Introduzione Cultura ed economia: un collegamento sempre ...

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1. L’attenzione crescente da parte dell’accademia L’economia della cultura sta vivendo un periodo di grande interesse scientifico e operativo. Passato il lungo tempo in cui pochi economisti si interessavano all’ar- te e alla cultura, poichÈ in esse vedevano un’attività che non contribuiva alla ric- chezza del paese o un ambito naturale del lavoro non produttivo 1 , oggi si assi- ste a una crescita nella ricerca e nell’attività didattica che declina la cultura sia in chiave macroeconomica che nella prospettiva aziendalistica. I diversi compar- ti del settore culturale (teatri, musei, archivi, festival, cinema, musica, editoria, ra- dio, televisione, e così via) hanno acquisito un vero e proprio «diritto di cittadi- nanza» nella disciplina, che ha permesso di costruire un paradigma scientifico e professionale per tutti coloro che operano in questo ambiente. Tra le diverse cause di questa rinnovata attenzione possiamo citare: a. l’aggravarsi dei vincoli del bilancio pubblico e il conseguente sforzo di con- tenimento del deficit dello Stato e degli enti pubblici territoriali (il cosiddet - to welfare declinante ), che hanno costretto le istituzioni culturali a una pro- spettiva di economicità, ossia di mantenere il proprio bilancio in equilibrio, ricorrendo il meno possibile a economie esterne (finanziamenti statali o sus- sidi finanziari non legati alla gestione caratteristica), mettendo invece in atto nuove strategie di efficienza produttiva o di fund raising da parte di donatori privati; b. la domanda di qualità della vita e del tempo libero nei paesi avanzati da parte di un numero sempre maggiore di persone 2 , che ha spinto le istituzioni cultu- 1 Alfred Marshall scriveva nel 1891 nei Principi di economia: «È impossibile dare un valore a oggetti come i quadri dei grandi maestri, o le monete rare, poichÈ essi sono unici nel loro genere, non avendo nessun equivalente, nÈ concorrente […] Il prezzo di equilibrio della vendita compren- de molto la causalità; tuttavia uno spirito curioso potrebbe ottenere non poca soddisfazione da uno studio minuzioso del fenomeno». 2 Si pensi che, sulla base delle previsioni sulla vita delle attuali giovani generazioni, si sostie- ne che in questo secolo si arriverà a un rapporto lavoro/non lavoro in cui il tempo libero sopra- Introduzione Cultura ed economia: un collegamento sempre più indispensabile di Severino Salvemini

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1. L’attenzione crescente da parte dell’accademia

L’economia della cultura sta vivendo un periodo di grande interesse scientifico e

operativo. Passato il lungo tempo in cui pochi economisti si interessavano all’ar-te e alla cultura, poichÈ in esse vedevano un’attività che non contribuiva alla ric-chezza del paese o un ambito naturale del lavoro non produttivo1, oggi si assi-ste a una crescita nella ricerca e nell’attività didattica che declina la cultura sia in chiave macroeconomica che nella prospettiva aziendalistica. I diversi compar-ti del settore culturale (teatri, musei, archivi, festival, cinema, musica, editoria, ra-dio, televisione, e così via) hanno acquisito un vero e proprio «diritto di cittadi-nanza» nella disciplina, che ha permesso di costruire un paradigma scientifico e

professionale per tutti coloro che operano in questo ambiente.Tra le diverse cause di questa rinnovata attenzione possiamo citare:

a. l’aggravarsi dei vincoli del bilancio pubblico e il conseguente sforzo di con-tenimento del deficit dello Stato e degli enti pubblici territoriali (il cosiddet-to welfare declinante), che hanno costretto le istituzioni culturali a una pro-spettiva di economicità, ossia di mantenere il proprio bilancio in equilibrio, ricorrendo il meno possibile a economie esterne (finanziamenti statali o sus-sidi finanziari non legati alla gestione caratteristica), mettendo invece in atto

nuove strategie di efficienza produttiva o di fund raising da parte di donatori privati;

b. la domanda di qualità della vita e del tempo libero nei paesi avanzati da parte di un numero sempre maggiore di persone2, che ha spinto le istituzioni cultu-

1 Alfred Marshall scriveva nel 1891 nei Principi di economia: «È impossibile dare un valore a oggetti come i quadri dei grandi maestri, o le monete rare, poichÈ essi sono unici nel loro genere, non avendo nessun equivalente, nÈ concorrente […] Il prezzo di equilibrio della vendita compren-de molto la causalità; tuttavia uno spirito curioso potrebbe ottenere non poca soddisfazione da uno studio minuzioso del fenomeno».

2 Si pensi che, sulla base delle previsioni sulla vita delle attuali giovani generazioni, si sostie-ne che in questo secolo si arriverà a un rapporto lavoro/non lavoro in cui il tempo libero sopra-

Introduzione Cultura ed economia:un collegamento semprepiù indispensabiledi Severino Salvemini

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2 management delle istituzioni artistiche e culturali

rali a presentarsi sul mercato con offerte particolarmente attraenti e sofisticate

(nelle logiche di segmentazione del mercato, della comunicazione dei prodotti/

servizi, della promozione e del marketing, del pricing dei processi, dell’arric-

chimento di «esperienza» rispetto al servizio basilare, e così via), avvicinando

così i propri comportamenti a quelli canonici delle imprese produttive mani-

fatturiere e terziarie;

c. la presenza nelle istituzioni culturali di molti lavoratori professionali e cre-

ativi e la necessità di riqualificazione del personale già impegnato nel setto-

re, che hanno reso indispensabile un cambiamento organizzativo (in tema di

struttura organizzativa e di gestione delle risorse umane) verso uno stile di

direzione più moderno e verso metodi di sviluppo del personale più forma-

lizzati; inoltre l’espansione prospettica del numero degli addetti prevista per i

prossimi decenni ha aumentato la credibilità che questo comparto possa esse-

re uno degli ambiti lavorativi più promettenti del secolo attuale;

d. in ultimo, il ruolo che la cultura (intesa come serie di eventi/festival o come

insieme di istituzioni che caratterizzano un sistema locale, o come strumento

per ringiovanire un patrimonio cognitivo di un distretto geografico) può gio-

care quale elemento trainante per attrarre in contesti cittadini i talenti creati-

vi più innovativi, e per offrire dunque al territorio un nuovo flusso di ricchez-

za sia sotto il profilo economico sia sotto il profilo sociale (si pensi all’impatto

economico delle «città d’arte», ai contributi diretti e indiretti di grandi mani-

festazioni sportive e culturali come le Olimpiadi o gli Expo, all’installazio-

ne di progetti museali globali come il Guggenheim di Bilbao, alla ricaduta

sul territorio dei numerosissimi festival di intrattenimento culturale avviati nel

nostro Paese ecc.). Non è un caso, a questo proposito, che recentemente si sia

intensificata la relazione concettuale tra cultura e creatività, con molti che so-

stengono che la creatività (elemento cruciale e punto di forza dei nostri pro-

dotti nella competizione internazionale) vada ricercata prevalentemente nel-

la nostra cultura e nel nostro territorio e che produrre cultura sia diventato un

obiettivo irrinunciabile per le politiche non solo culturali, ma anche produttive

e industriali (Santagata, 2009).

Questo recente riconoscimento disciplinare del campo teorico dell’economia del-

la cultura e del management culturale non è però avvenuto senza strappi e senza

critiche da parte dei diversi filoni di pensiero. In particolare, alcuni elementi ca-

ratteristici del settore sono stati sottolineati come temi particolarmente difficili da

affrontare con la strumentazione classica dell’economia.

La prima riflessione che viene fatta relativamente alle caratteristiche intrin-

seche di quest’attività riguarda la natura meritoria dei suoi elementi (culture is a

vanzerà il tempo dedicato all’attività professionale addirittura di un 50 per cento (Amadasi, Sal-

vemini, 2005, p. 6).

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merit good), e cioè che si debba garantire comunque la fruizione dei beni ritenuti

collettivamente utili, indipendentemente dalla presenza di una domanda congrua

esercitata dal mercato. Esso è uno dei temi più delicati da affrontare in economia,

dove non bisogna mai dimenticare che le regole, i diritti di proprietà e la mentali-

tà che gli economisti chiamano «mercato» sono solo un costrutto sociale (Santa-

gata, 1998, p. 7).

Una seconda riflessione nelle dinamiche economiche della cultura riguarda le

cosiddette esternalità, e cioè che oltre i benefici diretti dei beni e delle attività

culturali, riconducibili alla soddisfazione dei bisogni da parte del fruitore, occor-

re considerare anche i benefici indiretti connessi agli effetti positivi che la presen-

za di offerta culturale genera sulla società e sulla qualità della vita dei cittadini.

Le esternalità sono di difficile quantificazione e in secondo luogo escludibili, per

cui risulta molto difficile richiedere al cliente o al consumatore il pagamento del

corrispettivo (Solima, 2004, p. 37).

Una terza riflessione è collegata a quella che Baumol e Bowen chiama-

no la «sindrome dei costi» e che determina di fatto il fallimento del meccani-

smo del mercato. Secondo i due economisti (Baumol e Bowen, 1966), l’econo-

mia della cultura è e sarà sempre tributaria di sovvenzioni pubbliche, perchÈ la

sua gestione caratteristica è troppo centrata sulla crucialità che riveste il fatto-

re umano (le indagini svolte dai due ricercatori sociali erano prevalentemen-

te concentrate nelle performing arts). Il settore è pertanto impossibilitato a

generare aumenti di produttività, cosa che non ritroviamo nei settori tradizio-

nali, dove l’innovazione tecnologica, le economie di scala e di replicazione e

la raccolta di capitale permettono un miglioramento dell’efficienza; ne conse-

gue una crescita permanente dei costi relativi al personale che solo un aumen-

to dei prezzi può compensare, con il rischio però che si riducano la domanda e,

in ultimo, gli incassi. Questo teorema, conosciuto anche come «morbo di Bau-

mol», nonostante svariate verifiche empiriche e osservazioni critiche, continua

a essere un problema rilevante per la gestione economica delle istituzioni cul-

turali e ispira in modo condizionante tutti i ragionamenti che possono essere

fatti sull’equilibrio economico della gestione aziendale delle imprese cultura-

li (Benhamou, 2001).

2. Le divergenze vengono da lontano

Dobbiamo comunque sempre ricordare che l’industria tout court e la cosiddet-

ta industria culturale sono cose ben differenti: un libro non è certo un tondino di

ferro, così come una mostra di arti figurative o un concerto musicale non possono

essere paragonabili a una confezione di formaggini o a un’automobile. Dal punto

di vista produttivo e distributivo è poi evidente la diversità tra un prodotto/servi-

zio culturale e un bene manufatto su ampia scala e commercializzato per il mer-

cato di largo consumo.

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Qualcuno sostiene che economia e cultura costituiscano una specie di ossimo-ro (Sacco, 2002b), dove l’economia – e il management, che ne è una sottodiscipli-na – rappresenta la parte razionale delle decisioni umane, mentre la cultura il la-to più romantico e passionale. Oppure perchÈ la dimensione economica pone una serie di vincoli e di costrizioni al comportamento (si pensi al concetto di conve-nienza nell’uso delle risorse scarse, o alle logiche programmatorie di un budget, o al rigore di certe norme e procedure) che la cultura non pone, essendo più orienta-ta al genio e alla sregolatezza della creatività. Oppure perchÈ il background quan-titativo insito nella scienza economica è assai distante dalla prospettiva umanisti-ca e qualitativa che presiede agli studi e ai comportamenti dell’artista. Tutto ciò

condito da un’atmosfera di reciproco sospetto in cui gli specialisti della cultu-ra e gli operatori di azienda si guardano: gli uni diffidenti di una possibile intru-sione dell’economia nel «sacro recinto» del museo, del teatro, della biblioteca, del prodotto filmico, temendo l’imposizione di soluzioni preconfezionate in ambienti

lontani e il riciclo di pratiche manageriali sperimentate altrove («quasi come un’e-norme operazione di cut & paste, senza cogliere le specificità dei comparti cul-turali e delle singole organizzazioni in esame», dice Zan, 1999); gli altri convin-ti che l’arte e la cultura siano dei momenti di prezioso ozio o di magnifico lusso,

una finestra di evasione dalla routine quotidiana, da concedersi più come espres-sione di una posizione individuale che come attività in qualche modo collegabile alle logiche di impresa. La cultura come negazione della redditività; l’economici-tà aziendale come negazione della cultura.

È persino banale sottolineare il peso dell’economia e del management nel set-tore della cultura. È infatti proprio grazie all’accorto uso delle risorse econo-miche che alcuni processi culturali o di intrattenimento riescono a realizzarsi, rendendo disponibili più mostre, più film, più rappresentazioni teatrali. È poi ab-bastanza evidente che solo con il raggiungimento di una soglia di economicità si riesce a mantenere un’attività culturale ben protetta e indipendente dalle sire-ne politiche e dai condizionamenti ideologici dell’agone partitico locale. Tutta-via nei confronti dell’economia, nonostante tali vantaggi, il mondo della cultu-ra continua a mantenere un atteggiamento ambivalente. E ciò provoca ancora crisi

di rigetto nell’intellettuale, specie se nato e formatosi nell’epoca delle ciminiere e non nell’era postindustriale. Il mondo dell’erudizione risente molto di una matrice di studi umanistici/artistici, spesso distante (se non addirittura contrapposta) dai principi economico-aziendali necessari per assicurare la sopravvivenza e lo svi-luppo anche delle istituzioni culturali. Tale mentalità, frequentemente «elitaria» e spesso chiusa al concetto di fruizione e promozione allargata del bene artistico (sia esso la musica, l’arte, la prosa, il cinema o altro ancora), ha determinato nel tempo un’autoreferenzialità delle istituzioni culturali, spesso in difficoltà sul pia-no economico e inibite imprenditorialmente nella capacità di reperire risorse di privati secondo moderne tecniche di fund raising.

Per molti, troppi anni l’intellettuale responsabile di strutture culturali ha rifiu-tato di confrontarsi con il pubblico e con il mercato, continuando a produrre ope-

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introduzione 5

re o mostre artisticamente rilevanti, che però non necessariamente convergevano

con l’interesse e con i gusti del grande pubblico. La classe intellettuale sosteneva

orgogliosamente la propria autonomia e indipendenza verso il mercato; per di più

affermava che il sentirsi indipendenti dall’obbligo di piacere agli spettatori o ai

potenziali utenti fosse l’unico, vero modo di rispettare il pubblico raffinato e ma-

turo di stampo tradizionale.

Il vero problema, nel caso dell’ideazione editoriale, cinematografica o di un

museo, non è quello di evitare prodotti o manifestazioni difficili e raffinate (i co-

siddetti eventi di testa o, come spesso si dice, la cultura alta contrapposta a quella

bassa e popolare), ma di saperli coniugare in termini di storie, di generi e di sen-

sazioni con i bisogni dell’utenza di massa.

La difficoltà del mondo della produzione culturale a uscire da una visione or-

ganizzativa troppo intellettuale può ricondursi all’ampia distanza di atteggiamenti

che separa la cultura generalmente intesa dall’ambiente mercantile proprio delle

imprese. Che i due ambienti siano difficilmente permeabili lo testimoniano le dif-

ferenze di linguaggio e di comportamento delle rispettive parti, i riferimenti po-

litici e ideologici ricorrenti, i mezzi di comunicazione usati per veicolare i distin-

ti valori professionali.

Le colpe di questa incomunicabilità si possono equamente ripartire. Sul fron-

te dell’impresa, nei confronti dell’arte e dello spettacolo vige un contegno di ec-

cessivo pragmatismo, poichÈ i beni artistici sono spesso considerati improdutti-

vi nel breve termine e quindi poco interessanti per un orientamento speculativo.

Fanno a volte eccezione le imprese o i singoli imprenditori che sostengono inter-

venti culturali con investimenti di sponsorizzazione, anche se tali spese sono an-

cora concepite come eccezionali nella logica della promozione di immagine e di

marketing aziendale.

Sul fronte degli operatori culturali, invece, viene ostentata una compiaciu-

ta ignoranza della finanza, del marketing, dell’organizzazione del lavoro e della

tecnologia, considerate tecniche di scarso spessore concettuale e, come tali, non

indispensabili per completare la professione di gestore di un patrimonio artisti-

co. Oppure, in altre circostanze, si ritrovano intellettuali che, non avendo avu-

to esposizione scolastica e educativa ai concetti più contemporanei dell’economia

di mercato, non conoscono appieno i meccanismi del management moderno e lo

scambiano – un po’ approssimativamente – con ciò che l’immaginario collettivo

ha metabolizzato riguardo ai principi dell’organizzazione scientifica di tayloristi-

ca memoria.

In altri termini, da una parte manager e imprenditori ritengono di essere i so-

li a produrre vera ricchezza, dall’altra i sacerdoti della cultura sostengono che la

tecnica contabile e organizzativa può servire, ma rimane semplice mezzo, non in

grado di cogliere i valori ultimi del bene culturale.

Il processo di integrazione tra mondo della produzione economica e mondo

della produzione intellettuale è inoltre spesso ostacolato dagli stereotipi che la so-

cietà ha elaborato nei confronti dei protagonisti di queste due diverse mentalità.

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6 management delle istituzioni artistiche e culturali

Gli operatori economici sono sovente assimilati a ingordi calcolatori alla conti-

nua ricerca di profitto, motivati nelle loro dinamiche da regole e controlli burocra-

tici. All’opposto i creativi e gli artisti, espressione un po’ romantica della trasgres-

sività emotiva, diventano i loro contrari, con i conseguenti disordini organizzativi

e le imprescindibili inefficienze (Fig. 1).

Figura 1 Le diverse percezioni di management e arte, e i conseguenti stereotipi

Management

Razionalismo

Razionalità

Calcolo

Standardizzazione

Prevedibilità

Regolarità

Routine

Ordine

Misura e quantificazione

Misura del successo

Denaro, profitto

Redditività

Utilitarismo, interesse

Opportunismo

Eteronomia

Controllo

Lavoro

Lavoro organizzato

Interdipendenza

Momenti di lavoro alternati a tempo libero

Meritocrazia

Competenze acquisite dal lavoroe dalla scuola

Arte

Espressività

Sensibilità

Immaginazione, intuizione

Singolarità, unicità

Creatività

Assenza di schemi

Innovazione

Rottura

Assenza di formalizzazione

Misura del successo

Arte pura

Attenzione dei critici

Gratuità

Collettività

Autonomia

Libertà

Lavoro

Artigianato singolo

Indipendenza

Tempi unificati

Aristocrazia

Competenze innate e acquisitedalla tradizione

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Questo diverso atteggiamento è un vero problema, non solo perchÈ mina alla base le possibilità di comprendere a fondo alcune delle irreversibili tendenze che stan-no trasformando la società economica postindustriale, ma anche perchÈ rallenta l’emancipazione culturale del mondo dell’impresa. Anche il mondo dell’impresa, infatti, potrebbe avvantaggiarsi da una maggiore comprensione del mondo della cultura; ciò contribuirebbe a fare uscire l’azienda da forme superate di monocul-tura, stimolandola (e abituandola) ad apprezzare forme diverse di espressione e di concettualizzazione, fondamentali in un’economia simbolica e immateriale, come quella contemporanea.

Il problema per le imprese contemporanee è quello di trovare una sintesi tra emozione e regola e di attivare una forma di fertilizzazione incrociata. L’integra-zione tra i due mondi consente infatti al contesto industriale/manageriale di risco-prire l’importanza della cultura, intesa anche come molteplicità di competenze per gestire la complessità.

Al mondo della cultura e dello spettacolo sarebbe data possibilità, invece, di valorizzare l’importanza dell’autonomia gestionale, dell’economicità e della buo-na organizzazione quali precondizioni per una vita duratura e indipendente delle istituzioni di riferimento. Questa migliore conoscenza potrebbe costituire lo spa-zio utile per gestire meglio le cosiddette organizzazioni intelligenti, quelle impre-se vivaci, dinamiche e innovative, la cui crescita deve, comunque, essere gestita in modo programmato (Ruozi e Salvemini, 1999).

3. Le distanze si accorciano

Se queste sono le radici di un problema di comunicazione difficile, occorre pe-rò riconoscere che la situazione è cambiata negli ultimi venti anni. La polarità

di prospettiva si è progressivamente ristretta man mano che si sono fatte strada convinzioni sempre più fondate sulla necessità di considerare i beni culturali in un’ottica più vicina al mercato, e di dare a essi una gestione manageriale più ef-ficiente e più rispondente all’esigenza di qualità del servizio da parte dei fruitori.

È aumentata nell’intera popolazione italiana la consapevolezza di mettere un po’ d’ordine nell’immenso patrimonio culturale, che abbiamo per decenni mantenu-to così male e sfruttato così poco. Gli enti che si occupano del problema si sono rinnovati sul piano giuridico-istituzionale, al fine di individuare nuove formule e

meccanismi che aiutino a recuperare o ad acquisire autonomia e responsabilizza-zione, più efficienza nell’uso delle risorse e maggiore efficacia nella soddisfazione

della missione istituzionale.I beni culturali, i prodotti artistici, i servizi dello spettacolo certamente non ri-

guardano una quota di reddito e di occupazione pari a quella dei grandi settori in-dustriali, ma indubbiamente – insieme anche al loro indotto – producono effetti

molto rilevanti sulle dinamiche economiche e sociali e, come abbiamo scritto nel primo paragrafo, rappresentano una importante speranza di sviluppo futuro per

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l’economia immateriale e postindustriale. » diventata quindi indispensabile una maggiore compenetrazione dei mondi della cultura e dell’economia, e ciò ha ri-chiesto un confronto aperto e senza tabù (Salvemini e Soda, 2001).

3.1. La managerializzazione della cultura

Nel nostro Paese si va affermando in modo sempre più deciso l’accettazione di una gestione manageriale delle organizzazioni che operano nel comparto artistico e culturale. Si tratta di un processo più ampio che tocca anche altri comparti ori-ginariamente gestiti dallo Stato e dagli enti pubblici, quali la scuola, la sanità, la

sicurezza, i servizi di pubblica utilità, e così via, secondo una deriva che dà cre-scente attenzione alle economie non profit.

Tale maggiore connotazione manageriale è richiesta dalla necessità di avere una cultura di perfomance più vicina alle imprese eccellenti e di fare un uso sem-pre più consapevole e misurato delle risorse economiche, progressivamente limi-tate da un welfare misto meno abbondante rispetto alle tradizioni del finanzia-mento pubblico.

A ciò si accompagna una generale trasformazione degli assetti istituzionali

che aiutano le imprese artistiche e culturali a recepire i bisogni di una società in evoluzione, fornendo risposte attuali e valide, consentendo di recuperare maggio-re autonomia e responsabilizzazione, più efficienza nell’uso delle risorse e mag-giore efficacia nella soddisfazione della missione istituzionale. Gli ultimi anni,

infatti, hanno visto profondi mutamenti del quadro dei servizi pubblici. Si è usci-ti da un lungo periodo di concentrazione in capo a soggetti pubblici della produ-zione e dell’offerta dei servizi alla collettività (ciò che viene sovente denomina-to welfare pubblico) e si è fatto strada un assetto misto, dove pubblico e privato, profit e non profit, si sono via via mescolati in formule intermedie di risposta ai

bisogni pubblici (welfare misto). Questa tendenza di innovazione delle formule giuridico-istituzionali ha riguardato imprese ed enti pubblici, secondo un diffuso desiderio di rinnovamento dei criteri gestionali e di recupero di maggiore impren-ditorialità e managerialità. L’obiettivo era quello di cogliere il movimento che ne-gli anni recenti stava spirando in tutto il globo, e cioè la forte consapevolezza del-la necessità di ridurre il sussidio statale nei confronti delle istituzioni pubbliche, nell’ipotesi che il parziale trasferimento in mani private riducesse la logica buro-cratica degli enti ed elevasse l’orientamento verso una maggiore valorizzazione dei beni dello Stato.

Le trasformazioni sono avvenute sperimentando diverse modalità (fondazio-ni, consorzi, privatizzazioni, agenzie ecc.) e sono state un campo di prova idea-le specialmente per le attività artistiche e culturali italiane, le quali sono riuscite a mettere a punto funzionamenti gestionali innovativi. Dalla fine dell’ultimo secolo,

infatti, molte sono state le sperimentazioni nei teatri, negli enti lirici, nei musei, nelle gallerie d’arte, nei gruppi cinematografici, nelle orchestre e così via.

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introduzione 9

Tra i principali progressi che si attendono da queste trasformazioni vogliamo

citare tre elementi di cambiamento manageriale: una maggiore autonomia degli

organi di governo rispetto alle logiche del finanziamento pubblico; una cultura

organizzativa più vicina alle imprese eccellenti; un più moderno ruolo esercita-

to dagli sponsor.

Per quanto riguarda il primo punto, occorre ricordare che gli enti culturali

pubblici sono stati in passato criticati per dinamiche politiche spesso inefficienti,

dispendiose e scoordinate; tutte cose che hanno reso l’intero comparto poco ca-

pace di recepire i bisogni della società e di fornire proposte attuali e valide. Ciò

fa apparire quanto mai opportuno il rinnovamento degli enti sul piano giuridico-

istituzionale (si pensi alle fondazioni per i teatri lirici o per i teatri di prosa o al-

le formule societarie miste per i musei), perchÈ dovrebbe consentire a questi di

recuperare/acquisire maggiore autonomia e responsabilizzazione, più efficienza

nell’uso delle risorse e maggiore efficacia nella soddisfazione della missione isti-

tuzionale.

La cultura organizzativa diventa così sempre più attenta a interiorizzare l’in-

novazione, con disponibilità a ricevere stimoli propulsivi dai nuovi partner ester-

ni, magari anche critici rispetto alla gestione passata, ma spesso cruciali nel con-

tributo verso il cambiamento. Si crea integrazione tra i nuovi attori e il precedente

humus pubblico e ciò determina una nuova, robusta atmosfera manageriale, do-

ve si miscelano la natura assai valoriale e ideale, che connota tradizionalmente il

settore artistico, e la mentalità aziendalistica sensibile all’uso delle risorse econo-

miche, che connota tradizionalmente il comparto delle imprese di produzione e di

servizio.

La terza riflessione riguarda il nuovo ruolo esercitato dalle imprese sponsor.

Un ruolo meno effimero e mondano rispetto al diffuso contributo di soggetti co-

me imprese, banche, assicurazioni o soggetti privati che perseguono principal-

mente fini di immagine e di propaganda istituzionale. Un ruolo diverso da quel-

lo di imprenditori che, con ragguardevoli sensi di colpa, pensano illusoriamente

di esorcizzare le loro eventuali esternalità negative con costosissimi interventi di

sponsorizzazione culturale. Nel futuro l’intreccio tra ente culturale riformato e

imprese partner sarà pertanto tale da richiedere ai secondi uno sforzo molto più

impegnativo nell’indirizzo strategico dell’«azienda culturale». Sforzo dove le im-

prese partner possono veicolare abilità complementari a quelle di base, contri-

buendo a riqualificarle, o a riconvertire il sistema delle capacità presente nell’en-

te precedente.

Management culturale vuol dire perciò selezionare le pratiche aziendali finan-

ziarie, di marketing, organizzative, logistiche e di gestione delle risorse umane

provenienti dal mondo del business e applicarle alle realtà creative, capendo pe-

rò le logiche sostanziali di fondo di queste organizzazioni, così diverse da quel-

le normalmente oggetto di studio degli aziendalisti. Proprio per evitare che un

acritico trasferimento di conoscenze dia atto a un processo di banalizzazione del

know-how aziendalistico, il quale poi non riesca a scalfire, nella sua retorica ana-

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litica e razionalistica, il contesto artistico e culturale che è fatto spesso di storie e

di tradizioni interpretabili con altri paradigmi scientifici.

3.2. La culturalizzazione dell’economia

Gli effetti benefici dell’arte e della cultura possono essere estesi non solo al-

lo sviluppo dei mercati culturali, ma produrre anche significativi effetti spillo-

ver nell’economia in generale (Sacco, 2003). Pensiamo ad Adriano Olivetti e al-

la sua economia sociale, convinto com’era che il progresso civile di un territorio

e la crescita economica non potessero essere disgiunti. E l’azienda di Ivrea ha per

molti anni rappresentato nel mondo uno dei più stimolanti laboratori, riuscendo a

incardinare elementi di nuova estetica e di nuovo design nei prodotti stessi e nella

loro promozione esterna.

Negli anni successivi al boom economico e ancora oggi, la cultura è servita

alle imprese soprattutto per esprimere programmi di sponsorizzazione e di me-

cenatismo, abbastanza laterali rispetto alle logiche di funzionamento aziendale.

L’arte è stata considerata come un’opportunità da sfruttare, seppure con un rag-

gio circoscritto di efficacia, anche per il difficile calcolo del ritorno economico in

chiave di reputazione e di immagine. Tali investimenti recentemente, nonostante

il ciclo economico sia stato dominato da grande incertezza e da una forte reces-

sione, sono cresciuti e le imprese che hanno investito si sono date traguardi anco-

ra più ambiziosi rispetto al passato. Ciò la dice lunga anche sul fatto che i modelli

di consumo tradizionale comincino a mostrare i propri limiti e sulla progressiva

attenzione da parte dei consumatori che chiedono conto di cosa e di come le im-

prese producono. I consumatori oggi acquistano sempre più secondo un model-

lo identitario complessivo, e la sponsorizzazione o il mecenatismo culturale vei-

colano la volontà delle imprese di mostrare come la propria attività sia vicina alle

aspirazioni e ai desideri del proprio pubblico.

Ciò che oggi va quindi sottolineato è il progressivo superamento della conce-

zione comunicazionale della cultura per le imprese. La cultura infatti recupera nel

processo produttivo dell’impresa il ruolo di materia prima e ne dà senso econo-

mico, facendola diventare input strategico di sopravvivenza economica. Non si in-

veste dunque in cultura per deboli e indiretti interessi di generazione di prestigio

sociale (tipici dei progetti di sponsorizzazione), ma posizionando l’investimento

stesso più a monte nella catena del valore.

Questa considerazione ha indubbiamente del rivoluzionario rispetto a quan-

to abbiamo detto in premessa di questo saggio. All’inizio abbiamo infatti parla-

to di economicità come negazione della cultura (i beni artistici considerati impro-

duttivi e pertanto poco interessanti per un orientamento speculativo). Poi abbiamo

detto che la sponsorizzazione o il mecenatismo si collocano alla fine della filie-

ra produttiva, perchÈ la produzione di valore economico precede il suo impiego

in ambito culturale (la cultura non è altro che uno dei tanti mezzi di destinazione

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della ricchezza, quasi una specie di «dividendo sociale» al territorio). Ora soste-niamo che il rilievo che la cultura assume nell’economia immateriale contempo-ranea è la sua capacità di produrre valori mediante significati. Essa orienta il mer-cato, condiziona le organizzazioni, influisce sul contesto in cui si opera. Il tutto

in un’economia simbolica dove conta sempre meno il valore d’uso dei prodotti (il prodotto per quello che è) e conta sempre di più la valenza simbolica ed evocativa che esprimono e raccontano i beni e le esperienze di servizio.

È la sostituzione del capitalismo industriale con quello culturale che la teoria aziendalistica comincia a distinguere tra le nebbie e le foschie prodotte dal fordi-smo e dal postfordismo (Rullani e Romano, 1998). Alcune delle imprese più evo-lute hanno imparato ad abitare in questo ambiente di postmodernità, dove non si producono o vendono semplicemente oggetti, definiti dalla loro prestazione utile,

come faceva la prima modernità. Quelle imprese oggi producono e vendono pri-ma di tutto i significati che questi oggetti incorporano. E anche le imprese che pa-iono molto distanti da queste mutazioni – si pensi alle manifatturiere o a offeren-ti servizi standardizzati di massa – devono fare i conti con questi elementi «alti»

derivanti dalla produzione culturale.Assistiamo così a un vero e proprio rovesciamento della relazione cultura-eco-

nomia: da una situazione in cui la produzione del reddito era responsabilità esclu-siva dell’impresa, la quale decideva se dedicare alla cultura parte delle proprie ec-cedenze finanziarie, si passa a una situazione in cui il focus culturale non è più

periferico rispetto al core business dell’azienda, bensì centrale, perchÈ stimolo tra i principali per comprendere le avanguardie del benessere e dello sviluppo uma-no (Salvemini, 2003).

Le arti figurative, la letteratura, la musica, il cinema e così via hanno dun-que, tra i numerosi altri, il pregio di stimolare il pensiero e creare qualche inso-lita riflessione sul mondo intorno a noi. E poiché gli artisti riescono a interpreta-re lo spirito del tempo e possiedono una capacità profetica di analizzare la crisi e le evoluzioni della società, le loro opere gettano una luce per la comprensione dei fenomeni, proiettando anche un’ombra di dubbio laddove tutto sembra limpi-damente certo. L’arte non dà risposte «finite», non ha certezze e pertanto è massi-mamente utile in questa era di forte complessità, dove la razionalità non riesce a cogliere cartesianamente tutti gli accadimenti economici e sociali.

L’arte e la cultura, specialmente se di qualità, sono dunque un’arma potente per aiutare la ristrutturazione del campo cognitivo a cui va incontro la comunità.

Il percorso produttivo che nelle imprese tradizionali conduce dalla mera fun-zionalità e utilità delle cose, tipico dello scorso secolo (produco e vendo un’auto-mobile perché è un affidabile mezzo di trasporto, oppure un paio di occhiali da

sole perchÈ mi ripara dalle rifrazioni della luce, oppure una bottiglia di acqua mi-nerale perchÈ è dissetante; tutti prodotti che si concentrano sulla «funzione d’u-so»), alla realizzazione di oggetti che sono simboli di una concezione estetica o di una appartenenza identitaria (un’automobile che mi contraddistingue evocati-vamente in una comunità sociale; un paio di occhiali che simbolicamente mi po-

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12 management delle istituzioni artistiche e culturali

siziona in un target d’acquisto particolare; una bottiglia di acqua minerale status

symbol), si arricchisce oggi di significati che derivano da una visione etica del la-

voro che fa riferimento all’attività fisica e intellettuale necessaria per arrivare al

disegno del prodotto e all’organizzazione aziendale che ne consente l’espressione.

In altri termini, la cultura che circonda il prodotto e la sua organizzazione pro-

duttiva non esprime solo la bellezza sensoriale e di appartenenza, ma anche un’e-

stetica del lavoro. L’oggetto passa dall’essere considerato bello per la sua forma

all’essere bello perchÈ realizzato in un’azienda amabile, gradevole, attenta alla re-

sponsabilità sociale della comunità in cui vive. L’azienda culturalmente sensibile

(si pensi alla già citata Olivetti, ma oggi ai casi di Apple o di Google) è un’azien-

da dove il lavoro è intimamente collegato ai pensieri, alle motivazioni e ai bisogni

di chi lavora (il great place to work), dove spesso si investe anche su architetture

degli stabili e design degli uffici coerenti con la storia e l’identità del luogo in cui

è localizzata. L’azienda culturalmente sensibile (le cosiddette nice companies, do-

ve l’aggettivo nice spesso si unisce anche a leader, stili di direzione e dinamiche

di comunicazione interna) è contemporaneamente simbolo di libertà e di creativi-

tà, ma anche di responsabilità verso gli altri e verso l’ambiente.

E tutto ciò è molto più vero in questo nuovo secolo dove gli elementi immate-

riali e intangibili sono prevalenti rispetto ai valori della produzione di massa del

secolo scorso.

Da queste considerazioni deriva conseguentemente la grande rilevanza che le

arti e la cultura giocano sulle risorse umane di un’impresa: tanto più il capitale

simbolico è presente e compreso nelle persone che operano in azienda e che pre-

sidiano le decisioni strategiche d’impresa, tanto maggiore sarà il livello del ca-

pitale simbolico insito in un determinato marchio o più specificatamente in un

determinato prodotto. La «culturalizzazione» dell’economia è dunque una tappa

evolutiva del mercato che apre la strada a una più felice contaminazione tra im-

presa e cultura. Un incontro che – all’insegna del mutuo scambio e della reci-

procità dei benefici – influisce con energia positiva sulla costituzione e sul posi-

zionamento della marca facendole acquisire un consenso allargato, frutto di un

impegno dichiarato nei confronti della comunità degli utenti e dei consumatori.

4. La cultura come ingrediente essenziale per attrarre sul territorio

la classe creativa

La crisi odierna del canonico modello industriale e la consapevolezza che il mo-

dello secolare dell’economia italiana (piccole aziende e distretti industriali inclusi)

abbia rallentato la sua marcia hanno reso necessario un approfondimento sulle ra-

gioni della scarsa innovatività delle nostre imprese. Le difficoltà che queste incon-

trano, anche quelle meglio gestite, nell’arena internazionale fanno suonare segna-

li d’allarme acuti e testimoniano che le nostre aziende devono recuperare molta più

innovazione di quella che è stata millantata per anni con un generico made in Italy.

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introduzione 13

La strada è dunque il potenziamento dell’innovazione e della creatività. E lì il senso estetico, il pensiero laterale, l’intelligenza emotiva possono giocare tut-te le loro carte. Se il talento creativo diventa un asset fondamentale, la cultura per l’impresa assume allora un ruolo decisivamente centrale (Landry, 2001).

L’analisi di alcuni studi recenti condotti sul territorio mostrano l’importanza della creatività come elemento di vantaggio competitivo: chi saprà essere creati-vo e saprà tradurre questa creatività in elementi concreti conquisterà un vantaggio differenziale rispetto agli altri e sostenibile nel tempo (Florida, 2002; Amadasi e

Salvemini, 2005). Ma tale creatività da dove può emergere? Da nuovi talenti, da

nuove tecnologie, da nuove predisposizioni a tollerare dissonanze cognitive, ma soprattutto dall’accostamento dei settori culturali ai tradizionali settori manifat-turieri e terziari. E ciò può avvenire in particolare in quelle città e in quei territo-ri dove sono maggiori i luoghi d’offerta di eventi, dove sono frequenti i segni e i momenti che rappresentano simbolicamente la cultura.

» richiesto al territorio (e quindi ai responsabili politici del contesto geogra-fico e agli stakeholder che hanno a cuore il futuro dell’area) un approccio più in-tegrato e strutturato riferito al patrimonio materiale (archeologico, monumentale, paesaggistico, ambientale) e immateriale (il folklore, le tradizioni, gli antichi sa-pori, le manifestazioni artistiche). Un approccio dove gli elementi del territorio (i luoghi, il distretto produttivo, le competenze specialistiche formatesi nel tempo) e i modelli culturali (la mentalità, gli usi, gli atteggiamenti, le credenze) possano essere codificati e sviluppati, conservando la forza del genius loci, ma anche mo-dernizzando gli aspetti antropologici e morfologici del sito in funzione del cam-biamento della società.

L’integrazione tra cultura, sviluppo (economico e non) e territorio non è un’o-perazione scontata. Va guidata con perizia. Dipende dalla capacità di saper gesti-re le relazioni e le interdipendenze, in altre parole dalla programmazione, dove il ruolo degli attori economici e sociali e la costruzione di un progetto di partner-ship fra soggetti pubblici e privati è fondamentale per fare decollare una policy territoriale.

Per strutturare un progetto di sviluppo culturale di un territorio occorre dise-gnare procedure, dispositivi, ruoli, rapporti, reti, sistemi organizzativi, strumen-ti di coordinamento e di sostegno, destinati a funzionare in modo sostenibile e a perdurare nel tempo, in modo che accanto a una sana partecipazione bottom up dei cittadini (spesso entusiastica, ma a volte troppo spontanea e priva di visione sistemica) si accompagni una programmazione top down da parte di chi dovrebbe avere un orizzonte più completo delle traiettorie intenzionali di sviluppo.

} Domande di riepilogo

1. Quali sono i motivi per cui oggigiorno vi è una rinnovata attenzione al tema economico nella gestione dei beni e delle attività culturali?

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14 management delle istituzioni artistiche e culturali

2. Perché si sostiene che i beni culturali sono di difficile interpretazione attra-

verso i concetti classici della scienza economica?

3. Quali sono le differenze di atteggiamento tra mondo della cultura e mondo

dell’economia e che spiegano le difficoltà di comunicazione?

4. Anche il management delle imprese di produzione e di servizio più tradizio-

nale si avvantaggia degli stimoli culturali. Perché?

5. Cosa vuol dire che la cultura può essere considerata un input cruciale nella

catena del valore dell’impresa?

6. La cultura e le arti sono un importante fattore di attrattività dei talenti sul ter-

ritorio. Per quali motivi?

7. Le policy culturali del territorio sono rilevanti per lo sviluppo economico di

un’area geografica. Spiegare perché?

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