Introduzione al cristianesimo - Direzioneostinata · 2010. 11. 4. · Introduzione al cristianesimo...

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Introduzione al cristianesimo Andrea Ruberti «Il Cristianesimo non è una dottrina» 1 . Con parole nette Soren Kierkegaard indirizza decisamente il nostro breve percorso di introduzione alla vita e alla dottrina cristiana. Qual è l'essenza del cristianesimo 2 ? Cioè, cosa nel cristianesimo deve essere perennemente valido, stabilmente vincolante e assolutamente irrinunciabile? Da differenti prospettive si sono misurati su questo interrogativo tra otto e novecento Ludwig Feuerbach 3 e Adolf von Harnack 4 cercando di far dialogare la ragione della modernità con il cristianesimo. Nel 1841 Feuerbach pubblica a Lipsia il suo Das Wesen des Christentums, un testo nel quale la sua tesi di fondo è incessantemente ripetuta: «il vero senso della teologia è l'antropologia» 5 . In Dio troviamo l'essenza dell'uomo, perché il divino non è altro che la proiezione che l'uomo fa di sé fuori di sé, una proiezione purificata e liberata dai limiti. Per questo «i dogmi fondamentali del cristianesimo sono desideri del cuore realizzati — l'essenza del cristianesimo è l'essenza dell'uomo» 6 . L'essere umano, anzi, ancora di più il suo cuore desiderante che non si rassegna alla fragilità e alla finitezza, è inizio, centro e fine della religione e proprio per questo essa è al tempo stesso — e tanto più il cristianesimo — la gioia più alta del cuore, ma anche l'origine della sua frustrazione dalla quale nasce una coscienza infelice e dipendente. Karl Barth scriverà che Feuerbach vive un «amore infelice» 7 per il cristianesimo e per il Dio cristiano. Da un'angolatura prettamente storica, un altro intellettuale tedesco tornerà a confrontarsi sull'essenza del cristianesimo quasi sessanta anni più tardi. Von Harnack tiene delle lezioni su questo tema a Berlino nel semestre invernale 1899-1900. Immerse completamente nell'alveo culturale borghese e liberale, sviluppano attraverso una strutturazione bipartita — l'Evangelo e l'Evangelo nella storia — un'idea del cristianesimo come religione del cuore in cui il primato spetta all'interiorità: «l'evangelo si rivolge all'uomo interiore» 8 . Nel cristianesimo von Harnack vede la realizzazione più alta dell'ideale romantico dell'uomo moderno, un desiderio di riconciliazione 1 S. KIERKEGAARD, «Esercizio del cristianesimo», in Opere, Sansoni, Firenze 1972, 744. 2 L'espressione “essenza del cristianesimo” sembra sia sorta tra gli spiritualisti tedeschi, i pietisti e i teologi dell'Illuminismo. Per una sua storia, vedi H. Wagenhammer, Das Wesen des Christententums. Eine begriffsgeschichtilche Untersuchung, Matthias-Grünewald, Mainz 1973. 3 L. FEUERBACH, L'essenza del cristianesimo, Laterza, Roma-Bari 1997. 4 A. VON HARNACK, L'essenza del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1992. 5 L. FEUERBACH, L'essenza del cristianesimo, 16. 6 Ivi, 156. 7 K. BARTH, Antologia, Bompiani, Milano 1964, 105: «Tra i filosofi recenti non c'è forse nessuno che, come Feuerbach, si sia interessato così intensamente del problema teologico, anche se l'ha fatto con un amore infelice». 8 A. VON HARNACK, L'essenza del cristianesimo, 139. 1

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  • Introduzione al cristianesimoAndrea Ruberti

    «Il Cristianesimo non è una dottrina»1. Con parole nette Soren Kierkegaard indirizza decisamente il

    nostro breve percorso di introduzione alla vita e alla dottrina cristiana.

    Qual è l'essenza del cristianesimo2? Cioè, cosa nel cristianesimo deve essere perennemente valido,

    stabilmente vincolante e assolutamente irrinunciabile?

    Da differenti prospettive si sono misurati su questo interrogativo tra otto e novecento Ludwig

    Feuerbach3 e Adolf von Harnack4 cercando di far dialogare la ragione della modernità con il

    cristianesimo.

    Nel 1841 Feuerbach pubblica a Lipsia il suo Das Wesen des Christentums, un testo nel quale la sua

    tesi di fondo è incessantemente ripetuta: «il vero senso della teologia è l'antropologia»5. In Dio

    troviamo l'essenza dell'uomo, perché il divino non è altro che la proiezione che l'uomo fa di sé fuori

    di sé, una proiezione purificata e liberata dai limiti. Per questo «i dogmi fondamentali del

    cristianesimo sono desideri del cuore realizzati — l'essenza del cristianesimo è l'essenza dell'uomo»6. L'essere umano, anzi, ancora di più il suo cuore desiderante che non si rassegna alla fragilità e alla

    finitezza, è inizio, centro e fine della religione e proprio per questo essa è al tempo stesso — e tanto

    più il cristianesimo — la gioia più alta del cuore, ma anche l'origine della sua frustrazione dalla

    quale nasce una coscienza infelice e dipendente. Karl Barth scriverà che Feuerbach vive un «amore

    infelice»7 per il cristianesimo e per il Dio cristiano.

    Da un'angolatura prettamente storica, un altro intellettuale tedesco tornerà a confrontarsi

    sull'essenza del cristianesimo quasi sessanta anni più tardi. Von Harnack tiene delle lezioni su

    questo tema a Berlino nel semestre invernale 1899-1900. Immerse completamente nell'alveo

    culturale borghese e liberale, sviluppano attraverso una strutturazione bipartita — l'Evangelo e

    l'Evangelo nella storia — un'idea del cristianesimo come religione del cuore in cui il primato spetta

    all'interiorità: «l'evangelo si rivolge all'uomo interiore»8. Nel cristianesimo von Harnack vede la

    realizzazione più alta dell'ideale romantico dell'uomo moderno, un desiderio di riconciliazione

    1S. KIERKEGAARD, «Esercizio del cristianesimo», in Opere, Sansoni, Firenze 1972, 744. 2 L'espressione “essenza del cristianesimo” sembra sia sorta tra gli spiritualisti tedeschi, i pietisti e i teologi dell'Illuminismo. Per una sua storia, vedi H. Wagenhammer, Das Wesen des Christententums. Eine begriffsgeschichtilche Untersuchung, Matthias-Grünewald, Mainz 1973.3 L. FEUERBACH, L'essenza del cristianesimo, Laterza, Roma-Bari 1997.4 A. VON HARNACK, L'essenza del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1992.5 L. FEUERBACH, L'essenza del cristianesimo, 16.6 Ivi, 156.7 K. BARTH, Antologia, Bompiani, Milano 1964, 105: «Tra i filosofi recenti non c'è forse nessuno che, come Feuerbach, si sia interessato così intensamente del problema teologico, anche se l'ha fatto con un amore infelice». 8 A. VON HARNACK, L'essenza del cristianesimo, 139.

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  • totale, di pacificazione con il divino e con le altre anime riconciliate e pure. Guardando poi alla

    storia degli effetti della religione cristiana nel tempo, egli ne mette in risalto le luci (Agostino,

    grande maestro dell'interiorità) e i pesanti stravolgimenti fino ad affermare che solamente con la

    Riforma il primato dell'interiorità viene a compiersi: «una religione senza preti, senza sacrifici,

    senza grazie né cerimonie: una religione spirituale!»9. Questo salva il cristianesimo da tutte le

    incrostazioni che la storia della chiesa gli ha prodotto addosso: la sua essenza è la vita interiore

    dell'anima raggiunta dall'evangelo di un Dio che è Padre e che ci dischiude un Regno d'amore. Tutto

    concentrato sulla teologia liberale dell'interiorità e dell'individuo, lo storico tedesco perde

    completamente la dimensione sociale cristiana, tanto che già Ernesto Bonaiuti ne da un giudizio

    tranciante: «non riuscii a sentire in quella scarnificata vivisezione della tradizione cristiana altro che

    l'estremo sbocco dell'individualismo e del soggettivismo luterani»10.

    Nel 1938, ancora una volta in area tedesca, è Romano Guardini a pubblicare un altro piccolo libro

    dal titolo Das Wesen des Christentums11 nel quale oppone ai primi due la verità singolare propria

    della via cristiana. L'errore di fondo che per lui inficia i molti tentativi di distillare l'essenza del

    cristianesimo, sta nel voler cercare una risposta sul livello dell'astrazione, del concetto generale12.

    Questo non può che portare su una strada sbagliata perché perde l'irriducibile particolarità di una

    verità che è da riconoscersi non in qualcosa, ma in Qualcuno. Il nucleo essenziale del cristianesimo

    altro non è che la concreta esistenza storica di Gesù di Nazareth: «la persona di Gesù Cristo, nella

    sua unicità storica e nella sua gloria eterna, è di per sé la categoria che determina l'essere, l'agire, e

    la teoria di ciò che è cristiano»13.

    Il cristianesimo reale è un fatto, un evento, un movimento storico nel quale tra essenza (ciò che è

    persistente) e figura storica (la sua immersione nel divenire e nel sempre mutevole) si dà un

    continuo intreccio e rimando14. E il suo fondamento si trova non in qualche idea, principio, serie di

    norme o concetti, ma in una persona. È lui, Gesù, la figura fondamentale, la norma ultima e la realtà

    assolutamente irrinunciabile del cristianesimo, lui con la sua esistenza concreta, con la sua causa e il

    suo cammino di vita.

    Se il cristianesimo è Cristo, introdurre ad esso sarà prima e sopra ogni altra cosa conoscere lui.

    Fermare lo sguardo sulla sua vita, sulle sue passioni, sulle parole e le azioni che l’hanno

    9 Ivi, 239.10 E. BUONAIUTI, Pellegrino di Roma, Laterza, Bari 1964, 37.11R. GUARDINI, L'essenza del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1993.12 Ivi, 8: «Si è detto che tale essenza consiste nel fatto che la personalità individuale viene a occupare il punto centrale della coscienza religiosa; che Dio si manifesta come Padre e il singolo sta dinanzi a lui in un rapporto di pura immediatezza; che l'amore del prossimo diventa il valore decisivo e simili, — fino ai tentativi di dimostrare il cristianesimo come religione perfetta, semplicemente perché esso sarebbe al massimo conforme alla ragione, conterrebbe la moralità più pura e si accorderebbe nel modo migliore con le esigenze della natura. Queste risposte sono tutte errate». 13 Ivi, 77.14 Cfr. H. KUNG, Cristianesimo. Essenza e storia, Rizzoli, Milano 1997, 13-31.

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  • contrassegnata e infine sulla sua morte sarà l’atto essenziale di ogni introduzione al cristianesimo e

    quello che, nel breve spazio di queste pagine, anche noi cercheremo di fare.

    L’essenza del cristianesimo: Gesù di Nazareth

    Non è poi tanto difficile fermarci per mettere a fuoco i grandi contenuti dell'annuncio di Gesù.

    Pur riflesso in una varietà di detti, di racconti e d’azioni, il cuore del suo messaggio non tarda a

    rivelarsi e si fa immediatamente comprensibile, non c’è niente di criptico nel suo insegnamento, non

    c’è bisogno di un grande sforzo interpretativo per arrivare all’intenzione ultima che guida tutta la

    sua vita.

    A) Il Regno

    La Basileia tou Theou è incontestabilmente il grande contenuto dell’annuncio di Gesù e di tutta

    la sua vita, il centro intorno al quale tutto ruota e la chiave interpretativa che permette uno sguardo

    d’insieme capace di legare la varietà delle sue parole e dei suoi gesti tramandatici15. Fulcro della

    predicazione del Maestro di Nazareth non è lui stesso, ma una realtà che tiene profondamente legate

    tra loro storia e trascendenza: Dio nella sua relazione con gli uomini, le donne e le vicende del

    mondo, Dio che si interessa del mondo e lo sogna diverso e agisce per cieli nuovi e terra nuova, per

    una nuova creazione. Questo è il grande contenuto, la grande passione e la grande utopia

    dell’esistenza di Gesù.

    Annunciando la Basileia come qualcosa di vicino, di imminente, di presente nella sua persona,

    ma contemporaneamente un dono da attendere, un frutto da lasciar crescere e un orizzonte per il

    quale lottare e scommettere la vita16, Gesù si colloca in una prospettiva di trasformazione.

    La Basileia, un concetto che ai nostri orecchi suona poco familiare, è traducibile tanto con

    signoria, quanto con regno17, poiché può indicare il dominio di Dio, come lo spazio in cui questo si

    15 Questo è evidente in modo particolare nei sinottici dove il sintagma è presente in bocca a Gesù o attribuito a lui 69 volte (in Gv solamente 3,3.5). Ritroviamo la locuzione in At (6v.), in Paolo (4v.) in Ap 12,10. In Mt si parla di «Regno dei cieli» (anche se l’espressione regno di Dio rimane in qualche passo: 12,28; 19,24; 21,31.43), è un’espressione più giudaica (cieli sostitutivo di Dio per rispetto al nome impronunciabile), ma è da ritenersi che Gesù abbia usato “regno di Dio” e che Mt cambi non tanto o non esclusivamente per rispetto al nome, ma per ragioni teologiche: regno dei cieli è un’espressione più appropriata per dire l’universalità e la capacità di abbracciare il mondo propria dell’attesa rivelazione della signoria di Dio (cfr. J. GNILKA, Gesù di Nazaret. Annuncio e storia, Paideia, Brescia 1993, 113-114). Tra i vari studi su Gesù e il Regno si possono vedere: R. SCHNACKENBURG, Signoria e regno di Dio. Uno studio di teologia biblica, Il Mulino, Bologna 1965; B. CHILTON (ed.), The Kingdom of God in the Teaching of Jesus, Philadelphia – London 1984; H. MERKLEIN, La signoria di Dio nell’annuncio di Gesù, Paideia, Brescia 1994; V. SUBILIA, Il regno di Dio. Interpretazioni nel corso dei secoli, Claudiana, Torino 1993.16 «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15). Con queste parole l’evangelista Marco apre la sua opera disegnando un sommario tematico della predicazione di Gesù e il suo annuncio suona identico anche all’inizio del primo vangelo: «Pentitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17), ma la tensione tra regno presente e regno futuro attraversa tutti i sinottici ed è uno dei problemi più importanti sullo studio della predicazione di Gesù sul quale gli esegeti e i teologi si sono nettamente divisi.17 Cfr. J. MOLTMANN, La chiesa nella forza dello Spirito, Queriniana, Brescia 1976, 255ss.

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  • esercita; è l’intero spazio mondano nel quale la presenza divina è attiva, confortante, sanante, una

    presenza che si rende concreta in rapporti nuovi instaurati con pace, giustizia e amore; è Dio che fa

    sua la causa degli uomini.

    Per il Secondo Testamento è essenzialmente legato alla persona di Gesù. Secondo Heinz

    Schürmann questo rapporto tra Gesù e il regno presenta dei tratti ancora più forti di radicalità: la

    Basileia è il destino di Gesù18, è questo a spingerlo verso il passo decisivo dell'abbandono di

    Nazareth e dell'inizio della sua missione.

    Gesù aveva potuto sentir parlare della Basileia tou Theou dagli zeloti ben presenti e attivi nella

    Galilea di quegli anni19. Di certo sentì parlare della signoria regale di Dio anche nelle preghiere e

    nelle prediche del servizio liturgico sinagogale. Alcune delle parabole sul regno probabilmente

    hanno trovato la loro formulazione già negli anni precedenti la vita pubblica20 e in modo particolare

    quella di Mc 13,44 sul tesoro trovato da un uomo in un campo può conservare un ricordo personale:

    «il destino di Gesù collegato al regno era comunque una “scoperta” che gli arrecava una gioia

    infinita, che egli avrà anche “esternato” e che in ogni caso lo spinse a rinunciare al matrimonio, ad

    abbandonare alla fine la famiglia, la casa, il luogo natale e ad andare nel deserto dall’uomo che

    annunciava l’eschaton come imminente»21.

    In ogni caso colpiscono la sorpresa e l’eccitazione che accompagnano in Gesù l’annuncio della

    Basileia tou Theou, fanno davvero pensare ad un riflesso di un’esperienza personale sulla quale egli

    ha deciso di giocarci tutta la vita. L’approssimarsi salvifico del regno di Dio, Gesù lo vive nella sua

    persona e poi lo annuncia con tutta la sua vita anche se questo si manifesterà presto come un

    annuncio pericoloso e anche quando sembrerà portare verso un clamoroso insuccesso storico. Di

    fronte all’apparente smentita della realtà che gli si oppone davanti, Gesù prosegue con la forza del

    ciononostante: nonostante l’inoperosità del contadino, nonostante la zizzania, nonostante la

    piccolezza del seme e la semina che sembra infruttuosa, il Dio interessato all’umanità viene.

    Come possiamo scoprire qualcosa di più su questo regno-destino di Gesù? Seguiamo tre vie non

    esclusive, ma complementari.

    a) Le parole del Regno

    18 H. SCHÜRMANN, Regno di Dio e destino di Gesù, Jaca Book, Milano 1996, 30: «La basileia era, per dirla in anticipo, il “destino” (Ge-Schick) di Gesù: esso si ordinava a lui e lo destinava e divenne la sua sorte nella vita e nella morte».19 Cfr. M. HENGEL, Die Zeloten, Leiden 19762. Non abbiamo testimonianze della forma sostantivale malkutha di JHWH, ma della preghiera: JHWH deve essere re e il solo Signore.20 Cfr. R. RIESNER, Jesus als Lehrer, Tübingen 1981, 327.21 H. SCHÜRMANN, Regno di Dio, 37. L’autore tedesco sottolinea, ivi: «Chi potrebbe raccontare qualcosa in questo modo senza averne avuto un’esperienza propria?». Anche G. LOHFINK, «Die Unbedingtheit und die Faszination im Leben Jesu», in EuA 56(1980)97 commenta: «mi sembra che le parabole del tesoro e della perla offrano una chiave con l’aiuto della quale possiamo comprendere meglio e più a fondo Gesù stesso. Ogni buon testo, che qualcuno dice oscuro, è in un certo qual modo sempre autobiografico».

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  • Pur essendo il cuore del suo messaggio, Gesù non dice molto della Basileia, «non dice mai

    espressamente in che cosa consista questo regno di Dio, ma soltanto che esso sta per venire»22, che

    è vicino. Non è indubbiamente questa un’affermazione da poco, soprattutto se pronunciata in un

    mondo di oppressione, di non-salvezza, guardando negli occhi tanti volti simbolo dei dannati e degli

    esclusi della storia. Il dire «è vicino», «viene», anche se non si potrà dire «eccolo qui o eccolo là» è

    certamente vangelo, buona notizia, attesa e impegno per una trasformazione della realtà, però non ci

    chiarisce ancora molto sui contenuti che fanno questo regno.

    Che tipo di regno si avvicina e irrompe sulla scena della storia? Alcuni tratti possiamo cercare di

    rintracciarli nelle parabole, ma anche in esse più che descriverci ciò che esso sia, il Messia di

    Nazareth ci dice come accoglierlo e ancora una volta che viene pure se la realtà sembra negarlo.

    Così le cinque parabole della crescita23 sembrano essere una difesa che Gesù fa del suo annuncio —

    nonostante le resistenze dell’antiregno alla trasformazione, la signoria di Dio arriva, è già in atto nei

    suoi piccoli, ma significativi inizi —; quelle del tesoro (Mt 13,44) e della perla (Mt 13,45-46) ci

    raccontano la gioia e la sorpresa di chi viene afferrato da questo dono inaspettato o cercato con tutte

    le forze e così ci dicono come il regno può riempire e dare senso ad una vita. È qualcosa da

    attendere pronti (Mt 25,1-13), ma non con le mani in mano (Lc 19,11-27); qualcosa di totalmente

    inatteso come un gran debito condonato (Mt 18,23-35) e soprattutto è una vita senza

    discriminazioni alla quale Dio non si stanca di chiamare tutti, come una rete che raccoglie i pesci

    più vari (Mt 13,47), o come quel padrone di casa che per tutto il giorno fa la spola con la piazza del

    paese per portare chi trova disoccupato al lavoro nella sua vigna (Mt 20,1-16). L’offerta indebita del

    regno contiene però drammaticamente anche la possibilità di essere rifiutato come l’invito ad un

    banchetto di nozze (Mt 22,2ss.).

    Le beatitudini, nella loro versione matteana, sono poi un prezioso aiuto per comprendere la

    Basileia tou Theou e chi ne faccia parte, incastonate come sono in un’inclusione che le lega

    prepotentemente al regno: «beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli […]; beati i

    perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3.10). La signoria di

    Dio — che trova qui nella giustizia un suo contenuto decisivo — e le sei specificazioni qui

    racchiuse, sono la ragione della felicità proclamata dalle beatitudini e, come nota Gutiérrez, «le

    promesse delle sei beatitudini comprese fra la prima e l’ultima sono precisazioni che ci aiutano a

    cogliere il significato del regno»24. In effetti non può esserci regno concreto di Dio fatto di vita,

    amore e giustizia senza terra, consolazione, sazietà, misericordia, visione di Dio e filiazione divina.

    22 W. KASPER, Gesù il Cristo, Queriniana, Brescia 19968, 91.23 La semina in vari terreni (Mc 4,3-9 parr.), il seme che cresce da solo (Mc 4,26-29), il granello di senapa (Mc 4,30-32 parr.), la zizzania nel buon grano (Mt 13,24-30) e il lievito nella pasta (Mt 13,33; Lc 19,20-21).24 G. GUTIÉRREZ, Il Dio della vita, Queriniana, Brescia 1992, 221.

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  • b) La prassi del Regno

    L'agire e l'essere però spesso dicono molto di più delle parole. Così è certamente per Gesù e per

    la sua passione per la Basileia: che cos’è il regno per lui lo si capisce se guardiamo a ciò che ha

    fatto e a come ha vissuto, lì troviamo il “contenuto” del regno perché l’esistenza stessa di Gesù è la

    prassi del regno, il suo agire e il suo essere così spesso alternativi e fonte di scandalo e di conflitti

    sono l’inizio dei cieli nuovi e della terra nuova che il messia di Nazareth non si è accontentato di

    attendere e di annunciare, ma che ha cominciato ad impiantare nella storia.

    Pietro negli Atti riassume l’esistenza del Nazareno dicendo che «passò facendo del bene e

    risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo» (At 10,38) e questo è l’agire per il

    regno. Che il regno sia vicino si capisce dai segni visibili già presenti25: guarigioni ed esorcismi,

    accoglienza dei peccatori e degli esclusi, banchetti.

    I miracoli — di guarigione, di risanamento, di liberazione da forze oppressive — sono le grida

    della nuova creazione. Essi affermano che il regno è salvezza concreta che tocca la vita, una

    salvezza che è offerta da Dio in Gesù attraverso la sua compassione e misericordia per i più deboli.

    Si trova proprio qui la ragione ultima dei miracoli e la spinta di inizio del regno: il Figlio di Dio non

    sopporta il dolore altrui, le sue viscere si contorcono26 e non può che agire per trasformare la

    situazione e dare speranza. Gesù, di fronte alla situazione di non libertà e di non vita che lo

    circonda, non sa dormire sonni tranquilli, l’urgenza del regno allora non lascia spazio alla famiglia

    da salutare, al padre da seppellire, né alla ricerca di un letto dove passare la notte, richiede di partire

    e basta, il regno deve trovare i suoi inizi qui ed ora, non c’è tempo per gli indugi, per i se e i ma, c’è

    bisogno di buttarsi in un agire che abbia una forza trasformante: «per voi però non sia così» (Lc

    22,24-27; Mc 10,42-43; Mt 20,25-26)27.

    Se i miracoli sono la manifestazione dell’irruzione del regno nell’ambito della vita personale,

    l’accoglienza e i banchetti con i peccatori e gli esclusi segnano la trasformazione in un ambito

    sociale oppressivo. In un mondo che divide i giusti dagli ingiusti, i buoni dai cattivi, quelli degni di

    25 E. SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia di un vivente, Queriniana, Brescia 19803, 153: «Nella condotta di vita di Gesù è data una realizzazione prolettica — anticipatrice — non teorica, ma pratica del “mondo nuovo” della nuova prassi ricercata della vita buona e vera, degna dell’uomo».26 Il verbo utilizzato è splangnizomai e sta ad indicare proprio un movimento interiore profondo che si “somatizza” nella pancia. Più volte nei vangeli ci viene ripetuto che Gesù sente compassione e misericordia: «sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati» (Mt 14,14); «venne a lui un lebbroso […] mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e disse: “Lo voglio, guarisci!”» (Mc 1,40-41); «Ed ecco due ciechi, seduti lungo la strada […] Gesù si commosse, toccò loro gli occhi e subito ricuperarono la vista e lo seguirono» (Mt 20,29-34); «sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore» (Mc 6,34); «sento compassione per questa folla, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare» (Mc 8,2); «vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: “Non piangere!”» (Lc 7,13).27 Dobbiamo anche sottolineare come i miracoli, gli atti di forza non siano l’unico modo in cui si fa presente il regno in Gesù, anzi, la manifestazione finale e l’irruzione definitiva del regno si ha attraverso la debolezza e l’impotenza più assolute: sulla via della croce, una via lungo la quale non avviene alcun miracolo. Ciò che alla fine risana e trasforma il mondo e la storia è l’offerta totale della vita: «chi può venire in aiuto è soltanto il Dio sofferente» (D. BONHOEFFER, Widerstand und Ergebung, München 1951, 242).

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  • Dio da quelli indegni di accostarsi a Lui, la prassi feriale di Gesù di incontro e di relazione con tutti

    i messi fuori dai benpensanti è un gran pugno nello stomaco per i “puristi”, ma

    contemporaneamente un grande segno di un regno dove è bandita ogni esclusione, dove nessuno

    deve sentirsi estraneo, non invitato, marginalizzato.

    I pasti condivisi con pubblicani e peccatori, i dialoghi con le prostitute e i contatti con i lebbrosi

    sono certamente tra i comportamenti più scandalosi messi in atto dal Nazareno, tra quelli che gli

    hanno tirato addosso maggiori critiche e incomprensioni, ma sono anche tra quelli che più

    chiaramente ci mostrano il contenuto del regno, un regno dipinto come il banchetto messianico al

    quale tutti sono invitati a partecipare, un regno che non vuol giustificare ogni comportamento, ma

    che è messa in questione di un sistema sociale che genera esclusione28.

    I nuovi rapporti di comunione vissuti da Gesù, impongono una rinnovata visione del regno e

    degli uomini, sono trasformanti e capaci di riattivare percorsi virtuosi di autotrasformazione, come è

    descritto in modo splendido da Luca nel contrasto drammatico tra il giusto e ricco fariseo e la donna

    costretta a vendersi per vivere: «la tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» (Lc 7,50).

    Un’“azione” particolare che ritroviamo spesso nei racconti dei vangeli, sono le controversie nelle

    quali Gesù si trova coinvolto29, esse non sono scontri personali, ma la rivelazione che l’annuncio e

    l’instaurazione del regno passa anche necessariamente attraverso lo smascheramento di un potere e

    di una società oppressiva che genere inevitabili conflitti30.

    c) I destinatari del Regno

    L’ultima strada, ma non la meno importante, per capire cosa sia il regno per Gesù è guardare ai

    suoi destinatari. Per chi è questo regno? Lo abbiamo già capito dal suo agire, ma Gesù non manca di

    affermarlo con chiarezza: la Basileia è per i poveri, per i piccoli, per i disprezzati; per entrare in

    esso è necessario farsi bambini (cfr. Mt 18,3), mentre chi è ricco e presume di sé difficilmente

    riuscirà ad entrarci31. I pubblicani e le prostitute vi entreranno prima dei benpensanti (cfr. Mt 21,31).

    Come ricorda Sobrino citando J. Jeremias, l’annuncio della Basileia ai poveri è il «tratto

    28 J. MOLTMANN, La via di Gesù Cristo, 135: «Accogliendo ‘pubblicani e peccatori’ e le prostitute, Gesù non giustifica il peccato, la corruzione o la prostituzione, ma spezza semplicemente il circolo diabolico della loro discriminazione nel sistema di valori in cui i giudei credono […] si tratta di un attacco violento alla morale religiosa ed a quella civile».29 Nella sezione di Mc 2,1-3,6 sono riportate di seguito una serie di cinque controversie che ritroviamo poi in Lc 5,17-6,11 e Mt 9,1-17; 12,1-21, anche a Gerusalemme nei giorni che precedono il suo arresto i sinottici ci riportano altre cinque controversie: Mt 21,12-17 parr.; Mt 21,23-27 parr.; Mt 22,15-22 parr.; Mt 22,23-33 parr.; Mt 22,34-40 parr.30 Questi scontri che Gesù ha con i capi d’Israele riguardano l’osservanza del sabato, il digiuno, le decime, ma indubbiamente il contrasto più acre si avrà riguardo al tempio: l’attacco frontale a questa istituzione — «distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19) — che non è solo religiosa, ma bensì il centro del potere religioso, economico, politico, finanziario, sarà una delle accuse più importante portate contro di lui nel processo sinedrita (cfr. Mt 26,61) e indubbiamente il segno più forte di una trasformazione radicale della società.31 Mt 19,23-24: «In verità vi dico che difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entri nel regno dei cieli».

    7

  • fondamentale»32 della predicazione del Nazareno, iconicamente rappresentato dall’inizio del

    ministero nella sinagoga del suo paese: «… mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto

    messaggio…» (Lc 4,18). Questo contenuto centrale del regno ci rivela così un Dio parziale dalla

    parte degli ultimi e siccome «il Vangelo è realistico, non idealistico: non porta una nuova dottrina,

    ma una nuova realtà»33.

    Su questo sfondo si capisce molto meglio allora cosa fosse la Basileia per Gesù: la possibilità di

    una vita in pienezza che parte però concretamente attraverso un minimo di vita e di dignità per tutti,

    dove nessuno sia ridotto ad essere non-persona, un mondo e una società dove anche i poveri

    possono vivere e dove non c’è un uomo che ha il potere di allontanare, di escludere l’altro.

    B) Il Padre

    L’altra grande passione di Gesù, determinante per tutta la sua vita e inscindibilmente legata

    all’annuncio del regno, è Dio. Cristo forma i suoi parlandogli del sogno — che in lui va

    realizzandosi — di cieli nuovi e terra nuova e di un Dio diverso, un Dio non oppressivo, ma

    totalmente dalla parte dell’essere umano. Il regno è talmente vicino che ora si può guardare a Dio

    chiamandolo Padre.

    Non viene mai sottolineato abbastanza come pur essendo il regno al centro del pensiero e della

    predicazione di Gesù, non si trovi invece mai il termine reciproco e correlativo di re applicato a Dio34: «ci si presenta la situazione sorprendente di un maestro religioso il cui messaggio è centrato sulla

    predicazione del regno di Dio, che evita deliberatamente, anche nelle preghiere dove la cosa sarebbe

    stata più che naturale, di applicare alla Divinità la metafora regale abitualmente usata» 35.

    È chiaramente questo un modo nuovo e provocante di guardare a Dio e al suo mistero che

    produce inevitabilmente un terremoto nell’esistenza religiosa: «non vi chiamo più servi […] ma vi

    ho chiamati amici» (Gv 15,15).

    a) Dio, l’Abbà di Gesù

    32 J. SOBRINO, «Centralità del regno di Dio», 415.33 J. MOLTMANN, La via di Gesù Cristo, 119.34 Cfr. G. VERMES, La religione di Gesù l’ebreo, Cittadella, Assisi 2002, 175-176. L’autore nota come ci sono due allusioni in Mt 5,34; 25,24, che sembrano però due inserzioni dell’evangelista e comunque incapaci di mutare la prospettiva di fondo: la visione di Dio come re non è assolutamente stata un’idea centrale nel pensiero di Gesù. En passant notiamo come Gesù non si rivolga mai nella preghiera a Dio nemmeno chiamandolo Theos se non nella citazione del Sal 22 sulla croce (Mt 27,46p.).35 G. VERMES, La religione di Gesù l’ebreo, 176.

    8

  • Dunque per Gesù Dio non è il re che domina, ma il Padre sollecito36. Questa immagine è attestata

    in tutti gli strati della tradizione sinottica come in Gv e trasmessa attraverso diverse forme letterarie,

    dalle parabole, ai detti, alle preghiere; percorriamole brevemente.

    Gesù fa ricorso all’immagine del Padre in due racconti parabolici: quello dei due figli (Mt 21,28-

    31) — nel quale si intravede la sua capacità di accoglienza, di perdono, di pazienza, il non essere

    “permaloso”, ontologicamente incapace di “legarsela al dito”— e quello del figliol prodigo o padre

    misericordioso (Lc 15,11-32).

    Questa caratteristica, se è quasi sottintesa nella prima parabola nell’accettare il figlio che dopo

    aver detto no obbedisce al padre, è il grande tema della seconda che Gesù racconta per difendersi

    dall’accusa di scribi e farisei di essere un amico di pubblicani e peccatori (cfr. Lc 15,1-2). La prassi

    di relazioni pericolose e sconvenienti non è un suo capriccio, ma un fare quello che ha imparato dal

    Padre e perciò diventa la rivelazione di un volto di Dio che non ha paura di contaminarsi con le

    esperienze fallite di figliolanza, di un Dio che non allontana e non emargina, non castiga, non la fa

    pagare, ma esce continuamente fuori di casa — sia incontro al figlio minore che al maggiore — per

    abbracciare e convincere chi non lo ha capito, chi se l’è immaginato come un padre dispotico

    all’ombra del quale è impossibile vivere o come uno al quale obbedire senza chiedere niente come

    dei servi.

    Il Padre che Gesù conosce e di cui parla è dunque un Dio diverso che fa nascere relazioni

    diverse, per questo il Maestro invita i suoi all’imitatio Patris (Mt 5,48; Lc 6,36).

    Nella forma letteraria dei detti, oltre a ribadire questa caratteristica di Padre che perdona (Mt

    11,25-26)37, viene sottolineata anche la sua sollecitudine, il suo non abbandonare interessandosi (Mt

    6,25-34 // Lc 12,22-31; Mt 10,29-31 // Lc 12,6-7), è un Padre che come nutre gli uccelli e veste i

    fiori, così non si dimentica neppure di un capello del nostro capo, soprattutto dei “piccoli” dei quali

    si prende particolarmente cura e dai quali si lascia vedere faccia a faccia (cfr. Mt 18,10.14). Questo

    Dio poi è un Padre «che vede nel segreto» (Mt 6,4.6.18), interessato non tanto a come l’uomo si

    presenta davanti ai suoi simili, ma a come è nel più intimo di se stesso perché è in quella stanza

    segreta del cuore che vuol vivere l’incontro personale con ciascuno38.

    C’è poi un altro luogo davvero prezioso nel quale scoprire qualcosa del rapporto unico che Gesù

    ha vissuto con Dio, un luogo prezioso perché ci introduce là dove il rapporto si fa più intimo e

    personale, dove possiamo quasi sbirciare come attraverso una fessura chi era Dio per l’Uomo di 36 Sono molti i passi del Secondo Testamento che attestano questa relazione unica, l’espressione “Padre mio” ad esempio, la troviamo 24 volte in Gv, 13 in Mt, 2 in Lc, 2 in Q, mentre in Mc troviamo solamente due volte “Padre suo” riferito al Figlio dell’uomo. Vedi P. GRELOT, Dieu, le Père de Jésus Christ, Desclée-Mame, Paris 1994.37 G. VERMES, La religione di Gesù l’ebreo, 197: «è ben difficile dubitare che l’idea di perdono sia uno degli elementi centrali dell’immagine del Padre secondo Gesù».38 Troviamo anche nei detti apocalittici alcuni riferimenti al Padre (Mc 8,38p.; Mc 13,32p.; Mt 10,32-33p.; Mt 13,43; 20,23; 25,34; 26,29.53), ma al di là di una discussa attribuzione al Gesù storico (cfr. G. VERMES, La religione di Gesù l’ebreo, 202-203) non apportano contributi particolari per chiarirci chi è il Dio-Abbà di Gesù.

    9

  • Nazareth. Questo luogo è la preghiera e i vangeli non si limitano a dirci che Gesù pregava, ma ci

    consegnano anche il ricordo di alcuni frammenti di questa esperienza nei quali sempre

    l’invocazione è rivolta al Padre. Come nota R. Penna, queste espressioni ci sono documentate

    almeno da quattro strati della tradizione39 e rimandano a cinque momenti differenti della vita del

    Nazareno: l’esultanza di fronte al fare del Padre che si fa conoscere ai piccoli, la resurrezione di

    Lazzaro, la preghiera sacerdotale durante l’ultima cena, l’agonia nel Getsemani e gli ultimi

    momenti prima della morte in croce. L’evangelista Marco addirittura riguardo alla preghiera

    nell’orto degli ulivi ci conserva il ricordo della locuzione aramaica che possiamo supporre

    originaria sulle labbra di Gesù e quindi soggiacente a tutti gli altri testi: quando Gesù diceva Padre

    pronunciava Abbà40.

    L’esperienza della preghiera è rivelatrice per ogni uomo del suo incontro e della sua

    concezione della trascendenza, così anche questi frammenti di preghiere all’Abbà contribuiscono

    significativamente a rivelarci chi sia il Dio di Gesù. Il grido di giubilo che troviamo in Mt 11,25-26

    ad esempio, è una preghiera radicata nel vivere e nell’operare del Nazareno41, che ci porta nel

    mezzo del conflitto e dell’opposizione che sta sperimentando da parte dei capi del popolo. Un

    conflitto e un’opposizione che trovano come contraltare la gioia e l’accoglienza da parte dei piccoli

    e dei semplici che sentono le parole e i gesti di Gesù come liberanti: a loro il Padre-Abbà apre i

    misteri del regno. È lo stupore per questa scoperta che si affaccia alla sua coscienza a far esultare

    Gesù. Il padre-Abbà non è possesso di una lobby, di una cerchia di puri addetti agli affari del sacro,

    è dalla parte degli ultimi, di quelli tenuti fuori dal sapere religioso, di quelli guardati con sospetto e

    disprezzo dai pii e Gesù ringrazia il Padre di essere così. La gioia di Gesù qui sta nello scoprire un

    Dio-Abbà parziale, che per sua volontà, perché a Lui piace così, si fa conoscere a chi era ritenuto

    incapace e disinteressato a conoscere.

    Ma il Dio-Abbà è per Gesù anche colui che rimane mistero insondabile; le preghiere delle ultime

    ore di vita del Cristo ci testimoniano di un Dio che è notte oscura, al quale abbandonarsi con fiducia

    39 Cfr. R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo, I: Gli inizi, San Paolo, Cinisello Balsamo 19972, 114. I quattro strati nei quali compare la preghiera di Gesù al Padre sono: Mc 14,36 // Mt 26,39.42 // Lc 22,42 // Gv 12,26.28; Q: Mt 11,25.26 // Lc 10,21; Lc: 23,34.36; Gv: 11,41; 17,1.5.11.21.24.25.40 Molto, a partire dagli studi di J. Jeremias (cfr., J. JEREMIAS, Abba, Paideia, Brescia 1968; ID., The Prayers of Jesus, SCM, London 1967, 11-65; ID., Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 19822, 9-29; ID., Teologia del Nuovo Testamento, I: La predicazione di Gesù, Brescia 1972, 76-83), si è scritto e detto su questo ipsissimum verbum Jesu, sottolineandone il grado di confidenza ed intimità. È noto come per l’esegeta tedesco il termine abbà derivi dal linguaggio infantile e sia perciò traducibile con l’esclamazione: papà! In realtà ricerche posteriori hanno rivisto alcune delle tesi e delle pezze d’appoggio dell’interpretazione di Jeremias raccomandando maggiore cautela nel trarre conclusioni da questo unico termine e mettendo in forte dubbio che fosse una parola propria dei bambini, ma queste precisazioni non tolgono niente al valore di fondo di questa espressione propria della preghiera di Gesù, che rimanda in ogni modo ad una dimensione di intimità familiare e allude ad un rapporto speciale tra lui e il suo Dio (Tra i vari studi critici e per un’idea del momento attuale della ricerca: J. BARR, «’Abba isn’t “Daddy”», in JTS 39(1988)28-47; G. SCHELBERT, «Abba, Vater! Stand der Frage», FreibZeitPhilTheol 40(1993)259-281; R. PENNA, I ritratti originali, I, 113-118; G. VERMES, La religione di Gesù l’ebreo, 226-229). 41 Cfr. J. GNILKA, «Jesus und das Gebet», in Bible und Leben 2(1965)82-83.

    1

  • perché è il Padre, sebbene non si capisca il suo essere, il suo agire e il suo nascondersi fino in

    fondo. Così sulla croce troviamo il grido angoscioso «Eloì, Eloì, lema sabactàni?» (Mc 15,34p.),

    come la consegna ultima di sé nelle braccia dell’Abbà: «Padre, nelle tue mani consegno il mio

    spirito» (Lc 23,46)42.

    b) L’esperienza religiosa di Gesù con il Dio-Abbà

    Gesù non ha fatto il teologo, pur essendo l’esegeta autentico del Padre, impronta della sua

    sostanza e rivelazione del suo volto. Non ha proposto una “dottrina” nuova su Dio43. La distanza tra

    lui e i capi del popolo non si trova tanto al livello astratto della dottrina, quanto su quello ben più

    concreto e vitale dell’agire è lì che «si svela un diverso ruolo sociale di Dio»44.

    La sua esperienza del Padre-Abbà passa attraverso questi “incroci pericolosi”, non è dunque

    affatto scontata, ed è attraverso questa esperienza che Gesù vive Dio come totalmente dalla parte

    degli uomini e delle donne, dei più piccoli, come colui che da dignità e libertà, un Dio

    assolutamente non oppressivo, ed è sulla traduzione in azione di questa esperienza che avvengono

    per lui i “conflitti teologici”. Ne sono un’eco le varie controversie che troviamo nei vangeli

    riguardanti le guarigioni compiute in giorno di sabato: «è lecito in giorno di sabato fare il bene o il

    male, salvare una vita o toglierla?» (Mc 3,4). Questa è la domanda fondamentale: Dio è salvezza e

    liberazione o condanna e oppressione? Il giorno sacro a Lui non è proprio quello più adatto a donare

    libertà agli uomini? Non è proprio questo il culto che il Padre cerca? Gli scribi e i farisei incatenano

    Dio alla loro interpretazione della Legge e ai loro interessi, Gesù vuole liberare Dio perché è di quel

    Dio libero e liberante che fa esperienza e al quale si abbandona completamente45.

    Negli ultimi decenni, la teologia femminista ha provvidenzialmente messo in evidenza come

    questa immagine di un Dio-Padre che libera può diventare essa stessa oppressiva: «Se Dio è

    maschio, allora il maschio è Dio»46. Un Dio-Padre maschile può essere, e di fatto è stato, un forte

    simbolo patriarcale, causa e giustificazione della svalutazione e dell’oppressione strutturale delle

    donne, veicolo di una gerarchia di genere, fondamento metafisico di una società governata dagli

    uomini dove le donne sono solo in seconda battuta immagine sbiadita di Dio. In realtà chiamare Dio

    Abbà è vedere in Lui non solo il principio della vita e il potere, ma «significa anche protezione e

    42 Vedi A. RUBERTI, «Gesù e il Padre nell’ora della croce», in La Sapienza della croce 15(2000)135-154.43 Credeva come gli scribi e i farisei in un Dio unico, presente nella storia d’Israele, che ha parlato ai patriarchi, a Mosè e ai profeti; si trova in accordo con loro sul comandamento fondamentale della Legge, una Legge che dichiara di essere venuto a compiere, non ad abolire, ma la sua esperienza del Padre, quella in cui fa entrare anche i discepoli — Padre mio e Padre vostro — crea conflitti.44 C. DUQUOC, Un Dio diverso, Queriniana, Brescia 19852, 49.45 C. DUQUOC, Un Dio diverso, 56: «Attraverso la sua azione, Gesù mostra che il Dio che egli invoca come Padre, non è un Dio che opprime, ma un Dio che libera. Gesù lotta contro la Sinagoga perché essa ha incatenato Dio. Gesù lo rende libero».46 M. DALY, Beyond God the Father. Toward a Philosophy of Women’s Liberation, Beacon Press, Boston 1973, 19.

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  • specialmente amore, quindi anche Madre»47; è predicare di Lui proprietà che si realizzano e si

    completano solo nell’esperienza dell’essere-padre e dell’essere-madre48. Quando Gesù chiama Dio

    Abbà non lo fa calcando la mano sui tratti maschili del padre, ma sulla sua vicinanza sanante che è

    offerta di salvezza e di liberazione per tutti, degli uomini, come delle donne. Il Dio-Abbà di Gesù

    rimane alieno dalla giustificazione di qualsiasi emarginazione, sottomissione e oppressione, anzi,

    «siccome Dio è nostro Padre, noi siamo liberati da autorità patriarcali»49.

    c) L’esperienza del Dio-Abbà fonte del messaggio e della prassi di Gesù

    L’esperienza del Dio-Abbà si trova al cuore dell’essere e dell’esistere di Gesù il Cristo, non

    tenerne conto è impossibile per chi vuole scoprire il segreto che si trova dietro le sue parole, le sue

    azioni e il suo stile di vita: «nel suo esser-uomo Gesù viene qualificato dal rapporto che intrattiene

    con Dio. In altre parole, l’essenza più profonda di Gesù sta nel suo legame personale, assolutamente

    particolare che lo stringe a Dio»50.

    Alla base e fondamento della sua vita rivoluzionaria, che scandalizza i benpensanti e che è

    offerta di salvezza a trecentosessanta gradi, c’è il suo rapporto con Dio, l’esperienza che egli nella

    sua umanità fa di questo Padre intento all’umanità e che dona speranza.

    Questa è la sovranità di Dio che sperimenta, annuncia ed inaugura. Gesù, vivendo il suo essere

    dal Padre, facendo esperienza dello sguardo d’amore rivolto dal Padre su di lui, in una concreta

    esistenza umana situata in un tempo, luogo e cultura circoscritti, porta nella storia una nuova

    immagine di Dio e fa sperimentare agli uomini e alle donne che lo accostano con cuore aperto e

    disponibile la salvezza dal Padre. Il suo agire che porta gioia e fa sperimentare concretamente

    salvezza e inizio del regno trova in questo rapporto unico la sua origine51.

    C) Lo stile di vita

    «Vi ho dato l’esempio» (Gv 13,15) dice Gesù ai suoi la notte dell’addio, rimandandoli non solo

    alle sue parole — che saranno ricordate e rese vive dal Paraclito — ma a tutta la sua vita,

    simbolizzata magnificamente nel gesto del servo, proponendo così se stesso e il suo modo d’essere

    47 R. PANIKKAR, La pienezza dell’uomo, 137. Poco oltre afferma: «È il bambino che nella gioia e nel dolore dice “Padre” — e qui la maiuscola è appropriata. Non si tratta solo di un sentimento di dipendenza o di amore, ma piuttosto di un sentimento primordiale di appartenenza. Per questo motivo, noi oggi possiamo dire ancor meglio: “Madre” — il che forse non era possibile al Gesù storico» (ivi, 139). 48 Cfr. il dialogo tra K. Rahner e la sua discepola A. Röper: A. RÖPER, Ist Gott ein Mann? Ein Gespräch mit Karl Rahner, Patmos, Düsseldorf 1979.49 R. Ruether, citata in R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 1992, 474. Vedi anche il capitolo: “Teologia femminista per i maschi” in J. MOLTMANN, Esperienze di pensiero teologico, Queriniana, Brescia 2001, 248-272.50 E. SCHILLEBEECKX, Umanità, 164.51 Chiosa E. SCHILLEBEECKX, ivi, 697: «questo identifica Gesù di Nazaret. La sua autonomia come Gesù di Nazaret è la sua relazione totale costitutiva con Colui che egli chiama “Padre”, il Dio intento all’umanità. Questa è la sua esperienza dell’Abba, anima, fonte e fondamento dalla sua condotta, della sua vita e morte».

    1

  • come la strada tracciata per il regno. Gesù è lui, in prima persona, per come vive, per le relazioni

    che intesse, per il suo modo di concepire l’esistenza, buona notizia, evangelo, comunicazione di

    novità. Gesù in fondo propone ai suoi non delle parole da credere, ma una vita da vivere, un preciso

    stile d’esistenza che è scandalo, che fa mormorare, che fa entusiasmare le folle povere; questo modo

    d’essere, come nota Sobrino, «va oltre il suo messaggio, la sua attività e la sua prassi»52. Come ha

    vissuto Gesù? Quali idealità hanno sostenuto la sua esistenza, quali coordinate fondamentali del suo

    modo di vivere e interpretare la vita possiamo rintracciare? Con quale “stile di vita” ha affrontato la

    sua storia e si è presentato ai suoi? Mi limito ad alcune brevi sottolineature immediate per poi

    proporre due parole sintesi capaci, credo, di disegnare i contorni fondamentali del suo modo

    d’intendere la vita.

    Pur non volendo essere ricostruzioni storiche, i vangeli ci permettono di gettare uno sguardo

    sulla vita del Nazareno. La prima cosa che salta agli occhi è che non fu un solitario, incontrò tanta

    gente girando per i villaggi (non invece per le città…53) nella quotidianità delle relazioni, soprattutto

    la gente più sola, più indifesa, più esclusa e fece comunità, condividendo ogni cosa, con i discepoli

    che lo seguivano dappertutto. La comunione di vita con lui è stata la grande esperienza formativa di

    questo gruppo54, un’esperienza che ha toccato profondamente i discepoli e che certamente è alla

    base della vita in comune con cui nasce la chiesa dopo la pasqua, i “cristiani” iniziano a vivere

    come hanno imparato dal Maestro. La convivialità, la comunione di mensa con tutti, dai farisei ai

    pubblicani, è un tratto distintivo del suo vivere, tanto che in modo dispregiativo si parlava di lui

    come «un mangione e un beone» (Mt 11,19; Lc 7,34). Di questo gruppo di “intimi”, non dobbiamo

    dimenticarci di notare come ne facciano parte uomini appartenenti a diversi gruppi sociali e donne55

    — Luca lo ricorda esplicitamente (cfr. Lc 8,2-3) — e come fosse un gruppo in cammino, per strada,

    senza fissa dimora, senza una pietra «dove posare il capo» (Mt 8,20; Lc 9,58).

    52 J. SOBRINO, La fede in Gesù Cristo, Cittadella, Assisi 2001, 350.53 Cfr. G. THEISSEN – A. MERZ, Il Gesù storico, Queriniana, Brescia 20032, 215. I vangeli tacciono incredibilmente sulle due più grandi città della Galilea, Sepphoris e Tiberiade, anche se poi ci ricordano che Gesù mandava avanti a sé i suoi discepoli «in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc 10,1).54 Mc 3,14: «ne costituì Dodici perché stessero con lui…». Scrive E. SCHILLEBEECKX, Gesù, 234: «i ricordi della comunione permanente con Gesù di discepoli che “gli vanno dietro” sono, di tutti i ricordi di offerta di salvezza fatti in diverse forme da Gesù nei giorni della sua vita terrena, forse i più pregnanti; soprattutto questa forma di offerta di salvezza li avrebbe posti dopo la morte di Gesù esplicitamente davanti alla questione cristologica».55 Scrive GIOVANNI PAOLO II, Ecclesia in Asia, 6.IX.1999, 11: «Scelse come suoi più stretti compagni e collaboratori un insolito gruppo in cui dei pescatori erano al fianco di esattori di tasse, zeloti insieme con persone inesperte della Legge, e vi erano anche alcune donne».

    1

  • Gesù è un predicatore itinerante che invia i suoi a percorrere i villaggi della Palestina56 e proprio

    nelle indicazioni rigorose e radicali che dà loro in questa occasione, possiamo riconoscere uno dei

    punti più caratterizzanti del suo stile di vita: la povertà57. È “un ebreo marginale”58.

    Un tratto fondamentale dello stile di vita di Gesù è indubbiamente la sua libertà. Gesù era, e lo si

    percepiva, un uomo estremamente libero e liberante, addirittura per C. Duquoc questo è l’elemento

    più visibile della sua personalità, il dato più certo intorno al Gesù storico59, quello che la gente del

    suo tempo leggeva come “autorità”. Quest’Uomo di Nazareth viveva in una libertà a

    trecentosessanta gradi che toccava tutti gli ambiti dell’esistenza, dalla sfera religiosa a quella

    familiare, sociale e personale, il suo è un comportamento creatore, non determinato da costrizioni

    “ambientali” o da convenienze. È libero nei confronti della Legge e delle autorità religiose, anche se

    la sua non è mai la libertà del peccatore, libero nei rapporti con i familiari e con i ben-pensanti che

    vogliono riportarlo entro un comportamento socialmente, eticamente e politicamente corretto. È

    libero nella scelta dei suoi amici e nei rapporti con il potere politico, niente lo condiziona. La libertà

    è un’evidenza così forte nella sua vita che chi vive con lui ne resta contagiato.

    Infine potremmo dire che pur non rifiutando il titolo di profeta e presentando la sua persona

    come decisiva nell’avvento del regno, non assume uno stile di vita profetico, né si presenta come

    l’uomo del sacro, ma invece, in modo completamente libero e affatto scontato, fa sua la vita

    dell’uomo comune, un’esistenza che oggi potremmo chiamare secolarizzata e questo destabilizza e

    scandalizza60.

    Il “come” della vita del Nazareno non si limita ad una serie di caratteristiche o di

    inclinazioni che possiamo più o meno cercare di descrivere, ci sono degli atteggiamenti

    fondamentali che la plasmano e le donano unità e coerenza. Questi atteggiamenti esistenziali

    fondamentali si possono per me sintetizzare in due espressioni che adesso cercherò brevemente di

    illuminare: nonviolenza e pro-esistenza.

    a) Uno stile di vita nonviolento

    56 I vangeli ci riportano quattro varianti dell’invio in missione dei discepoli: Mc 6,8-11; Mt 10,5-15; Lc 9,2-5; 10,2-12.57 J. GNILKA, Gesù di Nazaret, 225: «possiamo supporre che l’indigenza richiesta da Gesù ai suoi discepoli determinasse anche il suo proprio stile di vita. Egli percorse la sua terra senza provviste, denaro, bisaccia, a piedi scalzi e senza bastone, non avendo una fissa dimora».58 È il titolo che J.P.MEIER ha dato alla sua opera sul Gesù storico (Queriniana, Brescia 2001-2003).59 Cfr. C. DUQUOC, Gesù uomo libero, Queriniana, Brescia 1974.60 C. DUQUOC, Cristologia, Queriniana, Brescia 1972, 125: «che Cristo sia un profeta, nessuno nel vangelo lo nega, anche se nessuno s’accorda sulla sua identità (Mt 16,13-20). Ma che questo profeta non sia né un originale, né un eroe, né uno yoghi; che egli adotti un modo di vivere conforme a quello del popolo, fa pensare assai, ed introduce uno sconvolgimento nella nozione di “sacro”».

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  • L’invito ad amare il nemico è senza ombra di dubbio il vertice dell’etica di Gesù61 e la parola più

    cristallina del suo insegnamento nonviolento. Lo troviamo in Lc 6,27-38 // Mt 5,38-48

    accompagnato dalla messa in questione della legge del taglione. Questa norma, che era nata con

    l’intento di porre un limite alla violenza vendicativa, non ha la forza di rompere la logica violenta:

    ad una violenza subita si risponde con una violenza inflitta “riparatrice”, a violenza si risponde con

    la violenza — anche se legalizzata e contenuta — e si rimane così incatenati nella stessa logica

    demoniaca. Gesù, invitando a rinunziare alla violenza colui che ha subito una violenza, vuole

    arrestare questa spirale altrimenti senza via d’uscita e interpella direttamente non colui che opera la

    violenza, ma ognuno di noi. Il suo non è un invito alla passività, ma ad atti positivi capaci di uscire

    da una logica di vendetta, di scontro e di crescita della conflittualità: colui che è attaccato deve

    abbandonare la legge del “colpo su colpo” e questo è sottolineato dai quattro esempi riportati nelle

    pericopi62.

    Potremmo continuare ad ascoltare parole nonviolente di Gesù, ma ciò che ci interessa

    maggiormente è porre attenzione al suo stile esistenziale nonviolento; la sua testimonianza di vita ci

    consegna un rifiuto totale della violenza che non si accompagna però al silenzio, alla rassegnazione

    e alla passività di fronte all’ingiustizia. La nonviolenza è nella vita di Gesù, l’espressione della

    prassi del regno, la caratteristica di fondo della vita nel regno che viene e «senza nonviolenza non

    ha senso, nelle pagine evangeliche, il discorso sul Padre, sui fratelli, sui poveri»63.

    Se spostiamo l’attenzione sull’agire di Gesù, la prima cosa che viene in mente, e che sembra

    contraddire l’atteggiamento nonviolento di Gesù, è l’episodio del Tempio. Gesù qui non scaccia con

    violenza i mercanti con le loro cose? Riportata da tutti e quattro gli evangelisti (Mc 11,15-19; Mt

    21,12-17; Lc 19,45-46; Gv 2,13-22)64, in quest’azione certamente gesuana — perché è impensabile

    sia stata escogitata dalle comunità cristiane —, un’azione indignata contro il sistema ingiusto e

    oppressivo del Tempio, ritroviamo invece «l’espressione del principio di non collaborazione che sta

    61 Cfr. G. THEISSEN – A. MERZ, Il Gesù storico, 429ss.; J. PIPER, “Love Your Enemies” – Jesus’ Love Command in the Synoptic Gospels and the Early Christian Paraenesis, Cambridge University Press, Cambridge 1980. 62 Cfr. G. LEONARDI, «La violenza ci interpella: I. La risposta del vangelo e delle prime comunità cristiane», in Studia Patavina 27(1980)77-106; G. THEISSEN, «La rinuncia alla violenza, l’amore per il nemico (Mt 5 38-48; Lc 6, 27-38), e il loro sfondo storico-sociale», in Id., Sociologia del cristianesimo primitivo, Marietti, Genova 1987, 142ss; E. PERETTO, «Rinuncia alla violenza ed esercizio del potere: un difficile equilibrio del Nuovo Testamento», in Id., La sfida aperta. Le strade della violenza e della non violenza dalla Bibbia a Lattanzio , Borla, Roma 1993, 87ss; A. VÖGTLE, La pace. Le fonti del Nuovo testamento, Morcelliana, Brescia 1984, 61-86; W. EGGER, «La pace nel messaggio di Gesù: logica della violenza e logica del regno di Dio», in Come e perché la pace in un mondo di peccato, Bologna 1984, 9-25.63 F. GENTILONI, «Prefazione», in F. Vaillant, La nonviolenza nel vangelo, EGA, Torino 1994, 5.64 Nei racconti degli evangelisti troviamo una certa progressione: Lc 19,45 «Gesù si mise a cacciare i venditori»; Mt 21,12; Mc 11,15 Gesù «rovesciò i banchi dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe»; Gv 2,14 «fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del Tempio con le pecore e i buoi, gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi». Il racconto che sembra veicolare un’immagine più violenta di Gesù è certamente quello di Gv dove si parla di una sferza di cordicelle, ma l’esegesi moderna è abbastanza concorde nel vederla usata solamente per far uscire gli animali, non contro le persone.

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  • alla base della strategia dell’azione nonviolenta»65. Attaccando il Tempio, base dell’intero sistema

    politico, economico e religioso controllato dall’aristocrazia religiosa e funzionale alla

    legittimazione imperiale, Gesù attacca il sistema sacrificale66 riprendendo le critiche profetiche,

    ponendo un’azione di disobbedienza civile tipicamente nonviolenta perché simbolica e perché non

    passiva e rassegnata.

    Nella gestione dei conflitti nei quali si trova sovente coinvolto — e dei quali spesso, dobbiamo

    dire, è l’agente scatenante — Gesù si pone in modo nonviolento. Ai dodici che litigano tra loro per

    sapere chi sia il più grande, lui risponde nonviolentemente attraverso il paradosso: prende un

    bambino — un soggetto che nella Palestina di allora non contava niente, era veramente l’ultimo —,

    lo pone nel mezzo abbracciandolo e lo da come esempio (Mc 9,35-37) disinnescando così

    l’ostilità67.

    Emblematico è poi il conflitto con i dottori della Legge nell’episodio della donna adultera (Gv

    8,3-11). Essi usano la donna per mettere in difficoltà Gesù riguardo all’applicazione della Legge68,

    usandola come un oggetto, un pretesto. Gesù invece non si appassiona al dibattito giuridico, né è

    interessato a questionare sulla colpevolezza dell’adultera, quello che gli sta a cuore è lei e la sua vita

    e in uno stile nonviolento si mette dalla sua parte — si abbassa assumendo una posizione di fragilità

    e da vittima69 — e rimandando i suoi avversari alla loro coscienza, suscita in essi una pedagogia

    della responsabilità per la trasformazione del cuore.

    Sia verso l’adultera che nei confronti di Zaccheo (Lc 19,1-10), o della Samaritana (Gv 4,1-42) o

    delle sue numerose frequentazioni con pubblicani e peccatori risalta nel modo di fare di Gesù un

    altro atteggiamento tipicamente nonviolento: l’innescare una dinamica decolpevolizzante. Il

    Maestro di Nazareth non ha paura del peccato degli uomini e non punta il dito generando il

    meccanismo della colpevolezza nemmeno verso i responsabili di un comportamento ingiusto. La

    strategia dei benpensanti genera colpevolezza ed emarginazione invitando a tenersi alla larga da

    “certa gente” per non contaminarsi e cadere nell’impurità, Gesù invece è pronto a contravvenire le

    65 F. VAILLANT, La nonviolenza nel vangelo, 31. Vedi anche R.A. HORSLEY, Jesus and the Spiral of Violence, Fortress Press, Minneapolis 1993, 286-300; M.R. BREDIN, «John’s Account of Jesus’ Demonstration in the Temple: Violent or Nonviolent?», in South Orange 33(2003)44-50.66 Giuseppe Flavio ci dice che per la pasqua venivano immolati 255.600 agnelli!67 F. VAILLANT, La nonviolenza nel vangelo, 42: «Gesù compone il conflitto fra i suoi rimettendo ciascuno al suo posto. Per fare ciò ha sdrammatizzato la situazione spersonalizzandola. Egli non dice ai suoi amici: “Tu e tu, siete degli imbecilli”. Preferisce costruire una messa in scena per far loro comprendere che alcuni hanno ambizioni stupide in testa».68 Interpretandola, tra l'altro, a loro modo, poiché secondo Dt 22,22-24 sia la donna che l’uomo sorpresi in adulterio dovevano essere lapidati, mentre qui solamente la donna è portata davanti a Gesù.69 F. VAILLANT, La nonviolenza nel vangelo, 45 commenta così il chinarsi di Gesù: «ecco di nuovo una tattica di nonviolenza. Con il suo gesto egli vuole significare che preferisce morire piuttosto che restare in vita, se la sua vita comporta la morte di qualcuno».

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  • regole e a scandalizzare per liberare l’uomo dal senso dalla colpa: «nessun incontro di Gesù lascia

    intendere che gli uomini debbano prima sistemare i loro problemi per poter incontrare il Signore» 70.

    La scelta nonviolenta, porta incisa in sé la disponibilità a pagare di persona, a perdere la vita. La

    rivelazione ultima dello stile di vita nonviolento di Gesù si troverà perciò nel suo mistero di morte e

    risurrezione. Egli lascia che la violenza si scateni su di lui senza rispondere con altrettanta violenza,

    spezza la spirale della violenza attraverso un’attiva non resistenza al male che diviene disponibilità

    a donare la vita per trasformare la logica del mondo, una disponibilità che è frutto di un animo

    nonviolento71. Il modo in cui Gesù va incontro alla morte manifesta il suo amore riconciliante,

    capace del perdono pieno fino all’attimo estremo (Lc 23,34: «..non sanno quello che fanno»), un

    amore che non cerca una giustizia vendicativa, ma che abbraccia nel suo volontario offrire la vita

    chi in quel momento la vita la toglie. Così quella che appare la vittoria della violenza segna la sua

    definitiva sconfitta e il suo escatologico superamento, l’ora della morte in croce di Gesù diviene

    «l’ora della nascita della nuova società non-violenta del popolo di Dio nella nuova alleanza» 72.

    b) Uno stile di vita pro-esistente

    La seconda espressione capace, a mio giudizio, nella sua sinteticità, di dare un’idea riassuntiva

    dell’esistenza di quell’Uomo particolare che è stato Gesù di Nazareth e del suo stile di vita è un

    neologismo — pro-esistente — che l’esegeta tedesco Heinz Schürmann ha utilizzato per la prima

    volta pubblicamente in una conferenza a Wien nel 197273 e che riecheggia il “Gesù uomo per gli

    altri” di D. Bonhoeffer.

    Gesù non concepisce la vita a partire da sé stesso, vive un’esistenza “eccentrica”, cioè con il

    centro spostato fuori di sé, totalmente proiettato al di là del suo io, questo sembra essere il principio

    strutturante tutta la sua esistenza. Per obbedienza al Padre e «per noi uomini e per la nostra

    salvezza»74: queste sono costantemente le due coordinate sulle quali si dipana l’esistenza

    prepasquale del Figlio e che segnano tutte le sue azioni. 70 F. VAILLANT, La nonviolenza nel vangelo, 50. B. HÄRING, La forza terapeutica della non-violenza, Paoline, Cinisello Balsamo 1987, 53: «la non-violenza nella sequela di Cristo è quell’amore imperterrito che vorrebbe guadagnare tutti gli uomini, anche i peccatori e gli avversari, all’amore di Dio e del prossimo e che, a questo scopo, percorre la via del Maestro».71 GANDHI, Gandhi per la pace, 65: «il seguace della non violenza deve coltivare la propria capacità di offrire il sacrifici del tipo supremo al fine di liberarsi della paura». J.W. DOUGLAS, The Non-Violent Cross, London 1968, 71: «la logica della non-violenza è la logica della crocifissione e conduce i non-violenti nel cuore del Cristo sofferente». 72 R. PESCH, «Die Überwindung der Gewalt», in N. Lohfink – R. Pesch, Weltgestaltung und Gewaltlosigkeit, Patmos, Düsseldorf 1978, 67.73 Il titolo della conferenza era: «Der pro-existente Christus – die Mitte des Glaubens von Morgen?» e il testo lo troviamo in italiano notevolmente ampliato nella raccolta Gesù di fronte alla propria morte, Morcelliana, Brescia 1983, 149-190. Vedi poi anche «“Pro-existenz” als christologischer Grundbegriff» e «Nachtrag: Neutestamentliche Aspekte der Pro-Existenz des irdischen Jesus», in H. Schürmann, Jesus – Gestalt und Geheimnis, Bonifatius, Paderborn 1994, 286-312; 312-315. Il termine pro-esistenza ha fatto fortuna, tanto da essere ripreso in un documento della COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, «Quaestiones selectae de Christologia», in Greg. 61(1980)609-632 e da essere usato dal papa Giovanni Paolo II in un discorso alla stessa CTI (cfr. Osservatore Romano, 5-6 dicembre 1983, 6).74DH 125: Simbolo niceno, 13 giugno 325.

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  • In alcuni passi dei vangeli Gesù lo dichiara apertamente75. L’essere per è il suo stile di vita

    inconfondibile. Il detto «chi vorrà salvare la sua vita la perderà» (Mt 16,25; Mc 8,35; Lc 9,24;

    17,33) ci conserva forse l’idea più genuina che il Cristo ha dell’esistenza: la vita la si trova nella sua

    pienezza solamente nella misura in cui si è disposti a giocarsela, a rischiarla, a non difenderla a tutti

    i costi, a pensarla “per”.

    Ma Gesù può concepire la sua vita in modo “eccentrico”, come totalmente per gli altri,

    solamente perché è fontalmente radicato nel Padre e vive per il Padre. La pro-esistenza orizzontale

    si sostiene e si alimenta unicamente attraverso una radicale pro-esistenza verticale: «Gesù è stato

    l’“uomo per gli altri”, perché ha vissuto per il “totalmente Altro”»76. Ultimamente è il suo essere

    teocentrico il segreto della sua vita, ciò che lo abilita all’auto-perdersi, al dono di sé senza riserve. Il

    Figlio, che vive nel seno del Padre rivolto a Lui, una volta incarnatosi non poteva che vivere una

    vita proesistente come riflesso in humanis del suo essere trinitario. Dogmaticamente si potrebbe

    affermare che la pre-esistenza è il fondamento della pro-esistenza77, anche se economicamente è

    quest’ultima che ci apre uno squarcio sull’altra: è l’Øpšr cristologico il filo rosso che unisce

    esistenza intratrinitaria, vita terrena di Gesù, mistero pasquale e tempo della Chiesa.

    Il mistero pasquale è il compimento e lo svelamento di questa esistenza-per. «La sua non è stata

    una morte naturale o accidentale — due modi di morire che hanno poco a che vedere con un modo

    di vivere — ma a motivo delle reazioni da parte dei suoi contemporanei, giudei e romani, provocate

    dalle azioni che egli compì in vita»78. La sua morte è stata una conseguenza del suo agire. Il

    ministero pubblico di Gesù non durò molto. Un anno, al massimo tre79. Nonostante i tempi

    certamente più lunghi dell’epoca per spostarsi e per far camminare le notizie, bastò poco

    evidentemente perché venisse percepito come un pericolo per il potere religioso, un’agente

    destabilizzante nel clima inquieto della Palestina del I secolo. La morte di Gesù fu atroce e fu una

    morte da criminale. Nonostante sia possibile rintracciare nelle pieghe dei racconti evangelici la sua

    crescente consapevolezza di andare verso questa fine e la capacità di guardarla in faccia senza

    vederla come una sconfitta e un fallimento, essa è e rimane un boccone amaro e un duro scoglio

    sulla via della fede. Che Gesù sia morto di morte violenta è il dato più certo di tutto il kerygma,

    75 Egli è il servo di tavola: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27); ai suoi non da altra regola che queste parole: «Se uno vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti» (Mc 9,35); la sua esistenza è a tal punto per l’altro che, cercato da un padre disperato per la figlia, lascia la sua attività di annuncio e segue quel padre (Mt 9,18ss).76 H. SCHÜRMANN, Gesù di fronte, 169. Ivi, il nostro autore, rileva giustamente come «di fronte a un “gesuanismo” alla moda e a buon mercato, si deve rilevare che un tale trascendimento, che realmente si libera di sé, per andare verso il prossimo, è possibile sotto l’aspetto antropologico solo in quanto effetto e conseguenza di un trascendere sé spossessandosi di sé per andare verso Dio».77 Cfr. H. SCHÜRMANN, «“Pro-existenz” als christologischer Grundbegriff», 307-312.78 J. MOLTMANN, Il Dio crocifisso, 150.79 Per J. GNILKA, Gesù di Nazaret. Annuncio e storia, Paideia, Brescia 1993, 403, un’attività di tre anni è improbabile. J.P. MEIER, Un ebreo marginale, I, Queriniana, Brescia 2001, 405-410, tenta di armonizzare le cronologie dei sinottici e di Gv e propone l'ipotesi di un ministero durato due anni più un mese o due.

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  • l’ineliminabile pietra d’inciampo e di scandalo per ogni autentico cammino di sequela. La centralità

    di questo dato è chiarissima nei vangeli, come ricorda bene la famosa ed azzeccata frase di M.

    Kahler: «i vangeli non sono altro che la storia della passione preceduta da una lunga

    introduzione»80.

    I suoi discepoli si trovarono da subito nella necessità di darne e farsene una ragione, di trovare

    un perché, una giustificazione che la rendesse accettabile e che rendesse possibile e credibile

    annunciare la salvezza in uno che nella sua esecuzione era divenuto nonpersona criminalizzata e

    disumanizzata. Il terribile destino finale di Gesù era uno scandalo. E bisognava trovare un modo per

    superarlo, per dire in quale maniera, dentro quell’evento sconvolgente, Dio si fosse definitivamente

    rivelato come colui che sta dalla parte delle vittime, delle nonpersone, dei disumanizzati. Usando

    varie chiavi interpretative, i discepoli nel tempo postpasquale tentarono varie strade per guardare in

    faccia la croce, vedendola come una morte “per noi”, “per i nostri peccati”, sulla scia della morte

    dei martiri o come atto di riscatto: Gesù muore così tremendamente per liberare il popolo dalla

    schiavitù e dall’oppressione.

    Ma questa morte sarebbe rimasta un fatto tra i tanti, una delle ingiustizie perpetuate da un

    occupante straniero, se alcuni testimoni non avessero affermato un fatto apparentemente impossibile

    e inatteso: il Crocifisso è il Vivente. Luca inizia il racconto della seconda parte della sua opera con

    un'espressione che spiega la testimonianza della comunità primitiva: «egli si mostrò ad essi vivo

    dopo la sua passione»81. Questa esperienza costituisce la struttura fondamentale della più antica

    confessione di fede82 ed è una testimonianza molto sobria, che non reclama un accreditamento

    attraverso il ricorso al miracolo o al prodigio (nessun apostolo, stando al racconto dei vangeli

    canonici, pretende di aver visto Gesù nell'atto della risurrezione83), ma il fatto che colui che fu

    condannato e giustiziato è sperimentato come vivente. La sua causa non è terminata inchiodata sulla

    croce84. I testi più antichi sulla risurrezione non sono i racconti dell'evento, ma le confessioni di

    fede, l'annuncio di una Buona e insperata novella.

    L'accesso che gli scritti biblici ci aprono sulla risurrezione85 non è affatto una descrizione

    oggettiva del fatto, ma piuttosto l'esperienza dei testimoni letta in contrappunto a quella tremenda

    del Venerdì santo. Essi erano stati colpiti e disorientati: la morte ignominiosa sulla croce sembrava

    80M. KÄHLER, Der sogenannte historische Jesus und der geschichtliche, biblische Christus, (1892), Kaiser, München 1969.81 At 1,3.82 Per una panoramica dello sviluppo delle prime confessioni cristiane vedi G. SEGALLA, La cristologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1985, 81-98.83 Unica testimonianza che narra in diretta l'evento del risuscitamento di Gesù la troviamo nell'apocrifo Vangelo di Pietro 35-42 (vedi in I vangeli apocrifi, Einaudi, Torino 1990, 294-295).84 Vedi E. SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia di un vivente, Queriniana, Brescia 197685 Il termine stesso “risurrezione” è da intendersi come un'interpretazione dell'evento, il Secondo Testamento ci presenta almeno tre grandi aree semantiche attraverso le quali questa esperienza dei discepoli trova espressione. Vedi R . PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo, I, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 190-195

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  • dare ragione agli interpreti ufficiali della religione ebraica, Dio permettendo che Gesù morisse

    pareva ratificare il loro giudizio e la loro condanna. Se Dio non era intervenuto a liberare dalle

    mani degli aguzzini colui che aveva annunciato l'inaugurazione del Regno con la sua parola e le sue

    azioni, significava il trionfo del modo farisaico di cercare Dio.

    Ai discepoli increduli, scossi, impauriti, Gesù si impose come vivente. Nonostante la sua fine da

    maledetto86, Dio era dalla sua parte, ne approvava la parola, il comportamento, la libertà. È quello

    che come un ritornello afferma Luca nel testo degli Atti: “voi lo avete ucciso, ma Dio lo ha fatto

    risorgere!”87. La risurrezione è l'atto di vita vita di Dio opposto all'atto di morte degli uomini88.

    Per concludere e aprire: da Cristo alla Chiesa

    «Dell'inizio della chiesa non si può determinare propriamente la data, salva l'indicazione

    emblematica della Pentecoste dell'anno in cui Cristo morì»89. La nascita della chiesa si può

    illuminare solamente in uno sviluppo processuale, tra continuità e discontinuità, che passa da Gesù

    ai discepoli. A livello esegetico è oggi indiscusso che Gesù con il suo ministero abbia voluto dare

    avvio alla raccolta definitiva, escatologica di tutto Israele. La sua azione, come quella del

    movimento da lui iniziato, possiamo comprenderla come tesa alla costituzione di un movimento

    giudaico di riforma: si sente inviato ad Israele per Israele. Se non è possibile rintracciare

    un'ecclesiologia esplicita in Gesù90, certamente dobbiamo però riconoscere una continuità

    fondamentale tra la sua causa e il seguito che hanno vissuto i discepoli91. Al centro della

    predicazione di Gesù c’è l’annuncio della venuta imminente del Regno e in esso il rendersi presente

    dell’amore e della misericordia incondizionata e illimitata di Dio. Per questo Gesù si rivolge a tutto

    Israele per radunare, rinnovare e preparare tutto il popolo a questo Regno. In questa luce egli non

    volle quindi fondare alcuna nuova comunità religiosa in seno ad Israele.

    86 “Maledetto chi pende dal legno” (cfr. Dt 21,22-23; Gal 3,13-14). 87 Cfr. tra le varie ricorrenze At 2,23-24; 10,39-40.88 Questo orientamento della testimonianza apostolica impedisce di rappresentarsi falsamente la risurrezione come una reviviscenza, come una semplice immortalità spirituale o di vederla in discontinuità assoluta con la storia di Gesù, come una sua soppressione. Crf. C. DUQUOC, Gesù uomo libero, Queriniana, Brescia 1974.89 S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 2002, 116.90 Nei vangeli troviamo la parola ecclesia in bocca a Gesù due volte (Mt 16,18; 18,17), ma verosimilmente occorre vedere qui non un'ipsissima vox Jesu, bensì la mano e l'intenzione della comunità primitiva. 91 È con l'illuminismo e particolarmente nell'ambito della controversia modernista che si inizia a porre la questione critica della fondazione della chiesa da parte di Gesù di Nazareth (vedi S. PIÉ-NINOT, «Chiesa II. Gesù e la chiesa», in Dizionario di Teologia Fondamentale, ed. R. Latourelle – R. Fisichella, Cittadella, Assisi 1990, 151-162). Nel Concilio Vaticano I del 1870 si dichiara che Cristo «ha deciso di edificare la santa Chiesa» (DH 3050). Sono poi i documenti antimodernisti del 1907 di papa Pio X Lamentabili (DH 3452) e Pascendi (DH 3492) ad affrontare con più decisione questo tema. Una sintesi di questa posizione apologetica del magistero la troviamo nel giuramento antimodernista del 1910: «[La Chiesa] fu istituita immediatamente e direttamente dallo stesso vero e storico Cristo, mentre viveva fra noi» (DH 3540). Bisognerà attendere il Vaticano II per trovare in Lumen gentium 2-5 un'impostazione meno difensivistica e articolata. Il documento della Commissione Teologica Internazionale del 1985 «La coscienza che Gesù aveva di se stesso e della sua missione», in COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Documenti 1969-2004, ESD, Bologna 2006, 336 riconosce che è dall'applicazione del metodo storico-critico ai Vangeli che sorgono alcune domande su Gesù, tra le quali quelle sulla «propria dottrina e soprattutto del proprio progetto di fondare la Chiesa».

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  • La Commissione Teologica Internazionale, in un documento del 1985 su Temi scelti di

    ecclesiologia afferma che «Gesù non ha fondato una sinagoga diversa, né ha creato una comunità

    separata nel senso di un “santo resto” o di una setta secessionista. Volle invece convertire Israele,

    rivolgendogli un messaggio di salvezza che alla fine verrà trasmesso in modo universale»92. Ma è

    anche indubbio, così afferma ancora la stessa Coommissione in un altro documento, che l'agire e le

    parole di Gesù contengono una «ecclesiologia implicita»93.

    All’inizio della chiesa troviamo la prassi e l’esperienza dei discepoli e delle discepole con Gesù, il

    loro stare con lui, la loro prassi di comunione. La chiesa si scopre come il frutto di tutta la missione

    e l'esistenza di Gesù. Più che andare a cercare eventi particolari che ne individuerebbero la sua

    istituzione — tradizionalmente si faceva particolare riferimento all'imposizione del nome di Pietro a

    Simone in occasione della sua professione di fede messianica (Mt 16,16ss), all'istituzione

    dell'eucaristia (Mc 14,22ss) e all'evento di Pentecoste (At 2,1ss) — oggi si preferisce affermare che

    «l'intera opera e tutta la vita di Gesù costituiscono in certo qual modo la radice e il fondamento

    della Chiesa»94. La fondazione e la nascita della chiesa necessita di essere vista nella dimensione del

    divenire come un processo storico. Dopo la sua morte, e soprattutto dopo l'inattesa e folgorante

    esperienza della risurrezione, i suoi portarono avanti il messaggio di Gesù e si autocompresero non

    come un gruppo altro, ma come una proposta per l’intero Israele. Da quello che ci racconta Luca nel

    libro degli Atti possiamo supporre come decisivi per il successivo sviluppo storico della chiesa

    l’uccisione di Stefano, l’espulsione degli ellenisti da Gerusalemme ad opera degli ebrei (At 8,1;

    9,31; 11,19), la fondazione della comunità pagano-cristiana di Antiochia; eventi che segnano già un

    percorso di progressivo sganciamento dalla comunità madre giudaica e un andare verso i pagani.

    L’insuccesso e le difficoltà della missione in seno ad Israele e lo straordinario successo invece della

    missione ai pagani (insieme alla guerra giudaica del 66-70 con la distruzione di Gerusalemme e del

    Tempio e la conseguente diaspora), acuirono la crisi a porteranno ad una rottura tra le comunità

    cristiane e Israele, ma saranno anche progressiva scoperta della vocazione universalistica di questa

    nuova realtà che si autoconcepisce come popolo di Dio al di là di ogni confine, convocazione da

    parte di Dio di tutti gli uomini e le donne di tutte le razze e di tutte le lingue 95.

    92 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, «Temi scelti di ecclesiologia», in Ev 9, 1674. 93 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, «La coscienza che Gesù aveva di se stesso e della sua missione», 346.94 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, «Temi scelti di ecclesiologia», 1676. Il documento prosegue dichiarando che «la fondazione della Chiesa presuppone l'insieme dell'opera salvifica di Gesù nella sua morte e risurrezione, come pure la missione dello Spirito. Per questo nell'agire di Gesù è possibile riconoscere elementi preparatori, sviluppi progressivi e tappe che conducono alla fondazione della Chiesa».95 Particolarmente interessanti sono gli studi sociologici sugli inizi del movimento cristiano di G. THEISSEN, Gesù e il suo movimento. Analisi sociologica della comunità delle origini, Claudiana, Torino 1979 e R. AGUIRRE, Dal movimento di Gesù alla chiesa cristiana, Borla, Roma 2005 che guardano al movimento cristiano nascente come un movimento intragiudaico di rinnovamento che progressivamente di trova a consumare la sua rottura con il giudaismo ufficiale. Non dobbiamo poi dimenticare che in Galilea persisteranno per lungo tempo comunità giudeo-cristiane nelle quali la professione di fede in Gesù continuò ad andare abbraccetto con le tradizioni e le osservanze ebraiche (vedi G. FILORAMO – D. MENOZZI, Storia del cristianesimo, Laterza, Bari 1997, I, 69-119; S.C. MIMOUNI, Le judéo-christianisme ancien.

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  • Furono gli ellenisti a Gerusalemme a scegliere per la prima volta il termine ecclesia96 come

    autodesignazione (prendendo le distanze dalla sinagoga). Così per il Secondo Testamento ecclesia

    indica la comunità che si comprende come popolo di Dio eletto e santificato, costituito a partire

    dall’evento globale di Cristo. Ecclesia è anche, già a partire da Mt, un concetto utilizzato tanto per

    la dimensione universale (Mt 16,18) quanto per quella concreta della comunità radunata (Mt 18,17).

    La scelta di questa denominazione, nella quale risuona il radunarsi in assemblea dell'Israele

    mosaico e le assemblee popolari delle polis greche, «suggerisce che i primi gruppi cristiani non si

    pensavano nella forma modesta e nascosta di conventicole che si radunavano furtivamente in

    questo e quel luogo»97, ma nuova convocazione del popolo di Dio con una chiara dimensione

    pubblica e sociale. Il Secondo Testamento ci consegna un'immagine della chiesa primitiva che non è

    una realtà statica né monolitica, ma una chiesa in divenire, sia teologicamente che sociologicamente

    e che si determina dentro una diversità di forme di autocoscienza ecclesiale della varie comunità98.

    Il passaggio molto delicato dall’ambito giudaico a quello non giudaico (sinodo rabbinico di Jamnia

    nel 90) e il passaggio dal periodo apostolico a quello post-apostolico comportarono l’assimilazione

    di nuove strutture ordinatrici che rendevano possibile l’annuncio e la pratica del vangelo.

    Queste brevi note attraverso le quali abbiamo cercato di tracciare il percorso che conduce da Gesù

    alla chiesa sono essenzialmente osservazioni esterne, da sociologo o da storico, che non esauriscono

    l'autocoscienza del sentire ecclesiale. C'è allora bisogno perlomeno di tentare di gettare uno sguardo

    più interno, più vicino e rispettoso dell'esperienza credente. Questo sguardo rivela che la chiesa si

    sente nata da un disegno di Dio e funzionale al servizio di questo disegno che consiste nel costruire

    un mondo dove gli uomini e le donne sperimentano pienezza di vita, fraternità, giustizia e pace99. Si

    avverte legata a doppio filo con la persona e la vicenda di Gesù e accompagnata nella storia dalla

    presenza viva dello Spirito Santo. Continuamente teologi e comunità, a motivo di nuovi fattori

    sociali, politici, linguistici, ecc… hanno creato strutture ecclesiastiche (carismatiche e istituzionali),

    nel tentativo di tradurre il vangelo dell’azione di Dio in Gesù in forma adeguata ai tempi. Questi

    credenti ‘sapevano’ di essere guidati in tutto ciò dallo Spirito di Dio e di Gesù che guida la chiesa,

    popolo peregrinante, in un’azione sempre nuova e creatrice per proseguire il suo cammino per il

    mondo.

    Essais histouriques, Cerf, Paris 1998). 96 K.L. SCHMIDT, «Ekklesía», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, IV, Paideia, Brescia 1968, 1490-1580; L. COENEN, «Chiesa», in Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1976, 258-273. Il termine ecclesia ricorre 61 volte negli scritti paolini, 23 negli Atti degli apostoli e 19 nell'Apocalisse. 97 S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, 78.98 Vedi H. SCHLIER, «Ecclesiologia del Nuovo Testamento», in Mysterium Salutis, VII, Queriniana, Brescia 1972, 115-265; G. SEGALLA, «L'unità della chiesa e la varietà dei suoi modelli nel Nuovo Testamento», in Pontificia Commissione Biblica, Unité et diversité dans l' Église, Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1989, 297-311.99 Con queste parole descrive la missione essenziale della Chiesa la Costituzione Dogmatica Lumen gentium del concilio Vaticano II: «la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (LG 1).

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  • Cosa fa di un uomo un cristiano?

    L'elemento ultimamente discriminante del cristianesimo non può essere altro che il riferimento

    alla storia e alla persona di Gesù di Nazareth. «Gesù Cristo e questi crocifisso»100, lui e la sua

    vicenda concreta sono il contenuto del Vangelo, un vangelo che necessita non solo di essere

    creduto, ma soprattutto di essere vissuto: «la verità del cristianesimo non deve venire

    “contemplata”, “teorizzata”, ma “fatta”, “praticata”»101. Quella cristiana è una verità pratico-

    operativa, «camminate nella verità», una verità da farsi vivendo secondo lo spirito e lo stile di vita

    dello stesso Cristo. Non c'è cristianesimo senza sequela, senza una risposta personale e pratica

    all'invito altrettanto diretto ed esistenziale: «Seguimi!»102. Decisivo dice Gesù ai suoi non è dire

    «Signore, Signore», ma «fare la volontà del Padre»103, una volontà che viene a rivelarsi proprio

    nelle parole, nell'annuncio, nell'agire e nell'essere di Gesù e che possiamo trovare sintetizzata nelle

    beatitudini (Mt 5,1-12) e nel comandamento nuovo dell'amore. L'essenza ultima della vita cristiana

    si esprime nella preposizione per: vivere come Gesù per il Padre e per i fratelli. Esistenza aperta,

    esistenza capace di comunione, abbandono della centratura sull'io per divenire “eccentrici”, con il

    centro fuori da se stessi: «essere cristiani significa essenzialmente il passaggio dall'essere per se

    stessi all'essere gli uni per gli altri»104.

    Chiudiamo ancora con una citazione di un brano tratto dall'Introduzione al cristianesimo di J.

    Ratzinger del 1968: «diciamolo in modo semplice, magari suscettibile di fraintendimenti: il vero

    cristiano non è colui che appartiene allo stesso nostro gruppo confessionale, bensì colui che,

    attraverso il suo essere cristiano, è divenuto veramente umano. Non è colui che osserva un sistema

    di norme in modo servile e badando solo a se stesso, bensì colui che è diventato libero per la bontà

    semplice e umana»105.

    100 1 Cor 2,2.101 H. KUNG, Cristiannesimo. Essenza e storia, 56.102 Mt 9,9.103 Mt 7,21.104 J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 200513, 243.105Ivi, 260.

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    L’essenza del cristianesimo: Gesù di NazarethA) Il Regno