

5. Educazione cooperativa. Le cooperative si impegnano ad educare ed a

formare i propri soci, i rappresentanti eletti, i managers e il personale, in modo

che questi siano in grado di contribuire con efficienza allo sviluppo delle proprie

società cooperative. Le cooperative devono attuare campagne di informazione

allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica, particolarmente i giovani e gli

opinionisti di maggiore fama, sulla natura e i benefici della cooperazione. Questo

principio sottolinea il ruolo della cooperazione come momento di promozione

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individuale.

6. Collaborazione tra cooperative. Le cooperative servono i propri soci nel

modo più efficiente e rafforzando il movimento cooperativo, lavorando insieme,

attraverso le strutture locali, nazionali, regionali e internazionali.

Un esame critico dei principi universali della cooperazione è compiuto da

Luca Zan4.

L’autore, negando la loro necessità ai fini della caratterizzazione del

fenomeno cooperativo nella prospettiva d’indagine economica, osserva che:

- il principio della “porta aperta” tende a favorire l’anonimato del

capitale sociale e ciò in contrasto con il carattere sostanziale (frutto di transazioni

specifiche) che spesso qualifica il rapporto socio-cooperatore. A quanto sostiene

l’autore, va aggiunto che, nella prassi, la libertà di adesione subisce temperamenti ed

eccezioni: la cooperativa è disposta ad accettare nella propria base sociale tutti coloro

che posseggono i requisiti morali e sociali fissati dallo statuto, purchè si tenga conto

delle esigenze organizzative dell’impresa ( coordinamento tra risorse impiegate) e

della situazione imposta dal mercato (competitività prodotto-mercato);

- non sembra esserci alcuna ragione economica di scollegare il potere di

voto dall’intensità del rapporto cooperativo, cioè dall’entità del capitale apportato

dal socio: la regola “una testa, un voto” è forse la meno democratica da un punto di

vista economico, ossia “potrebbe essere discutibile che un socio che conferisce un

chicco d’uva abbia lo stesso potere d’influenza sulla conduzione della cooperativa

rispetto ad un altro socio che conferisce diverse decine di quintali d’uva”5.

A parere di chi scrive l’autore, nel formulare questa sua critica, confonde

l’uguaglianza con la democrazia. Muovendo dal principio generalmente riconosciuto

che l’uguaglianza fra soggetti diversi per condizioni oggettive o soggettive è

4 ZAN, L., L’economia dell’impresa cooperativa: peculiarità e profili critici, UTET, Torino, 1990.

5 Ibidem, p. 9.

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garantita riservando loro un trattamento diverso, adeguato al singolo caso, Zan

percepisce correttamente la nascita di una situazione di disuguaglianza (frutto del

compimento di un’ingiustizia) laddove sono riconosciuti i medesimi diritti (di voto) a

soggetti aventi un diverso peso economico. Ma ciò è proprio il “compromesso” che

una collettività implicitamente accetta quando decide di governarsi con regole non

plutocratiche ma democratiche, permettendo a tutti i suoi membri di partecipare in

egual misura al processo decisionale. Parlare di democrazia economica così come fa

l’autore non sembra avere dunque alcun senso; condivisibile è invece l’opinione

espressa più o meno esplicitamente da altri autori6 secondo i quali il principio “una

testa, un voto” è il perno della democrazia cooperativa;

- discutibile è la limitazione dell’interesse eventualmente pagato sul

capitale sociale quando l’apporto del socio consista in un fattore specifico: poiché

generalmente è quest’ultimo il tipico conferimento dei soci, mentre marginale è il

capitale monetario apportato, potrebbe essere preferibile trattarlo analogamente al

capitale di credito e remunerarlo in misura non tanto eventuale o contenuta quanto

piuttosto predeterminata rispetto all’andamento della gestione. Questa scelta

consentirebbe di far gravare il rischio d’impresa sui soci in relazione ai fattori

conferiti nella forma di sotto/sovra-remunerazione degli stessi. In effetti in questo

modo i soci corrono un duplice rischio: da un lato, conferendo il bene nella

cooperativa, rinunciano alla possibilità di cederlo a condizioni di mercato

convenienti e contrattualmente definite, nell’attesa di conseguire una maggiore

remunerazione, immediata e futura, che potrebbe non verificarsi mai; dall’altro lato

6 LAIDLAW, A., La cooperazione nell’anno 2000, Ed. CGM, Milano, 1992, p. 52; GALGANO, F., Le

istituzioni dell’economia capitalistica, Zanichelli, Bologna, 1980, pp. 247, 248, il quale riconosce che in

questo principio “si manifesta soprattutto l’organizzazione alternativa dell’impresa mutualistica

rispetto alle forme organizzative proprie dell’impresa capitalistica (…). La contrapposizione rispetto

all’impresa capitalistica è quindi nettissima: c’è nella cooperativa il ripudio del principio plutocratico

per il quale il potere economico, il potere di controllare la ricchezza, dipende dalla proprietà della

ricchezza ed è proporzionale ad essa”.

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l’interesse predeterminato ad essi spettante per il conferimento effettuato potrebbe

risultare inferiore al rendimento a cui avrebbero diritto se lo stesso fosse collegato

all’andamento della gestione;

- in merito al principio di destinazione del surplus può essere

problematica la valutazione delle transazioni soci-cooperativa in natura;

- il principio di educazione cooperativa, inteso come promozione e

diffusione della cultura cooperativa, sembrerebbe non differenziarsi dalle più

generali norme di buona amministrazione, “in quanto avere soci e managers educati

alle tematiche gestionali e all’identità cooperativa è un fatto in sé di generale

validità”7. Di parere diverso è A. Laidlaw8, il quale ritiene che trascurando la

suddetta educazione si comprometta la corretta comprensione del fenomeno

cooperativo da parte delle generazioni future. In effetti valori come la democraticità,

la mutualità, la solidarietà, il perseguimento di un fine non lucrativo sono in parte o

del tutto estranei alla tradizione culturale aziendale, ma nel contempo costituiscono

condizione necessaria per poter definire un’impresa “cooperativa”: ne discende la

necessità di farne il contenuto patrimoniale di questi enti economici. Allo stesso

modo secondo Laidlaw è importante trasmettere un chiaro ed efficace messaggio su

queste tematiche anche ai centri di influenza come i governi, i giornalisti e le

università, il cui sostegno favorirebbe una maggior comprensione del fenomeno

cooperativo;

- con il principio di collaborazione tra le cooperative, la mutualità,

economicamente indefinibile e già caratterizzante le relazioni intra-cooperative,

qualifica anche i rapporti inter-cooperativi, accentuando l’ambiguità dell’essenza

economica del fenomeno cooperativo.

Altri autori9 ritengono invece che la collaborazione in oggetto non sia mera

7 ZAN, L., op. cit., p. 12.

8 Ibidem, p. 69 ss..

9 Ibidem, pp. 78, 79; BORZAGA, C., LEPRI, S., SCALVINI, F. ed altri autori in Le cooperative di

solidarietà sociale, Ed. CGM, Forlì, 1988, pp. 141 ss.; MATACENA, A., Impresa cooperativa. Obiettivi

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azione di reciproco sostegno tra le cooperative contraria a qualsiasi logica di

efficienza economica. Sino ad oggi è dato rilevare che i due possibili livelli di

aggregazione tra cooperative - le strutture economiche e quelle politico-sindacali -

perseguono obiettivi di difesa e di sviluppo delle unità cooperative esistenti e di

tutela della loro immagine, liberando tra le stesse sinergie che aumentano le

performance gestionali e favoriscono il raggiungimento di condizioni di autonomia

economica10.

In sintesi lo Zan sostiene il carattere a-economico dei principi universali

cooperativi e lascia intravedere la possibilità che essi si rivelino nel medio periodo

anti-economici, in quanto compromettenti l’equilibrio economico e finanziario

dell’impresa cooperativa.

2. La classificazione delle cooperative

Esistono differenti classificazioni delle società cooperative.

Una è quella fornitaci dal Registro prefettizio, al quale le cooperative devono

essere iscritte per godere delle agevolazioni sia tributarie che di qualsiasi altra natura

previste dalla legge. In realtà più che una classificazione potremmo definirlo un

elenco.

Secondo la legge Basevi D.L. 14 dicembre 1947, n° 1577 “tutte le cooperative

legalmente costituite qualunque sia il loro oggetto debbono essere iscritte nell’apposito

finalizzanti. Risultati gestionali e bilancio di esercizio, CLUEB, Bologna, 1990, pp. 83 ss..

10 “La singola cooperativa associata non dovrebbe fronteggiare da sola il mutevole rapporto con il

mercato ed i terzi poiché le sue condizioni di sopravvivenza e di sviluppo, le sue capacità competitive,

i suoi risultati, la sua qualificazione come istituto economico e vocazione sociale potrebbero non

dipendere dalla sola correttezza gestionale dell’imprenditorialità in essa presente, ma anche

dall’efficacia dell’intero sistema aggregato in cui essa opera”. MATACENA, A., op. cit., p. 90.

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Registro tenuto presso le prefetture”.

La “classificazione” effettuata in base al Registro prefettizio tiene conto della

diversa natura ed attività degli enti e distingue:

1. Cooperative di consumo (svolgono attività mercantile a vantaggio dei

loro soci, che sono i destinatari dei beni e dei servizi prodotti);

2. Cooperative di produzione e lavoro (i loro soci sono i conferenti di

fattori specifici);

3. Cooperative agricole;

4. Cooperative edilizie (svolgono attività di costruzione di abitazioni

private di proprietà dei soci);

5. Cooperative di trasporto;

6. Cooperative della pesca;

7. Cooperative miste (in questa sezione rientrano le cooperative non

appartenenti alle altre categorie, con riguardo al loro oggetto produttivo e purché

l‘integrazione sia possibile);

8. Cooperative sociali (perseguono l‘interesse generale della comunità

alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso

l‘esercizio di particolari attività);

La classificazione per “gradi” effettua una distinzione delle cooperative in

relazione alla persona dei soci:

sono cooperative di I grado quelle in cui i soci sono persone fisiche; nelle

cooperative di II grado i soci sono cooperative di I grado, l‘aggregazione avviene,

normalmente, su base provinciale o regionale; infine, le cooperative di III grado sono

quelle in cui i soci sono le cooperative di II grado. In questo caso l’aggregazione è su

base nazionale.

Stefano Zan , facendo riferimento ad una classificazione proposta da Blau e

Scott, individua dei tipi ideali di cooperativa “esaurienti quanto ad informazioni ed

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esaustivi quanto alla capacità di comprendere al loro interno tutti i tipi di impresa

cooperativa che si danno sul piano dell’esperienza concreta”11. La classificazione si

basa sulla natura del rapporto che lega il socio alla cooperativa. Quindi avremo:

cooperative di lavoro, cooperative di utenza e cooperative di supporto.

Riproponiamo a questo proposito lo schema proposto da Stefano Zan12.

Tab. 2.1 – Cooperative di lavoro, di utenza, di supporto.

COOPERATIVE SOCI

(proprietari)

LAVORATORI

(dipendenti)

CLIENTI

di lavoro lavoratori soci non soci

di utenza utenti non soci soci

di supporto produttori

(imprenditori)

non soci soci o non soci

Nelle cooperative di lavoro coincidono la figura del proprietario e quella del

dipendente: entrambi sono soci che si aggregano per garantirsi un lavoro.

Nelle cooperative di utenza coincidono soci e utenti. L’obiettivo di tali

cooperative, quindi, non è la conquista di un lavoro, bensì l’ottenere un servizio di

qualità e con prezzi più convenienti rispetto a quelli praticati sul mercato. L’esempio

storico di tale tipo è dato dalle cooperative di consumo.

Nel terzo tipo, le cooperative di supporto, i lavoratori sono non soci, i clienti

possono essere soci ma anche non soci e i soci sono degli imprenditori. L’obiettivo di

tali cooperative è fornire un “supporto” ai soci-imprenditori nello svolgimento della

loro attività imprenditoriale.

11 ZAN, S., La cooperazione in Italia, De Donato, Bari, 1982, p. 48ss..

12 Ibidem, p. 49.

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3. La duplicità degli obiettivi

La legge spagnola del 1974 definisce la cooperativa come “una società che

svolge, attraverso un’impresa comune, qualunque attività economica, attraverso la

reciproca ed equa collaborazione tra i soci, al servizio di costoro, così come a quello

della comunità”. Tale definizione ha il pregio di essere generica e quindi adattabile a

qualsiasi tipologia di cooperative e, nel contempo, capace di evidenziare un aspetto

saliente della cooperazione: la duplicità di movimenti finalizzanti.

La cooperativa è un istituto economico la cui gestione è finalisticamente

orientata al perseguimento di due tipi di obiettivi:

-economico (utile economico): la cooperativa è prima di tutto

un’impresa che per sopravvivere e crescere deve perseguire l’autosufficienza

economica, finanziaria e patrimoniale, ossia garantire alla gestione l’equilibrio

economico latu sensu. Essa deve essere in grado di confrontarsi con il mercato per

misurare l’efficienza ed il successo della sua attività. Ma “il profitto nella cooperativa

diventa strumento di misura dell’efficienza della cooperativa, ma non della sua

efficacia. Se accettiamo la definizione tradizionale di efficienza come il rapporto tra i

risultati raggiunti ed i mezzi impiegati per raggiungerli e l’efficacia come il grado in

cui gli obiettivi vengono raggiunti, potremmo dire che il profitto è per l’impresa

privata strumento di misura e dell’efficienza e dell’efficacia mentre per la

cooperativa misura solo l’efficienza in quanto l’efficacia va misurata con altri

strumenti e indicatori”13.

-sociale/ideale (utile sociale): la struttura organizzativa ed il

comportamento gestionale della cooperativa devono ispirarsi ad una serie di principi

che, idealmente, costituiscono regole d’agire economico e che caratterizzano

l’impresa sia esternamente sia internamente14.

13 Ibidem., p. 37.

14 MATACENA, A., Impresa cooperativa obiettivi finalizzanti. Risultati gestionali e bilancio

d’esercizio, CLUEB, Bologna, 1990, p. 15.

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Caratteristica della cooperativa è quello di fondere il momento economico

con quello ideale: “alcuni movimenti hanno un elevato scopo sociale, altri invece un

fine economico: solamente le cooperative li hanno entrambi”15.

L’equilibrio tra interessi economici e propositi sociali, tra affari ed idealismo,

è una componente irrinunciabile del successo della cooperativa: se questa è priva di

intenti sociali a lungo andare si indebolirà sino ad estinguersi; analogamente, se si

preoccupa unicamente della sua missione sociale, trascurandone gli aspetti di

efficienza economica e di solidità patrimoniale, potrà sopravvivere solo per breve

tempo.

I due obiettivi in esame pesano tuttavia in modo diverso a seconda

dell’ambito temporale di riferimento: spostandosi dal medio-lungo periodo

cambiano i criteri e le modalità di valutazione; la performance di breve periodo

perde quasi completamente di importanza e viene sostituita dalla redditività di

lungo periodo, nella quale può acquisire grande significato una gestione sociale

dell’impresa.

Gestire socialmente non vuol dire abbandonare l’economicità della gestione,

comunque indispensabile per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’impresa, bensì

realizzare anche il circolo virtuoso mutualità-solidarietà-democrazia che caratterizza

la cooperativa e che è espressione dell’impegno della stessa a soddisfare le istanze, a

contenuto economico e non, dei soci e in parte dei non soci. Si tratta di un progetto

ambizioso che esige tempi di realizzo piuttosto lunghi e che è parte del finalismo

determinante la nascita e l’esistenza della cooperativa: infatti il socio partecipa se è

motivato non solo economicamente ma anche socialmente.

Il grado di realizzazione delle aspettative sociali è ritenuto una misura

indiretta pur se parziale della capacità della cooperativa a conseguire l’equilibrio

economico, in quanto è presupposto necessario affinché i soci attivino e combinino

15 MARSHALL, A., citato da LAIDLAW, A., La cooperazione nell’anno 2000, Edizione CGM, Milano,

1992.

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efficientemente ed efficacemente risorse materiali ed umane al fine di perseguire una

gestione d’impresa che sia anche economicamente soddisfacente.

L’utile sociale perseguito dalla cooperativa può dunque essere visto come

una sorta di utilità economica differita, poiché genera le condizioni di legittimità e di

consenso alla continuità dell’agire della cooperativa stessa16.

Il momento ideale

Secondo quanto ha correttamente precisato il Matacena17, i caratteri che

impegnano la logica di funzionamento della cooperativa sono tre:

1. la mutualità, quale postulato dei principi universali dell’interesse

limitato sul capitale e della destinazione del surplus;

2. la solidarietà, quale postulato dei principi di educazione cooperativa e

di collaborazione inter-cooperativa;

3. la democraticità, quale postulato dei principi di adesione volontaria e di

amministrazione democratica.

La mutualità e la solidarietà caratterizzano l’impresa esternamente, la

democraticità internamente.

1) La mutualità

Affermando che l’attività cooperativa è mutualistica si fa riferimento, in

primo luogo, alla sua precipua finalità: trattasi di attività condotta dalla cooperativa

per fornire beni, servizi o redditi ai soci (cioè per soddisfare il loro bisogno

omogeneo) con la minor spesa e senza intenti speculativi.

Tale attività si concretizza nella eliminazione degli intermediari dai processi

16 ANDREAUS, M., “Le società cooperative: finalità aziendali e sistema informativo-contabile”, in

Impresa sociale, n°11, settembre 1993, pp. 11-12.

17 MATACENA, A., op. cit., p.15 ss..

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di produzione, scambio e lavoro, al fine di favorire l’ingresso nel mercato a soggetti (i

soci della cooperativa) singolarmente impossibilitati ad accedervi; ovvero

assicurando loro benefici, condizioni e remunerazioni più favorevoli di quelli

altrimenti ottenibili. In forza del principio mutualistico il socio, in quanto attivatore

della cooperativa, ha il privilegio di poter usufruire della stessa per trarre la massima

soddisfazione dei propri bisogni: da qui l’appellativo di “impresa di servizio” col

quale viene talvolta definita la cooperativa, a sottolineare il fatto che essa si propone

di offrire ai suoi soci servizi diversi da quello della messa a frutto del capitale

investito (servizio quest’ultimo reso ai soci delle società capitalistiche, per questo

dette anche “imprese di resa”)18.

In secondo luogo, dall’osservanza del principio di mutualità discende il

divieto per la cooperativa di concludere operazioni con terzi (se non espressamente

previsto dallo statuto) ad eccezione di quelle ritenute strumentali ed accessorie alla

gestione mutualistica. Ne consegue che l’intento speculativo è aborrito, quale forma

di negazione della mutualità, quando è il riflesso di un processo di

plurisoddisfazione del socio; diversamente, è ammesso l’intento speculativo della

cooperativa finalizzato alla promozione e allo sviluppo del progetto mutualistico,

vale a dire il lucro in quanto autofinanziamento della cooperativa, priva, specie nella

fase di avvio dell’attività, degli apporti rilevanti di capitale di rischio caratterizzanti

l’impresa capitalistica.

In terzo luogo, l’attività mutualistica dispiega effetti anche all’esterno della

compagine sociale e della sfera prettamente economica della cooperativa che la

esercita, dapprima fungendo da moralizzatore del mercato (funzione antispeculativa)

e, successivamente, promuovendo la solidarietà, economica e non, nei confronti

dell’intera collettività19.

18 La distinzione tra imprese di resa e imprese di servizio è stata proposta da FAQUET, G., citato da

MARCHINI, I.,“Considerazioni sui fini economici e sui bilanci delle imprese cooperative”, in Rivista

dei dottori commercialisti, 1977, settembre/dicembre, p. 886 e da BONFANTE, G., op. cit., p. 190.

19 Come citato da BONFANTE, G., op. cit., p. 191, Verrucoli osserva che sin dalle sue origini la

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2) La solidarietà

Mutualità e solidarietà sono intimamente connesse.

Nella fase di avvio della cooperativa esse coincidono nel servizio reso ai soci,

in quanto la solidarietà si manifesta nella sua forma primitiva di sentimento di

vicendevole aiuto, materiale e non, che esiste tra i soci.

Successivamente, la crescita della base sociale, del peso economico della

cooperativa e delle relazioni intercooperative, orienta finalisticamente la gestione al

superamento del mero tornaconto individuale dei soci a favore del benessere

collettivo. Si configura così, nell’ambito dell’unità cooperativa, una forma più evoluta

e matura di solidarietà, capace di rendere il suo agire sensibile agli interessi della

collettività20, quali possono essere la tutela di classi economicamente svantaggiate e la

promozione di realtà imprenditoriali nuove a correzione di strutture economico-

sociali esistenti troppo costose21. Normalmente il soddisfacimento dei suddetti

interessi è affidato all’azione coordinata di tutte le cooperative, incapaci

singolarmente di influenzare la dimensione economica e sociale di una vasta

comunità.

3) La democraticità

Il principio cooperativo della democraticità postula la possibilità di

cooperativa persegue non solo gli interessi dei soci, ma anche quelli del gruppo sociale di cui è

emanazione.

20 Questo aspetto della cooperazione è stato evidenziato anche nel corso di uno dei congressi dell’ ACI,

sancendo che la cooperativa deve utilizzare scrupolosamente gli incassi derivanti da operazioni con

terzi che usano i suoi servizi; se non sono impiegati per incoraggiare i non soci a chiedere l’adesione,

tali incassi devono essere utilizzati in modo che ne approfittino sia la collettività che i soci.

21 Emblematico è il caso delle cooperative sociali, le quali perseguono le medesime finalità istituzionali

attribuite agli enti pubblici locali. Non avendo scopo di lucro, esse sono sovente in grado di operare

con costi di gestione contenuti e di offrire servizi la cui qualità compensa ampiamente il maggior costo

che probabilmente la committenza deve sopportare per il fatto di acquistare il servizio da un ente

privato anziché pubblico.

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autogestione nelle cooperative in cui i soci svolgono la loro prevalente attività

economica ed il controllo dell’affare sociale da parte dei soci nelle altre.

L’autogestione si realizza quando almeno una parte dei soci lavoratori

assume il rischio di variabilità delle remunerazioni del lavoro e del capitale apportati

da essi e dagli altri soci non direttamente coinvolti nella funzione imprenditoriale.

Ciò comporta il superamento della nozione di imprenditorialità come caratteristica

personale ad appannaggio di “una dimensione di imprenditorialità diffusa, di una

funzione cioè che si esplichi nell’assolvimento di tutte le funzioni fondamentali

dell’azienda: quella innovativa, di direzione e di adattamento alle condizioni esterne

e non unicamente mirante all’innovazione che rompa il ciclo economico; una

funzione che prescinda dalla personalità dei soci che la ricoprono presupponendoli

in grado da un lato di orientare in modo finalisticamente corretto la struttura

manageriale eventualmente presente in azienda, dall’altro di esplicitare nel loro agire

l’orientamento di fondo che deriva dalla base sociale”22. Pertanto la funzione

imprenditoriale deve essere esercitata da un gruppo di soci (difficilmente tutti) in

possesso delle capacità e delle conoscenze necessarie per farlo, legittimato, mediante

delega della base sociale, ad assumere decisioni che posizionano l’impresa nei

confronti dei suoi interlocutori sociali e sottoposto a continuo controllo da parte degli

altri soci. Ne consegue un’evidente difficoltà, quanto meno nei primi tempi di vita

della cooperativa, ad esercitare collegialmente “un’arte” che per sua natura è

individuale, soprattutto quando le persone coinvolte sono alla loro prima esperienza.

Tuttavia ciò non impedisce che la percezione delle opportunità di mercato e la

raccolta di informazioni strategiche siano spesso il risultato del coinvolgimento di

molti attori, anche esterni alla compagine sociale. Rispetto alla tematica della

democraticità come governo da parte dei soci di un affare da essi non

operativamente eseguito, va detto che il gruppo dirigenziale eletto mediante il

processo di voto e di delega (soci gestori o direzione politica) può provvedere

22 MATACENA, A., op. cit., p. 27.

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all’assunzione di tecnici (managers), quali responsabili dell’attività economica

giornaliera. Nella situazione ideale, esiste tra i due gruppi una netta divisione delle

competenze: la direzione politica detta le strategie generali della cooperativa e,

agendo come controllore a nome dei soci, ne assicura l’esecuzione da parte dei

managers nel rispetto dei principi cooperativi; i managers garantiscono che la

cooperativa operi come una sana impresa economica.

Il controllo dei soci decisori, titolari della funzione imprenditoriale, è affidato

all’assemblea dei soci, che deve altresì verificare il perseguimento dell’obiettivo

economico-sociale della gestione e garantire che la stessa rispetti le richieste nascenti

dal bisogno sociale. Dal canto suo, la direzione politica deve incentivare i soci a

partecipare più attivamente alla vita sociale, per scongiurare il pericolo che essi si

limitano a controllare indirettamente la gestione senza averne compreso appieno la

logica e per favorire la rotazione dei ruoli decisionali23.

Il rispetto dei principi di mutualità, solidarietà e democraticità presuppone

l’autosufficienza e lo sviluppo economico della cooperativa.

Il momento economico

Volendo tracciare i lineamenti economici di una cooperativa ideale24,

emergono tre elementi caratterizzanti:

1) la natura del rapporto tra socio e cooperativa. L’apporto del socio

non è tipicamente costituito da capitale generico, bensì da fattori specifici, essendo il

capitale di rischio puramente strumentale all’esercizio dell’impresa (serve

essenzialmente per ottenere credito dal mercato e dai terzi). Ciò è dovuto

principalmente al fatto che interesse del socio non è ottenere una remunerazione

23 “L’impegno è la linfa vitale della cooperativa: e, dove manca o è debole, la cooperativa declina”.

LAIDLAW, A., op. cit., p. 67.

24 Il riferimento è tipicamente alle cooperative di produzione e di consumo.

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quantitativo-monetaria correlata al capitale di proprietà, così come avviene

nell’ambito dell’impresa capitalistica, bensì un risparmio di spesa nelle cooperative

di consumo o un maggior salario in quelle di lavoro o un’elevata valorizzazione del

fattore produttivo apportato in quelle di produzione. D’altro canto se egli preferisce

conseguire una remunerazione monetaria opterebbe probabilmente per la

concessione di prestiti all’istituto cooperativo piuttosto che per l’aumento dell’entità

di capitale conferito, dati i vincoli legislativi esistenti che limitano fortemente la

corresponsione di elevate percentuali di utili25. Per questi motivi accade spesso che

“il conferimento diretto di capitale monetario ha un valore quasi simbolico e

rappresenta più che altro un titolo di partecipazione degli associati alla gestione

dell’impresa, in qualità di conferenti”26.

A seconda delle modalità di attivazione, il rapporto sociale si posiziona in

una delle varie fasi del processo produttivo (a monte, se consistente nel conferimento

di fattori produttivi; a valle, se è il consumo dei beni/servizi prodotti dalla

cooperativa). La motivazione economica principale che spinge il socio ad aderire alla

cooperativa è la ricerca della massimizzazione del divario tra ricavi e costi della

propria economia27, attraverso il percepimento di maggiori remunerazioni dei propri

apporti o la riduzione dei prezzi dei propri acquisti. Inoltre, egli può partecipare alla

gestione dell’affare sociale, o direttamente, aderendo alla direzione politica e/o a

quella operativa, o indirettamente, attraverso l’attività di orientamento e controllo

della suddetta direzione politica;

2) Le conseguenze del rapporto socio-cooperativa. In primo luogo la

cooperativa, nello svolgimento della gestione mutualistica, opera sul mercato solo a

25 E’ questa l’opinione di TESSITORE, A., “Imprenditorialità e cooperazione”, in AA.VV.,

Imprenditorialità e cooperazione, Giuffrè Editore, Milano, 1990, p. 302.

26 TESSITORE, A., “Obiettivi di gestione e risultati economici nell imprese cooperative”, in Rivista dei

dottori commercialisti, 1973, p. 304.

27 Di tale parere è MARCHINI, I., op. cit., p. 889.

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monte od a valle del processo produttivo, essendo l’altro capo dello stesso il

contenuto del rapporto sociale. Obiettivo contabile di un tale agire è la

massimizzazione del “costo” dell’apporto dei soci, del suo valore, attraverso la

massimizzazione dei ricavi di vendita di beni e servizi sul mercato, oppure è la

minimizzazione dei ricavi principali della cooperativa (cioè del prezzo degli acquisti

dei soci), mediante la minimizzazione del costo dei fattori di mercato. E’ evidente

che, così facendo, il socio sconta il rischio d’impresa, poiché rinuncia alle già note

condizioni contrattuali del mercato in prospettiva di benefici maggiori.

In secondo luogo, la possibilità di remunerare in modo variabile e residuale i

fattori specifici apportati dai soci conferisce una maggiore elasticità alla gestione, una

minore dipendenza dal livello dei ricavi, ferma restando la necessità di garantire nel

tempo la convenienza economica del socio ad aderire alla cooperativa piuttosto che a

forme alternative d’impresa presenti sul mercato (processo di “fidelizzazione” del

socio alla cooperativa);

3) le modalità di remunerazione degli apporti sociali. Nelle cooperative

il vantaggio economico può essere percepito dai soci o in via immediata o in via

differita o in entrambi i modi.

La prima soluzione, consistente nel corrispondere al socio remunerazioni

maggiori o nel richiedergli prezzi minori rispetto a quelli praticati dal mercato e nel

fargli pagare una quota di spese amministrative, è sconsigliata per motivi di

prudenza e di efficienza: normalmente, all’atto dell’attivazione del rapporto sociale

non si conoscono ancora le reali spese di amministrazione28.

La seconda soluzione fa uso dell’istituto del ristorno. Il ristorno è una somma

di denaro distribuita ai soci periodicamente (di solito annualmente, in occasione

dell’approvazione del bilancio di esercizio), in ragione dei rapporti intrattenuti con la

28 E’ questa l’opinione di PANTALEONI, M., citato da BASSI, A., Dividendi e ristorni nelle società

cooperative, Giuffrè Editore, Milano, 1979, p. 7.

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cooperativa in quello stesso periodo di tempo, cioè fondamentalmente in

proporzione ai salari percepiti, al valore dei beni conferiti, all’ammontare degli

acquisti effettuati. Esso differisce dall’utile delle imprese ordinarie per natura e

metodo di ripartizione: l’utile deriva da attività di intermediazione lucrativa ed è

distribuito tra i soci in proporzione alla quota di capitale sociale conferito; il ristorno

è ottenuto attraverso la compressione del profitto di intermediazione (resa possibile

dal superamento parziale dell’attività intermediatrice) ed è ripartito in proporzione a

transazioni specifiche. Nelle cooperative l’utile deriva da attività con terzi; qualora i

soci pagassero maggiori prezzi od ottenessero minori retribuzioni si avrebbe “un

autoutile, che è un falso utile perché si sostanzia in un versamento fatto dai soci,

ovvero in un utile realizzato proprio a carico delle persone che si sono organizzate

per evitare la realizzazione di un utile a loro carico”29.

Le aumentate dimensioni delle cooperative, la necessità di ampliare l’utenza

per ridurre l’incidenza dei costi di gestione, la concorrenza delle imprese ordinarie

sono alcuni dei fattori che hanno orientato le cooperative ad intrattenere maggiori

rapporti con i terzi; ciò non lede l’essenza della cooperazione, purché l’operare sul

mercato non sia mero soddisfacimento dell’intento lucrativo dei soci, bensì

strumento di sviluppo della cooperativa e fintantoché sia prevista la restituzione

sociale del profitto d’intermediazione ottenuto (ad esempio aumentando

l’occupazione nelle cooperative di lavoro o riducendo i prezzi di vendita in modo

generalizzato nelle cooperative di consumo).

29 BUCCI, C., “Utili e ristorni”, in Giurisprudenza commerciale, 1976, II, p. 407.

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4. La disciplina giuridica

Allo stato attuale le norme giuridiche che regolano l’attività,

l’organizzazione, l’amministrazione e la dinamica sociale dell’unità cooperativa sono

rintracciabili nella Costituzione, nel codice civile e nelle leggi speciali.

La Costituzione

La tutela costituzionale del fenomeno cooperativo s’incentra sulla

fondamentale disposizione dell’art. 45, secondo cui: “la Repubblica riconosce la funzione

sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La

legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli

opportuni controlli, il carattere e le finalità”.

Prima di spiegare questa norma è necessario dedicare i necessari cenni agli

artt. 2 e 3 della costituzione, non potendosi non interpretare le norme costituzionali

in materia di rapporti economici se non alla luce dei principi fondamentali dettati

negli articoli iniziali della Costituzione, che identificano i fini essenziali

dell’ordinamento, rispetto ai quali l’attività economica, e quindi la sua disciplina, si

collocano in posizione strumentale.

L’art. 2 della Costituzione stabilisce che: “La Repubblica riconosce e garantisce i

diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua

personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica

e sociale”.

L’obiettivo di fondo della norma è la tutela dei diritti fondamentali della

persona, anche e soprattutto nella sua apertura sociale, nel legame dell’uomo con

l’uomo, nella prospettiva di una tutela piuttosto che statica (dell’uomo come

singolo), dinamica (dell’uomo partecipe di un aggregato sociale). Le formazioni sociali

cui si riferisce l’art. 2 vengono, infatti, riconosciute e garantite non per il solo fatto di

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essere degli aggregati sociali, ma nella misura nella quale consentono e favoriscono il

libero sviluppo della persona. E non v’è dubbio che la cooperazione, qualificata dalla

corrispondenza al modello costituzionale delineato nell’art. 45, rientra in

quest’ultimo paradigma normativo.

L’art. 3, 2° comma, pone l’obiettivo della rimozione degli “ostacoli di ordine

economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono

il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori

all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, mettendo a fondamento del

nostro ordinamento un processo di modificazione dei rapporti sociali che non può

discendere dalla sola mediazione istituzionale, ma che deve avere il supporto delle

esperienze di massa.

Si può dire in sintesi che nella prospettiva degli artt. 2 e 3 della Costituzione -

che mirano a valorizzare il lavoro come espressione della persona e come attività di

notevole rilievo sociale - emerge significativamente tutta la potenzialità della

cooperazione come struttura di valorizzazione di aggregazioni sociali intermedie, di

contrasto della concentrazione del potere economico e di supporto della sua

dislocazione e diffusione orizzontale.

L’art. 45 attribuisce alla cooperazione con carattere di mutualità e senza fini

di speculazione privata il riconoscimento della “funzione sociale”, identificando in

detta finalizzazione un requisito connaturale del fenomeno e cioè un presupposto

immanente, a differenza di quel che è per l’impresa privata, a proposito della quale -

a norma dell’art. 41 della Costituzione - l’“utilità sociale” ha rilievo di limite alla

libertà d’iniziativa economica.

La “funzione sociale” esprime l’idoneità della cooperazione, qualificata dal

carattere di mutualità e dalla intonazione non speculativa, a soddisfare con la sua

stessa esistenza interessi fondamentali della collettività (quelli canonizzati negli artt.

1-4 della Costituzione) che rappresentano, come va ribadito, la necessaria guida alla

lettura della normativa costituzionale nella materia dei rapporti economici.

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Intendimento del legislatore costituente fu quello di collegare la “funzione

sociale” all’essenza della cooperazione come forma di organizzazione dell’impresa a

base personale e non capitalistica e come autogestione democratica.

Circa il carattere della mutualità, è stato rilevato che - secondo la definizione

tradizionale (Relazione al c.c., n. 1025) - esso consiste nel fatto di fornire beni e servizi

o occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione, a condizioni più

favorevoli di quelle che si otterrebbero altrimenti sul mercato. Secondo una lettura

più ampia ed aggiornata si è sostenuto che la previsione costituzionale dovrebbe

essere interpretata non facendo riferimento alla mutualità come al momento della

destinazione esclusiva o prevalente a favore dei soci dell’attività posta in essere dalla

cooperativa, bensì come al rapporto (mutualistico) che si stabilisce tra i soci

partecipanti e l’ente nella fase della determinazione della volontà collettiva. In

conclusione, la funzione sociale viene rinvenuta, secondo questa tesi, nei particolari

rapporti organizzativi che sussisterebbero tra i soci e l’ente.

L’altro importante requisito della indissolubile sintesi nella quale prende

corpo il modello costituzionale di cui all’art. 45 della Costituzione è l’assenza di fini

di speculazione privata. Il connotato finalistico così fissato va riferito all’impresa

cooperativa come soggetto non operante secondo la logica meramente speculativa

delle imprese private. Che non è, cioè, a differenza delle società di tipo lucrativo,

strumento di valorizzazione del capitale; ma che, naturalmente, operando sul terreno

economico, deve improntare la propria condotta a criteri economici, garantendo

quanto meno l’equivalenza dei ricavi ai costi.

L’assenza dello scopo di lucro non è correttamente riferibile ai partecipanti,

dal momento che, se inteso genericamente come finalità di ricavare vantaggi

patrimoniali, esso è sicuramente presente pure nel fenomeno cooperativo, com’è

dimostrato dalla circostanza che i soci realizzano nella cooperativa un vantaggio

nelle loro economie individuali. Si può dire, in definitiva, che ciò che

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contraddistingue gli organismi cooperativi è il diverso impulso che li muove alla

produzione e allo scambio, che per l’imprenditore comune è la ricerca del tornaconto,

cioè la prospettiva di un profitto da godere privatamente; mentre per essi è la diretta

rappresentazione dei bisogni sociali operata dagli stessi portatori dei bisogni da

soddisfare: quindi (e in ciò è l’essenziale differenza rispetto all’impresa pubblica)

senza la mediazione della classe politica.

Conclusivamente, né le cooperative possono avere di mira, sempre e

comunque, il conseguimento del maggior utile possibile né possono rinunciare

all’economicità di gestione. Per esse si pone, infatti, la necessità di realizzare la sintesi

tra l’efficienza, che è requisito ineliminabile in ogni tipo d’impresa e che presuppone

l’agire secondo criteri di economicità, e gli interessi collettivi che nell’impresa

s’innestano: obiettivo connaturato alle imprese cooperative, idonee a fungere da

strumenti calmieratori del mercato e a soddisfare rilevanti bisogni sociali e, in quanto

tali, destinatarie del favor costituzionale.

Destinatario della direttiva di favore per la cooperazione a carattere di

mutualità e senza fini di speculazione privata è, anzitutto, il legislatore ordinario

(statale e regionale). Promuovere la cooperazione implica la realizzazione delle

condizioni atte ad assecondare la nascita e lo sviluppo, incentivandola rispetto ad

altri tipi di impresa. L’uso dell’espressione “con i mezzi più idonei”, contenuta

nell’art. 45, dà all’intervento legislativo la massima ampiezza dal punto di vista sia

del tipo di strumenti utilizzabili che della loro portata, l’unico limite essendo quello

riveniente dagli obiettivi di garantirne il carattere mutualistico e le finalità non

speculative, che ne determinano il condizionamento sotto i profili della idoneità e

congruità. In siffatta prospettiva è di tutta evidenza che le iniziative dirette

all’incremento della cooperazione ( e gli stessi controlli su essa) devono essere

finalizzati ad obiettivi di progresso qualitativo piuttosto che di sviluppo quantitativo.

Da notare, infine, che la valutazione positiva della cooperazione a carattere di

mutualità e senza fini speculativi operata dal Costituente impegna tutti i poteri dello

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Stato-ordinamento (l’art. 45 usa il termine “Repubblica”, così riferendosi

all’organizzazione statale unitariamente intesa).

La disciplina civilistica

Nonostante il fenomeno cooperativo non fosse del tutto sconosciuto al

legislatore italiano che già nel 187030 e, successivamente, nel 187431, con disposizioni

in materia di dazio, registro e bollo, concesse, in presenza di determinate condizioni,

particolari benefici alle cooperative, il primo testo di legge organica si ebbe soltanto

con il codice di commercio del 1882, mentre il codice di commercio promulgato con r.

d. 25 giugno 1865, n. 2364 non dettò alcuna norma in materia.

Probabilmente il ritardo con cui il legislatore italiano intervenne a

disciplinare la materia fu dovuto da un lato alla classe politica del tempo che si

mostrò poco incline ad agevolare lo sviluppo di un fenomeno sospettabile di poter

modificare l’assetto economico-sociale del paese, dall’altro alla circostanza che il

codice di commercio del 1865 prendeva a modello il codice francese del 1807 che fu

elaborato in epoca in cui il fenomeno cooperativo era limitatamente sviluppato e non

aveva peraltro ancora ricevuto alcun riconoscimento legislativo.

Secondo la disciplina dettata dal codice di commercio32, che non tracciava

nessuna determinazione concettuale ma solo alcune regole inerenti alla sua struttura,

la società cooperativa poteva costituirsi in una qualunque delle forme di società

commerciale; si prevedeva poi la variabilità del capitale, l’attribuzione di un solo

voto a ciascun socio qualunque fosse l’ammontare della sua partecipazione, e si

fissava il limite massimo del valore di questa; si sanciva inoltre la nominatività delle

azioni e la loro cedibilità solo per autorizzazione degli amministratori; e si

30 Cfr. legge 11 agosto 1870, n. 5784.

31 Cfr. leggi 13 settembre 1874, n. 2076 e 2077.

32 Libro I, titolo IX, art. 219-228.

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stabilivano altre regole.

Tale normativa era assolutamente insufficiente a regolare le diverse e

molteplici esigenze delle varie categorie di società cooperative; e, soprattutto in

difetto di più chiare enunciazioni di principio, la società cooperativa poteva risultare

semplicemente uno schema di società a capitale variabile, al quale poteva o meno

corrispondere l’esercizio dell’attività d’impresa in favore dei propri soci; quindi non

risultava individuato un tipo nuovo e diverso di società, ma solo una sovrastruttura

delle società commerciali. Questa indeterminatezza di concetti favoriva la

formazione di organismi sociali che non si ispiravano effettivamente ai principi della

cooperazione, e cioè di “pseudocooperative”.

Successivamente ebbe inizio una copiosissima produzione legislativa diretta

a regolare categorie particolari di società cooperative.

Col codice civile del 1942 è stato dato inizio ad un riordinamento della

materia.

E’ innanzitutto da rilevare che in questo codice le società cooperative non

sono più considerate come una sovrastruttura delle società ordinarie, ma hanno

invece una autonoma configurazione e disciplina. Questa, peraltro, è stata modellata

sostanzialmente sullo schema delle società per azioni, le norme della quale sono

richiamate genericamente, “in quanto compatibili” con le peculiarità della disciplina

specifica della società cooperativa, contenuta anche nelle leggi speciali.

Il decreto legislativo 17 gennaio 2003, n°6, ha profondamente innovato la

disciplina delle società cooperative, modificando le norme del codice civile, risalenti

al 1942 e restate immutate nel tempo.

Modificando la disciplina del codice, il legislatore è intervenuto alle radici del

fenomeno, perché, nonostante la proliferazione di una sterminata e quasi

incontrollabile legislazione speciale, il codice contiene i criteri generali di

identificazione della società cooperativa, sia dal punto di vista funzionale (scopo

mutualistico) sia da quello organizzativo (voto pro capite, porta aperta, ecc.). Non a

caso, al codice, nonostante la sua apparente subordinazione alle leggi speciali, è

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sempre stata riconosciuta una posizione centrale rispetto alle norme riguardanti i

singoli settori di attività mutualistica.

Per comprendere il significato della riforma, è indispensabile ricordare che il

d. lgs. n. 6/2003 trae origine da una legge di delega 3 ottobre 2001, n. 366 che contiene

ed evidenzia i principi e criteri direttivi della riforma.

La legge delega, per quanto riguarda la disciplina delle società cooperative,

nasce con il dichiarato intento di distinguere tra cooperative meritevoli del

trattamento di favore previsto dall’art. 45 della Costituzione, e cooperative, viceversa

collocabili in un’area molto vicina a quella delle società lucrative33. Nella legge delega

le prime vengono definite cooperative costituzionalmente riconosciute, mentre le altre

vengono definite cooperative diverse. Questa terminologia scompare nel decreto

legislativo, in quanto le cooperative costituzionalmente riconosciute vengono

ridefinite cooperative a mutualità prevalente ( e le altre restano cooperative diverse); ma la

sostanza non cambia.

Era infatti accaduto, nel nostro ordinamento, che nonostante la estrema

complessità e frammentazione del fenomeno nella realtà sociale, il legislatore, senza

prendere atto dei diversi livelli di mutualità e quindi di meritevolezza che il

movimento cooperativo esprimeva, aveva finito in pratica per concedere il

trattamento di favore previsto dall’art. 45 a tutte le cooperative, collegandolo ad

indici formali, non sempre espressivi di una reale meritevolezza e utilizzabili anche

da imprese sostanzialmente lucrative o speculative. Questo trattamento

ingiustamente generalizzato aveva finito per creare inconvenienti di vario genere ed

anche restrizioni del gioco della concorrenza tra imprese ordinarie e imprese

mutualistiche.

D’altro canto, per quanto si volesse premiare la purezza della mutualità e

negare statuti privilegiati alle società formalmente cooperative ma sostanzialmente

lucrative, il legislatore non ignorava, ponendo mano alla riforma, che le cooperative

33

V. art. 5, legge n. 366/2001.

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per realizzare le proprie specifiche finalità debbono essere in grado di dotarsi di

strutture imprenditoriali non dissimili da quelle delle società ordinarie, e devono

disporre di risorse economiche adeguate alle esigenze del mercato. La riforma

rappresenta un punto di avanzato compromesso tra queste due tendenze, non

sempre tra loro conciliabili, coniugando una evidente fedeltà ad una visione

tradizionale ed ortodossa del fenomeno, con ampi riconoscimenti dei suoi più

moderni profili evolutivi.

Le leggi speciali

Nel nostro ordinamento le cooperative sono disciplinate non solo dal codice

ma da moltissime leggi speciali, anteriori o successive al codice.

Il fatto che esista una sterminata normativa speciale deriva dalla circostanza

che non era possibile che il codice si occupasse compiutamente dei vari tipi di

cooperative esistenti (cooperative edilizie, cooperative di credito, cooperative di

lavoro, ecc.). Sono considerate leggi speciali sia quelle che contengono una disciplina

valevole per tutte le cooperative (come è accaduto per la legge Basevi del 1947), sia

leggi speciali settoriali (come ad esempio il t.u. dell’edilizia popolare ed economica o

le norme della legge bancaria del 1993 relative a banche popolari e banche di credito

cooperativo), sia, infine, una miriade di disposizioni specifiche contenute in testi

legislativi del più vario contenuto introdotte a disciplinare aspetti specifici di questo

o quel settore.

Senza entrare nel dettaglio di tali numerosissime leggi, è sufficiente

menzionarne alcune.

Il d. lgs. C. p. S., n. 1577 del 1947, noto anche come legge Basevi, che, accanto

a norme integrative del codice civile del 1942 concernenti il numero minimo dei soci

(art. 22), i requisiti di questi ultimi (art. 23), l’elevazione della quota possedibile pro

capite (art. 24), previde la creazione di un registro prefettizio integrato da uno

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schedario generale della cooperazione presso il quale dovevano iscriversi tutte le

cooperative che intendessero fruire di qualsivoglia agevolazione (artt. 13-16); solo per

dette cooperative poi l’art. 26 del decreto imponeva, ai fini dell’ottenimento dei

benefici fiscali, la recezione di apposite clausole nei rispettivi statuti, nelle quali

venivano fissati i requisiti mutualistici che consistevano nella limitazione della

distribuzione del dividendo al 5%, nel divieto di distribuzione ai soci delle riserve

durante la vita sociale, nella devoluzione dell’intero patrimonio sociale a scopi di

pubblica utilità. Il decreto previde anche un ampio e articolato sistema concernente la

vigilanza (artt. 1-21).

I primi anni novanta fanno registrare una produzione legislativa in materia

di notevolissimo interesse. Accanto all’introduzione con la l. 8 novembre 1991, n. 381

della normativa in tema di cooperative sociali, vengono emanate una ulteriore legge

di riforma della disciplina delle cooperative, l. 31 gennaio 1992, n. 59, e una legge in

materia di banche popolari e cooperative di assicurazioni (l. 17 febbraio 1992, n. 207).

La l. n. 59 del 1992, introdotta con un iter rapidissimo e frutto di un accordo

tra le centrali cooperative e le loro rappresentanze politiche, si caratterizza per essere

non già una legge di riforma organica della cooperazione bensì una legge di riforma

parziale della stessa, prevalentemente tesa a soddisfare quelle notorie esigenze di

potenziamento finanziario di tali società. Si segnalano l’istituzione della categoria dei

soci sovventori (art. 4) e degli azionisti di partecipazione cooperative (art. 5 e 6),

l’ulteriore innalzamento del limite massimo al possesso di quote e azioni e del valore

minimo di esse (art. 3), la rivalutazione delle quote e delle azioni nei limiti degli

indici ISTAT anche in deroga ai limiti massimi nel caso di aumento gratuito del

capitale sociale (art. 7), l’elevazione dei prestiti sociali (art. 10) e la creazione di fondi

mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (artt. 8, 11 e 12).

Il settore cooperativo è stato ulteriormente interessato nel 1993

dall’emanazione del d. lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo Unico in materia bancaria

e creditizia), il quale si occupa delle banche popolari e delle banche di credito

cooperativo.

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Riferimenti alle società cooperative si ritrovano anche nel decreto “Draghi”,

d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo Unico delle disposizioni in materia finanziaria).

Il panorama legislativo si è ulteriormente arricchito con l’emanazione della l.

28 dicembre 1998, n. 448, che all’art. 58 introduce anche per le società cooperative la

possibilità di emettere obbligazioni.

La riforma del diritto societario (decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6)

all’art. 2520 riafferma la prevalenza delle leggi speciali sulle disposizioni del codice

civile (il che non esclude che il codice conservi una posizione centrale nel sistema

delle fonti).

Ciò premesso, la riforma prende specificamente in considerazione la

situazione di tre categorie speciali di cooperative: le banche popolari, le banche di

credito cooperativo e i consorzi agrari.

La riforma non contiene abrogazioni espresse di norme anteriori.

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CAPITOLO III

VITA DELLA COOPERATIVA: AUMENTO DELLA COMPLESSITA’

ORGANIZZATIVA E SUE CONSEGUENZE

1.Ciclo di vita dell’impresa cooperativa

Per comprendere appieno il fenomeno cooperativo non è sufficiente dotarsi

di una visione fotografico-classificatoria; ciò che meglio può aiutare a mettere nel

giusto rilievo le radici ideologiche ed economiche di tale realtà e che può offrire

strumenti idonei per interpretare le situazioni attuali è una visione dinamica,

evolutiva.

“Esiste un tragitto, una curva evolutiva che contraddistingue la storia del

movimento cooperativistico nel suo complesso e che in qualche maniera è

riconoscibile in trasparenza anche nella vicenda specifica della singola impresa

cooperativa”1.

E’ infatti evidente e dimostrabile che le fasi di vita del movimento

cooperativo e quelle della singola realtà cooperativa hanno diverse omogeneità.

Per ciclo di vita delle imprese cooperative intendiamo “l’insieme delle

modalità strutturali secondo le quali si sono venute storicamente modificando le

imprese cooperative in quanto sistemi”2.

1 PANATI, G.; RONCACCIOLI, A., Economia aziendale, organizzazione e impresa cooperativa, 1984,

Quaderni INECOOP, p. 127.

2 ZAN, S., La cooperazione in Italia, De Donato, Bari, 1982, p. 222.

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Nella letteratura in materia (particolarmente ricca quella organizzativa, meno

quella specificamente riferibile alle cooperative) si ravvisano due gruppi di teorie:

� le teorie della selezione che individuano il cambiamento come una variabile

esogena all’organizzazione;

� le teorie dell’adattamento che, al contrario, riconoscono interna all’organizzazione

la molla del cambiamento.

Accanto alla dimensione selezione/adattamento ciò che è interessante

osservare è la direzione del processo di evoluzione; alcune teorie ritengono che il

cambiamento sia orientato dal caso, altre lo leggono come trasformazione verso il

meglio, verso forme organizzative sempre più evolute.

Le teorie che verranno prese in considerazione in questo studio saranno

quelle che individuano il germe del cambiamento all’interno dell’organizzazione e

che interpretano la trasformazione come forma di evoluzione.

All’interno delle teorie dell’adattamento è possibile distinguere diversi

indirizzi e posizioni.

La teoria della differenziazione organica utilizza come metafora quella

dell’evoluzione in ambito biologico. La società è come un organismo che con il

passare del tempo aumenta le proprie dimensioni differenziandosi e

specializzandosi.

Fa parte di questo filone l’approccio contingente strategia-struttura di Scott

che individua tre fasi di evoluzione strategico-organizzativo (tab. 3.1).

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Tab. 3.1 - Le relazioni tra strategia e struttura secondo Scott.

Stadio I Stadio II Stadio III

Variabili

strategiche

- unica linea di prodotto a limitata ampiezza - mercato geografico circoscritto - unico canale distributivo - processi produttivi scarsamente integrati - limitato investimento in ricerca e sviluppo

- una linea di prodotto - più mercati geografici/segmenti - più canali di distribuzione - processi produttivi integrati verticalmente - forte investimento in ricerca e sviluppo

- più linee di prodotti - molteplici mercati - molteplici canali

Variabili organizzative

- struttura elementare - struttura

funzionale - struttura

divisionale

Rientrano tra le teorie dell’adattamento anche le teorie degli stadi che

“identificano nei processi di evoluzione il susseguirsi di situazioni vissute da un

sistema ed in particolare da un’organizzazione”3.

Sul piano dell’analisi organizzativa è doveroso menzionare l’interpretazione

di Greiner. Egli individua nelle organizzazioni un processo continuo di “evoluzione”

e “rivoluzione”. “Il termine evoluzione sta ad indicare lunghi periodi di crescita

durante i quali le impostazioni organizzative non subiscono sovvertimenti. Il termine

rivoluzione sta ad indicare i periodi di grave scompiglio nella vita dell’impresa”34.

3 SOLARI, L., “Le teorie evolutive”, in Costa, G.; Nacamulli, R., Manuale di organizzazione aziendale,

Torino, UTET, 1996, p. 316.

34 GREINER, L. E., Evoluzione e mutamenti nelle imprese che si espandono, Industrie Pirelli spa,

Milano, p. 8.

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Tab. 3.2 - Stadi di sviluppo del ciclo di vita per Greiner

In tal modo la vita di ciascuna organizzazione risulta composta di cinque

fasi. Secondo questa visione, “le organizzazioni devono passare attraverso una

successione di stadi che dipendono naturalmente dall’età e dalle dimensioni, ma non

dalla progressiva specializzazione delle proprie attività”35.

35 SOLARI, L., op. cit. p. 317.

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Tab. 3.3 - Caratteristiche organizzative durante i cinque stadi del ciclo di vita

delle organizzazioni per Greiner.

Strumento Fase 1 Fase 2 Fase 3 Fase 4 Fase 5

Obiettivi Produrre e vendere

Efficacia Ampliamento del mercato

Consolidare l’organizzazione

Innovazione

Struttura Senza formalità

Accentrata e funzionale

Decentrata e geografica

Sistema organico

Team based

Stile

dell’alta

direzione

Individualistico e imprenditoriale

Autoritario

Propenso a delegare

Cane da guardia

Favorevole alla partecipazione

Sistema

di

controllo

Risultati di mercato

Norme di lavoro e centri di costo

Relazioni e centri di rendimento

Pianificazione e centri di investimento

Obiettivi comuni

Riconosci

menti

Proprietà Aumenti per merito

Gratifiche individuali

Profith-sharing e stock option

Gratifiche di team

Le fasi di sviluppo individuate da Greiner sono: 1. Sviluppo grazie alla

creatività; 2. Sviluppo grazie all’autorità; 3. Sviluppo grazie alla delega; 4. Sviluppo

grazie al coordinamento; 5. Sviluppo grazie alla collaborazione.

Il passaggio attraverso le fasi di sviluppo avviene attraversando varie “crisi”:

crisi di autorità; crisi di autonomia; crisi di controllo; crisi di burocrazia.

Fase 1:

Sviluppo grazie alla creatività. Nasce l’organizzazione grazie all’idea creativa

dei suoi fondatori.

Crisi di leadership. L’organizzazione si è sviluppata e non riesce più a gestire

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i conflitti che sorgono. Bisogna nominare un leader, una guida.

Fase 2:

Sviluppo grazie all’autorità. Vi è un nuovo periodo di sviluppo dovuto alla

stabilità creatasi in seguito all’individuazione di un leader, all’introduzione di una

struttura organizzativa funzionale e alla specializzazione delle mansioni.

Crisi di autonomia. Il sistema decisionale basato sull’accentramento si rivela

inefficiente per governare un’impresa grande, diversificata e complessa.

Fase 3:

Sviluppo grazie alla delega. Il sistema basato sulla delega si rivela la

soluzione vincente.

Crisi di controllo. A lungo andare la delega porta alla perdita di controllo da

parte della direzione centrale.

Fase 4:

Sviluppo grazie al coordinamento. Si tende verso una maggiore

formalizzazione dei meccanismi di coordinamento.

Crisi di burocratizzazione. L’eccessiva formalizzazione si rivela un ostacolo

per l’innovazione.

Fase 5:

Sviluppo grazie alla collaborazione. Sviluppo di meccanismi di

collaborazione interpersonale nel tentativo di superare la crisi burocratica.

Crisi di saturazione psicologica. L’organizzazione diventa fonte di stress per

gli individui.

Se interessanti ed utili si rivelano questi modelli per lo studio che qui si

svolge, maggiormente significativi sono gli approcci di Albert Meister e di Stefano

Zan, due autori che hanno applicato il concetto di ciclo di vita anche alle cooperative.

Per entrambi, le imprese cooperative nascono e si sviluppano secondo fasi o

stadi all’interno però di una condizione specifica data dalla presenza di una variabile

propria: l’autogestione, che non è solo un “dover essere”, i cui connotati sono definiti

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nello statuto, ma anche e soprattutto una variabile organizzativa.

Meister svolge delle ricerche soprattutto in Italia ed in Francia intorno agli

anni ‘50-‘60 su società cooperative diverse tra di loro. Il primo risultato di tale ricerca,

che evidenzia un aspetto comune a tutte queste società è che, “al di là della

differenza delle loro funzioni economiche, all’origine esprimevano la volontà di

creare, come reazione alla realtà circostante, cellule di vita democratica, di creare o di

rispettare l’eguaglianza fra i membri, e di basarsi sul massimo di partecipazione di

tali membri e sulla democrazia diretta”36.

Per descrivere l’evoluzione delle forme di partecipazione e di democrazia

distingue quattro fasi nella vita di queste organizzazioni.

Fase 1: la conquista.

La nascita del gruppo si caratterizza per un elevato grado di entusiasmo e di

speranze. Le decisioni vengono prese dall’assemblea: la democrazia è diretta. Vi è

scarsa differenziazione del sistema sociale e degli organi. I compiti vengono svolti da

volontari. “Ma soprattutto la cooperazione è intesa come creatrice di nuovi rapporti

umani fondati sull’uguaglianza. Eguaglianza in contrapposizione alle ineguaglianze

del mondo esterno; eguaglianza tra i membri perché all’interno del gruppo non si

crei nessuna situazione di privilegio”37.

Ma già in questa prima fase si evidenziano le prime contraddizioni, infatti

“proprio per il loro egualitarismo, molti gruppi soffrono di un eccesso di

democrazia”38 ed inoltre l’efficienza è discutibile.

Fase 2: il consolidamento economico.

La crisi determinatasi nella prima fase impone delle trasformazioni per la

sopravvivenza economica. E’ questa, per Meister, una fase di transizione.

L’idealismo che era stato il collante dell’organizzazione viene soppiantato

36 MEISTER, A., Democrazia e partecipazione nelle associazioni, Comunità XXV, n°163, 1971, p.216.

37 Ibidem, p.218.

38 Ibidem, p.219.

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dall’indifferenza dei membri. Avvengono trasformazioni anche a livello di

funzionamento del gruppo: i dirigenti si separano dalla base sociale e diventano

imprenditori, il loro potere si rafforza; gli organi si differenziano e si specializzano.

Da una democrazia diretta si passa ad una democrazia fondata sulla delega. Per le

cooperative di lavoro questa è la fase di passaggio da un’economia artigianale

all’organizzazione industriale.

Fase 3: la coesistenza.

“Le caratteristiche principali del terzo stadio sono costituite dalla rinuncia a

opporsi all’ambiente e dall’estendersi della delega democratica a tutte le attività del

gruppo. [...] i gruppi hanno nuovamente accettato i valori della società globale contro

i quali all’origine avevano voluto lottare. Non solo le cooperative hanno dovuto

tornare ai metodi di gestione dell’impresa privata, ma sono cambiati i valori”39. Si

assiste quindi ad una trasformazione ideologica, dovuta anche al fatto che le

aumentate dimensioni hanno ridotto la coesione del gruppo. La delega è sempre più

estesa.

Fase 4: il potere degli amministratori.

L’ulteriore approfondimento dei meccanismi che si erano manifestati nel

corso della terza fase portano al potere degli amministratori.

In questa fase, infatti, sono gli specialisti ad avere accesso alle informazioni e

quindi a prendere le decisioni. Viene abbandonato il sistema democratico che il

gruppo si era dato all’origine.

Sintetizziamo il modello di Meister nella tabella 3.4.

39 Ibidem, p.224.

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Tab. 3.4 - Le fasi del ciclo di vita cooperativo per Meister40.

Fase I Fase II Fase III Fase IV

Entusiasmo e speranza dei membri

L’idealismo lascia il posto all’indifferenza

Subordinazione all’ambiente esterno anche sul piano dei valori

La complessità economica e gestionale impone massima specializzazione

Scarsa differenziazione nel sistema sociale

Differenziazione dei ruoli

Amministratori e managers detengono il vero potere

Democrazia diretta e marcato assemblearismo

Si rafforza il potere dei gruppi dirigenti

Né i soci né i loro rappresentanti delegati, di fatto, riescono ad esercitare un controllo

Indifferenziazione degli organi

Differenziazione degli organi

Volontariato nelle cariche e nelle responsabilità

Compare la delega Allargamento della delega

Accentramento delle informazioni nelle mani degli esperti

Gestione economica approssimativa con bassi livelli di efficienza

Si affaccia l’attenzione alle questioni economiche

Adozione in toto dei metodi prima definiti come capitalistici

Risultati notevolmente inferiori alle attese

Fase della

conquista

Fase del

consolidamento

Fase della

coesistenza

Fase del potere

degli

amministratori

40 BATTAGLIA, F., L’organizzazione nelle cooperative, Edizioni Pigreco, Roma, 2004, p. 53.

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Dopo aver analizzato il pensiero di Meister “è difficile sfuggire

all’impressione che il suo modello sia concepito, a parte la fase della conquista, come

un lento ma ineluttabile processo di adeguamento dei fini, dei valori e degli

strumenti della cooperativa ai fini, valori e strumenti dell’ambiente esterno: il sistema

capitalistico”41. Per Meister la necessità di doversi confrontare con l’ambiente, da una

parte, e il successo economico, dall’altra, segnano l’avvio della decadenza del gruppo

e la perdita del modello d’origine. Per Zan essi costituiscono un primo passo positivo

nel percorso di ogni cooperativa.

Egli individua tre fasi nel ciclo di vita delle imprese cooperative.

La prima fase è tendenzialmente simile a quella descritta dal Meister. Ciò su

cui Zan non conviene è la denominazione: “[…] riteniamo che il termine “conquista”

non sia il più idoneo a sintetizzare le caratteristiche strutturali di questa prima fase in

quanto in realtà la conquista è l’obiettivo o meglio ancora la molla, che spinge i primi

soci ad aggregarsi tra di loro. La caratteristica strutturale più significativa, la vera

causa che induce alla creazione delle cooperative è la “difesa” dei propri interessi,

interessi che nessun altro, sia questo lo Stato, l’impresa privata, il partito, il sindacato,

sono in grado di soddisfare nell’immediato”42. E’ proprio la necessità di difesa che

spinge alla coesione e che stimola la solidarietà dei membri.

E’ nella seconda fase che si inizia a scorgere la diversa visione che hanno

Meister e Zan del cambiamento nelle cooperative. Lo sviluppo per Meister si basa

sull’andamento divergente di due variabili: la democrazia interna e l’andamento

economico, “è la riuscita economica del gruppo che sembra provocare il suo

deperimento come gruppo sociale originario”43. Per Zan, invece, la riuscita

economica non solo è il primo riconoscimento del successo, ma rappresenta una

svolta da una situazione di difesa ad una in cui la cooperativa ha conquistato il

diritto a stare sul mercato. E l’atteggiamento nei confronti del mercato cambia: non

41 ZAN, S., op. cit., p. 230.

42 ZAN, S. op. cit. p. 235.

43 VIENNEY, C., citato da Zan, op. cit. p. 238.

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più chiusura ma graduale apertura. Questa fase viene denominata fase di

consolidamento. In questa fase, inoltre, emergono le contraddizioni strutturali. Nelle

cooperative di lavoro, ad esempio, emerge la contraddizione di voler mantenere una

connotazione operaia ma di avere bisogno di specialisti, di tecnici.

E’ il modo con cui si risponde a queste contraddizioni che determina il

passaggio alla terza fase: la fase industriale. Sempre nel caso delle cooperative di

lavoro, di fronte al problema dell’autogestione si aprono due possibilità: o la

realizzazione di una solidarietà organica innovativa, oppure la divisione e la

specializzazione dei ruoli e quindi la degenerazione.

Tab. 3.5 - Le fasi di sviluppo delle imprese cooperative per Zan44.

Fase I Fase II Fase III

- entusiasmo collettivo - democrazia diretta - semplicità organizzativa - solidarietà meccanica - chiusura all’interno - unione di debolezze - rifiuto del mercato - cultura della lotta

- prima riuscita politico-economica - aumento dimensioni e complessità - democrazia delegata - crisi della solidarietà - apertura base sociale - accettazione del mercato - evidenziazione delle contraddizioni - cultura del mercato

- consolidamento economico - razionalizzazione organizzativa - formalizzazione - solidarietà organica - soluzione delle contraddizioni - apertura all’esterno - rilevanza “problema specifico“: � innovazione � degenerazione - cultura dell’affermazione sul mercato

Fase della difesa Fase del

consolidamento

Fase industriale

44 ZAN, S., op. cit. p.242.

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Anche Quinn e Cameron45 si interessano degli stadi del ciclo di vita

organizzativo delle imprese. Distinguono quattro stadi:

1) lo stadio imprenditoriale. E’ il primo periodo di vita dell’impresa, in cui i

fondatori sono imprenditori e l’organizzazione è di carattere informale e non

burocratico;

2) stadio collettivo. Vengono stabilite le unità organizzative, una gerarchia di

autorità e vengono definiti compiti ed una prima divisione del lavoro. La struttura ed

in particolare le attività di comunicazione e controllo sono ancora prevalentemente

informali ma iniziano a comparire alcuni sistemi informali.

3) stadio del controllo. “La formalizzazione assume un ruolo cruciale nel

passaggio dallo stadio collettivo a quello del controllo, in coincidenza con

l’aumentare del tasso di crescita e delle dimensioni aziendali. In queste condizioni,

infatti, il numero di interazioni tra i membri del sistema organizzativo aumenta

considerevolmente, e con esso cresce il fabbisogno di coordinamento e controllo, che

può appunto essere soddisfatto mediante la definizione di procedure formali.

Vengono assunti specialisti, con il compito di sviluppare la standardizzazione,

codificando, incanalando e standardizzando i comportamenti attesi. Lo stesso assetto

strutturale si arricchisce di nuove unità dedicate a queste attività”46.

4) stadio dell’elaborazione della struttura: declino o rinnovamento. In questa

fase si evince la natura ambigua e pericolosa della formalizzazione. Se una struttura

formalizzata, infatti, ha consentito all’impresa di svilupparsi sino ad una fase di

maturità, sarà la stessa formalizzazione, adesso, ad ostacolare le esigenze di

rinnovamento.

45 QUINN, R. E.; CAMERON, K., “Organizacional life cycles and shifting criteria of effectiveness.

Some preliminary evidence”, Management science, vol. I, n°1, pp. 33-51, january 1993, citato da

PERRONE, V., Le strutture organizzative d’impresa. Criteri e modelli di progettazione, EGEA,

Milano, 1990, p. 426-7.

46 PERRONE, V., op. cit., p. 426.

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Un altro autore utilizza l’approccio del ciclo di vita per le società cooperative:

Jaroslav Vanek.

Egli individua cinque modalità di nascita delle cooperative: tre riguardano la

riorganizzazione di imprese capitalistiche; le altre due sono esempi di imprese create

ex novo.

1) Il fallimento: “assunzione da parte dei lavoratori di un’impresa

capitalistica defunta o che è fallita”47.

2) La riorganizzazione amichevole: si tratta della riorganizzazione di

un’impresa capitalistica in perfetta salute con il consenso di tutte le parti. Un tipo

particolare di riorganizzazione amichevole è quella che Vanek definisce

“riorganizzazione molto amichevole” in cui la riorganizzazione avviene, addirittura,

su iniziativa del proprietario.

3) La riorganizzazione aggressiva: l’autogestione viene imposta dai

lavoratori.

4) Formazione spontanea di una nuova impresa: l’impresa autogestita nasce

per volontà di un gruppo di persone e non è preceduta da alcuna forma

organizzativa.

5) Formazione indotta dall’esterno: l’impulso viene dato da

un’organizzazione o da un individuo che non prenderà parte all’esperienza

cooperativa.

Il tema della genesi della società cooperativa e delle conseguenze che si

producono viene affrontato anche da Carbognin e Masiero48. Questi due autori

evidenziano come “il periodo anteriore alla nascita della cooperativa ed il tipo di

compagine iniziale sono le variabili centrali che spiegano i diversi livelli di capacità

strategica e i differenti modi di comporre la divisione del lavoro e la partecipazione

47 VANEK, J., Imprese senza padrone nelle economie di mercato, Edizioni Lavoro, Roma, 1975, p. 46.

48 CARBOGNIN, M.; MASIERO, A., Organizzare l’autogestione, Roma, Edizioni Lavoro, 1985.

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attiva dei soci”49.

Distinguono due tipi di sistema sociale. Il primo viene definito “coalizione

pura”, i soci sono tutti operai senza nessuna precedente esperienza di gestione-

coordinamento, il gruppo è generalmente ristretto, fortemente sindacalizzato, la

leadership interna è mantenuta direttamente sotto controllo. Le piccole dimensioni

permettono un controllo faccia a faccia e una forte coesione attorno agli ideali sociali.

La democrazia e l’ugualitarismo si riflettono anche sui ruoli e sulle mansioni,

generalmente infatti nella fase della nascita della cooperativa vi è una totale

indistinzione di funzioni interne: ciascuno, a turno, fa un po’ di tutto. Questo sistema

sociale è osservabile sia nelle cooperative nate da un fallimento aziendale sia in

quelle sorte ex novo.

Il secondo tipo di sistema sociale, che chiamano “coalizione mista”, è

caratterizzato da soci con competenze di vario genere e dove è già esistente un solido

gruppo dirigente. Quest’ultima caratterizza le cooperative nate a seguito del

fallimento di un’esperienza capitalista.

Nelle “coalizioni pure” l’idea cooperativa nasce dopo un periodo più o meno

lungo di discussione tra i futuri soci, sotto la spinta di fattori diversi ed è carica di

idealità.

Le cooperative sorte in seguito ad una crisi hanno come principale obiettivo

quello occupazionale; non che tale obiettivo sia assente nelle cooperative nate ex

novo, in realtà, però, pur presente, si cela sotto obiettivi di carattere politico e sociale

come il rifiuto del lavoro dipendente, l’egualitarismo, ecc. che orientano la struttura e

le strategie. Tutto ciò si traduce in una incapacità a sviluppare le competenze

managerali necessarie per lo sviluppo e in un’ostilità verso strutture più formali.

Questo significa che le caratteristiche presenti al momento fondativo giocano

un ruolo rilevante nel determinare le modalità seguenti di risoluzione dei problemi e

tali fattori, insieme, influenzeranno le diverse fasi del ciclo di vita e ne

49 Ibidem.

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determineranno le peculiarità.

2. Il dibattito su autogestione e partecipazione nel movimento cooperativo

Gli anni settanta hanno rappresentato per il movimento cooperativo un

periodo di sviluppo e di crescita decisamente significativi. Al termine di questo

periodo di sviluppo, la cooperazione, che inizialmente risultava costituita da un gran

numero di unità organizzative di dimensioni medio-piccole, legate in massima parte

al mercato locale e caratterizzate da un elevato grado di omogeneità socio-

professionale e culturale, si presentava come un’area economica il cui fatturato

complessivo si era incrementato di parecchie volte, nella quale si era venuto

costituendo un certo numero di grandi realtà imprenditoriali, con una composizione

socio-profesionale fortemente differenziata e che, accanto ad una significativa

presenza nei mercati tradizionali aveva iniziato ad estendersi gradualmente nei

settori emergenti dell’economia. In questo mutato contesto operativo l’insieme degli

strumenti e delle modalità di funzionamento dei processi autogestionali e

partecipativi consolidati non poteva non presentare contraddizioni e momenti di

crisi. Il passaggio dalla “solidarietà meccanica” del passato ad una più adeguata

“solidarietà organica” che consentisse di superare i problemi posti dalla complessità

e dall’allungamento del ciclo di controllo sociale dell’organizzazione e le difficoltà di

integrazione di gruppi professionali di diversa formazione ed orientamento,

appariva tutt’altro che facile da conseguire. Da qui l’attardarsi, spesso pretestuoso,

del dibattito su problemi di scarso rilievo, erroneamente percepiti come risolutivi o

su questioni importanti, ma vissute in chiave ideologica come la compatibilità della

grande dimensione con la cultura cooperativa.

Il movimento cooperativo ha rilanciato in anni recenti il tema della

partecipazione, superando i limiti della precedente impostazione ideologica secondo

la quale la partecipazione si accompagnava naturalmente all’essere cooperativa, ed

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avviando un ampio processo di revisione dei meccanismi di partecipazione

tradizionali, messi in crisi dalle trasformazioni strutturali degli anni precedenti.

Da questo rinnovato interesse, il cui primo obiettivo è consistito

nell’esplicitare e verificare, alla luce di nuovi criteri di legittimazione, il patrimonio

di cultura e comportamenti organizzativi esistenti, sono nati non pochi casi di

positivo avvio dei processi di adeguamento del sistema di autogestione presente

nell’impresa. In alcune situazioni ci si è orientati verso l’arricchimento del numero e

delle funzioni delle strutture sociali per migliorare il sistema di controllo collettivo

che la maggior complessità organizzativa rischiava di vanificare; in altre si è puntato

a migliorare le modalità di formazione della volontà collettiva, perfezionando i

sistemi di programmazione-pianificazione, così da rendere più trasparente ai soci-

lavoratori il significato e la direzione delle trasformazioni aziendali; in altre ancora si

è scelto di agire sulla qualità e sulla quantità delle informazioni disponibili in materia

ampliando contemporaneamente il livello di decentramento.

Quindi una riflessione sui rapporti tra struttura sociale e operativa, in altri

termini sul funzionamento dell’autogestione cooperativa, è tanto più attuale in

seguito ai mutamenti che ha registrato la realtà interna ed esterna al movimento

cooperativo negli ultimi anni. Tali cambiamenti hanno imposto e continuano ad

imporre all’impresa cooperativa uno sforzo di adeguamento complessivo che investe

le strutture, i processi e gli strumenti operativi cui è delegato l’obiettivo

dell’efficienza aziendale, ma che non può non riguardare anche le strutture alle quali

è affidato l’obiettivo della partecipazione e della socialità.

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3. L’autogestione

L’autogestione rappresenta il processo politico-organizzativo più peculiare

dell’impresa cooperativa. In esso si riassume un patrimonio di cultura, socialità e

imprenditività di tutt’altro che immediata lettura e valutazione.

Il problema del suo sviluppo e del suo progressivo adeguamento alle sfide

poste dall’evoluzione dell’ambiente esterno dall’impresa, dal mutare dei bisogni

degli associati, dalla crescita della complessità gestionale si presenta quindi di

difficile soluzione. Inoltre esso risulta ulteriormente complicato dalla mancanza di

un’efficace teoria dell’impresa cooperativa e dal fatto che il patrimonio di cultura e

valori è in gran parte implicito, il che non aiuta la comprensione di quali elementi di

esso debbano essere modificati e quali viceversa debbano essere salvaguardati e

valorizzati.

Pagine e pagine sono state scritte sull’argomento. Alcuni affermano che

l’impresa autogestita è possibile solo in una società completamente autogestita. Altri

partono dall’uguaglianza autogestione-felicità per dedurre dai problemi quotidiani

della vita associata la mancanza di autogestione. Altri ancora si rifanno a mitiche

idealizzazioni del loro passato aziendale per concludere che oggi, essendo cresciuta

la complessità dell’organizzazione, non è più possibile partecipare.

Tali affermazioni sembrano inaccettabili e ciò non perché non partano dalla

constatazione di problemi reali e concrete difficoltà, ma piuttosto perché forniscono

dell’autogestione una interpretazione statica, chiusa o ideologica.

L’autogestione non può essere considerata alla stregua di un oggetto o di un

evento del quale verificare l’esistenza nei termini definitivo di si/no oppure di

c’è/non c’è; essa va vista invece come un insieme articolato di processi, strutture e

cultura in continua evoluzione, un modello che si sviluppa attraverso una incessante

attività di ricerca e sperimentazione nel sociale con il concorso di quanti operano

nell’organizzazione autogestita. L’autogestione è quindi per l’impresa cooperativa un

obiettivo politico-sociale permanente la cui forma ideale definitiva non è a priori

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definibile, che comunque in quanto assume, in un determinato momento della vita

dell’impresa, la forma di valori, processi e strutture concreti può essere analizzata e

migliorata verso livelli di maggiore corrispondenza alle necessità complessive del

corpo sociale.

Non suscita, quindi, interesse alcuno la ricerca di una definizione assoluta ed

esaustiva del termine autogestione, della formula da applicare sempre ed in qualsiasi

situazione.

Il diverso grado di sviluppo delle imprese cooperative, le differenze sociali

ed operative presenti nei diversi settori (produzione e lavoro; agricoltura; consorzio

ecc.) e nei diversi tipi di impresa (per dimensioni; per composizione socio-

professionale; per mercato ecc.), infatti, impongono l’accettazione di paradigmi

diversi di democrazia aziendale. Anche per questa via il governo della complessità

stimola a superare la logica dell’appiattimento irrealistico e della trasposizione

burocratica.

4. Autogestione e gestione aziendale: relazione tra autogestione ed efficienza

aziendale.

L’impresa cooperativa è guidata nel mercato da una funzione obiettivo più

complessa della massimizzazione del saggio di profitto e si muove, quindi, con una

razionalità diversa dall’impresa capitalistica: razionalità che ha riflessi

immediatamente operativi in tutte le determinanti del comportamento d’impresa: la

politica occupazionale; la politica di accumulazione-investimento; la politica

gestionale;… In che modo si produce, si sviluppa, si concretizza questa diversa

razionalità all’interno dei processi aziendali organizzati? Mentre la teoria

dell’impresa capitalistica esprime la figura dell’imprenditore, la spiegazione del

comportamento di una cooperativa impone l’utilizzo del concetto di “imprenditore

collettivo”, quale espressione democratica della volontà degli associati.

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Ma perché tale concetto non costituisca un vuoto nominalismo, occorre

esplicitare le forme, le azioni, i processi e le decisioni attraverso i quali l’imprenditore

collettivo si manifesta entro la comunità di lavoratori associati nell’impresa. Si tratta

in definitiva di valutare in che modo si attua il normale processo di composizione

della dialettica tra obiettivi di partecipazione e socialità; di verificare il grado di

continuità tra processi di delega-controllo sociali e processi decisionali aziendali; di

identificare il livello di articolazione delle strutture sociali ed il loro sistema di

relazioni con quelle produttive; di analizzare la congruenza tra l’insieme dei valori

sociali dati e quelli impliciti nei diversi processi aziendali (retribuzioni;

organizzazione del lavoro; valutazione della professionalità ecc.); di esaminare,

infine, la possibilità di influenza del singolo e del suo gruppo professionale sul corpo

delle scelte aziendali ai vari livelli. Si tratta, in termini più sintetici, di verificare il

grado di coerenza culturale e strutturale tra il processo dell’autogestione e quello

della gestione aziendale nella consapevolezza che il punto di equilibrio o il livello di

interazione tra questi non si produce automaticamente né una volta per tutte, ma va

continuamente ricercato, progettato e sperimentato con modalità diverse a seconda

della fase di sviluppo nella quale si trova l’impresa cooperativa.

Analizziamo in che modo si sono sviluppati i rapporti tra struttura sociale e

struttura operativa nel settore delle imprese cooperative di produzione-lavoro al

variare della complessità dell’organizzazione aziendale.

Nella piccola cooperativa, e quindi nella fase di nascita di ciascuna

cooperativa, il basso tasso di differenziazione della struttura operativa, la limitata

variabilità socio-professionale, le produzioni non diversificate, il ridotto numero di

livelli organizzativi fa sì che la gestione aziendale risulti sufficientemente trasparente

ed il ciclo sociale di delega-controllo possa funzionare pur in presenza di un numero

limitato di strutture e momenti associativi: il Consiglio di amministrazione,

l’assemblea dei soci o poche altre occasioni d’incontro, importanti ma non

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istituzionalizzate.

Le comunicazioni informali, i rapporti interpersonali del tipo faccia a faccia,

la diffusione delle informazioni secondo dinamiche di piccolo gruppo favoriscono

l’identificazione socio-cooperativa e funzionano da ulteriore elemento aggregante. In

un tale contesto l’equilibrio tra efficienza e partecipazione non è avvertito come

problema istituzionale, ma viene percepito dai singoli come normale conflitto di

interessi nella sfera dei loro bisogni sociali. Possiamo senza dubbio affermare che “a

questi livelli l’autogestione non è un problema: essa si realizza nei fatti,

“meccanicamente”, senza bisogno di essere programmata o teorizzata”50.

Questo modello, che potremmo chiamare ad integrazione naturale tra

gestione e autogestione entra in crisi quando le accresciute dimensioni aziendali e la

maggior complessità delle variabili gestionali-produttive impongono un più elevato

grado di formalizzazione organizzativa ed una più evidente mappa della

responsabilità senza la quale l’efficienza del funzionamento aziendale sarebbe

destinata a degradare.

Nelle cooperative di medie dimensioni, infatti, la necessità di recuperare un

adeguato livello di efficienza ed efficacia nei processi decisionali impone una

separazione tra ruoli sociali e ruoli operativi che porta progressivamente ad una più

netta separazione tra strutture sociali e strutture aziendali. Questa separazione, che è

stata evidenziata storicamente dall’affermazione del modello organizzativo a

clessidra, comporta peraltro un indebolimento del processo di delega-controllo

sociale per contrastare il quale sorgono solitamente nuove strutture

dell’autogestione: commissioni del Consiglio di amministrazione; commissione di

zona o di unità produttiva; organismi sociali intermedi tra assemblea e Consiglio di

amministrazione, ed aumentano inoltre le occasioni di discussione su temi di portata

generale per la vita della cooperativa (budget; verifiche periodiche; piani poliennali;

50 ZAN, S., op. cit., p. 74.

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valutazione delle qualifiche, ecc.). In questa situazione la sintesi tra obiettivi di

efficienza e di socialità è affidata alla dialettica tra il vertice sociale, il Consiglio di

amministrazione, e quello aziendale, la Direzione operativa, il comitato di quadri di

livello più elevato.

Anche queste soluzioni risultano tuttavia insufficienti nella cooperativa di

grandi dimensioni. Qui l’esaurirsi del compito di integrazione delle comunicazioni

faccia a faccia, la notevole complessità delle variabili gestionali (finanziarie,

tecnologiche, organizzative ecc.), il moltiplicarsi dei gruppi professionali, la

diversificazione geografica delle produzioni e dei mercati, il numero dei livelli

organizzativi rendono poco trasparente ai singoli la gestione aziendale. Inoltre

l’allungarsi del ciclo di delega-controllo sociale non consente di cogliere la logica

delle decisioni aziendali e riduce quindi il livello di identificazione socio-cooperativa.

Questo comporta peraltro un progressivo fenomeno di burocratizzazione che

“rende più difficile e complessa l’autogestione in quanto incrina od elimina

totalmente quegli elementi che in precedenza la rendevano meccanicamente

possibile”51.

Afferma in proposito Roncaccioli che “lo strano destino dell’esperienza

cooperativistica è il seguente: proprio in quanto il seme autogestionario iniziale si

sviluppa e prende forza economica, implica nell’impresa una serie di trasformazioni

produttive e complicazioni organizzative che sembrano costituire un vincolo

estremamente rigido per la praticabilità e la stessa sopravvivenza dello spirito

solidaristico e partecipativo iniziale”52.

51 Ibidem, p. 75.

52 PANATI, G., RONCACCIOLI, A., Economia aziendale, organizzazione e impresa cooperativa,

Quaderni INECOOP, Roma, 1984, p. 130.

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Fig. 3.1 - Le fasi dell’esperienza cooperativa nel rapporto tra autogestione ed

efficienza53.

In questa situazione occorre sviluppare un modello di relazioni tra gestione e

autogestione più avanzato del precedente, un modello che potremmo chiamare ad

integrazione organizzata le cui caratteristiche vanno costruite attorno a scelte

decisive quali il decentramento operativo ed il contemporaneo recupero di una

precisa simmetria tra strutture sociali e strutture operative; la delega ai quadri

aziendali di compiti sociali oltre che gestionali; la diffusione di una cultura

direzionale partecipativa ai vari livelli dell’organizzazione; l’utilizzo sistematico di

strumenti e metodi di informazione del corpo sociale più avanzati di quelli

tradizionali.

Si tratta in sostanza di recuperare, invertendo la logica di separazione del

modello precedente, una politica direzionale unitaria ed integrata, che investa il

complesso dei fenomeni aziendali (struttura, processi, cultura) con l’obiettivo di

mantenere un elevato grado di coerenza tra efficienza e partecipazione, obiettivo non

più concentrato nel vertice della cooperativa, ma diffuso, con diversità di contenuti,

ma medesimo impegno, a tutti i livelli significativi dell’organizzazione.

“Raggiunta la consapevolezza che l’autogestione non si realizza più

meccanicamente […] e intuendo che alla lunga questo processo porta a ridurre

fortemente le differenze tra cooperativa e impresa privata, i dirigenti cooperativi più

53 Ibidem, p. 131.

MAX autogestione

MIN efficienza

FASE 1 FASE 2 FASE 3

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sensibili cominciano ad affrontare l’autogestione come una delle funzioni aziendali

da programmare e gestire in quanto tale. In questo modo l’autogestione da forma di

solidarietà meccanica nell’impresa cooperativa delle origini, diventa problema

organizzativo che viene affrontato nella ricerca e nel perseguimento di una

“solidarietà organica” tra le diverse dimensioni dell’impresa”54.

Il modello a integrazione organizzata considera i processi aziendali, operativi

e sociali in maniera unitaria e pur acquisendo la differenziazione tra strutture

aziendali e strutture autogestionarie tende a costruire tra esse una fitta rete di

strumenti di integrazione che riguardano i circuiti informativi, le innovazioni

gestionali, le tecnologie e l’organizzazione del lavoro, i processi di decisione sulle

scelte di investimento e implica lo sviluppo ai massimi livelli di responsabilità di una

professionalità nuova diversa da quelle tradizionalmente separate del tecnico e del

politico.

54 Ibidem, p. 75.

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Tab. 3.6 - Ciclo di vita della cooperativa di lavoro: burocratizzazione e

solidarietà55.

Fase iniziale

Caratteristiche

strutturali

pochi soci dimensioni contenute tecnologia semplice prodotti semplici e limitati cultura della “lotta” interscambiabilità dei ruoli scolarità e professionalità omogenee omogeneità delle esperienze di provenienza tendenziale omogeneità anagrafica logica della “sopravvivenza” solidarietà meccanica

Fase di trasformazione

burocratizzazione crescita e differenziazione strutturale

Crisi della solidarietà

Fase finale

Caratteristiche

strutturali

molti soci dimensioni rilevanti tecnologia complessa differenziazione prodotti cultura dell’”affermazione” differenziazione e stratificazione dei ruoli scolarità e professionalità disomogenee disomogeneità delle esperienze di provenienza forte differenziazione generazionale logica del “mercato” ricerca di una solidarietà

organica

55 ZAN, S., op. cit., p. 76.

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5. Relazione tra autosfruttamento ed alienazione

Abbiamo osservato precedentemente che esiste nell’impresa cooperativa una

relazione inversa tra autogestione e efficienza. Ma tale relazione non esiste solo tra

queste due dimensioni.

Analizziamo, per esempio, quale andamento hanno le variabili

autosfruttamento e alienazione durante le diverse fasi del ciclo di vita della società

cooperativa.

Il concetto di autosfruttamento assume rilevanza solo se si confronta il

comportamento del socio di cooperativa con quello di un qualsiasi lavoratore

dipendente medio che lavora nello stesso settore e nella stessa società.

Le prime esperienza cooperative, o se vogliamo la prima fase di vita di una

cooperativa, sono contrassegnate da una forte carica ideologica, da una cultura della

“lotta”, da un clima organizzativo il cui elemento principale è la volontà di affermare

l’esistenza dell’impresa sul mercato e la capacità di sopravvivenza. I valori sono

condivisi da tutti i membri ed è nella volontà di tutti la disponibilità a qualunque

fatica pur di realizzare il progetto per cui stanno lottando.

Da qui nasce il concetto di autosfruttamento, cioè della disponibilità a

sacrificarsi per il bene della società. Sacrificandosi aumentandosi le ore lavorative

giornaliere, sottoponendosi ad ore straordinarie non retribuite, rinunciando alle ferie

ed alle festività. Atteggiamento che nessun lavoratore dipendente assumerebbe per

nessun motivo. In effetti, una simile situazione di massimo autosfruttamento,

coinciderebbe, per un lavoratore dipendente, con il massimo di alienazione. Per il

socio della cooperativa, invece, è proprio questa situazione a coincidere con il

minimo di alienazione.

Terminata questa prima fase la cooperativa si afferma, si ingrandisce, si

differenzia, si specializza, inizia cioè un processo di crescita. Le condizioni dei

lavoratori rientrano nella norma e in alcuni casi sono persino migliorative rispetto a

quelle di un lavoratore dipendente. Sembrerebbe essersi creata una situazione

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ottimale, “ma, mentre da un canto scompaiono le condizioni che spingevano i soci a

prestazioni di lavoro che si configuravano come autosfruttamento, si impone spesso

un clima aziendale di delega fiduciosa delle decisioni e delle responsabilità per cui

progressivamente sorge nella gran maggioranza dei soci uno stato d’animo in larga

misura alienato”56.

Fig. 3.2 - Le tre fasi dell’esperienza cooperativa nel rapporto fra

autosfruttamento e alienazione57.

Tra le due componenti “autosfruttamento” e “alienazione” esiste un rapporto

molto simile a quello esistente tra “autogestione” ed “efficienza”.

Relazioni di questo tipo sono osservabili anche tra altre variabili come

evidenzia la figura 3.3.

56 PANATI, G., RONCACCIOLI, A., op. cit., p. 140.

57 Ibidem, p. 140.

MAX autosfruttamento

MIN alienazione

FASE 1 FASE 2 FASE 3

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Fig. 3.3 - Trade-off58.

Tempo/Dimensione/Complessità

58 BATTAGLIA, F., op. cit., p. 57.

+ Efficienza + Professionalità nel management + Specializzazione + Distacco tra organi decisionali e operativi - Autogestione - Condivisione di cultura e ideologia - Autosfruttamento - Omogeneità tra i cooperatori

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CAPITOLO IV

LA COOPERATIVA MURATORI E CEMENTISTI DI RAVENNA

1.CMC: profili dell’organizzazione

La Cooperativa Muratori & Cementisti di Ravenna è una delle imprese più

caratteristiche di un movimento di grande tradizione e moderno al tempo stesso

quale è quello romagnolo.

Fondata a Ravenna nel 1901, dove ha tuttora sede, è una società cooperativa

di produzione lavoro attiva in Italia e all’estero.

Un fatturato annuo dell’ordine di 400 milioni di euro (realizzato per il 90%

nella sola attività di costruzioni), una struttura fissa di circa 500 persone (di cui oltre

350 soci), un organico complessivo che supera le 5.500 unità, fanno di Cmc una delle

principali imprese di costruzioni italiane.

In Italia, i mercati di riferimento di Cmc sono rappresentati da:

� le grandi opere, dove l’esperienza e i requisiti di qualità consentono a

Cmc di proporsi come uno dei principali attori sul mercato riservato dalle nuove

norme ai “General Contractor”;

� i lavori pubblici: è il mercato tradizionale della Cooperativa che vi

opera con continuità, privilegiando i grandi interventi infrastrutturali, i lavori di

edilizia pubblica e quelli portuali e marittimi;

� i lavori ferroviari: in questo comparto Cmc si propone come uno dei

principali attori, per l’esperienza acquisita nella realizzazione dei progetti di Alta

Velocità Ferroviaria;

� i lavori privati: rientrano tra gli interessi della Cooperativa la

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costruzione di ipermercati, hotel, centri direzionali;

� il mercato locale, in cui Cmc, per assicurare continuità alla propria

presenza imprenditoriale e sociale in Romagna, realizza interventi edili e

infrastrutture.

All’estero, la politica commerciale di Cmc è finalizzata all’acquisizione di

commesse in aree geografiche ove vanti una radicata presenza e le tipologie dei

lavori siano coerenti con le specializzazioni ed il know how acquisiti in quasi 30 anni

di esperienza. La Cooperativa è presente in Algeria, in Sudan, in Eritrea, nelle

Filippine,in Sud Africa, in Mozambico, in Swaziland, nella Repubblica Popolare

Cinese, in Malesia, nelle Filippine, a Taiwan e a Singapore.

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A chi consideri l’odierna entità aziendale della Cmc, il suo potenziale tecnico-

organizzativo e le capacità imprenditoriali che le consentono l’assunzione di

qualsiasi tipo di commessa, sembra quasi di ascoltare una favola quando si

raccontano gli episodi connessi alla sua origine. Sembra infatti impossibile che il

gigante di oggi abbia, anch’egli, mosso i primi passi traballante ed incerto come

accade ad ogni bambino. Questa cooperativa è sorta ex novo e non in seguito al

fallimento di una impresa capitalistica ed ha raggiunto le attuali dimensioni non per

successive fusioni di realtà minori come è sovente avvenuto nel movimento

cooperativo, ma per progressivo sviluppo dell’impresa sorta nel 1901.

2. La missione

“Realizzare il patto tra i soci di cooperare per aumentare il valore della loro

impresa e in tal modo del loro lavoro.

Sviluppare la democrazia come base per il governo della società cooperativa

e la partecipazione come mezzo di espressione delle capacità e delle aspirazioni

d’ognuno.

Far crescere l’impresa, la sua capacità di competere, la sua possibilità di

espandersi, la sua volontà di innovare e investire. Rendere evidente la produzione di

valore per il mercato, per i finanziatori e per le comunità con cui s’interagisce.

Dimostrare la consapevolezza e la responsabilità di costruttori che hanno a

cuore la sicurezza dell’ambiente fisico e sociale.

Garantire nel tempo la crescita delle riserve indivisibili, come patto principale

verso la società. Rappresentare negli obiettivi e nei comportamenti i valori dei

cooperatori che hanno fatto la storia di Cmc, per trasmetterli alle generazioni future”.

Per ciò che riguarda i soci e lo scambio mutualistico, i vantaggi di cui

possono beneficiare sono ovviamente di natura economica (ristorno, remunerazione

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del capitale sociale, remunerazione del prestito sociale, ecc.) ma anche di natura

socio-culturale.

Fra gli istituti rivolti esclusivamente ai soci: trattamento di invalidità;

trattamento di pensione sociale (retaggio del passato, quando ancora non era

possibile un’adeguata copertura previdenziale pubblica); assistenza integrativa

sanitaria; prestiti personali e mutui prima casa.

Fra gli istituti rivolti a soci, dipendenti e soci pensionati: assicurazioni

integrative (polizze stipulate in alcuni casi anche a favore delle famiglie dei

dipendenti); assistenza fiscale e tributaria; pacco natalizio e pacco befana; borse di

studio.

Per favorire la coesione tra i lavoratori Cmc ha promosso la costituzione della

Cooperativa Servizi e Cultura per la promozione di attività sociali e l’impiego del

tempo libero. Nella Cooperativa è confluito anche la Polisportiva Cmc che promuove

iniziative sportive.

Il livello di partecipazione alla vita societaria è buono. Per Statuto si tengono

almeno due assemblee all’anno (per l’approvazione del Bilancio di previsione e per

l’approvazione di quello di esercizio). Ulteriori assemblee sono convocate a fronte di

particolari esigenze. Per agevolare l’affluenza della base sociale sono anche previsti

rimborsi spesa per i cooperatori residenti fuori dalla provincia di Ravenna.

Come strumenti di preparazione alle assemblee sono, inoltre, previsti il

Consiglio dei delegati, le assemblee nei cantieri e nei posti di lavoro, interventi

informativi specifici su “La Betoniera”, il giornale aziendale.

Inoltre se si prende in considerazione il fatto che i soci hanno investito molto

nella cooperativa, anche dal punto di vista finanziario, è difficile credere che la loro

partecipazione sia scarsa. Per di più è possibile notare dalla tabella che negli ultimi

anni è aumentata la quota media di capitale sottoscritto.

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Tab. 4.1 – Capitale sociale: quota media sottoscritta da ciascun socio

cooperatore.

Tab. 4.2 – Livello di partecipazione dei soci cooperatori alle assemblee 2001-

2002.

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L’impegno di Cmc a sostegno di iniziative solidaristiche è stato sempre vivo

negli anni sia nel ravennate con iniziative di sostegno di attività culturali ed

iniziative di vario genere nei confronti di giovani ed anziani, sia oltre il territorio

locale. In campo sportivo assume risalto la sponsorizzazione del Ravenna Calcio e di

una serie di enti sportivi su sport più marginali (canottieri, volley, basket e sport

d’acqua).

Nel campo culturale la cooperativa contribuisce a sostenere alcuni importanti

avvenimenti della città, come il Ravenna Festival o il programma di musica classica

dell’Associazione Angelo Mariani, il sostegno all’Università per adulti, ed altri

interventi in attività legate alla musica, alla poesia, al teatro.

Cmc resta profondamente intrecciata col territorio locale anche per donazioni

e contributi ad iniziative di beneficenza e liberalità varie. Da vari anni sostiene

l’iniziativa di beneficenza per Telethon, inoltre ha contribuito con una sottoscrizione

interna alla creazione di un pozzo in Gulu, nel nord dell’Uganda attraverso il

sostegno ad Amref Italia (Fondazione africana per la medicina e la ricerca).

Nell’ambito delle iniziative per il centenario ha condotto un progetto di

cinema itinerante in Mozambico.

Sempre in Mozambico, dove vanta una presenza quasi trentennale, ha

avviato le prime iniziative per l’inserimento lavorativo e la rieducazione

professionale degli ex combattenti locali.

Ha inoltre fondato insieme ad un gruppo di imprese la Associazione

Empresarios contra SIDA, con l’intento di creare strategie e sostenere percorsi per

prevenire e far conoscere le problematiche legate all’AIDS.

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3. I fase: le origini (1901-1950)

Il 7 marzo 1901, con rogito del notaio Giuseppe Pirazzoli59, si costituì la

“Società anonima cooperativa fra gli operai, muratori e manovali del Comune di

Ravenna”. Timidamente la Cmc si affacciava alla ribalta dell’economia ravennate e

riusciva a superare le sue carenze tecnico-organizzative facendo leva sullo spirito di

sacrificio dei soci. In questo modo si formava la solida base sulla quale la cooperativa

ha costruito i capisaldi del proprio sviluppo.

L’atto costitutivo venne firmato da trentacinque operai che si riunirono nella

Locanda del Commercio di via Mentana. Ottantatrè operai sottoscrissero, fin

dall’inizio, il libro sociale.

La Cooperativa, operante nell’ambito comunale, nasce esplicitamente come

associazione di categoria, su base cioè rigidamente di classe: essa è aperta soltanto

agli operai muratori. La limitazione, che esclude capi-bottega, appaltatori, che

utilizzano la forza-lavoro altrui, è giustificata dal medesimo art. 2 dello Statuto, che

fissa lo scopo della Società nello “assumere ed eseguire in cooperazione lavori

pubblici e privati, affinché ogni socio lavoratore consegua i profitti del proprio

lavoro”.

I primi articoli dello Statuto della “muratori” definiscono scopi, durata (30

anni) e sede (Ravenna) della Società. Il capitale sociale è illimitato. Le azioni, che

hanno un valore nominale di 24 lire ciascuna, possono essere possedute soltanto da

“operai i quali esercitino l’arte muraria”, che siano maggiorenni e che non abbiano

più di cinquant’anni. Sono nominative e personali, non possono essere cedute se non

ai soci e ad altre persone che esercitino l’arte dei soci con l’assenso preventivo del

Consiglio di Amministrazione. La società è, dunque, aperta. Ogni socio ha diritto ad

un solo voto, in assemblea, qualunque sia il numero delle azioni possedute.

59

Archivio Notarile di Ravenna, atti del notaio Pirazzoli, 1903, rogito del 7 marzo 1901.

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Nel 1901 la Cmc assume il suo primo lavoro: la costruzione del Ponte delle

Botole a Mandriole per conto del Consorzio Scoli di Lugo. L’opera, assegnata

all’imprenditore ravennate Primo Valenti, era stata ceduta in subappalto da questi

alla Cmc: una cessione non dettata certamente da spirito altruistico; infatti il lavoro si

trova al centro di una zona malarica e particolarmente disagiata. Per eseguire l’opera

nei tempi e modi fissati i soci della Cmc furono costretti a notevoli sacrifici: partivano

a piedi il lunedì mattina per raggiungere il luogo dei lavori e tornavano alle loro case

il sabato successivo; i loro attrezzi di lavoro e i viveri per una settimana venivano

caricati su un carretto trainato dal giovane figlio di nove anni di uno dei soci.

Tab. 4.3 - Occupazione e fatturato alla Muratori (1901-1909)60.

ANNI SOCI AUSILIARI TOTALE FATTURATO (1) FATTURATO (2)

1901 57 8 65 12.429 80.036.000

1902 59 26 85 19.321 125.268.000

1903 85 49 134 52.599 331.208.000

1904 114 34 148 59.605 370.806.000

1905 - - - 87.966 546.644.000

1906 164 245 409 156.663 955.787.000

1907 301 199 500 214.231 1.248.082.000

1908 224 326 550 339.642 1.999.194.000

1909 329 344 673 441.267 2.672.061.000

Nonostante i disagi e lo scarso patrimonio iniziale (per ciò che riguarda il

sistema dei trasporti, fino alla prima guerra mondiale tre muli facevano parte del

patrimonio sociale; il primo camion venne comprato nel 1921), già in questi anni,

come mostra la Tabella 4.3, la Muratori si consolidava come struttura cooperativa,

cresceva il fatturato e aumentavano i soci (nel 1910, il Libro Sociale della cooperativa

60 Fonte: MALUCELLI, ROBERTO, La cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna 1901-1915,

Galeati, Imola, 1978, pp. 94-95. (1) in lire correnti; (2) in lire del 1999.

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contava già seicentodieci soci).

In pochi anni, facendo propria la politica della cooperazione ravennate, la

Cmc uscì dall’ambito locale per estendere la sua presenza in altre zone del Paese: nel

1908 fu tra le imprese impegnate nell’opera di intervento e ricostruzione di Reggio

Calabria e Messina, colpite dal terremoto. E’ l’inizio di una serie di lavori edili che la

cooperativa ravennate acquisì nel Meridione attrezzandosi adeguatamente con scale

meccaniche e con elevatori61.

E’, dunque, un’azienda in crescita, che ha davanti prospettive di ulteriore

sviluppo quella che si scioglie nel maggio 1909 per consentire la fusione con la

“Cementisti”.

Dalla fusione del 28 maggio 1909 fra muratori della cooperativa comunale e il

gruppo dei cementisti nasce la “Società anonima cooperativa fra gli operai, muratori

e cementisti del Comune di Ravenna”.

Il 28 giugno 1910, però, a causa di divergenze di natura politica e strategica, il

nucleo sociale originario si scisse, in un momento in cui la cooperativa era

avviatissima. Il 1910 segna l’inizio di una frattura all’interno della “Vecchia Cmc”,

per cui i soci, in maggioranza di parte repubblicana, costituiranno poi legalmente la

nuova cooperativa in modo definitivo nel 1915.

Di fatto fra il 1915 e il 1928 convissero due cooperative: la Vecchia e la Nuova.

Nonostante il progressivo consolidamento delle capacità produttive e

l’allargamento della base sociale, Cmc visse di riflesso difficoltà e problemi derivanti

dalla tragedia della guerra, dalla divisione del dopoguerra e, negli anni venti, dal

conflitto tra il fascismo e le organizzazioni del movimento operaio.

Nel 1928 avvenne l’autoritativa fusione delle due cooperative attraverso

l’incorporazione della “Vecchia” nella “Nuova”.

Ancor più dure furono, per la Cmc, le conseguenze della seconda guerra

61 MALUCELLI, R., op. cit., p. 106-107.

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mondiale: uomini mandati al fronte, cantieri, magazzini, laboratori ed uffici distrutti

dall’occupante tedesco. Anche le attrezzature fuori sede andarono perdute.

4. II fase: verso la costruzione dell’impresa industriale (1950-1972)

Già nel secondo dopoguerra Cmc era la più grande cooperativa di muratori

in Italia. Essa rappresentava materialmente, fisicamente - con il suo sviluppo e la sua

ricerca di novità tecnica e qualificazione nel lavoro - le istanze progressiste che dagli

anni delle leghe bracciantili, del sindacato nelle campagne, dello sviluppo

dell’industria, dell’antifascismo, della ricostruzione, avevano caratterizzato la classe

operaia italiana.

Nel corso degli anni cinquanta per tenere in piedi un organismo delle

dimensioni di Cmc non poteva bastare la solidarietà del territorio né l’orgoglio

professionale dei muratori e dei capicantiere. Occorreva intanto una consapevolezza

gestionale che sapesse, pur mantenendosi nell’ambito della solidarietà, imprimere

una nuova organizzazione alla struttura della cooperativa eliminando o diminuendo

in primis i contrasti esistenti all’interno del corpo sociale. Questi compiti furono

egregiamente assolti dalla decennale presidenza di Dario Dradi (1950-1960), stimato

capocantiere, che aveva partecipato alla cospirazione e alla lotta antifascista. Dradi

riuscì ad intrecciare con il repubblicano Alieto Giorgioni un dialogo che pose fine alle

più gravi lacerazioni tra i soci repubblicani e i soci comunisti.

L’obiettivo della piena occupazione, spiegabile nei primi anni post-

Liberazione, non era più percorribile negli anni cinquanta. Nel 1951 erano segnati nel

libro matricola di Cmc 1408 nominativi di operai; di questi 900/950 lavoravano a

turni, mentre per svolgere il volume di lavoro esistente sarebbero bastati 550 operai.

L’impegno di Cmc a far lavorare più persone del necessario anche se su più turni

finiva, secondo Dradi, per drogare il mercato del lavoro, per cui risultava che a

Ravenna non c’erano edili disoccupati e le imprese private ingaggiavano edili da

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fuori e quest’apparente mancanza di disoccupazione aveva l’effetto di allontanare da

Ravenna l’assegnazione di lavori pubblici62.

Fu molto difficile per Cmc uscire da questo modello di impresa di

“movimento” per diventare impresa “cooperativa”. Evidentemente una spinta verso

l’impresa venne dalla volontà dei vertici, dal Presidente Dradi al coordinatore della

direzione Giorgioni, ma fu soprattutto la capacità e la tenacia di tutti i soci di inserirsi

nello sviluppo economico che toccò il ravennate a rendere possibile la prima fase

della grande trasformazione che ha attraversato la storia di Cmc nell’ultimo

cinquantennio. Tale sviluppo di Ravenna fu infatti incredibile e investì tutti i settori

produttivi, dall’agricoltura all’industria al commercio e Cmc riuscì a mettere tutto ciò

a profitto inserendosi in tutti i settori in movimento.

Fu così che la diffusa ma persistente frammentazione dei lavori salvò Cmc

dal tracollo perché la cooperativa ai vertici era attraversata da forti conflitti e da

quasi insanabili lacerazioni. Se avesse dovuto affrontare grandi lavori e quindi

grandi investimenti in materiali e in salari con questa situazione al vertice non

sarebbe sicuramente andata lontano. La galassia di piccoli lavori, tutti gestiti grazie

alla professionalità di chi lavorava e dirigeva i piccoli cantieri, richiedeva ai vertici un

impegno gestionale meno diretto che poteva essere assicurato malgrado i conflitti e

quindi forse per questo la cooperativa si salvò.

Inoltre non è da sottovalutare il rafforzamento dei lavori nel Sud, che

divenne una sorta di laboratorio dove si progettava un’organizzazione migliore a

causa della scarsezza del personale.

Alla fine degli anni cinquanta rimaneva, infatti, da sciogliere il nodo della

scarsa efficienza dei lavori ravennati: l’insufficiente utilizzazione dei mezzi

disponibili, la non sempre tempestiva fornitura dei materiali da parte del magazzino,

l’insufficiente controllo della produzione. Tutte disfunzioni ben chiare sia al

62 SAPELLI, G.; ZAN, S., Costruire l’impresa: la cooperativa muratori e cementisti di Ravenna dal 1945

al 1972, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 47-48.

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Presidente Dradi così come al coordinatore della direzione Giorgioni. Il punto era

sempre il sovradimensionamento dell’occupazione rispetto alle reali necessità dei

cantieri. Ancora nel 1960 sull’altare dell’occupazione venivano perpetrate una gran

quantità di disfunzioni organizzative mentre non c’era alcun criterio tecnico

organizzativo nella scelta del personale.

Ma già all’inizio degli anni sessanta Cmc definì da un lato il proprio assetto

interno e dall’altro imboccò decisamente la strada dei grandi lavori per uscire da una

situazione di stallo ritenuta da tutti insoddisfacente. Sul piano istituzionale con

l’assunzione della Presidenza da parte di Giuseppe Gamberini venne definitivamente

approvato un nuovo Regolamento che fissava non solo i criteri generali per la

nomina dei dirigenti della cooperativa, ma anche le soluzioni concrete per risolvere

le vacanze di potere esistenti ai vertici e per dettare le linee di un adeguamento della

sua struttura operativa alle necessità del mercato.

A questi cambiamenti sul piano istituzionale tendenti a rafforzare i ruoli dei

vertici corrispose anche un rafforzamento dello staff tecnico con lo spostamento di

Ravaioli dai lavori del Sud alla sede ravennate, con il compito di collaborare con il

direttore tecnico. Si venne così a creare un felice connubio tra il direttore generale

Giorgioni molto equilibrato e il tecnico Ravaioli pieno di idee sull’industrializzazione

della cooperativa.

In effetti si realizzava così la convergenza di due esigenze: da un lato

Giorgioni voleva allargare il quadro operativo di Cmc per uscire dalla

frammentazione dei lavori che aveva caratterizzato la cooperativa nell’emergenza

degli anni cinquanta e dall’altro Ravaioli, forte dell’esperienza tecnica e

amministrativa maturata nel Mezzogiorno, voleva portare l’azienda al livello delle

grandi imprese nazionali che crescevano attorno al boom edilizio ed agli appalti dei

lavori pubblici.

“Quando sono tornato a Ravenna nel 1960 ho trovato la cooperativa che era

travagliata, il gruppo dirigente era vecchio, si erano un po’ seduti. Negli anni

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cinquanta, quando sono decollati i lavori autostradali, era cominciata l’Autostrada

del Sole, qua in azienda avevano deciso di non partecipare alle gare d’appalto. Sono

arrivato io e […] abbiamo cominciato a partecipare agli appalti per le opere

autostradali”63.

I vertici Cmc negli anni sessanta non si limitarono solo ad allargare

l’orizzonte operativo dell’azienda ma quando lo sviluppo tecnologico investì in

maniera massiccia anche l’edilizia, fu sentita immediatamente l’esigenza di

intensificare la specializzazione, la qualificazione professionale dei soci e dei quadri

tecnici, di adottare nuove tecnologie di costruzione. E’ infatti di quegli anni l’acquisto

di un brevetto svedese da usare per la costruzione di silos, piloni per autostrade e per

lavori industriali in genere, lo slipform.

Così Cmc negli anni sessanta cresceva sia a Ravenna sia sul piano nazionale

dove tornava a estendersi.

Novità di questi anni furono le costruzioni industriali ma il salto dei lavori

autostradali, iniziati nel 1965, rappresentò una delle tappe più importanti in tutta la

storia della cooperativa.

Con i lavori autostradali la cooperativa acquistò prestigio come impresa

costruttrice a livello nazionale con due opere di grande rilievo: il viadotto del

Gorsexio all’inizio dell’autostrada dei Trafori, che collega Voltri (Genova) con

Alessandria, e il ponte in ferro che attraversa la profonda gola creata dal torrente

Platano nei pressi della località di Buccino sul tratto autostradale Sicignano-Potenza,

che collega Potenza all’autostrada del Sole. Si trattava allora del terzo ponte in

Europa per importanza. La realizzazione del viadotto del Gorsexio ebbe gli onori

della cronaca internazionale.

Tutto questo comportò un cambiamento di rotta dal punto di vista degli

investimenti, che aumentavano, e dell’occupazione, che diminuiva. La politica della

“porta aperta” e del lavoro per il maggior numero di soci doveva coniugarsi con

63 Testimonianza di Edoardo Ravaioli citata da PEDROCCO, G., a cura di, 1901, 2001 Cmc cent’anni.

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l’efficienza aziendale grazie alla chiave di volta della specializzazione tecnologico-

lavorativa, incrementando la qualificazione dei soci e degli ausiliari e scommettendo

sul futuro, cioè pensando ad uno sviluppo a tutto campo non solo dell’edilizia, ma

anche dei grandi lavori pubblici e privati. L’obiettivo era anche quello di distribuire il

rischio, evitando di essere travolti da uno o dall’altro dei comparti nel caso di una

crisi. La repentina crisi dell’edilizia privata del 1964 e 1965 che rovinò molte aziende

edili provocò dei danni a Cmc ma, grazie a scelte dolorose, non ne mise in

discussione l’esistenza. Le scelte solidaristiche riapparvero e a Ravenna furono

assunti lavori in perdita per mantenere l’occupazione. Ma per la prima volta dopo la

Liberazione, per evitare il tracollo della cooperativa, vennero assunte anche decisioni

chiaramente traumatiche per la cooperativa come il licenziamento di circa duecento

ausiliari.

Quello che succede in Cmc intorno alla metà degli anni ‘60, e comunque

durante tutto il decennio, rappresenta la svolta più rilevante nella vita dell’azienda.

Si amplia la gamma delle tecnologie (silos, autostrade), cambiano i mercati e cambia

la logica e la modalità di presenza nel fuori sede. La Cmc si diversifica, si terziarizza,

e passa da impresa artigianale a impresa industriale.

Per quanto riguarda l’attività fuori sede, la vecchia struttura con uffici di

coordinamento fissi non si prestava più al controllo di una produzione sempre più

diffusa su tutto il territorio nazionale. Dall’inizio degli anni ‘60 la Cmc aveva

cominciato ad uscire dalle sue tradizionali aree geografiche di intervento seguendo il

lavoro là dove si presentava.

“La storia di Cmc negli anni sessanta fa parte ormai della memoria della

cooperazione. La svolta di quegli anni è il segno di un cambiamento e di un

ammodernamento del mondo della cooperazione; essa è talmente significativa che è

diventata paradigmatica all’interno della storia del movimento cooperativo”64.

Valerio Castronovo considera la svolta di Cmc come un modello di svolta a cui tutto

64 PEDROCCO, G., a cura di, 1901, 2001 Cmc cent’anni, p. 111.

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il movimento cooperativo ha in qualche modo fatto riferimento. Cmc seppe misurarsi

con i problemi dello sviluppo e dell’impresa: fu un confronto difficile all’inizio e

spedito una volta trovato un punto di equilibrio tra la propensione al cambiamento e

la profittabilità economica.

La struttura organizzativa di Cmc è stata fino al 1977 una struttura

funzionale accentrata, basata cioè sulla specializzazione di un certo numero di

funzioni operative di supposta pari importanza al fine delle responsabilità gestionali.

Questa struttura ha funzionato con un basso grado di formalizzazione nei rapporti

tra i ruoli e nei comportamenti organizzativi e ciò, finché la cooperativa è rimasta al

di sotto di una certa soglia dimensionale, ha consentito una certa snellezza

decisionale accompagnata da una buona trasparenza delle responsabilità.

Al di sotto di questo livello di soglia, la struttura funzionale ha consentito il

massimo di economicità nella gestione, grazie al principio della specializzazione.

Essa, tuttavia, opera bene in presenza di produzioni monoprodotto, di mercati statici,

di bassi tassi di crescita e di limitata diversificazione tecnologica, al di là dei quali

essa entra progressivamente in crisi.

Il modello tra struttura sociale e struttura operativa è il cosiddetto modello a

“clessidra”, dove gli organismi tecnici e quelli sociali hanno compiti e responsabilità

specifici secondo cui quelli sociali deliberano, controllano e delegano poi a loro volta

il compito di gestire realmente alla struttura operativa.

Il direttore generale, in questa fase, aveva costituito una sorta di testa tecnica

che imprimeva gli indirizzi all’azienda, se ne assumeva le responsabilità e ne andava

a discutere in Consiglio d’Amministrazione con l’obiettivo di farli approvare. Modus

operandi, quindi, del tutto opposto a quello praticato da una “normale” società

lucrativa ove è ovviamente il Consiglio di Amministrazione a dettare al Direttore

Generale e dagli organi tecnici le direttive aziendali.

“[…] in Cmc il direttore generale ha sempre dato gli indirizzi all’azienda, poi

il Consiglio d’Amministrazione li recepiva. Il Consiglio allora era formato

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esclusivamente da soci operai che avevano del gran buon senso; i consiglieri non

avevano delle capacità e delle idee imprenditoriali, non era un Consiglio di

Amministrazione che parlava di bilanci, erano degli operativi e anche il Presidente

era un uomo che veniva direttamente dalla base […] quindi il direttore doveva avere

la capacità di indirizzare la base”65. Era quindi necessaria una stretta collaborazione

tra la Direzione generale e la Presidenza, che era l’espressione più alta del corpo

sociale, per realizzare quelle mediazioni necessarie a far approvare le iniziative prese

dai vertici per permettere a Cmc di entrare con tempestività nel mercato dei lavori

infrastrutturali e industriali.

Schema 4.1 – Organigramma della Cmc al 31-12-1977

65 Testimonianza di Vittorio Morigi, attuale Direttore di Cmc, raccolta da PEDROCCO, G., op. cit., p.

179.

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5. III fase: l’espansione geografica (dal 1972)

La previsione di una flessione imminente delle commesse industriali e

autostradali, unitamente alla consapevolezza del patrimonio tecnologico e

professionale acquisito negli anni precedenti, accelerarono e resero matura l’esigenza

di una ridefinizione complessiva della strategia aziendale capace di prefigurare lo

sviluppo quantitativo e qualitativo della cooperativa al di là delle fluttuazioni

congiunturali del mercato e in un’ottica di medio-lungo periodo.

Nacque così nel 1972 il piano decennale di sviluppo della Cmc, la cui

elaborazione coinvolse in un vasto e intenso dibattito la base sociale e tutti i livelli

professionali della cooperativa, e che rappresentò la prima significativa esperienza di

programmazione a lungo termine nell’ambito del movimento cooperativo italiano. Il

piano ipotizzava un obiettivo di crescita dimensionale delle attività in grado di

garantire la continuità della presenza a Ravenna e in Romagna, incrementando il

fatturato e l’occupazione fuori sede, attraverso l’estensione delle aree geografiche di

presenza e la diversificazione delle capacità produttive nei diversi segmenti del

mercato delle costruzioni.

Quando le scelte assunsero carattere operativo determinarono una crescita

notevole delle dimensioni economico-imprenditoriali della Cmc che, nel 1975,

contava già un fatturato di circa 46 miliardi con 1300 milioni di utile ed oltre 2000

dipendenti tra i quali 1100 soci.

Alla fine del decennio, nel 1980, il giro d’affari era salito a 225 miliardi, l’utile

netto a 4,7 miliardi: i dipendenti erano 2888 e i soci 1700.

A partire dal 1974 nello scenario internazionale si verificano grandi

cambiamenti. Con la crisi petrolifera si bloccava il processo di crescita dei paesi

industriali, mentre l’economia internazionale si squilibrava a favore dei paesi

produttori di petrolio; cambiava anche l’assetto dell’economia italiana e il mercato

interno, edilizia compresa, subiva un pesante tracollo. Fu in questi anni che dalla

realtà produttiva del nostro paese emerse la cosiddetta “terza Italia”, quella delle

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piccole e medie imprese che grazie a tutta una serie di fattori, tra cui anche la

svalutazione della lira, riuscì a mantenere la visibilità e la competitività

dell’economia italiana. In questo scenario vanno collocate anche le grandi imprese

edili che, visto scemare il mercato nazionale, seppero collocarsi brillantemente in

quello internazionale soprattutto in Medio Oriente nell’area Opec, in Nigeria e nel

Terzo mondo. Le possibilità di sfondamento erano minori in Europa occidentale

perché in questi paesi c’era solo da recuperare il gap tecnologico che si era creato in

passato, e quindi le possibilità di penetrazione in quei mercati erano minime. Nel

corso degli anni settanta ci fu un vero e proprio boom dell’edilizia italiana all’estero.

Cmc non fu da meno e, sbarcando in Medio Oriente prima e in Africa poi, riuscì a

compensare con il portafoglio di ordini dell’estero il declino del mercato italiano.

Negli anni settanta oltre ad entrare nel mercato estero, Cmc imboccò con estrema

decisione la strada della diversificazione produttiva. Da un lato andò a coprire una

fase a monte del ciclo produttivo e dall’altro si inoltrò non solo in nuovi impianti

produttivi contigui all’edilizia, come la progettazione di edifici e di strutture, la

produzione di impianti ecologici e di ceramiche, ma sconfinò anche in spazi nuovi ed

insoliti. La diversificazione in più settori portò Cmc ad una dimensione e

configurazione di gruppo, di aggregato imprenditoriale. La Cmc stava completando

la sua trasformazione in una grande impresa edile polivalente.

L’ingresso nel mercato estero avvenne nel 1975 nell’ambito di una

partnership in Iran con una grande impresa privata per consolidarsi, a partire dal ‘78

in avanti, sia nella forma di attività diretta che attraverso consorzi o raggruppamenti.

Nel 1975 il know how della costruzione dei silos maturato in Italia consentì di

realizzare un consorzio con Cogefar al 60% e Cmc al 40% che stipulò un contratto con

il governo iraniano.

Nel 1977 Cmc sbarcò in Somalia, dove gli venne affidato l’incarico per la

costruzione di 120 Km di strada, e in Algeria, dove doveva costruire silos e mulini.

Sempre nel 1977 Cmc si assicurò, in consorzio con un’azienda del gruppo Iri,

la gara d’appalto della diga sul fiume Great Ruaha in Tanzania.

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Negli anni ‘80 ha operato soprattutto in Africa nella costruzione di silos e

complessi molitori per cereali (Algeria) strade (Somalia, Tanzania, Costa d’Avorio e

Burkina Faso) e dighe (Mozambico, Botswana, Zimbabwe, Tanzania, Algeria). Verso

la fine degli anni ‘80 ha arricchito la sua attività all’estero con nuove e più complesse

specializzazioni nel campo dei lavori in sotterraneo e delle opere idrauliche,

estendendo inoltre la sua attività alle aree dell’Estremo Oriente. Infine vanta una

presenza più che ventennale in Mozambico. All’inizio del 1980 il direttore generale

Ravaioli, intervistato dalla rivista “mondo economico”, allora il settimanale

economico più importante del nostro paese, da un lato si compiaceva per aver

portato in Cmc un portafoglio di ordini di ben 160 miliardi, ma dall’altro lato non si

nascondeva le difficoltà esistenti per tenere questo tipo di mercato dove c’erano

concorrenze antiche dei grandi paesi industriali, dagli USA all’Inghilterra, dalla

Francia alla Germania, alcuni facilitati perché si muovevano all’interno delle loro ex

colonie e quindi su un terreno che conoscevano molto meglio delle concorrenti.

C’erano poi ulteriori concorrenze provenienti da imprese giovani ed aggressive della

Corea del Sud, dell’India e della Jugoslavia, mentre anche a livello locale stavano

nascendo delle nuove imprese edili anch’esse in concorrenza con chi veniva da fuori.

Negli anni più recenti Cmc ha aumentato la sua capacità di realizzare opere

tecnologicamente molto complesse nel settore sotterraneo (metropolitana a Milano,

ferrovie per treni ad Alta Velocità, impianti idroelettrici nelle Filippine, un sifone

sotto il Canale di Suez in Egitto, tunnel e viadotti autostradali a Taiwan e oltre 100

Km di tunnel idraulici nella Repubblica Popolare Cinese) e nel settore edile (nuovi

edifici per la Fiera di Milano, Centro Agroalimentare di Torino, Centro Conferenze

dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ad Addis Abeba, Etiopia, hotel a cinque

stelle ad Asmara, Eritrea).

Ha realizzato alcune di tali opere con formule contrattuali che prevedono

l’impegno dell’appaltatore sull’intero ciclo di realizzazione dell’opera, dalla

progettazione alla organizzazione del finanziamento alla messa in funzione.

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Negli anni settanta Cmc era diventata un’impresa che aveva conquistato un

posto di rilievo nel comparto dell’edilizia nazionale ed era entrata nel difficile ma

redditizio mercato internazionale. Parallelamente iniziavano a provenire, sia dai

vertici politici sia dalla base sociale della sinistra, sollecitazioni a dare spazio ad

istanze di decentramento del potere direzionale e a forme di autogestione. Furono

anni di grande dibattito sul rinnovamento della cultura cooperativa con

l’introduzione di strumenti di partecipazione adeguati alla nuova realtà dell’impresa,

anni quindi di grande sviluppo sia imprenditoriale che sociale.

Per tutti gli anni settanta ci fu una sorta di dicotomia tra i vertici tecnici, volti

a potenziare le valenze imprenditoriali della cooperativa e i vertici politici che

cercavano di coinvolgere e di promuovere la partecipazione dei soci alle decisioni

dell’impresa. In anni in cui Cmc conobbe un’espansione senza precedenti, i ruoli del

direttore e dei suoi collaboratori più stretti diventavano centrali per sviluppare i

risultati aziendali e il rapporto dei vertici tecnici col corpo sociale, che con la sua

reattività partecipava alla riuscita dei singoli lavori, era ben presente all’attenzione

del direttore generale che considerava importantissima e decisiva la mobilitazione

del corpo sociale sugli obiettivi della cooperativa.

“La partecipazione del corpo sociale alle vicende dell’azienda è stato il

problema che più mi ha coinvolto negli anni della mia presenza al Consiglio. Con

l’aumento delle dimensioni della cooperativa andava affievolendosi la

partecipazione sociale. Con grande impegno dal 1973 al 1980 mi sono adoperato

perché allo sviluppo aziendale corrispondesse un adeguato sviluppo della

partecipazione sociale”66.

Negli anni settanta i soci erano più di un migliaio. Le assemblee per grandi

zone non riscuotevano grande interesse per la frammentazione e l’eterogeneità, a

questo punto venne rivalutata l’unità di base, il cantiere, dove accanto

66 Testimonianza di Aurelio Piccinini, in quel periodo Presidente di Cmc, raccolta da PEDROCCO, G.,

op. cit., p. 179.

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all’aggregazione sociale dovuta allo stesso impegno lavorativo si poteva collegare

meglio il discorso sulle scelte generali della Cmc e sui criteri che erano alla base di

queste scelte. I risultati di partecipazione alle assemblee di cantiere furono

lusinghiere.

“Grazie a questo nuovo indirizzo le discussioni di programmazione, di

budget e di prospettive annuali ed anche dei consuntivi, investivano l’80/90 % di

tutta la base, mentre in precedenza alle assemblee zonali partecipava sì e no il 50

%”67.

Ma non si trattava solo di far partecipare i soci alle assemblee, si trattava

anche di far circolare le informazioni perché l’insieme del corpo sociale potesse

arrivare a contribuire alla formazione delle decisioni.

Si arrivò addirittura a promuovere un nuovo organismo, un Consiglio dei

Delegati, che raggruppava i dirigenti dei vari settori, i consiglieri e i delegati di base,

che in qualche modo servisse a stabilire in forma istituzionale questa circolarità delle

informazioni tra vertici e corpo sociale, tra apparati tecnici e cantieri.

Queste forme istituzionali dovevano accompagnare in modo meno

traumatico possibile la trasformazione dell’azienda, Cmc allora era in una fase di

transizione, era ancora una grossa azienda con un’ampia dimensione sociale, radicata

sul territorio, ma aveva anche le dimensioni e le caratteristiche di un’azienda

moderna che operava su tutto il territorio nazionale ed in certe aree estere. Si trattava

di trovare degli equilibri che non sempre era facile mantenere, perché spesso le

decisioni e le scelte di indirizzo dovevano essere prese con grande tempestività.

Una parte degli stessi dirigenti e tecnici, che operava all’interno dello staff

tecnico della direzione generale, che in quegli anni si stava allargando, riteneva che

Cmc, dopo l’espansione del lavoro all’estero, non potesse più essere diretta da una

struttura funzionale accentrata che era tipica di un’azienda di medie dimensioni,

come era stata Cmc negli anni sessanta, ma bensì questa venisse rimpiazzata da una

67 Ibidem.

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struttura divisionale decentrata, più adatta a seguire gli sviluppi di un’azienda che si

stava ingrandendo.

Alla fine degli anni settanta si aprì un confronto sia all’interno di Cmc sia

negli organismi provinciali politici e sindacali, dove si scontrarono tre diverse

concezioni sul modo di governare un’impresa cooperativa: una basata

sull’autogestione tendente ad individuare anche nuovi organismi che riuscissero a

sopportare questa pratica, la seconda che attribuì notevole peso al ruolo dei tecnici,

ed in particolare del direttore generale, e infine una terza ipotesi che spingeva verso

il decentramento delle funzioni direttive. Il dibattito fu molto acceso e vi fu

sostanzialmente una convergenza tra chi voleva l’autogestione e chi voleva il

decentramento, per cui venne messa in discussione la figura e la persona stessa del

direttore generale che uscì ben presto di scena.

Il cambiamento ebbe però molti strascichi il cui effetto più visibile fu

l’accentuazione della mobilità ai vertici e fra i quadri intermedi dell’azienda. In

pochissimo tempo, oltre ad andarsene operai e tecnici esperti allettati da migliori

stipendi offerti altrove o da posti di lavoro con minore mobilità, se ne andarono

anche dirigenti di rilievo.

Nei primi anni ottanta, malgrado queste oscillazioni al vertice e nella

sistemazione delle competenze gestionali, Cmc continuava ad allargare le proprie

attività ed i bilanci continuavano ad essere favorevoli.

La soluzione organizzativa che si è deciso di mettere progressivamente a

punto in questa fase è, come accennato, la struttura divisionale decentrata:

identificati i settori produttivi nei quali si intendono scomporre le attività aziendali,

si assegnano ai responsabili di questi settori obiettivi non solo tecnici, ma generali (di

redditività, organizzativi, di gestione del personale, di controllo, ecc..). In tal modo

viene delegata alla linea la gestione preventiva e la corrispondente responsabilità sui

risultati concordati preventivamente con la Direzione. Naturalmente ciò presuppone

che alla linea vengano assegnate le risorse necessarie a far fronte ai suoi nuovi

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compiti e vengano inoltre esplicitati i vincoli entro i quali si deve sviluppare la sua

azione.

Agli staff centrali vengono assegnati viceversa compiti di elaborazione di

strategie; di pianificazione ed organizzazione delle risorse nel lungo termine; di

orientamento delle linee e di controllo dei risultati gestionali da esse ottenuti; di

assistenza alle linee per i problemi più specialistici e di mantenimento del know how

aziendale nei campi di loro pertinenza.

In termini sintetici gli staff hanno il compito di gestire i vincoli entro i quali

deve potersi sviluppare l’attività produttiva delle linee. L’azione degli staff è tesa a

garantire l’unitarietà della gestione socio-economica dell’azienda e la coerenza tra

obiettivi e risorse. Conseguentemente alla polarizzazione delle responsabilità

operative intorno alle linee si rende necessaria la decentralizzazione.

Questa struttura tende ad affiancare momento sociale e momento aziendale,

rendendo possibile da un lato che l’informazione circoli con rapidità e completezza

fra le due strutture al momento stesso della formulazione delle tematiche da

affrontare, dall’altra un lavoro collegiale, un rapporto paritetico nella definizione

delle scelte operative aziendali.

L’autogestione si configura in questa visione come un momento

organizzativo e democratico di elaborazione e di espressione della volontà della base

sociale, volontà che ha bisogno di una struttura operativa per estrinsecarsi.

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6. IV fase: dalla ristrutturazione degli anni ‘90 ai giorni nostri

Tra il 1992 e il 1996 Cmc è attraversata da una crisi determinata dal tracollo

del mercato dei lavori pubblici. Infatti la necessità di risanare il bilancio dello stato

dopo gli sprechi degli anni ottanta ebbe come conseguenza il blocco degli appalti nei

lavori pubblici. A questa stretta si sono aggiunti i fatti di Tangentopoli che hanno

provocato una vera e propria paralisi del mercato edilizio.

A questo punto Cmc si è trovata intrappolata su dimensioni di organico al di

sopra delle necessità. Gli ammortizzatori sociali a disposizione, cassa integrazione e

contratti di solidarietà e lavoro, non sono stati sufficienti per superare la crisi. Inoltre

erano stati avviati in quegli anni interventi di ristrutturazione basati sul

decentramento produttivo senza però riorganizzare il lavoro e l’organico nella

struttura centrale.

Si aprì un dibattito molto intenso che si chiuse nel 1997 con un forte

ridimensionamento dell’organico di Cmc.

Tra il 1994 e il 1997 Cmc ha portato a termine un piano di emergenza che ha

ristrutturato la presenza dell’azienda, alienando immobili inutili, dismettendo società

considerate ugualmente non necessarie ed ha concentrato l’azienda sul core business

delle costruzioni in Italia e all’estero.

Ma l’operazione più importante, di rilievo non solo finanziario ma anche

politico, è stata il coinvolgimento dei soci nel capitale. Ad ogni socio è stato chiesto

un impegno finanziario che andava al di là della quota associativa.

“In Cmc in questi anni di crisi abbiamo lanciato diverse campagne di

capitalizzazione dell’azienda, alle quali i soci e i dipendenti hanno aderito con

grande senso di responsabilità. Cresce in questo modo il senso di appartenenza del

socio che vuol capire come va la sua azienda, che vuole entrare nel merito e

comprendere l’entità dei problemi. Consideriamo che un lavoratore, con un

guadagno di 25/30 milioni all’anno, che ha mediamente 35/40 milioni impegnati nel

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capitale sociale dell’azienda, non può non seguire l’andamento dell’azienda, […].”68

Dopo la pesante ristrutturazione degli anni novanta, Cmc sta affrontando il

proprio consolidamento nei mercati nazionali ed esteri, che ha già portato a

consistenti risultati.

Le dimensioni raggiunte e le capacità realizzative, progettuali e gestionali

conseguite collocano oggi Cmc stabilmente tra le maggiori imprese italiane del

settore, rendendola inoltre la più grande cooperativa in ambito europeo nel settore

delle costruzioni civili.

Le prospettive per il futuro sono molto promettenti. Alla fine del 2003 il

portafoglio ordini, principalmente per effetto dell’acquisizione del primo Maxi Lotto

dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria per un valore di 445 milioni di euro,

raggiunge livelli mai toccati negli anni precedenti.

Il 7 luglio 2000 Cmc ha ufficialmente ottenuto la certificazione di sistema

qualità in accordo con la norma UNI EN ISO 9001, relativamente alla progettazione e

costruzione di opere civili, idrauliche e infrastrutturali, che attesta la capacità

dell’impresa di fornire garanzie preventive ai clienti circa la propria affidabilità nel

soddisfare le loro aspettative ed esigenze.

Nell’ottobre 2001, Cmc ha ottenuto l’estensione della certificazione alle

attività all’estero e più recentemente, nel luglio 2003, il riconoscimento del

recepimento dei principali cambiamenti imposti dall’edizione 2000 delle norme UNI

EN ISO 9001.

La riforma del diritto societario, come è noto, ha previsto una distinzione tra

le cooperative a mutualità prevalente, uniche destinatarie delle agevolazioni

tributarie, e le cooperative diverse.

68 Testimonianza di Massimo Matteucci, Presidente di Cmc, raccolta da PEDROCCO, G., op. cit., p.

190.

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L’elemento distintivo risiede nella prevalenza dell’attività con i soci rispetto

all’attività con i terzi, e ciò nel senso che gli scambi mutualistici con i soci devono

essere prevalenti rispetto agli scambi con i non soci.

In una cooperativa di lavoro, come è Cmc, la prevalenza è calcolata in base al

rapporto tra il costo del lavoro dei soci, ristorni compresi, ed il costo del lavoro totale,

e cioè di tutti i dipendenti assunti direttamente a libro paga. In altre parole, si terrà

conto unicamente del personale impegnato nelle attività dirette della cooperativa e

non anche del personale assunto presso società di scopo.

L’entrata in vigore delle nuove disposizioni sulle cooperative è fissata al 31

dicembre 2004 (art. 223-duodecies disp. att. cod. civ.).

Le previsioni di Cmc sono nel senso di poter rispettare il principio di

prevalenza solamente per un breve periodo (forse un paio di anni) mentre

successivamente la natura dei lavori di acquisizione e gestione probabilmente la

faranno ricadere fra i “non prevalenti”. Nei prossimi anni, infatti, saranno portati a

termine alcuni grossi lavori realizzati tramite società di scopo mentre entreranno in

attività cantieri di notevole dimensione realizzati direttamente dalla cooperativa, così

da determinare la modificazione del rapporto.

Attualmente la struttura di governo della cooperativa e la struttura

organizzativa sono costituite come segue.

Il Consiglio di Amministrazione è formato da 11 membri (nove soci

cooperatori e due soci sovventori), eletti ogni tre anni dall’Assemblea dei soci.

Attualmente ne è Presidente Massimo Matteucci.

La Direzione Generale per la conduzione dell’azienda si avvale di tre

Direzioni di staff, Direzione Promozione e Sviluppo, Direzione Amministrazione

Finanza e Controllo, Direzione del Personale; e di due Divisioni Produttive,

Divisione Costruzioni Italia per le attività svolte sul territorio nazionale e Divisione

Costruzioni Estero a cui sono affidati i mercati oltre confine.

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E’ operante come strumento di sintesi del processo direzionale un Comitato

di Direzione, presieduto dal Direttore Generale, a cui partecipano i Direttori di ogni

Direzione e Divisione e il Presidente, come invitato permanente.

Le società che costituiscono il gruppo Cmc sono, per oltre l’80%, società di

scopo costituite per la realizzazione di opere edili in Italia e all’estero, e destinate ad

essere liquidate al termine dei loro lavori o, in ogni caso, ad operare in via stabile nel

settore delle costruzioni; le società rimanenti, a parte una realtà operante nel settore

turistico avviata ad esaurimento, appartengono a settori economico - immobiliari,

produzione di materiali inerti per l’edilizia, prefabbricazione – adiacenti a quello

dell’edilizia.

La società Immobiliare Spa è interamente posseduta dal gruppo Cmc; la GED

è detenuta al 50% in compartecipazione con il gruppo RDB di Piacenza; la SIC è

detenuta all’85%.

Dal punto di vista organizzativo la struttura del gruppo si presenta come

segue:

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Schema 4.2 – Organigramma Cmc al 31-12-2003.

Presidenza

Direzione Generale

Consiglio di

Amministrazione

Divisione Costruzioni

Italia

Direzione

Promozione e

Sviluppo

Assistenza alla

Direzione Generale

Servizio

Approvv.tiUfficio Legale

Divisione Costruzioni

Estero

Direzione

Personale e

Organizzazione

Direzione

Amm.ne Finanza

Controllo e Sistemi

Immobiliare SpAG.E.D. Srl S.I.C. SpA

Comitato di

Direzione

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7. Alcuni dati sui soci cooperatori

Agli inizi degli anni ’90, i soci cooperatori erano più di mille, nel 1994 si

erano già ridotti a 570 unità ed oggi ammontano a circa 350. Questo

ridimensionamento, avvenuto in un arco di tempo ristretto e come diretta

conseguenza del blocco del turnover imposto sia dai processi di razionalizzazione e

recupero di efficienza che negli anni ’90 hanno interessato l’intero sistema delle

imprese, sia dalle difficoltà gestionali registrate dalla cooperativa nella parte centrale

dello stesso decennio, ha comportato un rallentamento dei naturali meccanismi di

ricambio generazionale.

Tab. 4.4 – Soci cooperatori per età anagrafica.

Attualmente dei 353 soci, 4 hanno meno di trent’anni e 78 hanno un’età

compresa tra i 31 e i 40 anni; la maggioranza dei soci, 188 pari al 53,3%, compone la

fascia di età fra i 41 e i 50 anni, mentre il 23,5% ha già superato i cinquant’anni; l’età

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media, pari a 46 anni nel 2000 ed a 46,4 anni nel 2001, è scesa a 45,8 anni a fine 2002.

Tab. 4.5 – Soci cooperatori per anzianità aziendale e anzianità sociale.

Anche in termini di anzianità aziendale, il 71,4% dei soci lavora in Cmc da

più di 21 anni. E’ comunque significativo, ai fini della ripresa di un ricambio interno,

che una ottantina di soci, pari al 22,7% della base, siano stati ammessi da meno di

cinque anni.

Un altro dato rilevante riguarda l’articolazione dei soci cooperatori per titolo

di studio che riflette i cambiamenti avvenuti in termini di innalzamento progressivo

del livello di scolarizzazione.

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Tab. 4.6 – Soci cooperatori per titolo di studio al 31-12-2002.

Il dato di genere mostra come le donne rappresentino il 10% della compagine

sociale e siano in netta prevalenza impiegate (86%); una sola è dirigente. Il quadro

riflette la realtà di un settore produttivo storicamente refrattario alla presenza

femminile; i processi di terziarizzazione in atto dovrebbero in parte stemperare

questa situazione già a partire dai prossimi anni.

L’articolazione dei soci per inquadramento professionale evidenzia un dato

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interessante. Anche se negli ultimi anni, per la prima volta nella storia della

cooperativa, è avvenuto il sorpasso delle qualifiche impiegatizie su quelle operaie,

conseguenza delle trasformazioni che l’impresa ha dovuto affrontare per adeguarsi

all’evoluzione del mercato e del settore economico di riferimento, la percentuale di

soci operai continua ad essere ragguardevole, essendo costoro 151 su 353, e cioè

quasi la metà.

Tab. 4.7 – Soci cooperatori per sesso e qualifica professionale.

E’ significativo il fatto che su un organico fisso di circa 500 dipendenti oltre

350, e dunque circa il 70%, sono soci cooperatori (Tab. 4.8). Questo dato differenzia in

maniera netta la struttura di questa cooperativa rispetto ad una società lucrativa di

analoghe dimensioni , il cui capitale sociale, generalmente, risulta frazionato tra una

miriade di piccoli investitori, o, all’opposto, sostanzialmente concentrato nelle mani

di un’unica famiglia, nell’uno e nell’altro caso senza alcun reale coinvolgimento dei

lavoratori nei processi decisionali dell’impresa.

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Tab. 4.8 – Rapporto soci cooperatori sul totale delle risorse umane.

Tab. 4.9 – Soci cooperatori per località di nascita e residenza al 31-12-2002.

A testimonianza dello storico radicamento territoriale, si può notare, inoltre,

come l’80,5% dei soci risieda nel Comune o nella Provincia di Ravenna.

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Tab. 4.10 – Alcuni dati quantitativi69.

FASE SOCI

(cooperatori e

pensionati)

LAVORATORI

(non soci)

FATTURATO UTILE

NETTO

Le origini

1901

57

8

12.429

1908 224 326 339.642

1928 3.828.298 79.020

1944 11.882.994 248.205

L’impresa

industriale

1960 733 1082 3,5 miliardi

1965 933 1063 7,6 miliardi

1970 1030 570 14 miliardi

1972 1030 726 16,3 miliardi

L’espansione

1973

1111

878

21,1 miliardi

1975 1100 900 46 miliardi 1.300 milioni

1977 1385 1515 70,2 miliardi

1980 1700 1100 225 miliardi 4,7 miliardi

1985 2000 800 416,5 miliardi 12,5 miliardi

1989 1835 613 500 miliardi 3,7 miliardi

1993 1488 523 480 miliardi -4,5 miliardi

1995 1422 579 516,1 miliardi 275 milioni

Oggi

2000

1173

128

340 milioni di euro

3,7 milioni di euro

2002 1144 135 350 milioni di euro

7,1 milioni di euro

2003 1126 148 410,2 milioni di euro

10 milioni di euro

69

I valori sono indicati in lire fino all’anno 1995; dall’anno 200 l’indicazione è in euro.

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8. Evoluzione della cooperativa.

Per commentare i cambiamenti avvenuti in più di un secolo di vita della Cmc

sarà utile servirsi delle tabelle e degli schemi presentati nel terzo capitolo.

Nella prima fase individuata in questo lavoro, che comprende un arco di

tempo che va dalla fondazione della cooperativa (1901) al secondo dopoguerra, si

ritrovano tutte le variabili strategiche descritte da Scott nel suo modello

strategia\struttura.

Tab. 4.11 - Le relazioni tra strategia e struttura secondo Scott.

Stadio I Stadio II Stadio III

Variabili

strategiche

- unica linea di prodotto a limitata ampiezza - mercato geografico circoscritto - unico canale distributivo - processi produttivi scarsamente integrati - limitato investimento in ricerca e sviluppo

- una linea di prodotto - più mercati geografici/segmenti - più canali di distribuzione - processi produttivi integrati verticalmente - forte investimento in ricerca e sviluppo

- più linee di prodotti - molteplici mercati - molteplici canali

Variabili organizzative

- struttura

elementare - struttura

funzionale - struttura

divisionale

Il prodotto è rappresentato dall’attività di costruzioni ed in piccola parte da

attività di bonifica. Il mercato geografico è, fondamentalmente, il ravennate. Per la

verità sono presenti cantieri anche nel resto della penisola, soprattutto al sud, ma il

mercato principale è Ravenna e la Romagna in generale.

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La struttura è indubbiamente elementare, rapporti faccia a faccia e

padronanza di tutti sulle varie fasi del processo produttivo.

Nella seconda fase, dal secondo dopoguerra alla metà degli anni settanta, la

cooperativa è diretta da una struttura funzionale. Già all’inizio degli anni quaranta

emergono le diverse valenze operative della Cmc costituite da specializzazione e,

insieme, da diversificazione dei lavori. Cmc è in grado di far fronte a qualsiasi tipo di

commessa: edifici per le più svariate destinazioni; opere di bonifica; lavori pubblici.

A tutto ciò si aggiungono nel ’65 i lavori autostradali. Iniziano anche gli investimenti

in innovazioni tecnologiche con l’acquisizione del brevetto svedese, slip-form, e gli

investimenti in attrezzature. Si modifica la presenza nel fuori sede.

La terza fase di Scott corrisponde alla terza e quarta fase della Cmc. Verso la

metà degli anni settanta la Cmc entra nel mercato estero, diversifica la produzione,

utilizza più canali distributivi; rinnova anche la propria struttura adottandone una

divisionale.

Nel modello di Greiner70 a periodi di crescita si succedono crisi aziendali

(tab. 4.12).

70 GREINER, L., op. cit..

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Tab. 4.12 - Caratteristiche organizzative durante i cinque stadi del ciclo di

vita delle organizzazioni per Greiner.

Strumento Fase 1 Fase 2 Fase 3 Fase 4 Fase 5

Obiettivi Produrre e vendere

Efficacia Ampliamento del mercato

Consolidare l’organizzazione

Innovazione

Struttura Senza formalità

Accentrata e funzionale

Decentrata e geografica

Sistema organico

Team based

Stile

dell’alta

direzione

Individualistico e imprenditoriale

Autoritario

Propenso a delegare

Cane da guardia

Favorevole alla partecipazione

Sistema

di

controllo

Risultati di mercato

Norme di lavoro e centri di costo

Relazioni e centri di rendimento

Pianificazione e centri di investimento

Obiettivi comuni

Riconosci

menti

Proprietà Aumenti per merito

Gratifiche individuali

Profith-sharing e stock option

Gratifiche di team

Nella prima fase di vita della Cmc il focus strategico è la produzione e la

vendita, la struttura è informale, il sistema di controllo è rappresentato dai risultati di

mercato.

Per quanto concerne la leardership un evento eccezionale caratterizza la fase

iniziale di vita della Cmc e ne condiziona la successiva.

Nel ’29, avvenuta l’unificazione forzata ad opera del fascismo delle due

cooperative, l’ex dirigente della “Nuova” cooperativa, Prometeo Balducci, diventa

presidente e direttore per oltre venti anni della Cmc. Le due componenti principali

dell’azienda, cioè quella tecnico-amministrativa e quella sociale, si unificano,

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dunque, al vertice aziendale nella carica del presidente-direttore. Durante questi anni

le decisioni sono riservate ai vertici, mentre le assemblee sociali devono solo

ratificare le decisioni prese.

Tab. 4.13 - Stadi di sviluppo del ciclo di vita per Greiner

Al termine di questo periodo, con la fine del fascismo e l’allontanamento di

Balducci, si verifica una vera e propria vacanza o crisi di leadership.

“Dopo anni di sottomissione e silenzio il socio si sente nuovamente sovrano,

ma […] 800 sovrani insieme fanno fatica a convivere all’interno di

un’organizzazione…”71.

La riattivazione di forme di partecipazione interna e canali di comunicazione

fra base sociale e vertice, da una parte, e il conseguimento dell’efficienza, dall’altro,

permettono il superamento della crisi e consentono lo sviluppo della seconda fase, al

71 SAPELLI, G., ZAN, Z., op. cit., p. 87.

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termine della quale la Cmc affronta una nuova crisi che nasce dall’incompatibilità tra

le dimensioni raggiunte e la struttura esistente.

Affronta, quindi, la terza fase del suo sviluppo dando spazio alle istanze di

decentramento del potere direzionale e a forme di autogestione. La Cmc, cosa non

facile per una cooperativa che ha raggiunto tali dimensioni, è riuscita a non

trascurare lo sviluppo di una gestione partecipativa, dimostrando che l’essere

cooperativa è una prerogativa irrinunciabile.

I sistemi di riconoscimento proposti da Greiner per spiegare l’evoluzione di

una impresa capitalistica non hanno senso parlando di società cooperativa.

Verso l’inizio degli anni novanta, infine, la Cmc si trova in una nuova

situazione di crisi dovuta agli scandali di tangentopoli e determinata dalla più

generale crisi del mercato. Ma riesce a superare anche questa prova ristrutturando

l’azienda e consolidando la propria presenza nei mercati principali.

I modelli proposti da Meister e da Zan risultano i più utili poiché nascono

per spiegare l’evoluzione di società cooperative.

Quella che Meister chiama fase della conquista e Zan fase della difesa ha

tutte le caratteristiche della fase iniziale della Cmc: entusiasmo dei membri,

democrazia diretta, attività produttiva semplice e quantitativamente contenuta,

scarsa differenziazione nel sistema sociale, clima organizzativo il cui elemento

distintivo è affermare l’esistenza dell’impresa sul mercato. Per di più fino alla svolta

degli anni sessanta, non è possibile parlare di una strategia esplicita e consapevole

della Cmc che non si identifichi con la pura e semplice sopravvivenza della

cooperativa.

Così come viene teorizzato da Zan nella prima fase del suo modello, a questi

livelli l’autogestione non è un problema perché si realizza meccanicamente.

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Tab. 4.14 - Le fasi di sviluppo delle imprese cooperative per Zan72.

Fase I Fase II Fase III

- entusiasmo collettivo - democrazia diretta - semplicità organizzativa - solidarietà meccanica - chiusura all’interno - unione di debolezze - rifiuto del mercato - cultura della lotta

- prima riuscita politico-economica - aumento dimensioni e complessità - democrazia delegata - crisi della solidarietà - apertura base sociale - accettazione del mercato - evidenziazione delle contraddizioni - cultura del mercato

- consolidamento economico - razionalizzazione organizzativa - formalizzazione - solidarietà organica - soluzione delle contraddizioni - apertura all’esterno - rilevanza “problema specifico“: � innovazione � degenerazione - cultura dell’affermazione sul mercato

Fase della difesa Fase del

consolidamento

Fase industriale

Nella seconda fase, corrispondente alla fase del consolidamento di Meister e

Zan, nella cooperativa avviene l’inserimento di tecnici e laureati, si avviano processi

di informatizzazione, si presta una sempre maggiore attenzione alle procedure

contabili, di programmazione e budgetizzazione. Possiamo parlare di un

riorientamento della Business Idea. Negli anni sessanta la Cmc diventa impresa,

cooperativa, di costruzioni mentre fino ad allora era stata una grande associazione di

muratori preoccupata solo di garantire occupazione ai propri soci ed ausiliari.

Tutto ciò ha come conseguenza una minore tensione ideale alla lotta e un

aumento di formalizzazione della struttura. L’autogestione risulta più difficile. Ma, al

contrario di ciò che afferma Meister, l’indifferenza non compare.

La terza fase di Zan corrisponde alla terza e quarta della Cmc che riesce a

72 ZAN, S., op. cit. p. 242.

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superare le contraddizioni sorte nella fase precedente, rinnovandosi e risolvendo il

problema partecipativo.

La Cmc ha, infatti, incontrato il bivio innovazione\degenerazione. Verso la

fine degli anni settanta, la crescita dimensionale dell’azienda, il suo frazionamento in

tanti momenti produttivi lontani anche geograficamente aveva messo in crisi il

rapporto tra struttura gestionale e struttura sociale. La cooperativa, quindi, davanti a

questo problema è riuscita a trovare nuove soluzioni di coinvolgimento della base

sociale (rivalutazione del cantiere, nascita del Consiglio dei Delegati) che cominciava

a sentirsi dimenticata dai vertici aziendali.

Nella quarta fase di Cmc il termine “Cultura dell’affermazione sul mercato”

è decisamente adatto considerato che l’obiettivo è il consolidamento nei mercati

strategici.

La visione di Meister della scomparsa dell’impresa cooperativa in seguito

all’adozione dei metodi capitalistici e alla perdita delle peculiarità cooperative non si

adatta minimamente alla Cmc che ancora oggi è orgogliosamente portatrice dei

valori e degli ideali solidaristici.

Certamente le sue dimensioni e la necessità di essere competitiva in un

mercato sempre più ampio e con sempre maggiori difficoltà di sopravvivenza ha reso

indispensabile l’adozione di “metodi capitalistici”. Ma tale fatto non ha cancellato gli

ideali cooperativi e la cultura della Cmc.

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Tab. 4.15 - Le fasi del ciclo di vita cooperativo per Meister73.

Fase I Fase II Fase III Fase IV

Entusiasmo e speranza dei membri

L’idealismo lascia il posto all’indifferenza

Subordinazione all’ambiente esterno anche sul piano dei valori

La complessità economica e gestionale impone massima specializzazione

Scarsa differenziazione nel sistema sociale

Differenziazione dei ruoli

Amministratori e managers detengono il vero potere

Democrazia diretta e marcato assemblearismo

Si rafforza il potere dei gruppi dirigenti

Né i soci né i loro rappresentanti delegati, di fatto, riescono ad esercitare un controllo

Indifferenziazione degli organi

Differenziazione degli organi

Volontariato nelle cariche e nelle responsabilità

Compare la delega Allargamento della delega

Accentramento delle informazioni nelle mani degli esperti

Gestione economica approssimativa con bassi livelli di efficienza

Si affaccia l’attenzione alle questioni economiche

Adozione in toto dei metodi prima definiti come capitalistici

Risultati notevolmente inferiori alle attese

Fase della

conquista

Fase del

consolidamento

Fase della

coesistenza

Fase del potere

degli

amministratori

73 BATTAGLIA, F., L’organizzazione nelle cooperative, Edizioni Pigreco, Roma, 2004, p. 53.

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Il ciclo di vita della Cmc potrebbe perciò essere sintetizzato nei termini di cui

alla tabella che segue:

Tab. 4.16 – Le fasi del ciclo di vita cooperativo di Cmc

Fase I Fase II Fase III Fase IV entusiasmo dei membri

scarsa differenziazione nel sistema sociale

differenziazione dei ruoli

formalizzazione

democrazia diretta democrazia delegata estensione della delega

cultura della sopravvivenza

cultura del consolidamento

attività semplice specializzazione tecnologico-lavorativa

specializzazione

prodotti semplici e quantità contenuta

entrata in nuovi segmenti produttivi

diversificazione produttiva

consolidamento nel core business

solidarietà meccanica

crisi di solidarietà solidarietà organica

mercato geografico circoscritto

cambiamento della modalità di presenza nel fuori sede

molteplici mercati geografici

consolidamento nei mercati geografici strategici

struttura elementare struttura funzionale struttura divisionale decentrata

struttura divisionale decentrata

Le origini L’impresa

industriale

L’espansione

geografica

Oggi

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Cmc nasce più di un secolo fa. Allora aveva 65 lavoratori tra soci e ausiliari e

un fatturato di 12.429 lire; oggi ha oltre 5.500 lavoratori ed un fatturato che supera i

400 milioni di euro. Ha sedi dislocate in tutta la penisola e all’estero in Africa e in

Asia. Sono aumentate la complessità organizzativa, la specializzazione, la

qualificazione di soci e ausiliari, le tecnologie.

Fig. 4.1 – Trade-off74.

Tempo/Dimensione/Complessità

Era un’associazione di muratori ed oggi è tra le maggiori imprese italiane del settore

e la più grande cooperativa europea nel settore delle costruzioni civili.

Nel caso di Cmc non si verificano le condizioni evidenziate dalla figura 4.1.

In seguito ai cambiamenti che si sono verificati in tutti questi anni nella

società e nel mercato Cmc ha adeguato le strutture, i processi e gli strumenti

operativi ma si è anche adoperata attivamente affinché le strutture ed i processi cui è

delegato l’obiettivo della partecipazione fossero coerenti con i cambiamenti

aziendali. Con l’aumento dell’efficienza, dunque, non si sono perse le premesse

74 BATTAGLIA, F., op. cit., p. 57.

+ Efficienza + Professionalità nel management + Specializzazione + Distacco tra organi decisionali e operativi - Autogestione - Condivisione di cultura e ideologia - Autosfruttamento - Omogeneità tra i cooperatori

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ideologiche, e l’idealità che anima i soci di oggi è paragonabile a quella che animava i

soci di allora.

La componente “autosfruttamento”, nell’accezione utilizzata nel capitolo

terzo e cioè come disponibilità a sacrificarsi per il bene dell’azienda, rinunciando a

ferie e festività, effettuando più ore lavorative giornaliere o sottoponendosi a ore

straordinarie non retribuite, è un “valore” che sembra tuttora posseduto dalla

maggior parte dei soci. La dimensione “alienazione” è, d’altra pare, verosimilmente

assente tra i soci di Cmc, come sarebbe testimoniato dal minor tasso di assenteismo

rispetto ai lavoratori di corrispondenti imprese private o pubbliche e dal più basso

livello di infortuni sul lavoro75.

Può dunque affermarsi che l’aumento della variabile temporale,

dimensionale e della complessità aziendale non ha determinato lo smarrimento di

quei valori condivisi dai fondatori.

75 ZAN, S., op. cit., p. 82, che riferisce in particolare un dato riguardante la costruzione dell’autostrada

del Brennero.

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CONCLUSIONI

L’obiettivo che questo lavoro si prefiggeva di raggiungere era quello di

individuare e descrivere, attraverso l’analisi della storia di un’esperienza cooperativa

emblematica, il mutamento nel tempo delle caratteristiche organizzative delle società

cooperative e verificare se il movimento cooperativo oggi mantenesse la sua

specificità o se l’evoluzione organizzativa e la necessità di concorrere sui mercati con

le altre forme di impresa ne avesse ridotto la distintività fino a determinarne la

perdita della propria natura ed il passaggio nel campo dell’impresa lucrativa.

La scelta di analisi è ricaduta sulla Cooperativa Muratori e Cementisti di

Ravenna perché, per la sua storia, rappresenta un esempio paradigmatico

dell’evoluzione dell’intero movimento cooperativo.

Affacciatasi timidamente sul mercato oltre un secolo fa, nel 1901, è cresciuta

vivendo di riflesso tutte le vicende storiche del nostro paese sino a divenire, oggi,

una tra le maggiori imprese italiane del settore e la più grande cooperativa europea

nel settore delle costruzioni civili.

Dallo studio della storia di questa esperienza cooperativa sono emerse

parecchie affinità con le caratteristiche del modello organizzativo di Zan e meno,

soprattutto nelle ultime fasi, con il modello di Meister.

La fase iniziale della Cmc coincide con quella che Meister chiama fase della

conquista e Zan fase della difesa: entusiasmo dei membri, democrazia diretta, attività

produttiva semplice e quantitativamente contenuta, scarsa differenziazione nel

sistema sociale, clima organizzativo il cui elemento distintivo è affermare l’esistenza

dell’impresa sul mercato. In Cmc, d'altronde, fino alla svolta degli anni sessanta non

è possibile parlare di una strategia esplicita e consapevole che non si identifichi con

la pura e semplice sopravvivenza della cooperativa.

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A questi livelli, come rileva Zan, l’autogestione non è un problema poiché si

realizza meccanicamente.

La seconda fase, che va dal secondo dopoguerra ai primi anni ’70,

corrisponde alla fase del consolidamento di Meister e Zan: nella cooperativa avviene

l’inserimento di tecnici e laureati, si avviano processi di informatizzazione, si presta

una sempre maggiore attenzione alle procedure contabili, di programmazione e

budgetizzazione. Negli anni sessanta avviene la trasformazione della Cmc da

associazione, pur grande di muratori, preoccupata solo di garantire occupazione ai

propri soci ed ausiliari a vera e propria impresa, cooperativa, di costruzioni.

Tutto ciò ha come conseguenza una minore tensione ideale alla lotta e un

aumento di formalizzazione della struttura. L’autogestione risulta più difficile. Ma,

come abbiamo visto, al contrario di ciò che afferma Meister, il fenomeno

dell’indifferenza non compare tra i soci.

La terza e quarta fase della Cmc, che si sviluppano dagli anni settanta ad

oggi, coincidono sostanzialmente con la terza fase del modello di Zan. Verso la fine

degli anni settanta Cmc affronta un momento di crisi nel rapporto tra struttura

gestionale e struttura sociale dovuto alla crescita dimensionale dell’azienda ed al suo

frazionamento in tanti momenti produttivi anche geograficamente lontani.

Davanti a questo problema la cooperativa è riuscita a trovare nuove

soluzioni di coinvolgimento della base sociale (rivalutazione del cantiere, nascita del

Consiglio dei Delegati) che cominciava a sentirsi dimenticata dai vertici aziendali,

perseguendo infine, nella quarta fase un obiettivo di consolidamento nei mercati

strategici che ben può inquadrarsi in quella “cultura dell’affermazione sul mercato”

di cui, appunto, parla Zan.

La visione di Meister della scomparsa dell’impresa cooperativa in seguito

all’adozione dei metodi capitalistici ed alla perdita delle peculiarità cooperative non

si adatta invece minimamente all’esperienza di Cmc che ancora oggi, come si è visto,

appare orgogliosamente portatrice dei valori e degli ideali solidaristici.

Certamente le sue dimensioni e la necessità di essere competitiva in un

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mercato sempre più ampio e con sempre maggiori difficoltà di sopravvivenza ha

prodotto nel corso degli anni profonde modifiche organizzative e metodologiche

anche attraverso l’adozione, in qualche misura, di “metodi capitalistici”. Ma ciò non

ha certamente determinato la perdita degli ideali cooperativi e della stessa cultura

della Cmc.

Valgano a tale riguardo alcuni aspetti particolarmente significativi che

emergono dai dati sin qui esaminati

Quello forse più interessante riguarda la composizione della compagine

associativa ed è rappresentato non solo dal numero relativamente ridotto (rispetto ad

una società capitalistica che opera nello stesso settore) dei soci cooperatori,

sostanzialmente comparabile a quello delle origini, ma soprattutto dalla circostanza

che oltre l’80% di tali soci risiede nella provincia di Ravenna (tale percentuale sale

all’87% se si considerano anche i soci delle altre province dell’Emilia Romagna) a

testimonianza di un legame tuttora profondo con l’ambiente sociale e culturale

d’origine.

Non solo: rispetto ad un organico fisso di poco meno di 500 dipendenti (dati

2002) oltre 350, e dunque circa il 70%, risultano essere anche soci cooperatori, il che

sembra un dato tale da differenziare in maniera decisa la struttura di questa

cooperativa rispetto ad una società lucrativa di analoghe dimensioni, il cui capitale

sociale, generalmente, risulta frazionato tra una miriade di piccoli investitori, o,

all’opposto, sostanzialmente concentrato nelle mani di un’unica famiglia, nell’uno e

nell’altro caso senza alcun reale coinvolgimento dei lavoratori nei processi

decisionali dell’impresa.

Si aggiunga poi che l’impegno medio di ciascun socio cooperatore nel

capitale sociale della Cmc è oggi pari a circa 20.000 euro, a fronte di un reddito annuo

netto medio di circa 15.000 euro, il che – come giustamente rileva il presidente della

Cmc Matteucci – consente di dare per scontata una attenta partecipazione dei soci

cooperatori alla vita sociale, se non altro a tutela dell’investimento effettuato.

Altro dato di particolare significativo riguarda l’articolazione dei soci

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cooperatori per inquadramento professionale. Anche se negli ultimi anni, per la

prima volta nella storia della cooperativa, è avvenuto il sorpasso delle qualifiche

impiegatizie su quelle operaie, conseguenza delle trasformazioni che l’impresa ha

dovuto affrontare per adeguarsi all’evoluzione del mercato e del settore economico

di riferimento, la percentuale di soci operai continua ad essere ragguardevole,

essendo costoro 151 su 353, e cioè quasi la metà.

Gli elementi raccolti, in conclusione, sembrerebbero dunque testimoniare di

una perdurante specificità dell’impresa cooperativa, anche di grandi dimensioni,

rispetto alle altre realtà imprenditoriali con le quali essa è chiamata a confrontarsi sul

mercato.

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CONCLUSIONI

L’obiettivo che questo lavoro si prefiggeva di raggiungere era quello di

individuare e descrivere, attraverso l’analisi della storia di un’esperienza cooperativa

emblematica, il mutamento nel tempo delle caratteristiche organizzative delle società

cooperative e verificare se il movimento cooperativo oggi mantenesse la sua

specificità o se l’evoluzione organizzativa e la necessità di concorrere sui mercati con

le altre forme di impresa ne avesse ridotto la distintività fino a determinarne la

perdita della propria natura ed il passaggio nel campo dell’impresa lucrativa.

La scelta di analisi è ricaduta sulla Cooperativa Muratori e Cementisti di

Ravenna perché, per la sua storia, rappresenta un esempio paradigmatico

dell’evoluzione dell’intero movimento cooperativo.

Affacciatasi timidamente sul mercato oltre un secolo fa, nel 1901, è cresciuta

vivendo di riflesso tutte le vicende storiche del nostro paese sino a divenire, oggi,

una tra le maggiori imprese italiane del settore e la più grande cooperativa europea

nel settore delle costruzioni civili.

Dallo studio della storia di questa esperienza cooperativa sono emerse

parecchie affinità con le caratteristiche del modello organizzativo di Zan e meno,

soprattutto nelle ultime fasi, con il modello di Meister.

La fase iniziale della Cmc coincide con quella che Meister chiama fase della

conquista e Zan fase della difesa: entusiasmo dei membri, democrazia diretta, attività

produttiva semplice e quantitativamente contenuta, scarsa differenziazione nel

sistema sociale, clima organizzativo il cui elemento distintivo è affermare l’esistenza

dell’impresa sul mercato. In Cmc, d'altronde, fino alla svolta degli anni sessanta non

è possibile parlare di una strategia esplicita e consapevole che non si identifichi con

la pura e semplice sopravvivenza della cooperativa.

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A questi livelli, come rileva Zan, l’autogestione non è un problema poiché si

realizza meccanicamente.

La seconda fase, che va dal secondo dopoguerra ai primi anni ’70,

corrisponde alla fase del consolidamento di Meister e Zan: nella cooperativa avviene

l’inserimento di tecnici e laureati, si avviano processi di informatizzazione, si presta

una sempre maggiore attenzione alle procedure contabili, di programmazione e

budgetizzazione. Negli anni sessanta avviene la trasformazione della Cmc da

associazione, pur grande di muratori, preoccupata solo di garantire occupazione ai

propri soci ed ausiliari a vera e propria impresa, cooperativa, di costruzioni.

Tutto ciò ha come conseguenza una minore tensione ideale alla lotta e un

aumento di formalizzazione della struttura. L’autogestione risulta più difficile. Ma,

come abbiamo visto, al contrario di ciò che afferma Meister, il fenomeno

dell’indifferenza non compare tra i soci.

La terza e quarta fase della Cmc, che si sviluppano dagli anni settanta ad

oggi, coincidono sostanzialmente con la terza fase del modello di Zan. Verso la fine

degli anni settanta Cmc affronta un momento di crisi nel rapporto tra struttura

gestionale e struttura sociale dovuto alla crescita dimensionale dell’azienda ed al suo

frazionamento in tanti momenti produttivi anche geograficamente lontani.

Davanti a questo problema la cooperativa è riuscita a trovare nuove

soluzioni di coinvolgimento della base sociale (rivalutazione del cantiere, nascita del

Consiglio dei Delegati) che cominciava a sentirsi dimenticata dai vertici aziendali,

perseguendo infine, nella quarta fase un obiettivo di consolidamento nei mercati

strategici che ben può inquadrarsi in quella “cultura dell’affermazione sul mercato”

di cui, appunto, parla Zan.

La visione di Meister della scomparsa dell’impresa cooperativa in seguito

all’adozione dei metodi capitalistici ed alla perdita delle peculiarità cooperative non

si adatta invece minimamente all’esperienza di Cmc che ancora oggi, come si è visto,

appare orgogliosamente portatrice dei valori e degli ideali solidaristici.

Certamente le sue dimensioni e la necessità di essere competitiva in un

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mercato sempre più ampio e con sempre maggiori difficoltà di sopravvivenza ha

prodotto nel corso degli anni profonde modifiche organizzative e metodologiche

anche attraverso l’adozione, in qualche misura, di “metodi capitalistici”. Ma ciò non

ha certamente determinato la perdita degli ideali cooperativi e della stessa cultura

della Cmc.

Valgano a tale riguardo alcuni aspetti particolarmente significativi che

emergono dai dati sin qui esaminati

Quello forse più interessante riguarda la composizione della compagine

associativa ed è rappresentato non solo dal numero relativamente ridotto (rispetto ad

una società capitalistica che opera nello stesso settore) dei soci cooperatori,

sostanzialmente comparabile a quello delle origini, ma soprattutto dalla circostanza

che oltre l’80% di tali soci risiede nella provincia di Ravenna (tale percentuale sale

all’87% se si considerano anche i soci delle altre province dell’Emilia Romagna) a

testimonianza di un legame tuttora profondo con l’ambiente sociale e culturale

d’origine.

Non solo: rispetto ad un organico fisso di poco meno di 500 dipendenti (dati

2002) oltre 350, e dunque circa il 70%, risultano essere anche soci cooperatori, il che

sembra un dato tale da differenziare in maniera decisa la struttura di questa

cooperativa rispetto ad una società lucrativa di analoghe dimensioni, il cui capitale

sociale, generalmente, risulta frazionato tra una miriade di piccoli investitori, o,

all’opposto, sostanzialmente concentrato nelle mani di un’unica famiglia, nell’uno e

nell’altro caso senza alcun reale coinvolgimento dei lavoratori nei processi

decisionali dell’impresa.

Si aggiunga poi che l’impegno medio di ciascun socio cooperatore nel

capitale sociale della Cmc è oggi pari a circa 20.000 euro, a fronte di un reddito annuo

netto medio di circa 15.000 euro, il che – come giustamente rileva il presidente della

Cmc Matteucci – consente di dare per scontata una attenta partecipazione dei soci

cooperatori alla vita sociale, se non altro a tutela dell’investimento effettuato.

Altro dato di particolare significativo riguarda l’articolazione dei soci

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cooperatori per inquadramento professionale. Anche se negli ultimi anni, per la

prima volta nella storia della cooperativa, è avvenuto il sorpasso delle qualifiche

impiegatizie su quelle operaie, conseguenza delle trasformazioni che l’impresa ha

dovuto affrontare per adeguarsi all’evoluzione del mercato e del settore economico

di riferimento, la percentuale di soci operai continua ad essere ragguardevole,

essendo costoro 151 su 353, e cioè quasi la metà.

Gli elementi raccolti, in conclusione, sembrerebbero dunque testimoniare di

una perdurante specificità dell’impresa cooperativa, anche di grandi dimensioni,

rispetto alle altre realtà imprenditoriali con le quali essa è chiamata a confrontarsi sul

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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