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1 Introduzione L’INDIA AI TEMPI DEL BUDDHA Nel VI sec. a.C., quando venne alla luce Siddhartha Gautama destinato a diventare il Buddha, l’India era già una terra antica: nel terzo millennio a.C. la cosiddetta “civiltà della valle dell’Indo”, risultante di un processo evolutivo autoctono iniziato nell’area nord-occidentale del sub-continente indiano in epoca neolitica, aveva raggiunto il suo massimo splendore. Nel Sud si era quindi sviluppata la civiltà dravidica, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, e al Nord, a partire dalla metà del secondo millennio a.C., si era diffuso un popolo di controversa provenienza, destinato a porre le basi del mondo indiano. Su quest’ultime genti, che chiamarono se stesse arya, “nobili, congiunti”, poco o nulla si conosce dal punto di vista archeologico. Le uniche fonti disponibili sono quelle letterarie, e precisamente la raccolta dei quattro Veda - testi sacri centrati sul sacrificio e il rito, il cui nucleo principale risale almeno al 1500 a.C. - e la letteratura epica, cioè il Mahabharata e il Ramayana, compilati in un arco di tempo compreso fra il IV sec. a.C. e il IV sec. d.C. Il periodo che intercorre fra il declino e la scomparsa della civiltà della valle dell’Indo – seconda metà del secondo millennio – e il secolo del Buddha vide il progressivo stanziarsi degli Arya, che si organizzarono politicamente e socialmente ed elaborarono un patrimonio culturale di vastissima portata. Fatti, leggende, credenze e precetti vennero tutti affidati alla trasmissione orale che, rivestitili di sacralità, li tramandò pressoché immutati, finché non vennero trascritti nella lingua sacra della tradizione: il sanscrito. Il processo di sedentarizzazione non avvenne solo combattendo le popolazioni locali, ma implicò anche continui scontri fra le varie tribù arya. Gradualmente si consolidò un nuovo sistema di governo, ove il capo eletto dai membri maschi della tribù e assistito da un consiglio venne soppiantato dal raja, il sovrano tale perché vincitore sugli altri pretendenti e perché consacrato con opportuni riti. In questa trasformazione politica, che diede vita a innumerevoli dinastie regnanti, i brahmana, che detenevano il potere sacerdotale e occupavano il primo posto nella struttura gerarchica della società, giocarono un ruolo determinante. I regni principali degli Arya si trovavano nel Nord-est, dislocati lungo il corso del Gange, fondamentale arteria di comunicazione e commercio. Fra questi, si segnalò in modo particolare durante il VI sec. a.C. il Magadha, attuale Bihar, destinato a diventare la culla dei più importanti imperi, che assurse a potenza di primo piano con il re Bimbisara, vissuto fra il 540 e il 490, contemporaneo e fervente seguace del Buddha. Oltre al Magadha, la cui roccaforte fu Rajagriha (Rajgir) più tardi sostituita da Pataliputra, l’odierna Patna, vi erano il Koshala con capitale Shravasti a nord-ovest; il regno dei Vatsa

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Introduzione

L’INDIA AI TEMPI DEL BUDDHA

Nel VI sec. a.C., quando venne alla luce Siddhartha Gautama destinato a diventare il Buddha, l’India

era già una terra antica: nel terzo millennio a.C. la cosiddetta “civiltà della valle dell’Indo”, risultante di

un processo evolutivo autoctono iniziato nell’area nord-occidentale del sub-continente indiano in epoca

neolitica, aveva raggiunto il suo massimo splendore. Nel Sud si era quindi sviluppata la civiltà dravidica,

le cui origini si perdono nella notte dei tempi, e al Nord, a partire dalla metà del secondo millennio a.C., si

era diffuso un popolo di controversa provenienza, destinato a porre le basi del mondo indiano.

Su quest’ultime genti, che chiamarono se stesse arya, “nobili, congiunti”, poco o nulla si conosce dal

punto di vista archeologico. Le uniche fonti disponibili sono quelle letterarie, e precisamente la raccolta

dei quattro Veda - testi sacri centrati sul sacrificio e il rito, il cui nucleo principale risale almeno al 1500

a.C. - e la letteratura epica, cioè il Mahabharata e il Ramayana, compilati in un arco di tempo compreso

fra il IV sec. a.C. e il IV sec. d.C.

Il periodo che intercorre fra il declino e la scomparsa della civiltà della valle dell’Indo – seconda metà

del secondo millennio – e il secolo del Buddha vide il progressivo stanziarsi degli Arya, che si

organizzarono politicamente e socialmente ed elaborarono un patrimonio culturale di vastissima portata.

Fatti, leggende, credenze e precetti vennero tutti affidati alla trasmissione orale che, rivestitili di sacralità,

li tramandò pressoché immutati, finché non vennero trascritti nella lingua sacra della tradizione: il

sanscrito.

Il processo di sedentarizzazione non avvenne solo combattendo le popolazioni locali, ma implicò

anche continui scontri fra le varie tribù arya. Gradualmente si consolidò un nuovo sistema di governo, ove

il capo eletto dai membri maschi della tribù e assistito da un consiglio venne soppiantato dal raja, il

sovrano tale perché vincitore sugli altri pretendenti e perché consacrato con opportuni riti. In questa

trasformazione politica, che diede vita a innumerevoli dinastie regnanti, i brahmana, che detenevano il

potere sacerdotale e occupavano il primo posto nella struttura gerarchica della società, giocarono un ruolo

determinante.

I regni principali degli Arya si trovavano nel Nord-est, dislocati lungo il corso del Gange,

fondamentale arteria di comunicazione e commercio. Fra questi, si segnalò in modo particolare durante il

VI sec. a.C. il Magadha, attuale Bihar, destinato a diventare la culla dei più importanti imperi, che assurse

a potenza di primo piano con il re Bimbisara, vissuto fra il 540 e il 490, contemporaneo e fervente

seguace del Buddha. Oltre al Magadha, la cui roccaforte fu Rajagriha (Rajgir) più tardi sostituita da

Pataliputra, l’odierna Patna, vi erano il Koshala con capitale Shravasti a nord-ovest; il regno dei Vatsa

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centrato su Kaushambi, attuale Allahabad, a est; il regno dell’Avanti con capitale Ujjayini, oggi Ujjain, a

sud.

Accanto a queste monarchie esistevano numerosi clan retti da un consiglio, i cui membri provenivano

per privilegio di nascita da un gruppo ristretto di famiglie. Fra i clan più famosi vanno ricordati quello

degli Shakya, insediati a Kapilavastu (nella attuale zona di confine nepalese), in cui ebbe i natali il

Buddha, e quello dei Licchavi con capitale Vaishali (l’odierna Besarh nei pressi di Patna). Alcuni di

questi clan erano riuniti in confederazioni - la più famosa era quella dei Vriji, costituita dai Malla di

Kushinagara e Pava, dai Licchavi di Vaishali e dagli Shakya di Kapilavastu - e controllavano un buon

tratto a nord del Gange. Lo scontro per il monopolio fluviale si protrasse a lungo e con alterne vicende,

ma alla fine le confederazioni vennero annientate e furono i regni a costituire i nuovi fulcri politici.

In quest’epoca molti dei tratti principali della cultura indiana si erano ormai stabilizzati. La società,

fortemente patriarcale, era fondata sulla famiglia collegata ad una mitica stirpe ed inserita in una struttura

gerarchica. Nella visione hindu dell’esistenza le innegabili differenze umane avevano trovato

riconoscimento e collocazione in un sistema – quello della casta – che attribuiva ad ogni livello

competenze, impegni e funzioni diverse.

La prima codificazione di tale assetto si era avuta nel Rigveda, che narrava di come l’universo fosse

derivato dal sacrificio di un mitico gigante, dalle cui membra immolate dagli dei avevano avuto origine

gli elementi costitutivi dell’essere, caste incluse: dalla bocca erano nati i brahmana, i brahmani depositari

della conoscenza sacra; dalle braccia gli kshatriya, i guerrieri detentori del potere politico; dalle cosce i

vaishya, addetti al sostentamento ed al commercio; dai piedi gli shudra, votati al servizio delle altre caste.

Acquisita per nascita a seguito delle azioni compiute nelle vite precedenti e conservata per matrimonio

endogamico, la casta determinava lo status sociale e la gamma di professioni esercitabili in ossequio ai

dettami del puro e dell’impuro, fondamentali nel costrutto sacrale della società hindu che riteneva alcuni

lavori contaminanti e quindi eseguibili solo dalla quarta casta o addirittura dai fuori casta. Ciascuno

sapeva dunque quale era il suo posto all’interno della compagine sociale e che cosa ci si aspettava da lui.

La professione gli veniva insegnata all’interno della famiglia, in trasmissione diretta ed emulazione degli

altri, come bene di diritto ed ereditario.

Nella famiglia si rifletteva la stessa struttura gerarchica della società, specchio allargato dei legami

parentali. Tradizionalmente la vita veniva suddivisa in quattro stagioni biologiche alle quali si addicevano

espressioni e compiti diversi: il fanciullo si formava sotto la guida di un maestro spirituale attraverso lo

studio e la castità; quindi entrava ufficialmente nella comunità con il matrimonio e assumeva le funzioni

di marito e padre, occupandosi del proprio benessere e di quello della famiglia; una volta diventato nonno

di un nipote maschio si ritirava dalla conduzione delle attività e dal nucleo familiare e si isolava in

raccoglimento; nel quarto ed ultimo stadio si preparava ad abbandonare l’esistenza e, diventato asceta

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itinerante, viveva di elemosine, privo di qualsiasi interesse e attaccamento mondano. Se era per lo più la

casta brahmanica che seguiva questi dettami, tuttavia anche le altre caste si ispiravano a percorsi

codificati

Famiglia e società si basavano su un rigido complesso di norme che non permetteva deroghe alle

proprie leggi, anche se teoricamente vi era piena libertà nelle scelte spirituali: di fatto il condizionamento

dell’ambiente famigliare e castale era determinante anche negli orientamenti religiosi e filosofici.

I brahmana, detentori del sapere sacro e profano, dettavano concezioni e regole di vita che i sovrani si

premuravano di diffondere e tutelare. Il sodalizio fra l’ambito sacerdotale e quello guerriero permetteva

di esercitare un fortissimo controllo sugli altri gruppi sociali ed era consolidato e continuamente

rinnovato attraverso un sistema rituale tanto complesso da emarginare gli altri gruppi.

Accanto alla complessa cultura brahmanica vennero formandosi credenze e culti popolari di più facile

comprensione e celebrazione. Al contempo molti appartenenti alle caste alte abbandonarono il contesto

sociale, insofferenti dell’autorità sacerdotale e dello sclerotizzarsi del rituale, per dedicarsi alla ricerca

spirituale e all’ascesi, vuoi entrando a far parte di una comunità religiosa, vuoi ritirandosi a vita eremitica.

Tanti erano dunque in quel VI sec. a.C. coloro che percorrevano le vie dell’India ricercando risposte ai

quesiti esistenziali: il principe Siddhartha fu uno di loro.

I capitolo

L’ESISTENZA DORATA

Colui che era destinato a diventare il Buddha nacque nella metà del VI sec. a.C. nel parco di Lumbini,

(oggi Rummindei in Nepal) presso Kapilavastu, capitale del clan degli Shakya, che dominavano una

ristretta regione pianeggiante ai piedi dell’Himalaya e che probabilmente erano vassalli del vicino regno

del Koshala. La data esatta della sua nascita è controversa e oscilla addirittura fra il 623 e il 397. Tra

questi due estremi ritenuti poco attendibili dagli studiosi, l’arco di tempo più probabile sembra essere

quello fra il 566 e il 557. La corrente più antica, il Theravada, elegge ad anno natale il 563 a.C.

Le modalità miracolose dell’avvento del Buddha sono narrate nel racconto che egli stesso fa della

discesa sulla terra di Vipashyin, il primo dei mitici Buddha che lo avevano preceduto. Prima di incarnarsi,

questi esseri illuminati si trovano nella condizione di Bodhisattva - “colui la cui essenza è la bodhi”, cioè

l’illuminazione - e soggiornano nel Cielo dei Tushita, luogo di spirituali delizie. Quando decidono che sia

venuto il momento della loro apparizione, scelgono il luogo, la stirpe e la futura madre e discendono nel

suo grembo, accompagnati da un bagliore accecante che riempie di sé tutto l’universo. Durante la

gravidanza della madre, che si distingue per virtù e purezza, ai quattro punti cardinali vegliano altrettanti

dei affinché nulla le accada.

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Sumedha, il Bodhisattva destinato a diventare il Buddha storico Shakyamuni, sceglie Maya Devi,

principessa di Ramagrama nello stato dei Kraudya, dotata di tutte le trentadue sublimi virtù richieste alla

madre di un Buddha e moglie di Shuddhodana, capo degli Shakya, e si incarna nel suo seno mentre ella

sta osservando un rigido periodo di castità. L’avvento del figlio è annunciato in sogno alla donna da un

elefante bianco a sei zanne che le depone in grembo un loto, entrandole a sua volta in corpo dal fianco

destro. L’animale a cui è affidata l’annunciazione riveste notevole importanza nel mondo indiano: è

simbolo di regalità e di prosperità ed è considerato apportatore di pioggia. E’ infatti associato alle grigie

nubi monsoniche gravide d’acqua, con le quali divide il nome di naga, e si ritiene possa scongiurare la

siccità. L’elefante è inoltre uno dei sette tesori tradizionali di un monarca, in modo particolare l’elefante

albino che incarna sulla terra Airavata, cavalcatura di Indra, il re degli dei nel più antico pantheon hindu.

Indra gioca ruoli fondamentali nelle storie buddhiste con il nome di Shakra.

Le fonti sottolineano come durante la gravidanza il bimbo sia nutrito non dalla madre, ma da una

goccia di purissimo nettare distillato da un magico loto e che sia protetto da contatti contaminanti con il

grembo da un tabernacolo prezioso. Inutile dire che la regina osserva una castità rigorosissima con il

pieno consenso e altrettanta osservanza da parte del futuro padre Shuddhodana.

Dopo dieci mesi di gestazione, il periodo tradizionale per le madri dei Buddha, nel plenilunio di

vaishakha, aprile-maggio nel calendario tradizionale lunare, la regina Maya è colta dalle doglie mentre sta

recandosi dalla propria madre, come era consuetudine per le primipare, e dà alla luce il figlio nel parco di

Lumbini, nei pressi della capitale. L’evento è ricordato da una colonna eretta nel III sec. a.C. dal grande

imperatore buddhista Ashoka Maurya ed è celebrato in innumerevoli raffigurazioni che mostrano il futuro

Buddha emergere dal fianco destro della madre, che è in piedi e si appoggia ad un fusto frondoso,

probabilmente di shala (shorea robusta).

L’albero nella vita del Buddha sarà spesso compagno e sfondo di eventi cruciali. Simbolo antichissimo

di centralità, perno dell’universo e raccordo fra i vari piani dell’essere – i regni sotterranei, la terra e il

cielo -, è un microcosmo che ospita le creature terrestri e celesti ed è promessa continuamente rinnovata

di vita. La rivisitazione mitica della nascita del Buddha esprime una profonda simbologia cosmica:

postasi idealmente al centro dell’esistenza con l’appoggiarsi all’albero, la regina appare come la

primordiale Dea Madre che offre al mondo il figlio salvatore.

Il bambino viene accolto dalle divinità prima che possa toccare il suolo e due flussi d’acqua calda e

fredda servono da lavacri per la madre e il figlio, operazione puramente formale per quest’ultimo, data la

sua essenziale purezza, ma allusiva al suo stato regale. Il sovrano indiano, infatti, viene consacrato tale

tramite un solenne rito lustrale. A seconda delle versioni le acque sarebbero discese dal cielo, scaturite

dalla terra oppure offerte dai due naga Nanda e Upananda: in quest’ultimo caso, raffigurato nei più

antichi bassorilievi, compaiono già dall’inizio le figure dei mitici esseri in parte umani e in parte cobra,

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connessi con il mondo acquatico e custodi dei tesori della terra, che più volte si ritroveranno nei racconti

della vita del Buddha.

Quindi l’infante, messosi in piedi, riparato da un mirabile parasole bianco e accompagnato da un

flabello – entrambe insegne regali - , compie sette passi verso Nord, la direzione da cui sarebbero giunti

gli Arya, luogo benedetto dalle alte catene montane e sede dell’Uttarakuru, la terra dell’eterna beatitudine.

Rivolto ai quattro punti cardinali, proclama con voce pari al muggito di un toro o al ruggito di un leone la

sua supremazia nel mondo e afferma che quella sarebbe stata la sua ultima rinascita. Ancora una volta la

trasfigurazione mitica attinge al patrimonio simbolico: il toro è emblema di preminenza e forza, il leone di

coraggio e di sovranità. Quanto al numero sette, presente con potente simbolismo in quasi tutte le culture

della terra, compare più volte anche nel mondo indiano: sette sono i rshi, i veggenti primordiali; sette i

cavalli del carro del dio Sole; sette le Madri che incarnano gli aspetti salienti della Grande Dea, e così via.

Nella vita del Buddha lo si ritrova in diverse situazioni, dalla nascita fino alla cremazione.

Nello stesso giorno in cui nacque il futuro Buddha vennero al mondo anche Yashodara, la sua sposa,

Kanthaka, il suo destriero, Chandaka, il suo scudiero, l’albero dell’illuminazione e Ananda, il suo

discepolo più caro. Si legge in questa enumerazione l’intento di riferirsi ai sette tesori del sovrano: il

cakra (“ruota” o disco dalle molteplici funzioni, tra cui anche quella di arma), l’elefante da parata, il

cavallo da guerra, il gioiello inestimabile, la sposa perfetta, il ministro fidato, il generale invincibile.

L’associazione con la regalità viene ulteriormente ribadita da particolari segni sul corpo del neonato,

trentadue principali e ottanta secondari, indizi di un destino sovrano: quello del cakravartin. E benché tale

qualifica di “Signore della Ruota” venga tradizionalmente applicata al monarca universale, tuttavia essa si

adatta anche a un Buddha: ciò che accomuna le due figure è l’essere in entrambe le situazioni centro

cardinale e propulsore: del sistema sociale nel caso del re; della via di salvezza nel caso del Buddha.

Tra i trentatré segni, solo alcuni vengono raffigurati nell’iconografia: la chioma ricciuta con le ciocche

che si avvolgono verso destra; l’ushnisha, protuberanza cranica resa con una crocchia di capelli sulla

sommità della testa, simbolo del nirvana; l’urna, ciuffo di peli o sporgenza fra le sopraciglia, luogo di

incontro fra la sfera dei sensi e quella dell’intelletto, collocata ove la tradizione hindu situa il terzo occhio,

quello della visione trascendente; la ruota, simbolo della dottrina, incisa sul palmo della mano; i lobi

allungati, effetto dei pesanti orecchini portati prima della rinuncia al mondo principesco; il nimbo,

elemento di probabile origine persiana, che rimanda all’illuminazione.

Al neonato viene imposto il nome di Siddhartha, “Colui che ha raggiunto il suo scopo”, e Gautama, in

quanto appartenente alla stirpe di Gautama, grande saggio vedico a cui gli Shakya facevano risalire la loro

origine. Pochi giorni dopo la nascita, durante la presentazione al tempio di Abhaya, la divinità tutelare del

clan shakya, il vecchio veggente Asita, contemplando il bimbo, profetizza che sarebbe diventato un

Buddha e s’abbandona alle lacrime perché sa che non gli è dato di vivere fino a quel momento.

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Nel frattempo, sette giorni dopo il parto, la regina Maya muore: questa è la regola per le madri dei

Buddha, affermano alcuni testi, mentre altri, volendo addolcire tale doloroso fatto, spiegano che la

prematura dipartita le risparmia il dolore di vedere in seguito il figlio abbandonare la casa paterna. A

monte continua comunque ad esserci il bisogno di circondare il futuro Buddha di purezza assoluta: il

grembo che l’ha ospitato non può più conoscere l’amore carnale e generare altri figli. Così Maya viene

accolta nel Paradiso dei Trentatré Dei e come remunerazione dei suoi altissimi meriti spirituali diviene un

uomo.

Prima di andarsene affida il figlio alle cure della sorella, Mahaprajapati Guatami, consorte anch’ella di

Shuddhodana e destinata a dare alla luce il principe Sundara Nanda, fratellastro del Buddha, e la

principessa Sundari.

Colpito dalla profezia di Asita, Shuddhodana decide di adoperarsi in ogni modo affinché in Siddhartha

non si risvegli alcuna vocazione ascetica, ma si rafforzi il gusto per la vita e la volontà di diventare un

monarca universale, come si addice al figlio di una stirpe guerriera. Lo fa dunque circondare di agi e

raffinati piaceri, crescendolo lontano dalla vita reale in tre palazzi stupendi, uno per la stagione fredda,

uno per quella calda e uno per il tempo della piogge, assistito da servitù e cortigiani giovani e belli.

Come si conviene al suo rango, Siddhartha viene educato da illustri precettori e acquisisce facilmente

tutte le cognizioni dello scibile dell’epoca. Circondato da amici fedeli, tra cui Udayin, il fratellastro

Nanda, i cugini Ananda e Anuruddha, eccelle pure nelle arti marziali, sollevando l’invidia presto

tramutatasi in odio di un altro cugino, Devadatta, destinato a diventare il più acerrimo nemico del futuro

Buddha.

Già durante l’infanzia Siddhartha entra naturalmente in meditazione sotto un albero di melarosa e

attraverso la vigilanza, l’attenzione e la giusta discriminazione giunge alla pacificazione dei desideri,

traendo da ciò gioia profonda. Comprende però che ogni sentimento di piacere e di dolore e ogni processo

mentale è da trascendere per realizzare il vero distacco che conduce alla pura lucidità interiore. Il giovane

principe comincia ad intuire che tutto quello che esiste ha forma per effetto della mente e che è

fondamentale sviluppare modalità di controllo per acquietare i turbini psichici e raggiungere

l’imperturbabilità, quella upeksha che diventerà una delle virtù cardinali del Buddhismo.

Giunto all’età di 16 anni (19 secondo altre tradizioni), si profila il tempo delle nozze e la scelta cade su

una nobile fanciulla che i testi chiamano ora Yashodhara, ora Gopa, tanto che alcuni studiosi occidentali

avanzano il dubbio che si tratti di due fanciulle, sorelle o cugine. Anche il padre non è certo: si fanno i

nomi di Dandapani, del clan degli Sakhya e forse re dei Kraudya, che aveva sposato una sorella di

Shuddhodana, di Mahanama e di Suprabuddha, sempre dello stesso clan. Di quest’ultimo alcuni testi

affermano che fu precipitato nell’inferno, avendo insultato il genero ormai diventato il Buddha durante

una sua visita a Kapilavastu.

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Secondo l’antica tradizione buddhista, tuttavia, la sposa di un Buddha apparso sulla terra è la stessa

che l’ha accompagnato nelle esistenze precedenti. Una è dunque la consorte di Siddhartha: Yashodhara,

chiamata anche Gopa, conquistata durante uno svayamvara, una sorta di torneo cavalleresco tipico

dell’epoca, durante il quale i pretendenti convenuti si cimentavano in varie prove di forze e abilità con le

armi. Tra questi la principessa sceglieva il consorte ponendogli al collo una ghirlanda di fiori: e nella

stragrande maggioranza dei casi il prescelto era il vincitore delle gare. Siddhartha primeggiò in tutte le

prove, in particolare quella del tiro con l’arco, che si trova anche nelle due grandi epopee indiane, il

Mahabharata e il Ramayana. In entrambi gli eroi protagonisti, rispettivamente Arjuna e Rama,

conquistano le spose sempre nell’ambito degli svayamvara e cimentandosi con archi particolari; tra le

discipline marziali, infatti, il tiro con l’arco è quella che richiede il maggior numero di abilità: vista

perfetta, forza, determinazione, concentrazione. Siddhartha riesce a sollevare e a tendere un arco che

nessuno aveva più saputo impugnare, ottenendo così la mano di Yashodhara.

Malgrado l’esistenza dorata, una sottile insoddisfazione interiore comincia a turbare il principe, che

indovina ben altra realtà oltre le cortine dorate della reggia. Durante alcune sortite in compagnia del fido

scudiero Chandaka Siddhartha incontra quattro personaggi che avrebbero cambiato la sua coscienza e la

sua esistenza. Uscito dalla porta orientale della città si imbatte in un vecchio; a quella meridionale trova

un malato mentre al varco occidentale incrocia un corteo funebre. Il principe, splendente di bellezza e

salute, scopre che il corpo più ammalarsi, che la gioventù finisce per fare posto alla vecchiaia e che la vita

non dura in eterno. Con immenso sgomento apprende che la malattia e la morte sono il destino di tutti gli

uomini, nessuno escluso, nemmeno i re. E non una volta accade tutto questo, ma più volte, poiché l’uomo

è imprigionato in una catena di nascite e morti e rinascite dalle conseguenze delle sue stesse azioni, i cui

frutti, il karman, non maturano tutti nell’esistenza che li ha causati, ma richiedono nuove reincarnazioni

per venire a compimento.

Ma se i primi tre incontri gli rivelano quanto la dimensione umana sia condizionata e dolorosa, il

quarto gli fa intravedere un possibile antidoto all’angoscia di vivere. L’asceta solitario in cui infine si

imbatte il principe, lo colpisce per la benevolenza e il sereno distacco che emanano dalla sua persona:

padrone dei propri pensieri e della propria condotta, indifferente ai beni materiali e libero da legami, è

totalmente dedito alla ricerca spirituale.

Il fatto che gli incontri siano quattro non è una scelta casuale, ma si ricollega al profondo significato

simbolico che il numero in questione riveste nella cultura indiana: la trascendenza. I fini che l’uomo

hindu persegue nella sua esistenza sono l’aderenza alla norma, il conseguimento dell’utile materiale, il

perseguimento della felicità erotico-affettiva, ma la sua vera realizzazione sta nel moksha, la liberazione

da ogni coinvolgimento mondano per attingere l’immortalità. Nei quattro stadi di vita come discepolo,

padrone di casa, eremita ed asceta itinerante, è quest’ultima condizione che estingue i depositi karmici

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residui e affranca dal doloroso ritorno all’esistenza. E ancora: negli stati naturali di coscienza la veglia, il

sonno con sogni e il sonno senza sogni offrono conoscenze limitate; quello che instaura la suprema

comprensione del Vero è il quarto stadio, il turiya, realizzato con la meditazione profonda. Negli incontri

del principe, l’ascesi appare come la via da imboccare per vincere la malattia, la vecchiaia e la morte in

maniera definitiva.

Oppresso dalla scoperta del dolore, Siddhartha rientra a palazzo deciso a lasciarlo e l’annuncio che

Yashodhara ha dato alla luce un figlio, lungi dal dissuaderlo, lo rafforza nella sua decisione. Al neonato,

venuto al mondo durante un’eclisse di luna, viene impartito il nome di Rahula, “Afferrato da Rahu” che è

il demone che fagocita l’astro. La tradizione, a questo punto, mette in bocca al futuro Buddha le parole

fatali: “Rahula è nato, un vincolo è nato”. Che fosse la presa di coscienza di come un figlio lega un padre

o di come la nascita stringa in un groviglio di legami, più pressante appare a Siddhartha l’impegno di

trovare la via di salvezza.

Invano tuttavia implora dal padre il permesso di andarsene; il re lo nega ed impartisce rigide

disposizioni per impedire al principe di uscire da palazzo. Ma durante la notte, dopo i festeggiamenti per

celebrare la nascita del bambino, un provvidenziale sonno scende sulla reggia. Le guardie cadono nel

sopore. Cortigiani e danzatrici s’abbandonano scomposti e simili ad un carnaio, immagine sconvolgente

della transitorietà del fasto e della bellezza. Siddhartha è deciso a trasgredire gli ordini paterni; sa che ciò

appare agli occhi della morale del suo tempo come un crimine gravissimo, ma comprende che è

ineluttabile, perché la via che sta per imboccare è totalizzante ed implica il taglio di ogni legame. Del

resto lascia alla casata degli Shakya un erede.

Il desiderio di vedere suo figlio lo conduce alla stanza di Yashodhara, ma il timore di svegliarla gli

impedisce di accarezzare Rahula. A questo punto, senza un saluto alla sposa, se ne va. Certo, la lascia

onorata e accudita nella reggia, ove è la madre dell’erede al trono, pronta come ogni buona moglie

indiana ad accogliere la volontà del marito, qualunque essa sia. Ma agli occhi dei moderni tale ciò

difficile da accettare. Per l’epoca era invece un comportamento normale, dato che le donne godevano di

una limitata considerazione in quanto ritenute incapaci di acquisire la liberazione spirituale: tutto quello a

cui potevano aspirare, se avessero condotto un’esistenza secondo le norme prescritte al loro stato, era una

rinascita in spoglie maschile.

La possibilità di distacco totale dal mondo era esclusivo appannaggio degli uomini, capaci di troncare

definitivamente ogni legame, cosa invece difficilissima per le donne, unite da vincoli profondi e viscerali

alla loro prole e ai loro cari. Ma accanto a questa considerazione biologica, serpeggiava l’atavica paura

nei confronti del femminile, tanto potente nella sua forza attrattiva da distogliere l’asceta e il monaco dal

fine ultimo. Erede del suo tempo, il Buddhismo delle origini rivela spesso una notevole misoginia che

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andrà attenuandosi nel corso dei secoli, finché addirittura sarà un’immagine femminile, la dea Tara, ad

affiancare il Buddha nella devozione popolare.

Lasciate le stanze private, Siddhartha va a cercare Chandaka e, svegliato lo scudiero, gli fa sellare il

destriero preferito Kanthaka, con il quale abbandonano il palazzo. Il mito vuole che esseri divini

sorreggano gli zoccoli dell’animale per non farli risuonare sull’acciottolato della città. Raggiunta una

foresta nei pressi di Kapilavastu, Siddhartha recide la lunga chioma con la spada, in quel gesto simbolico

che attraverso i secoli e nelle culture diverse ha significato la rinuncia ad un potere: la capacità

combattiva per gli uomini, che ai capelli lunghi legavano la forza virile, e quella ammaliatrice per le

donne, che se ne servivano come arma di seduzione. La tonsura, però, non avrebbe dovuto essere intesa

come mortificazione castrante, ma come superamento dell’essere maschio o femmina, per trascendere

entrambi i generi in una nuova individualità. Invece spesso gli atti e le pratiche che caratterizzavano

l’ascesi si tradussero in accanimento mortificante contro il proprio corpo: anche Siddhartha vi si sarebbe

abbandonato e avrebbe dovuto compiere un lungo cammino per comprenderne l’inutilità.

Intanto, raccontano i testi ed illustrano i bassorilievi, la chioma del futuro Buddha viene raccolta da

Indra in un prezioso scrigno e portata in cielo per essere venerata dagli dei.

Toltasi la collana simbolo della sua regalità e consegnatala con la spada a Chandaka, Siddhartha

rimanda indietro in lacrime il fido scudiero con il cavallo, affinché avverta la corte della sua decisione di

non ritornare a palazzo e scoraggi ogni ricerca. Di lì a poco Kanthaka, non reggendo la separazione dal

suo padrone, sarebbe morto di dolore per rinascere nei cieli.

Scambiate le vesti sfarzose con l’abito di un mendicante che transitava nei pressi, Siddhartha si inoltra

nella foresta: ha ventinove anni e la sua partenza ha spezzato il cuore dei suoi cari. Una separazione

dolorosa, difficile da comprendere e da reggere per l’uomo comune, ma indispensabile per chi aveva

deciso di consacrarsi ad una missione universale: liberare l’umanità dalla sofferenza.

II capitolo

L’ERRARE E LA RICERCA

Inizia così la vita errabonda di Siddhartha, che diventa uno shramana, uno dei tanti asceti itineranti.

Costoro si spostavano da un luogo all’altro per la maggior parte dell’anno, ma si fermavano con i loro

discepoli durante la stagione delle piogge in parchi, boschi e foreste presso le città, costruendo semplici

ripari di frasche e costituendo i nuclei originari di quelli che sarebbero diventati ashrama, eremi, e

vihara, monasteri. Benché diversi per concezioni e pratiche, i vari gruppi erano accomunati dal desiderio

d’altri orizzonti che non fossero quelli mondani. Circondati di grande venerazione, spesso temuti per i

loro poteri, avevano rinunciato ad ogni tipo di legame sociale e famigliare per essere totalmente liberi:

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delle poche esigenze si facevano carico la popolazione e i sovrani, che nelle donazioni agli asceti

acquisivano meriti spirituali.

Al tempo di Siddhartha si contrapponevano numerose scuole di pensiero – di cui si ha ampia eco nelle

Upanishad, primi testi di indagine metafisica – che proponevano differenti visioni dell’essere, ora

concependolo come fittizio molteplice dietro cui si celava l’Uno, ora considerandolo frutto del dinamismo

di una materia primordiale inconscia, contrapposta ad uno Spirito immoto e cosciente. In ogni caso la vita

era ritenuta una dolorosa prigione da cui liberarsi quanto prima, vuoi riconoscendo l’identità fra l’anima

individuale, l’atman, e l’anima universale, il Brahman, vuoi isolando lo Spirito dalla materia transeunte e

dolorosa.

Non mancava dunque a Siddhartha, che era ormai conosciuto con il nome di Gautama dal suo

lignaggio, la speranza di trovare maestri capaci di affrancarlo dal penoso samsara, il cerchio delle

rinascite. Il primo saggio presso cui si reca è Arada Kalama, brahmano di grande fama che aveva un

eremo nelle vicinanze di Vaishali, oggi Besarh nei pressi di Patna in Bihar. Sotto la sua guida Gautama

apprende a raggiungere stati meditativi sempre più profondi, fino a realizzare la comprensione che le cose

sono insostanziali e che nessun fenomeno esiste al di fuori della mente. Ma tutto ciò non lo conduce

all’imperturbabilità e alla liberazione che ne consegue.

Declinata l’offerta di affiancare Arada Kalama nella conduzione della comunità di asceti e di

diventarne il successore, Gautama attraversa il Gange ed entra nel Magadha (odierno Bihar), prendendo

dimora presso la capitale Rajagriha (attuale Rajgir in Bihar), nelle colline Pandava. Qui, probabilmente

presso quello che è noto come il “Picco dell’avvoltoio” che diverrà dimora preferita del futuro Buddha,

incontra il re Bimbisara, che rimane profondamente colpito dalla personalità del giovane asceta e gli

propone di stabilirsi a palazzo quale suo consigliere spirituale, offrendogli – come era consuetudine in

questi casi – la metà del regno. Gautama rifiuta, ma gli promette di tornare, una volta trovare la via della

liberazione dal dolore, per partecipargliela.

Il secondo grande maestro presso cui Gautama prende dimora è Udraka Ramaputra, che aveva un

eremo nei pressi di Rajagriha e che gli insegna il dominio sul corpo e sulla mente, portandolo a realizzare

lo stato interiore che trascende la percezione e la non percezione ed è nuda quiete e vacuità. Ma benché

altissima sia la vetta conseguita in quello che è evidentemente un cammino di Yoga, non è la meta.

Gautama è sempre più convinto che l’antidoto al dolore della vita non sia il fuggirla. Ancora una volta gli

viene chiesto di restare e condividere con Udraka la posizione di guida spirituale della comunità di asceti

e di nuovo Gautama rifiuta, allontanandosi per proseguire la sua ricerca.

Non avendo trovato risposta né nelle speculazioni metafisiche e nelle esperienze intellettuali di Arada,

né nelle tecniche psicofisiche di Udraka, decide di imboccare la via più nota ai pellegrini dello spirito:

quella delle mortificazioni corporali estreme. Considerando il corpo alla stregua di legna, che se è verde o

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bagnata non può fare fuoco, Gautama non vede altro mezzo che il disseccarlo e asciugarlo, affinché la

fiamma dell’illuminazione possa divampare nel cuore. Scelta come zona per il suo ritiro un’area forestale

nei pressi del villaggio di Uruvilva, non lontano dal fiume Nairanjana, l’odierno Lilaganj che si getta nel

Phalgu, Gautama si mette alla prova in questo luogo selvaggio e inospitale, affrontando solitudine e paura

e sottoponendosi a privazioni durissime. Come ogni yogin che vuole frangere i limiti umani, diminuisce

progressivamente il cibo, si espone al furore del sole, dorme sulla nuda terra. A lui si sono nel frattempo

uniti cinque discepoli di Udraka Ramaputra guidati da Ajnata Kaundinya, che aveva stretto profonda

amicizia con Gautama, quando questi aveva soggiornato nell’eremo del maestro. Colpiti dalla

determinazione e dal rigore del principe asceta e convinti che questi avrebbe potuto iniziarli a quanto

Udraka non conosceva, i cinque si erano messi sulle sue tracce, trovandolo finalmente nei pressi di

Uruvilva.

L’eccesso delle mortificazioni impensierisce perfino gli dei, che inducono la regina Maya a scendere

dal cielo per scongiurare il figlio di desistere, ma l’asceta, rassicurata la madre, prosegue nel suo intento.

Dopo sei anni, giunto alle soglie della morte senza avere acquisito la vera conoscenza, Gautama si rende

conto dell’inutilità di quel tormento e lo abbandona. Recuperato un sudario da un vicino luogo di

cremazione, lo lava in uno stagno miracolosamente fatto apparire dagli dei, che gli forniscono anche la

pietra su cui battere l’indumento per pulirlo. E’ a tale evento che si ricollega la regola che verrà osservata

dai futuri monaci buddhisti, i bhikshu, di usare per i propri abiti solo pezzi di stoffa trovati tra i rifiuti o

nei crematori. Tintili con il kashaya, il colorante bruno-rossiccio meno costoso di tutti, ne andranno ad

utilizzare tre: il più piccolo indossato avvolgendolo attorno alla vita, l’altro sopra a mo’ di tunica che

lascia scoperta la spalla destra, l’ultimo come ampio mantello in cui avvilupparsi.

Rivestito a dovere, Gautama decide di raggiungere il più vicino abitato per mendicarvi del cibo, ma

lungo la strada, a causa dell’estrema debolezza, cade svenuto. In lui si imbatte Sujata, la figlia del capo

villaggio, che stava portando una ciotola d’oro colma di riso e latte in offerta ad un albero sacro: alla vista

dell’asceta, la giovane, mossa da profonda pietà, gli offre il cibo. Gautama lo accetta e dopo essersi lavato

nel fiume, lo divide in quarantanove parti, in modo da farlo bastare per le successive sette settimane.

Quindi consuma la prima porzione e ritorna progressivamente alla vita.

Gettata la ciotola che aveva contenuto il cibo nel fiume, questa prende a galleggiare e a risalire la

corrente, andando a raggiungere le ciotole dei Buddha del passato o, secondo un’altra versione, venendo

raccolta dagli dei e portata in cielo. Comunque sia, Gautama era ormai pronto a diventare il Buddha del

presente.

I cinque compagni, scandalizzati dal comportamento del maestro che ai loro occhi appariva come un

cedimento, lo abbandonano. Il giorno successivo Gautama attraversa un bosco di shala (shorea robusta)

sulle rive della Nairanjana e, mosso da un impulso profondo, si ferma a sera ai piedi di un ashvattha,

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(ficus religiosa), simbolo dell’albero celeste, axis mundi o perno ideale attorno a cui ruota l’intero

universo. Riportandosi al centro, l’asceta si appresta a raggiungere la suprema conoscenza. Dopo avere

venerato l’ashvattha girandovi attorno più volte, tre o sette secondo le differenti tradizioni, appronta sul

lato orientale dell’albero un sedile con un mucchio di erba kusha (poa cynosuroide), tradizionalmente

usata per coprire spazi rituali, avuta da Svastika, un tagliatore d’erba che la stava falciando nelle

vicinanze. I mitografi, non contenti di tale semplice versione, affermano che siano stati gli dei a fare

apparire un seggio quadrato simile ad un altare, per accogliervi lo strato d’erba offerto da Indra travestito.

Noto con il nome di vajrasana, “seggio di diamante”, la piattaforma è ancora oggi riverita a Bodh Gaya.

Assisosi in posizione yogica, il volto verso est, Gautama entra in profonda meditazione.

E’ la sera del plenilunio di vaishaka, aprile-maggio secondo il calendario lunare. Gautama, come tutti

coloro che cercano al di là dell’orizzonte umano, si immerge nelle profondità del suo essere e si appresta

ad incontrare le forze oscure che albergano in lui e che si manifestano sotto forma diabolica. Ma il

diavolo, colui che “mettere male fra due” e “disunisce”, ha al tempo stesso anche la funzione di “condurre

al di là”. Lo scontro con Mara, personificazione maschile della Morte e signore del Kamadhatu, il “regno

del desiderio” - ambivalente quanto l’Eros/Tanathos della tradizione greca -, permetterà a Gautama

all’inizio di quella fatidica notte di andare oltre la frammentaria dimensione della mente per attingere

l’unità della coscienza.

Richiamato dal pericolo costituito dalla ferma determinazione dell’asceta di trovare la Verità, Mara

emerge dai meandri della psiche, potente rappresentazione delle pulsioni primarie di conservazione e

distruzione della vita e del desiderio che ne attanaglia ogni momento. Furioso e ruggente, il Maligno

scaglia contro Gautama le armate demoniache ma egli, effondendo imperturbabile amorevolezza,

trasforma giavellotti e frecce in strali fioriti. Mutando tattica, Mara gli promette il dominio universale

come re giusto e prospero; l’asceta ribatte che conquisterà da solo il suo regno. Allora il demone l’istiga

ad utilizzare i poteri yogici per trasformare l’Himalaya in oro e sfamare i bisognosi; Gautama proclama

che nessuna ricchezza vale la conoscenza.

Lungi dal darsi per vinto, Mara afferma che la terra gli appartiene e rivendica per sé l’illuminazione,

dichiarandosi superiore a Gautama, semplice mortale. Questi chiama allora la Terra, “madre imparziale di

tutti gli esseri”, a testimone dei supremi meriti da lui acquisiti nelle precedenti incarnazioni ed Ella appare

a farsene garante. La narrazione mitica è a questo punto estremamente suggestiva: la splendida Dea si

torce i lunghissimi capelli intrisi delle aspersioni rituali effettuate fino dai primordi dai Bodhisattva o,

secondo altra più toccante versione, grondanti per le lacrime versate dagli esseri umani nel sofferto

cammino della vita. Il fiume che ne scaturisce travolge i demoni, ancora una volta accanitisi contro

Gautama, in un’immagine di grandiosa potenza che celebra la forza di purificazione del dolore.

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Se la raffigurazione della Terra intenta a strizzare le chiome si è diffusa particolarmente in Indocina,

l’immagine del Buddha che tocca il terreno con la punta delle dita della mano destra per avvalorare la sua

preminenza su Mara è una delle più diffuse in tutto il mondo buddhista. Nota come bhumisparshamudra,

“il gesto di toccare la terra”, è la prima delle mudra, i “sigilli” o gesti esoterici che alludono a particolari

momenti della vita del Buddha: la mano destra sollevata a mostrare il palmo indica rassicurazione; la

sinistra nella stessa posizione, ma abbassata, veicola doni spirituali; il dorso della mano destra sul palmo

di quella sinistra sottolinea lo stato di meditazione; le mani che si toccano davanti al petto, la destra con il

palmo verso l’esterno e la sinistra con il palmo verso l’interno, indice e pollice di entrambe ad anello,

celebrano l’inizio della predicazione.

Mara non demorde e, come più volte fatto dagli dei che inviano le ninfe celesti a tentare gli asceti,

ricorre alla seduzione servendosi delle proprie figlie, Trishna, Arati, Rati (o Raga) ovvero Brama,

Disgusto e Voluttà (in certi testi Arati è sostituita da Priti, Diletto). Ma anch’esse falliscono e davanti

all’imperturbabilità di Gautama, Mara è costretto a ritirarsi.

Rimosse le tentazioni, il futuro Buddha può immergersi nella meditazione, che si dipanerà per tre

vigilie di quattro ore ciascuna, dal calare al sorgere del sole. L’ordine con cui sono descritte le varie fasi

del risveglio spirituale di Gautama e le concezioni elaborate variano a seconda dei testi. Nella prima

vigilia, acquisito l’occhio divino, l’asceta contempla il fluire degli esseri, simile alla ruota di una noria,

che continuamente riempie e svuota i propri vasi d’acqua, e osserva come ciascuno ritorni all’esistenza a

causa delle azioni compiute in quella precedente, conquistandosi rinascite infernali o divine a seconda dei

demeriti o dei meriti.

Nella seconda vigilia prende coscienza delle sue innumerevoli nascite anteriori, penetrandole fino nei

minimi dettagli, e nella terza comprende che l'esistenza umana si riduce ad una successione interconnessa

di fattori, condizionati da quelli che li hanno preceduti e a loro volta condizionanti i seguenti.

Domandandosi quale sia la causa della vecchiaia e della morte Gautama la imputa al fatto di essere nati e

vede la nascita come effetto dell’esistenza. Questa a sua volta origina dall’attaccamento, a monte del

quale si trova il desiderio, creato dalle sensazioni acquisite tramite il contatto con gli oggetti del mondo

materiale. Le sensazioni sono veicolate dai sei organi di senso - olfatto, gusto, vista, tatto e udito, più la

mente –, che sono strumenti della personalità individuale, espressione a sua volta della coscienza

strutturatasi dall'accumulo di karman, dipendente dall'ignoranza. Ripercorrendo più volte questa serie di

dodici fattori, Gautama arriva finalmente a comprendere la Verità e può così proclamare “Ecco il dolore,

ecco l’origine del dolore, ecco la soppressione del dolore, ecco il cammino che conduce alla soppressione

del dolore”.

Mirabili eventi accompagnano l’illuminazione e il corpo del Buddha emana raggi di sei colori verso

tutte le plaghe dell’universo. E quando l’alba schiarisce il cielo, Siddhartha Gautama, conseguita la bodhi,

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il risveglio spirituale, è diventato un Buddha. Benché il termine venga per lo più tradotto poeticamente

come “Illuminato”, in effetti significa “Risvegliato” e sottolinea come il principe asceta sia giunto alla

comprensione del Vero da se stesso, senza alcun intervento esterno. Questa impresa, quantunque

estremamente ardua, è attuabile da qualsiasi uomo, addirittura da qualsiasi essere vivente, poiché la

buddhità, la possibilità di raggiungere l’illuminazione, è aperta a tutti. Altri nomi gli vengono attribuiti:

Shakyamuni, il saggio degli Shakya; Jina, il “Vincitore”; “Tathagata”, “Colui che è andato cosi” sulle

tracce dei Buddha suoi predecessori o verso la meta finale.

Per altre sette settimane il Buddha si trattiene nel luogo della sua illuminazione e, benché i testi non

siano concordi nel descrivere gli accadimenti di questo periodo, è evidente che i rimandi sono al

cerimoniale regale e ai riti che seguivano l’incoronazione. Il Buddha è infatti un cakravartin: il suo

impero travalica il mondo materiale ed è superiore a quello del sovrano. Come prescritto per il re, che

deve trattenersi per sette giorni nella sede dell’intronizzazione, il Buddha rimane per lo stesso periodo

sotto l’ashvattha, che da quel momento sarà noto come “albero della bodhi”.

Quindi trascorre la seconda settimana nella contemplazione dell’albero senza mai abbassare le

palpebre e la terza effettuando la pradakshina, la deambulazione attorno all’oggetto da venerare,

tenendolo alla propria destra, atto comune a tutti gli ambiti religiosi indiani. Nella quarta e nella quinta

settimana si sposta a meditare prima a nord-ovest e poi sotto il sacro banyan (ficus bengalensis) chiamato

Ajapala, “protettore di capre”.

E’ nella sesta che si situa l’avvenimento più noto di questo controverso periodo di quarantanove giorni

dopo l’illuminazione: l’apparizione di Mucalinda o Mucilinda, il re dei Naga, popolo in parte umano e in

parte serpentino, custode dei tesori sotterranei. Il Buddha si è spostato sulle rive di un vicino stagno e si è

assiso in profonda meditazione sotto un albero che porta il nome del naga, un mucalinda (barringtonia

ocutangula), quando improvvisamente un rovescio di pioggia fuori stagione rischia di travolgerlo.

Mucalinda emerge allora dalle radici e, arrotolate le spire, funge da trono all'Illuminato, aprendo il

cappuccio policefalo per fargli da baldacchino. Al termine dello scroscio monsonico, lo adora sotto le

spoglie di uno splendido giovane, come mostrano gli antichi bassorilievi. L’omaggio del serpente, che in

India ha valenza positiva, indica il riconoscimento da parte delle divinità terrestri della supremazia

spirituale del Buddha.

Trasferitosi la settima settimana sotto l’albero Rajayatana, la “residenza del re”, il Buddha è ancora

una volta tentato da Mara e dalle sue figlie. Queste per punizione vengono trasformate in tre vecchie

laide, restituite in seguito alla loro bellezza dall’Illuminato, toccato dal loro pentimento. Dal canto suo

Mara, instillandogli il dubbio che gli uomini non siano in grado di comprendere appieno la sua dottrina e

di seguirne i dettami, tenta come estrema risorsa di scoraggiarlo dal predicare e di indurlo ad entrare nel

nirvana. Scende allora dal cielo il dio Brahma, custode del mondo, che scongiura tre volte l’Illuminato di

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restarvi per aiutare i suoi abitanti a liberarsi dal dolore. Il Buddha, mosso da compassione, accoglie la

supplica. Come nel caso di Mucalinda, anche la preghiera accorata di Brahma indica il riconoscimento

della supremazia spirituale dell’Illuminato, questa volta da parte delle divinità celesti. Del resto gli dei

nella più antica concezione hindu, pur possedendo maggiori poteri e più alta coscienza degli esseri umani,

sono come loro soggetti al karman e anelano alla liberazione.

Alla fine della settima settimana si colloca l’incontro con i mercanti Trapusha e Bhallika che,

divinamente ispirati, presentano al Buddha un cibo a base di riso, melassa e burro. Dato che egli non ha

alcun recipiente per accogliere l’offerta, le divinità fanno a gara per offrirgliene di preziosissimi, ma egli

li rifiuta tutti finché i quattro lokapala, gli dei protettori dei quattro quadranti dello spazio, non gli portano

altrettanti vasi di pietra perché fungano da ciotole. Con un magico gesto il Buddha impila le quattro tazze

compattandole in una e vi fa deporre l’offerta. Per ricompensare i due mercanti, primi fedeli laici, il

Buddha consegna loro capelli e unghie perché possano diventare il cuore di futuri reliquiari.

III capitolo

IL DIFFONDERSI DELLA DOTTRINA

Acconsentito dunque a diffondere il Dharma, il messaggio salvifico, il Buddha lascia il luogo della sua

illuminazione e decide di partecipare la dottrina ai suoi primi due maestri, Arada Kalama e Udraka

Ramaputra, ma – essendo entrambi ormai morti - pensa di rivolgersi ai cinque asceti che avevano

condiviso con lui le mortificazioni e con la chiaroveggenza li scorge a Rishipatana, nei pressi di Kashi

(oggi Benares/Varanasi).

Giunto al Gange, si vede rifiutare il passaggio all’altra sponda dal traghettatore perché

nell’impossibilità di compensarlo. Allora, benché restio a servirsi dei poteri eccezionali – avrebbe in

seguito scoraggiato dal farlo quelli monaci della sua comunità che li avevano acquisiti -, il Buddha si

porta miracolosamente sull’altra riva. Il fatto viene riferito al re Bimbisara, che solleva da quel momento

in poi tutti gli asceti e i religiosi itineranti dal pagamento del pedaggio.

Rishipatana, corrispondente all’attuale Sarnath, a sei chilometri a nord di Benares, era luogo di

antichissima fama legato ai rishi, “sacri veggenti” che quivi sarebbero caduti in cenere, consunti dal

fuoco della loro ascesi. Nota anche come Mrigadava, “Bosco delle gazzelle o dei cervi” (il termine

sanscrito mriga può significare anche antilope, daino ecc.), poiché abitata da questi animali, venne dagli

agiografi buddhisti ritenuta la sede di una delle precedenti incarnazioni del Buddha, che vi avrebbe

vissuto come re dei cervi. Prima di rinascere come principe Siddhartha, il bodhisattva era infatti tornato

innumerevoli volte all’esistenza sotto molteplici forme, anche animali – ma tutte sempre maschili -, per

portare a perfezione il suo cammino di consapevolezza e compassione. Tali precedenti apparizioni del

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Buddha storico sono descritte dai Jataka, 547 racconti delle vite anteriori, che costituiscono la principale

fonte iconografica per i primi artisti buddhisti: infatti, benché redatti nel V sec. d.C., di fatto descrivono

situazioni e ambienti del II/III sec. a.C.

Arrivato dunque a Rishipatana, l’Illuminato trova i cinque antichi compagni e, vintane la diffidenza

con il carisma che irraggia dalla sua persona, viene invitato a sostare presso di loro. Dichiarato di avere

conseguito la verità e di essere diventato un Tathagata, il Buddha si tace. S’avanza la notte, con la luna

piena che fa come sempre da sfondo ai grandi eventi della sua vita. Trascorsa la prima vigilia in

silenzioso raccoglimento, riprende a parlare nella seconda ed illustra le motivazioni che l’hanno indotto

ad adottare il cammino di mezzo fra gli estremi del lassismo e della mortificazione, entrambi eccessivi e

sterili. Nella terza vigilia, mentre esultano i cieli e si riempiono di luce, pronuncia il suo primo sermone,

il famoso “Discorso sulla messa in moto della Ruota della Dottrina”, che contiene i principi basilari del

Buddhismo e che è celebrato nell’iconografia dalla dharmacakrapravartanamudra: le mani davanti al

petto, la destra con il palmo verso l’esterno e la sinistra con il palmo verso l’interno, indice e pollice di

entrambe ad anello.

In un procedere serrato simile all’analisi clinica – e il Buddha verrà spesso celebrato come medico -,

egli rileva l’universalità della sofferenza, affermando così con questa diagnosi la prima delle “Quattro

sante verità” che costituiscono uno dei capisaldi del Buddhismo. Nella seconda individua la causa del

soffrire nella sete, termine molto pregante in un paese come l’India che ben conosce l’arsura. A

temperare tale sconfortante visione interviene la terza verità, la prognosi positiva sulla possibilità di

estinguere la bramosia seguendo l’ottuplice sentiero di rettitudine, quarta ed ultima santa verità.

L’ottuplice sentiero, l’ashtangamarga, è la via di mezzo che si tiene lontana dagli estremi e che

consiste in retta visione, retta risoluzione nel perseguirla, retta parola, retta attività, retti modi di

sussistenza, retto sforzo, retta presenza di spirito, retta meditazione. Ad essa rimanda il simbolo della

dottrina buddhista: la ruota ad otto raggi.

E’ sempre a Rishipatana che il Buddha pronuncia un altro fondamentale sermone, quello sulla

mancanza di un essere proprio della realtà, sia essa oggettiva o soggettiva. L’universo è travolto da un

perenne divenire, ove ogni evento è formazione momentanea e sempre dipendente da altro, generata

dall’aggregarsi e scomporsi di principi costitutivi “minimi” di ordine fisico e mentale, oltre i quali è

impossibile risalire. L’impermanenza è la caratteristica dell’essere e l’incessante trascorrere dei fenomeni

di stato in stato li rende dolorosi. In pieno contrasto con la concezione fondamentale del Brahmanesimo –

l’insieme delle concezioni e delle modalità esistenziali dettate dalla casta dei brahmani -, che crede in un

sostrato permanente, il Buddha afferma l’insostanzialità e l'inanità dell'esistenza. Per il Buddha non c’è

alcuna sostanza, nessuna Essere, nessun noumeno, solo il divenire. Ogni fenomeno è vuoto, perché privo

di un sé separato durevole e indipendente: la vacuità è la condizione universale.

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Anche l’’individuo in quanto entità sostanziale ed unità psicofisica permanente non esiste; ciò che

viene definito “uomo” è una personalità fenomenica in continuo divenire, un agglomerato di fattori

materiali e psichici, gli skanda, collegati da un fittizio concetto di “ego”. La forma corporea costituisce il

primo aggregato e determina il secondo, che si struttura con le percezioni, le sensazioni e le emozioni

derivate dall'attività sensoriale del corpo. Tutto questo viene registrato dalla mente attraverso un processo

di rappresentazione, discriminazione e riflessione e va a costituire le nozioni, ovvero il terzo aggregato, a

sua volta alimentante il quarto, quello dei costrutti psichici soggettivi consci ed inconsci. Il quinto skanda

coordina in maniera unitaria i processi precedenti ed è la coscienza che detta i comportamenti materiali,

verbali e mentali.

Alla dissoluzione dei cinque skanda che formano l'apparenza dell'individualità succede una nuova

serie di composti, condizionata dagli effetti del karman accumulato dal precedente insieme di aggregati,

che funziona da elemento catalizzatore e da determinante per il susseguente. Non trovano posto in questo

contesto i concetti brahmanici di anima permanente e immutabile, soggetto della reincarnazione, e di

Assoluto, l’Essere al di là del divenire. Su questi due problemi, che maggiormente coinvolgono l'uomo e

lo inducono a bramare paradisi o temere inferni e che, soprattutto, non si prestano ad essere investigati

con i normali processi logici, il Buddha mantenne sempre un nobile silenzio.

Al doloroso fenomenismo del mondo materiale si oppone il nirvana, totale cessazione dell'esistenza

empirica e della sua fittizia coscienza, stato indefinibile poiché al di là della limitata comprensione umana

ed esprimibile, tutt'al più, solo negando ciò che non è. Termine complesso, oscuro e variamente

interpretato, nirvana può significare sia “assenza di aria” che “estinzione tramite soffio”, alludendo

comunque in entrambi i casi allo spegnersi del fuoco della vita per mancanza del combustibile del

desiderio. Al tempo stesso, però, vista la tradizionale concezione indiana secondo la quale, quando la

fiamma si spegne, il fuoco non si annienta, ma rientra nella sua vera e illimitata dimensione di essere, si

può supporre che nirvana intenda un ineffabile stato al di là di ogni limite e condizionamento.

Il primo dei cinque antichi compagni del Buddha a comprendere il senso del Dharma e ad illuminarsi è

Ajnata Kaundinya, diventando così un arhat, un “degno”; poi seguono Vashpa e Bhadrika e quindi

Mahanama e Asvajit. Con la loro ordinazione nasce la comunità monastica, il Sangha, che insieme al

Buddha e alla sua dottrina, il Dharma, costituisce il Triplice Gioiello.

Alla conversione dei cinque compagni del Buddha, che comunque erano già asceti, si aggiunge quella

di un laico, Yasha, figlio di un ricco mercante di Benares, disgustato come lo era stato il principe

Siddhartha dai piaceri materiali ed effimeri della carne. Superata la disperazione per la rinuncia al mondo

del loro unico erede, i genitori del giovane invitano il Buddha a pranzare nella loro casa, poiché era

consuetudine nell’India antica offrire cibo ai brahmani, agli asceti e ai monaci. In questa occasione il

Buddha enuncia i cinque precetti fondamentali che i laici devono osservare se vogliono seguire la sua via:

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non uccidere, non rubare, attenersi ad una corretta condotta sessuale, astenersi dalla menzogna, non

assumere alcolici e stimolanti. Convinti dalle parole dell’Illuminato, i genitori e la sorella di Yasha

diventano i primi zelatori laici mentre molti dei suoi amici ne seguono le orme, tanto che la comunità del

Buddha arriva a contare sessanta monaci, per lo più della casta dei mercanti.

Costoro, dato che si occupavano di beni materiali e che si spingevano in terre lontane e quindi impure,

erano considerati con sospetto e sufficienza all’interno del Brahmanesimo. All’epoca del Buddha le varie

corporazioni mercantili erano in forte espansione e costituivano una presenza significativa nelle città che

andavano formandosi. Le nuove caste urbane, colte, raffinate e svincolate dalle concezioni magico-

religiose dei brahmani, furono immediatamente attratte dalle dottrine del Buddhismo dei primi tempi,

fortemente intellettuali e individualistiche.

Con la fine della stagione delle piogge il Buddha sollecita i propri monaci a mettersi in cammino per

diffondere il Dharma. Lui stesso, dirigendosi verso Uruvilva, converte altri trenta giovani gaudenti:

incontratili mentre inseguivano una cortigiana che si era impossessata dei gioielli di uno di loro, li induce

a comprendere come sia ben più preziosa la conoscenza del vero, che il possesso di oro e gemme.

Giunto ad Uruvilva, il Buddha soggiorna in un villaggio di anacoreti brahmani, noti come jatila ovvero

asceti dai capelli scarmigliati, guidati dal grande rishi Kashyapa. I testi narrano di eventi mirabolanti che

evidenziano la superiorità dell’Illuminato: la discesa dei quattro protettori dello spazio, del dio Shakra e

di Brahma per ascoltarne la dottrina; l’abilità del Buddha di leggere i pensieri di Kashyapa; le

innumerevoli dimostrazione di forza e velocità sovraumane, la materializzazione di carboni ardenti, la

capacità di camminare sulle acque e di volare…Tremilacinquecento prodigi, dice la tradizione popolare,

soffermandosi particolarmente sullo scontro con un velenoso serpente che aveva preso dimora nel tempio

del fuoco di Kashyapa, avvenuto tra un turbinio di fiamme riversate dal cobra sul Buddha, a sua volta

ammantatosi di ignei guizzi multicolori. All’alba il cobra, domato, riposava placidamente attorcigliato

nella ciotola delle offerte del Buddha. Il dominio sugli elementi –vincere il fuoco, camminare sulle acque,

volare – secondo la concezione indiana non è frutto di miracolo, quanto conseguimento derivato dalla

disciplina yogica che, se praticata integralmente e senza cedimenti, porta a frangere i limiti umani.

Ma probabilmente a convincere Kashyapa non furono i poteri magici del Buddha, bensì le sue

concezioni esposte con una dialettica brillante e sostenute dal carisma personale, qualità precipue

dell’Illuminato. Kashyapa dunque lo riconosce come maestro insieme ai suoi cinquecento accoliti e così

fanno gli altri due fratelli del grande asceta, dislocati con i loro discepoli – trecento e duecento - in due

eremi lungo il Gange. Di nuovo, a fare confluire nelle file del Sangha i mille jatila riuniti sulla collina

Gayashirsha non sono tanto i prodigi del Buddha aggiunti in seguito dai testi encomiastici, quanto il

famoso sermone del mondo in fiamme, ove la brama arde ogni cosa e che solo il distacco può spegnere.

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Il Buddha prosegue per Rajagriha, memore della promessa fatta al re Bimbisara di partecipargli la via

di salvezza, una volta scopertala. Alle porte della città riceve la visita del sovrano, che lo invita a pranzo a

palazzo per il giorno dopo. L’indomani il Buddha entra trionfalmente in città preceduto dal dio Shakra

che, sotto le sembianze di un giovane bramano, annuncia l’arrivo dell’Illuminato celebrandolo come

“…colui che si è spogliato del proprio ego, liberando se stesso, con l’incarnato puro come l’oro fuso,

colui che è passato all’altra riva, soggiogando le passioni…”. Profondamente toccato dalla predicazione

del Buddha, Bimbisara fa dono a lui e alla sua comunità del Venuvana, il “Bosco dei Bambù”. E’ questa

la prima sede stabile della comunità monastica che, itinerante per tutto il resto dell’anno, potrà

trascorrervi il periodo delle piogge, in un contatto più stretto con la popolazione. E’ proprio durante questi

periodi che il rapporto fra monaci e laici si rafforza, offrendo a questi ultimi la possibilità di presentare

offerte di generi alimentari e di prima necessità, ricevendone in cambio insegnamenti e guida e

acquisendo meriti spirituali.

Durante il periodo trascorso a Rajagriha nei pressi del Picco dell’Avvoltoio, particolarmente amato dal

Buddha, questi converte due giovani destinati a diventare i discepoli più illustri del Sangha: Shariputra e

Maudgalyayana, il primo eccellente per l’acutezza mentale, il secondo per i poteri soprannaturali.

Entrambi erano seguaci di un noto asceta, Sanjaya, ma un giorno Shariputra si imbatte in Ashvajit, uno

dei cinque primi discepoli del Buddha, che sta effettuando la questua del cibo. Profondamente colpito dal

sereno distacco e dall’aura di santità che emanano dal monaco, Sariputra lo interroga e quanto apprende

gli fa sorgere il desiderio di conoscere il Buddha. Avendo messo a parte Maudgalyayana di quanto

avvenuto, entrambi decidono di recarsi dal maestro di Ashvajit e vengono convertiti. La tradizione vuole

che i due grandi discepoli venerassero a tal punto il Buddha da non poter sopportare di sopravvivergli e

quindi, si dice, avrebbero in seguito deliberatamente scelto di morire prima di lui.

Sempre a Rajagriha avviene un’altra eccellente conversione, quella di Mahakashyapa, figlio di un

ricchissimo brahmano del Magadha, che era diventato anacoreta con la moglie e trascorreva con lei

l’esistenza in totale castità. Avendo i due deciso di separarsi per completare individualmente il loro

cammino spirituale, Mahakashyapa si reca dal Buddha per porgli alcuni quesiti e ne riceve risposte

talmente soddisfacenti da proclamarsi suo discepolo. L’incontro è improntato all’immediata intesa

reciproca e l’Illuminato addirittura scambia il proprio mantello con quello di Mahakashyapa,

preannunciando in tal modo che il grande asceta era destinato a succedergli nella guida del Comunità.

Una poetica tradizione locale vuole che Mahakashyapa attenda racchiuso in una collina del Magadha la

venuta del prossimo Buddha, Maitreya, per consegnarli il manto del suo predecessore, il Buddha

Shakyamuni, un tempo principe Siddhartha.

Intanto Shuddhodana ha inviato numerosi messaggeri al figlio perché rientri a Kapilavastu, ma tutti

costoro hanno abbracciato la vita monastica, per cui il re decide di ricorrere a Udayin, amico di infanzia

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del Buddha, e – secondo altre fonti – anche al suo scudiero Chandaka. E finalmente l’Illuminato, dopo

comunque che anche Udayin si è fatto monaco, accetta di tornare nella sua città natale, ma procede con

grande lentezza per cui Suddhodana, sdegnato, in un primo tempo si rifiuta di riceverlo ma poi, vinto

dall’affetto, gli va incontro con una grande processione. Nel “Giardino dei Nyagrodha”, i maestosi

banyan, colui che fu un principe incontra i riluttanti nobili shakhya e ne vince l’ostilità e l’orgoglio

planando su di loro dal cielo in un turbinio di acqua e fuoco.

In effetti Shuddhodana è impaziente di riavere con sé il Buddha perché lo vuole presente

all’intronizzazione del fratellastro Nanda, in modo da potersi gloriare di un figlio grande asceta e di uno

sovrano, ma Buddha – intuendo che Nanda non è tagliato per il regno – lo costringe a farsi monaco,

malgrado la riluttanza di quest’ultimo, profondamente innamorato della promessa sposa, Janapada

Kalyani, “la Bella del Paese”. Per fargliela dimenticare, l’Illuminato lo conduce magicamente nei cieli a

contemplare le stupende apsaras, le ninfe celesti, a confronto delle quali la bellezza dell’amata di Nanda

è nulla. Desideroso di ottenere tali divine creature, Nanda accetta di restare nel Sangha fidando

nell’acquisizione di magici poteri, ma procedendo nel cammino del Dharma si rende conto della futilità

delle sue brame e raggiunge la pace dei sensi.

Intanto Yashodhara ha inviato il figlio Rahula di sette anni a chiedere “la sua eredità” al Buddha e

questi lo ordina monaco. Mosso però dal toccante colloquio avuto con il padre Shuddhodana, che gli

manifesta la sua profonda sofferenza per avere perso entrambi i figli ed ora anche il nipotino, luce della

sua vecchiaia, il Buddha ne accoglie la supplica che da quel momento in poi non si possa più ordinare

monaci quanti abbiano ancora i genitori viventi, se questi non hanno dato il loro permesso.

Così Anuruddha, cugino del Buddha, che vuole farsi monaco, chiede alla madre il consenso, ma ella

accetta di concederlo solo se il principe Bhadrika, amico d’infanzia del figlio, si converta a sua volta alla

vita monastica, certa che ciò non sarebbe avvenuto. Invece Bhadrika abdica al rango e ai poteri e altri

nobili decidono di seguirne l’esempio.

Tra il gruppo dei giovani che si mettono in cammino per raggiungere il Buddha ad Anupiya, nel paese

dei Malla (area di confine fra gli odierni Bihar e Uttar Pradesh), vi sono i cugini Devadatta e Ananda,

destinati a giocare ruoli cruciali nella vita dell’illuminato, il primo come irriducibile avversario, il

secondo come fedele attendente. Fattisi rasare dal barbiere Upali, i giovani shakya gli donano i propri

gioielli e questi, intuito che la loro meta doveva avere un enorme valore, raggiunge prima di loro il

Buddha e viene ordinato monaco malgrado il suo infimo livello castale. Cosi, arrivati i principi e i loro

amici all’eremo dell’Illuminato, devono inchinarsi davanti a Upali, superiore a loro – seppur di poco – per

anzianità di ordinazione, l’unica che valeva come gerarchia all’interno del Sangha e che serviva ad

abbattere l’arroganza e l’orgoglio di nascita.

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Nella seconda visita del Buddha a Kapilavastu in occasione della morte del padre, la moglie di questi,

Mahaprajapati Gautami, sorella della madre di Siddhartha, chiede il permesso di potere entrare a fare

parte del Sangha, ma l’Illuminato lo rifiuta. La tradizione vuole che la donna fosse diventata cieca per il

troppo piangere il nipote lontano, amato come un figlio, e che in questa occasione - bagnandosi gli occhi

con dell’acqua miracolosamente scesa dal cielo sul corpo del Buddha - avesse riacquistato la vista.

Recatosi il Buddha a Vaishali, Guatami e altre nobili donne shakhya lo raggiungono dopo un penoso

viaggio a piedi e qui, su intercessione di Ananda, il Buddha accetta di aprire il Sangha alle donne, ma

impone loro altre otto regole – oltre a quelle dei monaci – e la totale sottomissione ai confratelli maschi,

che esse devono sempre e comunque onorare anche se più giovani e di recente ordinazione. Vaticina

inoltre che a causa dell’ingresso delle donne nella Comunità, si sarebbe ridotta da mille a cinquecento

anni la durata della sua dottrina in India. Benché questa sia rimasta vitale molto più a lungo – fino al

XII/XIII sec. -, in effetti poi scomparve e non tornò su suolo indiano fino agli inizi del XX secolo.

La comunità monastica continua a crescere, sorretta e affiancata da quella laica che offre terreni,

edifica monasteri, fornisce cibo, abiti e generi di prima necessità. E’ proprio un laico che dona al Buddha

uno dei luoghi che gli sarebbero divenuti più cari e ove avrebbe trascorso non meno di venticinque ritiri

durante la stagione delle piogge. Mentre l’Illuminato si trovava a Rajagriha, infatti, gli aveva reso visita

Sudattha detto Anathapindada, “benefattore di chi non ha protezione”, un ricchissimo mercante di

Shravasti (odierna Set Mahet in Uttar Pradesh), capitale del Koshala, invitandolo a soggiornare nella sua

città, e il Buddha aveva accettato di andarvi al suo rientro da Kapilavastu.

Sudattha, ansioso di trovare la giusta collocazione per il Maestro e la sua comunità, aveva chiesto al

principe Jeta di acquistare il suo meraviglioso parco, ma il principe si era rifiutato, affermando

scherzosamente che l’avrebbe ceduto solo se fosse stato ricoperto d’oro. Sudattha lo prende in parola e

stende una coltre di monete auree fra albero e albero, costringendo il principe a tenere fede a quanto

aveva detto. In quest’area, denominata dal suo primo proprietario “Jetavana”, il “Bosco di Jeta” sorse un

grande monastero: racchiuso in una cinta accessibile attraverso un triplice portale, era costituito dalle

capanne di abitazione dei monaci, da una serie di padiglioni deputati ad accogliere i discorsi del Buddha,

la meditazione, il capitolo, e dagli annessi di servizio, tra cui i bagni e numerosi pozzi. Ad avvalorare la

presenza a Shravasti del Buddha concorrono una colonna monolitica sormontata da un leone e uno stupa,

reliquiario a tumulo eretto da Ashoka.

Il potente stato del Koshala in quei giorni è retto dal re Prasenajit, cognato di Shuddhodana, padre del

Buddha, e davanti al sovrano il Buddha tiene alcuni importanti sermoni, convertendo la regina Mallika,

moglie di Prasenajit, e la figlia, la principessa Vajiri. Gli antichi bassorilievi illustrano le sontuose

processioni che accompagnavano il re fino all’ingresso dell’eremo dell’Illuminato.

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Tra le conversioni più significative effettuate in questo regno si situa quella del feroce brigante

Angulimala che, come dice il suo nome, si ornava di ghirlande fatte con dita umane. Ancora una volta si

rivela il carisma del Buddha e soprattutto la sua amorevolezza verso gli altri, armi potenti e risolutive nei

momenti tragici, sia per convertire personaggi feroci che per sedare pericolose dispute, come quella

scoppiata fra gli Shakya e i Kraudya per i diritti sul fiume Rohini (oggi Rohwaini), che avrebbe potuto

trasformarsi in una carneficina senza l’intervento del Buddha.

A nessuno è negata udienza e tra i seguaci dell’Illuminato si annoverano appartenenti a tutte le caste e

di entrambi i sessi. Molte le cortigiane - donne colte, raffinate e ricche -, che profondono spesso parte dei

loro averi per opere caritatevoli. La più celebre di tutte è Amrapali, bellissima etera di Vaishali, amata da

Bimbisara re di Rajagriha, a cui aveva partorito un figlio, Vimala Kaundinya, destinato a diventare

monaco. Essendo riuscita a formulare per prima al Buddha un invito a pranzo, Amrapali si rifiuta di

cedere l’onore ai nobili licchavi della sua città, che pur le offrono centomila monete d’oro, ed anzi regala

al Buddha il suo ameno “Parco dei manghi”. Divenuta in seguito monaca, compose alcune delle più belle

stanze della sezione “Canti delle monache” del Tipitaka, il Canone buddhista.

La vita del Buddha e quella dei suoi monaci durante il ritiro monsonico scorreva con semplice

regolarità: ci si alzava prima dell’alba e si faceva meditazione. Poi tutti andavano nel vicino luogo abitato

per la questua del cibo e consumavano l’unico pasto entro mezzogiorno. Le ore più calde della giornata

erano dedicate al riposo, anche se le agiografie sostengono che il Buddha non perdeva mai la lucidità e la

presenza di spirito. Quando la calura diminuiva arrivavano i laici per incontrare le loro guide spirituali e

soprattutto per ascoltare i sermoni del Buddha. Durante il giorno, quando non era impegnato nella

meditazione, nella questua e nella predicazione, l’Illuminato sedeva sulla soglia della sua capanna

accogliendo i suoi figli spirituali e dedicandosi al Sangha. A sera, dopo il bagno e gli ultimi incontri con i

monaci, meditava lungamente, prima di concedersi poche ore di sonno.

In questo secondo periodo della vita del Buddha si collocano due grandi miracoli, a Sankashya

(nell’odierno Uttar Pradesh meridionale) e a Shravasti. Nella prima località il Buddha ascende al cielo

durante i tre mesi della stagione delle piogge per predicare la dottrina alla madre, che era rinata nel

Trayastrimsha, il Paradiso dei Trentatré Dei, dopo avere acquisito la superiore condizione di uomo. La

tradizione vuole che in questa circostanza sia stato recitato l’Abhidharmapitaka, il “Canestro dell’essenza

del Dharma”, che costituisce la terza sezione del Canone buddhista. Il ritorno sulla terra dell’Illuminato

avviene come un trionfo: sotto una pioggia di fiori gettati dai celesti osannanti, il Buddha scende

affiancato da Brahma e Indra su tre preziose scalinate d’oro, di cristallo di rocca e d’argento che

ribadiscono la pregnanza di un simbolo, la scala, presente anche presso altre culture come allusione al

percorso spirituale di graduale e conquistata ascesa.

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L’altro grande prodigio avrebbe avuto luogo in un padiglione per pubblici dibattiti eretto

appositamente da Prasenajit a Shravasti, durante un confronto fra il Buddha e sei esponenti di altre

dottrine, uno dei quali sembra essere stato Vardhamana, fondatore del Jainismo, corrente spirituale ancora

diffusa in India. Secondo le pie fonti la vittoria del Buddha sarebbe stata dovuta ad un grandioso miracolo

narrato in tre diverse versioni: la prima vuole che l’Illuminato abbia fatto crescere in pochi attimi un

enorme albero di mango con fiori e frutti; la seconda afferma che si tratta invece di un gigantesco loto, su

cui si sarebbe assiso; la terza sostiene che il Buddha si sia moltiplicato all’infinito, riempiendo con le

proprie immagini fiammeggianti l’intero universo. Questa versione è alla base degli affreschi dei “Mille

Buddha” che ornano le pareti delle grotte buddhiste in India e lungo la Via della Seta.

Ma l’esistenza terrena del Buddha non è costellata soltanto di successi e miracoli, bensì anche di

conflitti e persecuzioni. Ingrandendosi la comunità, infatti, i motivi di attrito e l’insofferenza fra i monaci

crescevano. Una delle prime liti all’interno del Sangha avviene per futili questioni nell’insediamento

monastico di Goshita, nei pressi di Kaushambi, (odierna Kosambi in Uttar Pradesh). Non riuscendo il

Buddha a rappacificare i contendenti, si ritira nella vicina foresta di Parileyyaka, facendo amicizia con un

elefante maschio che si era allontanato disgustato dalle risse dei giovani del suo branco.

Oltre ai dissapori all’interno del Sangha, il Buddha è oggetto di ostilità da parte di alcuni ceti sociali,

che lo accusano di distruggere le famiglie privandole dei loro figli. Del resto il fine precipuo

dell’Illuminato era l’affrancamento definitivo dalla sofferenza, che poteva essere realizzato solo uscendo

per sempre dal ciclo delle rinascite: la via monastica era dunque l’unico mezzo possibile per sciogliere

ogni legame e non stringerne altri.

Ulteriori opposizioni vennero anche e soprattutto da comunità ascetiche rivali, gelose del carisma e

della fama del Buddha e decise a screditarlo, usando perfino i più subdoli espedienti. A Shravasti la bella

asceta Cincamanavika, istigata dai suoi maestri, lo accusa di paternità alla presenza di tutti i monaci, ma il

blocco di legno che ha legato in vita per simulare la gravidanza le cade sui piedi, svelando l’inganno. Ben

più grave è la congiura ordita contro di lui al Jetavana, dove Sudari, un’altra asceta appartenente sempre

ad una setta rivale, viene assassinata e il suo cadavere è rinvenuto sepolto vicino alla capanna del Buddha.

Ma i veri sicari, speso subito gran parte della ricompensa in una taverna e ubriacatisi, si vantano del

crimine commesso e vengono arrestati, scagionando l’Illuminato da ogni sospetto.

IV capitolo

IN CAMMINO VERSO IL NIRVANA

Gli ultimi anni di vita del Buddha sono rattristati dalla contesa con Devadatta, che porta alla prima

scissione della comunità. Anche in questo caso le notizie storiche si intrecciano con quelle mitiche e

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l’ascendente che il cugino del Buddha riesce ad esercitare su Ajatashatru, figlio di Bimbisara, viene

attribuito ai suoi poteri magici. Di fatto il principe trama per uccidere il padre, ma Bimbisara, appreso

della congiura, perdona il figlio e il suo maestro spirituale. Pagherà caro questo suo gesto di magnanimità,

perché Ajatashatru in seguito lo farà imprigionare e lo lascerà morire di fame.

Devadatta intanto affronta apertamente il Buddha e a Kaushambi chiede di poterlo rilevare nella

conduzione della comunità, visto che l’Illuminato è ormai avanti negli anni. Al rifiuto del Buddha pare

che Devadatta abbia tentato di eliminarlo fisicamente inviando nell’eremo di Rajagriha un sicario, che

però fu talmente colpito dalla personalità del Buddha da svelargli la trama e convertirsi. Allora Devadatta

decide di agire di persona facendogli rotolare addosso dal Picco dell’Avvoltoio un masso:

miracolosamente solo una scheggia di pietra ferisce lievemente il Buddha, che proclama l’impossibilità di

uccidere i Tathaghata – cosi egli chiama se stesso e i suoi predecessori -, i quali muoiono di morte

naturale, quando lo decidono.

Il malvagio cugino non desiste e fa scagliare contro il Buddha che sta facendo la questua per le vie di

Rajagriha l’elefante Nalagiri, appositamente fatto imbizzarrire. Ma l’Illuminato lo placa con la

mansuetudine che emana dalla sua persona o, secondo un’altra versione ancora più toccante, dialogando

con lui nel linguaggio appreso dall’elefante maschio con cui aveva stretto amicizia durante il suo

volontario esilio nella foresta Parileyyaka.

A questo punto Devadatta, visti infruttuosi i tentativi violenti di eliminarlo, sfida il Buddha sul terreno

dottrinale, chiedendogli di obbligare i monaci a seguire alla lettera le prescrizioni originarie: vivere nella

foresta con i soli alberi come riparo; vestirsi con pezze raccattate tra i rifiuti senza accettare altri doni di

vestiario; mangiare una volta al giorno esclusivamente cibo mendicato e vegetariano, e pertanto non

accogliere inviti a pranzo. Al rifiuto del Buddha, che preferisce lasciare a ciascuno la scelta del rigore di

vita in rapporto alle proprie capacità di resistenza, Devadatta abbandona la comunità seguito da 500

monaci desiderosi di una vita più austera. Malgrado la tradizione voglia che i due discepoli Shariputra e

Maudgalyayana li riportassero in seguito all’ovile, il pellegrino cinese Hsiuen-tsang nel VII sec. d.C.

afferma di avere incontrato ancora numerosi seguaci della regola stretta di Devadatta.

Il tradimento di Devadatta ha luogo quando il Buddha ha 72 anni e non è l’unico doloroso evento che

l’Illuminato deve sopportare nell’ultimo periodo della sua esistenza: il principe Ajatashatru detronizza il

padre e lo lascia morire di fame. Quindi invade il Koshala e si scaglia contro Prasenajit, che nei primi

assalti soccombe, ma riesce poi a rovesciare le sorti della guerra addirittura catturando Ajatashatru.

Quindi, ispirato dalle concezioni buddhiste o, più realisticamente, da opportunità politica, rilascia il re del

Magadha, dandogli in sposa la propria figlia, la principessa Vajira seguace del Buddha. Poco dopo la

madre, la regina Mallika anch’essa discepola dell’Illuminato, si spegne serenamente. Intanto il principe

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ereditario Virudhaka congiura con i ministri e detronizza il padre. Questi, fuggendo alla volta del

Magadha per chiedere asilo e aiuto al genero, muore per via.

Virudhaka in seguito attacca Kapilavastu, radendola al suolo, si dice per vendicarsi del fatto che egli

fosse nato da una donna di bassa origine spacciata come principessa dagli Shakya e data in sposa a

Prasenajit. Virudhaka avrebbe in seguito pagato il massacro della stirpe del Buddha con una morte atroce

e ingloriosa, durante un incendio di palazzo.

Quanto ad Ajatashatru, sfuggito alla nefasta influenza di Devadatta, sembra pentirsi e si reca dal

Buddha per avere conforto, consigliato dal suo medico Jivaka Kaumarabhritya, figlio di una cortigiana di

Rajagriha e di Bimbisara, diventato sostenitore del Buddha dopo averlo incontrato a Takshashila nel

Gandhara. Takshashila, all’estremo nord-ovest dell’India, sembra essere il luogo più lontano visitato dal

Buddha nelle sue peregrinazioni.

Dall’Illuminato Ajatashatru riceve insegnamenti su come arrestarsi sulla via del peccato, ma non su

come distruggere le conseguenze karmiche di questo, che ineluttabilmente – proclama il Buddha -

andranno a maturare. In altra occasione il sovrano gli invia il ministro Varshakara per essere consigliato

sull’opportunità o meno di combatte la confederazione dei Vrijji. L’Illuminato non risponde direttamente,

ma descrive le nobili modalità di condotta politica dell’antica confederazione – gestione democratica del

governo e decisioni prese concordemente, aderenza alle tradizioni, onore agli anziani, rispetto alle donne,

tutela dei templi e dei riti, protezione ai saggi - cui si deve, secondo lui, la forza dei Vrijji e in tal modo

sottolinea quali debbano essere i principi etici a cui ispirare un buon governo. Il Buddha, poco dopo avere

visitato Nalanda, patria di Shariputra e futura sede di una delle più famose università buddhiste di tutta

l’India, viene di nuovo consultato dai ministri di Ajatashatru, Varshakara e Sunidha, durante la

costruzione di Pataligrama. Dopo averne predetto la futura grandezza – sarebbe diventata la nuova

capitale del Magadha, Pataliputra, descritta da Megastene, ambasciatore greco nel IV sec. a.C. - e le

sventure, il Buddha attraversa miracolosamente il Gange, scomparendo da una riva e ricomparendo

sull’altra.

Gli eventi e il loro ordine negli ultimi anni della vita dell’Illuminato sono piuttosto confusi. Pare che

visiti Saketa, nel Koshala orientale, e Campa, capitale dell’Anga (tra gli odierni Bihar e Bengala

settentrionale), ove lascia il discepolo Anuruddha per diffondervi la dottrina. Quanto alle conversioni

famose si citano quella di Maha-Kappina, un sovrano non meglio identificato; di Maha-Katyayana,

cappellano del re Pradyota di Ujjaini (odierna Ujjain nel Madhya Pradesh), incaricato di istruire nel

Dharma il suo sovrano; e ancora quella del ricco mercante Purna di Surparaka (Sopara a nord di

Mumbai), che a sua volta converte il popolo dei feroci Shrona-aparanta alle frontiere occidentali

dell’India….

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Alle soglie degli ottanta, ritiratosi per la stagione delle piogge nel villaggio di Venugrama presso

Vaishali, il Buddha si ammala. L’avanzata età del Maestro induce il suo discepolo prediletto Ananda a

chiedergli di impartire regole precise per la conduzione della comunità, ma il Buddha ribadisce di essere

venuto nel mondo per diffondere la dottrina e non per reggere una congregazione. “Siate luce a voi

medesimi” esorta l’Illuminato; “non abbiate altro rifugio che il dharma” aggiunge, riconfermando così il

suo convincimento che solo nella ricerca e nell’impegno personale stava la salvezza. E’ in questo periodo,

sembra, che Shariputra e Maudgalyayana muoiono.

Ripresosi dalla malattia, il Buddha si reca nel santuario di Capala sempre a Vaishali. Qui l’Illuminato

spiega ad Ananda che su richiesta sincera e pressante i Buddha hanno la facoltà di allungare il loro

soggiorno sulla terra e che lui potrebbe decidere di rimanere nel mondo per un intero yuga, un

lunghissimo ciclo cosmico. Benché ripeta questa affermazione tre volte, Ananda non comprende che deve

formulare la richiesta e tace. Allora il Buddha lo congeda. Mara approfitta della sua solitudine e appare,

rammentandogli la promessa fatta a suo tempo di abbandonare il mondo quando il Sangha fosse stato

saldamente stabilito: il Buddha gli preannuncia che di lì a tre mesi sarebbe entrato nel nirvana e

pronuncia il rigetto delle strutture vitali. Mentre esulta per essersi liberato dai legami esistenziali, la terra

trema. E ad Ananda, che è ritornato e lo interroga smarrito, l’Illuminato illustra le cause dei terremoti: la

prima è fisica, la seconda è un soprannaturale sovraccarico di energia cosmica, le altre annunciano i

momenti salienti della vita dell’Illuminato: incarnazione, nascita, illuminazione, messa in moto della

ruota della dottrina, rigetto delle strutture vitali ed entrata nel nirvana.

Troppo tardi Ananda comprende il proprio errore e supplica il Buddha di restare: questi, pur

riconoscendo che il suo discepolo ha commesso un’imperdonabile colpa nel non averglielo chiesto subito,

lo conforta rammentandogli che tutto ciò che nasce deve perire. Quindi lo incita a convoca tutti i monaci

che si trovano a Vaishali per presenziare all’ultimo sermone.

Terminata la stagione delle piogge il Buddha e Ananda riprendono le loro peregrinazioni e si

incamminano verso Kushinagara, attuale Kasya a 56 km est di Gorakpur. Per via il Buddha si ferma a

Papa, odierna Padrauna, e soggiorna presso il fabbro Cunda che gli fa preparare nel “Frutteto dei Manghi”

una specialità, sukaramaddava o “delizia del porco”, ritenuto carne di maiale o pietanza a base di funghi.

Di qualsiasi cosa si trattasse, il Buddha ordina a Cunda di non darne a nessun altri, ma di seppellirlo.

Subito dopo è colto da una violenta dissenteria, che lo porta allo stremo delle forze. Per evitare che Cunda

sia oggetto di biasimo da parte della comunità, ne proclama l’innocenza, affermando anzi che due sono le

offerte di cibo più meritorie fatte a un Buddha,: quella prima della bodhi e quella prima del nirvana.

Ancora fortemente debilitato, il Buddha si mette in cammino per Kushinagara, ma è costretto a

fermarsi spossato: assetato, chiede per tre volte ad Ananda di andare ad attingere acqua dal vicino fiume,

ma il discepolo tergiversa, spiegando che una carovana appena transitata ha reso impura l’acqua. Ma

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quando finalmente si decide a raggiungere il corso d’acqua, lo trova miracolosamente cristallino e può

dissetare il Maestro. Con estrema fatica il Buddha riprende il cammino ed incontra Putkasa, ricco

mercante della stirpe dei Malla e antico discepolo di Arada Kalama. Convertitolo, ne ha in dono due

pezze di tessuto dorato, ma quando Ananda ve lo avvolge, subito il tessuto perde splendore mentre a

riluce è il corpo dell’Illuminato, cosa che accade ai Buddha alla vigilia dell’illuminazione e in prossimità

del trapasso.

Arrivato nei pressi di Kushinagara, preso l’ultimo bagno nel fiume Hiranyavati (odierno Kakutsha),

l’Illuminato si ferma in un bosco di shala (shorea robusta), gli stessi alberi che avevano fatto da sfondo

alla sua nascita. In questo luogo, noto come il “Passeggio dei Malla”, si fa preparare un giaciglio e manda

Ananda ad avvertire la popolazione di Kushinagara che sta per morire. Sdraiatosi sul fianco destro, le

ginocchia leggermente flesse, i piedi l’uno sopra l’altro e il capo rivolto a settentrione, in quella che è

nota come la postura del leone, il Buddha accoglie i Malla che vanno a porgergli l’ultimo saluto. Trova

anche la forza per spiegare la dottrina a Subhadra, un centenario attratto dalla luce che emana dal corpo

del Buddha e; dopo averlo convertito, lo ordina monaco: è questa l’ultima ordinazione della sua vita.

L’esistenza terrena del Buddha si avvia ormai alla fine ed egli esorta i convenuti a parlare, se ancora

hanno domande o dubbi. Davanti al loro silenzio annuncia che tutti i cinquecento monaci presenti

raggiungeranno l’illuminazione e rammenta che dopo la sua dipartita troveranno sostegno nel Dharma.

Esortandoli ad essere saldi nella fede, si accinge a lasciare il corpo.

E’ di nuovo una notte di luna piena, del mese di kartikka, ottobre/novembre del calendario lunare,

l’ultima vigilia prima dell’alba. Forse è l’anno 480 a.C., la data più probabile fra gli estremi del 543 e del

367. Entrato in mistico raccoglimento, attraversati i diversi stati di coscienza fino a trascenderli tutti,

come una fiamma che si spegne per mancanza di combustibile, il Buddha Shakyamuni attinge il

parinirvana, la totale estinzione. Mentre la terra è scossa da un terremoto, gli alberi di shala fioriscono

improvvisamente ed altri fiori cadono dal cielo osannante, frammisti a polvere di sandalo. La scena è

immortalata nel rilievo della grotta XXVI di Ajanta, che aggiunge il tocco umanissimo del pianto di

Ananta.

Tra gli dei convenuti, Brahma rammenta che tutti gli esseri si spogliano del loro corpo e scompaiono

e Indra a sua volta ribadisce che ogni costrutto è impermanente e la vera felicità è liberarsene. Ai molti

monaci in lacrime Aniruddha ricorda la transitorietà del tutto e loda quanti si sono mantenuti impassibili.

A lui spetterà il compito di orchestrare i funerali dell’Illuminato.

Diffusasi la notizia della morte del Buddha, la popolazione si abbandona al più profondo dolore,

sfilando in processione per rendere omaggio alle sue spoglie per sei giorni. Al settimo otto principi dei

Malla tentano invano di sollevare il corpo per portarlo al luogo di cremazione, a sud della città. Ma altro è

invero il percorso da seguire e gli dei lo indicano: si proceda verso nord, entrando in città per la porta

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settentrionale, quindi si sosti al centro dell’abitato e se ne riesca attraverso la porta orientale per deporre il

Buddha nel tempio di Makutabandhana, luogo delle incoronazioni dei Malla, in attesa di cremarlo. Così

viene fatto.

Avvolto in più teli – addirittura cinquecento vesti di cotone doppio secondo alcune fonti –, il corpo è

adagiato in due casse di metallo, quella più interna riempita d’olio, e il feretro viene deposto su una pira

di legni fragranti che non si riesce ad accendere. Intanto Mahakashyapa, designato a prendere la direzione

del Sangha, è in cammino con cinquecento monaci per tributare l’ultimo omaggio al Buddha; quando

finalmente arriva dopo sette giorni, i piedi dell’Illuminato spuntano miracolosamente dalla bara perché

egli possa inchinarvisi, raccontano i testi encomiastici, sempre prodighi di mirabilia. Dopo che

Mahakashyapa ha effettuato la pradakshina, la deambulazione tenendo alla propria destra la pira, questa

prende fuoco da sola e la cremazione può avere luogo. Alla fine rimangono sole le ossa, asperse da una

celeste acqua purificatrice.

Per sette giorni - di nuovo compare il mistico numero - le reliquie racchiuse in un’urna d’oro

rimangono sull’altare del tempio offerte alla venerazione di tutti. Intanto però altri reclamano i sacri resti

in custodia dei Malla, primo fra tutti Ajatashatru. L’incipiente conflitto viene scongiurato dall’intervento

del brahmano Dhumrasagotra (o Drona), che propone di dividere le ossa in otto parti, affinché vengano

poste nelle otto direzioni dello spazio in altrettanti stupa, reliquiari monumentali. A ricevere le reliquie

sono dunque i Malla di Kushinagara, Ajatashatru del Magadha, i Licchavi di Vaishali, gli Shakhya

superstiti di Kapilavastu, i Kraudya di Ramagrama che ne affidarono la custodia ai Naga, i brahmani di

Vishnudvipa, i Bulaka di Calakalpa e i Malla di Papa. Ai Maurya di Pippahlivana giunti in ritardo

vengono dati i carboni della pira, mentre l’urna vuota è consegnata a Drona.

E il Mahaparinirvanasutra, “Il grande dialogo della totale estinzione”, toccante brano del Tipitaka che

descrivere gli ultimi momenti della vita dell’Illuminato, recita: “Così i resti del Veggente sono ben

onorati di onorati onori…Giunte le mani, a lui rendete venerazione. Un Buddha è difficile ad aversi in

centinaia di evi”.