Interno cielo - specimen antologico

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Page 1: Interno cielo - specimen antologico

Dalla “Parte Prima”, incipit: Cerco qualcosa che non so, testa china, qui davanti a questa scrivania. Completamente solo. Solo con gli oggetti. Freddi. Indifferenti. Solo nel buio della mente paludosa, viscida di alghe fradice come un masso abbandonato sul fondo di un pozzo. Unico, invisibile compagno di cella questo spirito che mi tormenta, amo arrugginito nel profondo dei miei occhi. Colonna di pietra e di fuoco, muro d’aria imperscrutabile, Rift Valley dell’anima. O più semplicemente Sauro. Non lo conosco eppure è come un vecchio amico: dolorosa pervicacia di stati d’animo che porta all’assuefazione. Sauro. Non lo vedo né mi vede (o forse sì), ma ne sento l’ansito affannato, i tuoni nel cielo della mente. Tace, gorgoglia, brontola, ribolle e ancora tace. Sauro è così. Cambia di continuo. Coglie l’attimo, un momento che non pensi possa mai venire e invece ecco, d’improvviso si presenta senza chiedere permesso. Viene dall’alto (credo), cammina nella stanza, sposta i volumi della libreria, agita le tende, fruga sul tavolo e infine si siede di fronte a me, in posizione perfettamente simmetrica. Pronto per iniziare l’opera a cui, non so da chi o da cosa, è stato predisposto. Beffardo, indolente, si prodiga affinché tutte le vie d’uscita restino precluse per sempre, anche all’illusione. Intreccia i fili della ragnatela, oscuro labirinto dell’universo, accompagnando ogni ulteriore nodo al fragore di convulsi singulti. Tali li sento e li immagino. Tremiti irrefrenabili di un ragno agonizzante. Ragno nero che vomita fuliggine, distrugge l’interno della vita, spegne il fuoco, gela i denti, fa salire il sangue, ritma il cuore nelle tempie e non muore mai. Anche stavolta m’ha trovato. Oppure sono io che l’ho cercato qui, con la testa china, davanti a questa scrivania. Odore d’inchiostro nell’aria. Dev’essere il nastro nuovo della macchina da scrivere, con il suo bravo foglio di carta. Bianco, intonso, patinato. Nuovo. Inutile. Perché vecchio è il cervello, stanco. Vorrebbe dormire anni, chiuso, muto, nel buio più polveroso e disordinato della camera. Intanto fuori piove acido con getto continuo, strisce verticali in bianco e nero che fasciano le gialle torri merlettate di antenne TV. Il rumore atono della città riempie di vapore umido le strade. Ingorghi di auto, veleni nell’aria e nella mente. Tra lastre di cemento scheletri di corteccia e radici trasudano schiuma giallastra che neppure l’acqua riesce a cancellare. Passi frettolosi guazzano indifferenti sull’acciottolato di fango e catrame raffermo. E’ una pioggia che non lava, ma gela i sospiri e gli occhi gonfi di chi cammina in fretta per non doversi mai fermare. Luce liquida dei semafori riflessa sull’asfalto. Quasi sempre rossa. Ed io, sospeso a venti metri tra i muri di carta di un palazzo, testa china, gomiti nudi sul vetro gelato della scrivania e dita intrecciate sulla nuca, a chiedermi cosa non so. La casa mi somiglia. Silenziosa. Perduta. Nella penombra del tavolo in cucina c’è una zuppiera di minestra, vecchia due giorni, forse guasta. Tre passi più in là il lavandino goccia ad intermittenza. Incedere ritmico in questo lieve brusio della pioggia che ricopre d’immobile monotonia ogni pensiero. L’immobile monotonia del nulla. Apro un istante gli occhi ma subito sono costretto a richiuderli. Torbida nausea, vertigine profonda, paura di svenire. E lui qui di fronte a sogghignare, a rodere l’animo. «Ma che vuoi da me? Ti devo forse qualcosa? Per il solo fatto d’esistere, ti devo forse qualcosa? Se sì, allora dimmelo. Parla chiaro. Manifestati. Se no, lasciami in pace, dammi una vita nel mondo e vattene per sempre…»