Internazionale Rivista 944.13-19 Aprile 2012

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Internazionale 944 | 13 aprile 2012 3

Sommario

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La settimana

13/19 aprile 2012 • Numero 944 • Anno 19

“Una bolla si veriica quando un’ondata speculativa provoca l’aumento del prezzo di un bene al di là del suo valore intrinseco”, spiega James B. Stewart sul New York Times. “Quando l’ondata passa, e gli investitori inalmente riconoscono la divergenza, la bolla di solito scoppia provocando un crollo dei prezzi”. Non tutte le bolle vengono per nuocere. Negli anni ottanta la bolla di Microsoft, Compaq e Intel portò milioni di computer nelle case e negli uici degli Stati Uniti. “Quando la bolla esplose, la Silicon valley era piena di microprocessori a buon mercato e teorie su come sfruttarli”, racconta Ashlee Vance su Bloomberg Businessweek. Anche la bolla tecnologica di dodici anni fa, che polverizzò seimila miliardi di dollari in borsa, comunque lasciò in eredità l’infrastruttura tecnologica di internet. La bolla di questi mesi, invece, è diversa. Perché i social network al centro dell’ondata speculativa sono poco più che scatole vuote. Instagram è un’azienda fondata in California 551 giorni fa, nell’ottobre del 2010. Ha tredici dipendenti e zero ricavi. Il suo unico prodotto è un’app gratuita per scattare foto da condividere online. Facebook l’ha comprata per un miliardo di dollari. Un miliardo di dollari è più o meno il pil di paesi come il Burundi, Capo Verde o Haiti. Oppure è di poco superiore al valore del New York Times, un giornale che è stato fondato 116 anni fa e ha più di settemila dipendenti.Giovanni De [email protected]

Bolle

AttuAlitÀ16 La crisi maliana

risolta a metà El Watan

AfricA e MeDio orieNte20 Siria

The National

europA24 Bosnia Erzegovina

Bloomberg

AMeriche26 Stati Uniti

The Washington Post

AsiA e pAcifico28 Indonesia

The Jakarta Globe

visti DAgli Altri30 La famiglia Bossi

esce di scena Le Monde

Messico46 Hotel Migrante Gatopardo

scieNzA54 La mente

imperfetta degli adolescenti

The Wall Street Journal

sierrA leoNe6o Le mani di Jarka Die Zeit

portfolio64 Inventori in azione Doug Menuez

ritrAtti70 Don Johnson The Atlantic

viAggi74 Due mari

a confronto El Watan

grAphic jourNAlisM76 Alicante Pablo Auladell

fotogrAfiA78 Generazione

Sarajevo Le Monde

ciNeMA81 Mediterraneo

mare chiuso The New York Times

pop96 La dura lotta

del fact checker Gideon Lewis-Kraus99 La città dove Dio

è dappertutto Mohammed Selman

iN copertiNA

Londra ricca e disperataRainata e stracciona. Ribelle e conservatrice. La città che quest’estate ospiterà le Olimpiadi raccontata da China Miéville e John Lanchester (p. 38). Copertina di Nick Mrozowski.

scieNzA102 Sei gradi

di innovazione Slate

tecNologiA107 L’età d’oro

della sorveglianza Financial Times

ecoNoMiA e lAvoro108 Zimbabwe

The Wall Street Journal

cultura84 Cinema, libri,

musica, video, arte

Le opinioni

23 Amira Hass

27 Yoani Sánchez

34 Gideon Levy

36 Noam Chomsky

86 Gofredo Foi

88 Giuliano Milani

90 Pier Andrea Canei

92 Christian Caujolle

100 Tullio De Mauro

103 Anahad O’Connor

109 Tito Boeri

le rubriche13 Editoriali

112 Strisce

113 L’oroscopo

114 L’ultima

“Non è diicile trovare Dio in Etiopia. Basta salire a bordo di un vecchio minibus”

MohAMMeD selMAN, pAgiNA

Gatopardo È un mensile messicano di attualità e reportage. È in vendita anche in Venezuela, Perù, Cile, Argentina e Colombia. L’articolo a pagina 46 è uscito a novembre del 2011 con il titolo Un hotel de paso. The Jakarta Globe Nato nel 2008, è un quotidiano indonesiano in lingua inglese. L’articolo a pagina 28 è uscito il 9 aprile 2012 con il titolo Indonesia’s Aceh votes in test for fragile peace. The New York Times Magazine È il magazine della domenica del New York Times. L’articolo a pagina 38 è uscito il 4 marzo 2012 con il titolo “Oh, London, you drama queen”. El Watan È un quotidiano algerino

indipendente, fondato nel 1990. L’articolo a pagina 16 è uscito il 10 aprile 2012 con il titolo Les jeunes à Bamako décrient ouvertement la situation au nord. Die Zeit È un settimanale tedesco di centrosinistra, fondato nel 1946. L’articolo a pagina 60 è uscito il 15 novembre 2011 con il titolo Herrn Jarkas neue Hände. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

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Immagini

In mostraKandahar, Afghanistan8 aprile 2012

Sette taliban catturati dalle forze di si-curezza afgane sono presentati alla stampa incappucciati. Il 9 aprile un por-tavoce della coalizione Nato in Afghani-stan ha fatto sapere di non aver ricevuto segnali dell’inizio di un’ofensiva pri-maverile dei taliban. Secondo il porta-voce, questo potrebbe signiicare che a una campagna coordinata come quella dell’anno scorso i taliban preferirebbero una serie di attacchi isolati. Il 10 aprile 42 persone sono state vittime di attacchi suicidi nelle province di Herat e Hel-mand. Foto di Jangir (Afp/Getty Images)

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Immagini

Città nel fangoPort-au-Prince, Haiti3 aprile 2012

Un gruppo di haitiani cerca di raccoglie-re il carburante che si è riversato in un canale di Port-au-Prince dopo il rove-sciamento di un’autobotte. Nel paese, dove almeno dieci milioni di persone vivono con circa due dollari al giorno, un gallone di benzina (poco meno di quattro litri) può costare ino a cinque dollari. Foto di Ramon Espinosa (Ap/La-

presse)

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Immagini

Mammut in tourHong Kong, Cina10 aprile 2012

Lyuba, una piccola di mammut che risa-le a più di 40mila anni fa, è stata presen-tata alla stampa all’inizio del suo tour asiatico. Sarà esposta a Hong Kong, nel-la Cina continentale, in Indonesia, a Singapore e a Taiwan. È stata trovata in Siberia nel 2007. Quando morì, proba-bilmente sepolta da una frana di fango, aveva circa un mese. Il corpo è così ben conservato che nel suo stomaco sono state trovate tracce di latte materno. Fo-to di Tyrone Siu (Reuters/Contrasto)

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[email protected]

Intrattenimento u Sono d’accordo con “La settimana” di Giovanni De Mauro (6 aprile) sulla situazio-ne dell’informazione in Italia. C’è anche da dire che esistono riviste come le vostre e, se si vuole, l’“intrattenimento” non desiderato si può evitare in molti modi: per esempio decidendo di guardare un te-legiornale invece di un altro, ascoltare una stazione radio-fonica invece di un’altra e usa-re la rete in modo consapevo-le. È vero che l’informazione in Italia è una tragedia, ma non deve diventare una scusa per essere disinformati. Andrea Chittaro

Riiuti pericolosi u Forse sono eccessivamente puntigliosa, ma da addetta ai lavori vorrei osservare che nell’articolo “La nuova fron-tiera dei clan maiosi” (6 apri-le) si parla di riiuti tossici, mentre sarebbe più corretto parlare di riiuti pericolosi, co-me d’altronde fa la stessa Le-gambiente nei suoi documen-ti. Inoltre (ma questo accade

nel 99 per cento dei casi) an-che se si parla di riiuti perico-losi la foto nell’articolo è un’immagine di sacchetti di spazzatura domestica: i riiuti pericolosi probabilmente sono meno coreograici. Marany Orlando

José Zárate u Ho cercato le immagini del-la partita Perù-Colombia ini-ta 2-0 e ho notato che l’errore del portiere sul secondo gol è molto più grave della legge-rezza commessa da José Zára-te nel primo. L’articolo (9 marzo) avrebbe potuto dire: “Nonostante la papera del portiere nel secondo gol sia stata ben più grave, tutti ricor-dano solo l’errore di Zárate che ha causato il primo”. Gabriele Tognacci

Il rapimento degli italiani u Sono delusa dalla scelta de-gli articoli sul rapimento dei due italiani in India (23 mar-zo). Li trovo del tutto allineati con la voce del governo india-no, privi di informazioni che

non siano già state riportate in maniera supericiale dai gior-nali italiani. Consiglio di leg-gere il reportage di Arundhati Roy e il blog Indika. Claudia Marforio

Più teatro u Che bello sarebbe trovare nella sezione cultura anche solo mezza paginetta dedicata al teatro! Posso sperare? Sandra Manzo

Errata corrige

u Nel numero del 6 aprile, a pagina 16, nella classiica dell’indice dello sviluppo umano abbiamo scritto per er-rore che l’Italia è al secondo posto, invece è al ventiquat-tresimo.

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Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718Posta viale Regina Margherita 294, 00198 RomaEmail [email protected] internazionale.it

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Come convinco la maestra di mia iglia (4 anni) che non è il caso di insegnare le preghiere a bimbi così pic-coli? –Davide

Una volta ho vissuto una si-tuazione simile. Ho portato il modulo d’iscrizione al nuovo asilo delle mie iglie e la mae-stra mi ha chiesto: “Perché vuole l’esonero dalla religio-ne?”. La domanda rasentava l’illegalità, ma ho spiegato: “Le mie iglie hanno due papà e la chiesa cattolica non è esattamente la nostra miglio-re amica”. Lei ha insistito, fra-

nando in un territorio antico-stituzionale: “Capisco, ma a tre anni la religione non è nul-la. Sono disegni, canzoncine”. A convincermi è stato il fatto che sarebbero state le uniche a non farla. “Dovranno stare in corridoio, non abbiamo cor-si alternativi”. Mi si è stretto il cuore e ho corretto il modulo. Gli amici hanno protestato: “Dicono a tutti la stessa cosa, e così nessuno si tira indietro”. Ma pochi giorni dopo – segno della volontà divina – al mio compagno è arrivata un’occa-sione di lavoro in Svizzera, ti-randoci fuori da questo im-

paccio. Comunque una solu-zione c’era: la legge italiana prevede che, se ci sono richie-ste, la scuola è obbligata a or-ganizzare attività alternative alla religione. Lo stesso vale per il tuo caso: sono vietate preghiere, cerimonie e atti di culto in orario scolastico. Cer-ca altri genitori che la pensano come te e presentatevi dalla maestra in gruppo. L’unione fa la forza.

Claudio Rossi Marcelli è un giornalista di Internazionale. Risponde all’[email protected]

Dear daddy

L’alternativa alle preghiere

Le correzioni

La verità delle notizie

u In una redazione, il fact check er è il custode dei fatti: ve-riica la correttezza e la veridi-cità di tutte le informazioni. Le vicissitudini di un giovane fact checker alle prese con un gior-nalista insoferente sono rac-contate in un libro appena uscito negli Stati Uniti (di cui si parla a pagina 96). Nei giornali statunitensi, dove la minima imprecisione può dare origine a costosissime azioni legali, il fact checking ha una lunga tra-dizione e viene fatto con una cura a volte ossessiva. Lo scrit-tore britannico Nick Hornby ha rinunciato a diventare il cri-tico musicale del New Yorker perché non sopportava i fact checker che gli telefonavano di notte per controllare che il testo di una canzone fosse ci-tato correttamente. Nel 2010 il New Yorker aveva in redazione sedici fact checker, più del New York Times Magazine ma meno del tedesco Spiegel, che ne impiegava ottanta a tempo pieno. A Internazionale la veri-ica delle informazioni è ai-data ai redattori, ma visto che gli articoli dei giornali stranieri sono già stati rivisti e pubblica-ti, non tutti i dettagli vengono controllati. Grazie a un lettore, però, sappiamo che il direttore della scuola di Stolac, in Bo-snia Erzegovina, di cui si parla nel numero 942, non si chiama Sedžad Pezo ma Nedžad Pezo. Ed è andato in pensione un an-no fa.

Giulia Zoli è una giornalista di Internazionale. L’email di questa rubrica è [email protected]

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Internazionale 944 | 13 aprile 2012 13

Editoriali

La stella (rossa) di Bo Xilai sembra essere scom-parsa per sempre dalla galassia del potere cinese. Fino a pochi giorni fa il potente signore della gi-gantesca città di Chongqing era uno dei dirigenti più in vista del paese: membro del politburo del Partito comunista e iglio di uno degli eroi della rivoluzione cinese, voleva entrare nel comitato permanente del politburo, il cuore del potere. Do-po due mesi di un thriller protetto dalle mura del-la Città proibita, Bo è caduto. Il 10 aprile è stato sospeso da tutte le funzioni nel partito ed è sotto inchiesta per “gravi violazioni disciplinari”, in al-tre parole per corruzione. Sua moglie, sospettata dell’omicidio di un cittadino britannico, è stata consegnata alla giustizia.

A pochi mesi dal diciottesimo congresso del Partito comunista – che dovrà rinnovare sette dei nove membri del comitato permanente e aprire a una nuova generazione di dirigenti – questo caso rivela la violenza dei conlitti che scuotono i ver-tici del paese e che pesano sul futuro della Cina. Hu Jintao e Wen Jiabao, alla guida del paese da dieci anni, non pensavano di dover passare il te-stimone in una situazione simile. Hanno gover-nato nel segno della “stabilità e dell’armonia”. Hanno permesso alla Cina di diventare la secon-da potenza mondiale, di ritrovare forza sulla sce-

na internazionale e di realizzare nel 2008 il sogno di organizzare le Olimpiadi.

Molti pensavano che dopo la dittatura di Mao e i sanguinosi eccessi degli anni sessanta e settan-ta, il partito fosse inalmente riuscito a creare un sistema istituzionale paciico nel quadro di una direzione collegiale. Rinviando la questione sem-pre più urgente delle riforme politiche – cioè ino a che punto liberalizzare il partito-stato per ac-compagnare lo sviluppo del paese – il potere ave-va accreditato questa immagine ed era riuscito a convincere molti osservatori occidentali, acceca-ti dalla crescita economica della Cina. La caduta di Bo ha messo in crisi questo sistema. Il Quoti-diano del Popolo ammette che il caso è “un even-to politico grave, la cui inluenza nefasta si farà sentire all’interno e all’esterno del paese”. In marzo lo stesso primo ministro Wen Jiabao aveva detto che una “tragedia storica come la Rivolu-zione culturale potrebbe veriicarsi di nuovo” se non ci saranno riforme politiche ed economiche.

Ma in questo caso le conseguenze non sareb-bero le stesse. Mao fece sprofondare il paese in un caos chiuso all’esterno. Al contrario, quello che succede oggi al vertice della seconda potenza economica mondiale può avere gravi ripercussio-ni in tutto il mondo. u adr

Thriller politico in Cina

Populismi francesi

Le Monde, Francia

El País, Spagna

La crisi economica e di valori che aligge l’Euro-pa raforza l’estrema destra, ma anche la sinistra più critica verso la socialdemocrazia. La Francia è un laboratorio perfetto per osservarlo: tutta l’at-tenzione è rivolta al duello tra Nicolas Sarkozy e François Hollande per la presidenza della repub-blica, ma a destra e a sinistra di entrambi stanno crescendo due nuovi tribuni. Sono Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, che possono entrambi contare su un 14-15 per cento delle intenzioni di voto al primo turno: una percentuale forse in gra-do di condizionare il passaggio di uno dei due fa-voriti al secondo turno. Le Pen è la continuatrice della linea di estrema destra di suo padre, mentre Mélenchon incarna un tentativo innovativo di unire socialisti dissidenti, comunisti ed elettori dell’estrema sinistra.

Marine Le Pen vorrebbe vedere la Francia fuori dall’euro e farla inita con la presunta inva-sione islamica dell’Europa. Conta sul favore di

settori popolari che prima votavano a sinistra ma avanza anche tra i più giovani. È divorziata e non condanna l’aborto: “modernizza” un po’ l’estre-mismo del padre, ma seduce con lo stesso spirito antisistema e contro le élite.

Dal canto suo Jean-Luc Mélenchon, ex trot-skista ed ex socialista, è l’erede di una certa mito-logia rivoluzionaria e un critico del capitalismo e della socialdemocrazia. Propone la pensione a 60 anni per tutti, l’aumento del 20 per cento del sala-rio minimo e l’imposizione di un tetto di 360mila euro annui per gli stipendi. Per non perdere al pri-mo turno il socialista Hollande dovrà frenare l’avanzata di Mélenchon, ma al secondo avrà bi-sogno dei suoi voti.

A giugno si voterà anche per il parlamento, e si vedrà. Comunque né la Francia né l’Europa si li-bereranno facilmente dei populisti o di coloro che, senza per forza essere populisti, attaccano i partiti al centro del sistema. u ma

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Carlo Ciurlo (viaggi), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Alessio Marchionna (Italieni), Maysa Moroni, Andrea Pipino (Europa), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Junko Terao (Asia e Paciico), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara Esposito, Lulli Bertini Traduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Caterina Benincasa, Giuseppina Cavallo, Matteo Colombo, Diana Corsini, Olga D’Amato, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Francesca Rossetti, Fabrizio Saulini, Andrea Sparacino, Bruna Tortorella, Nicola VincenzoniDisegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Luca Bacchini, Francesco Boille, Annalisa Camilli, Gabriele Crescente, Giovanna D’Ascenzi, Sergio Fant, Anna Franchin, Anita Joshi, Odaira Namihei, Lore Popper, Fabio Pusterla, Marta Russo, Marc Saghié, Andreana Saint Amour, Angelo Sellitto, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido VitielloEditore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 06 80660287 [email protected] Download Pubblicità S.r.l.Stampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 11 aprile 2012

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Attualità

“Riparleremo di democrazia quando organizzeremo delle vere elezioni”, di-chiara Mamadou Sédikté,

sociologo ed ex militare del Mali. “Ma sono contento che il capitano Sanogo non abbia imposto i suoi diktat, come temevano in molti”. Il 6 aprile Amadou Sanogo, il leader della giunta militare che ha preso il potere in Mali il 22 marzo, ha annunciato in tv l’im-minente trasferimento dei poteri a un’auto-rità civile e la nomina del presidente del parlamento Dioncounda Traoré come capo di stato ad interim del Mali. Quest’annun-cio è il risultato di un accordo concluso tra la giunta militare e i rappresentanti della Co-munità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas), che prevede il trasfe-rimento dei poteri ai civili ino allo svolgi-mento delle elezioni presidenziali e legisla-tive. “Alla ine il capitano Sanogo ha dimo-strato di non essere un uomo assetato di potere”, sostiene Soundiata Maissa, che la-vora al ministero degli esteri maliano ed è un fermo sostenitore dell’ex presidente Amadou Toumani Touré.

Bamako intanto sembra aver preso le parti del capitano Sanogo, nonostante le perplessità iniziali sul colpo di stato. La pre-sa di potere dei militari è arrivata in un mo-mento delicato per il paese a causa dell’in-stabilità nel nord, ma questo non ha impe-dito ai golpisti di portare avanti la loro azio-ne, deinita “spontanea”, per un “risana-mento democratico” del governo di Touré. “Era diicile pensare che la giunta avesse agito in modo indipendente. Molti punta-

vano il dito contro l’ex presidente del parla-mento, Ali Nouhoum Diallo, accusandolo di essere l’autore di un volantino anonimo che incitava i militari al colpo di stato”, spie-ga Soundiata Maissa.

Oggi molti maliani, non solo a Bamako, apprezzano il cambiamento. “Il rovescia-mento di Amadou Toumani Touré è la ri-sposta alle debolezze di uno stato che non ha saputo evitare una rivolta violenta e rapi-da nel nord del Mali, dove le rivendicazioni dei ribelli non sono certo una novità”, spie-ga un tenente dell’esercito.

Sanzioni pesantiL’Ecowas ha contribuito a peggiorare la cri-si approvando, il 2 aprile, delle sanzioni eco-nomiche contro il Mali. “La decisione di punire i militari e la popolazione, invece di aiutarci a organizzare un’ofensiva militare nel nord, mette in evidenza l’inutilità dell’Ecowas e dell’Unione africana”, com-menta Boubacar Simoué, un avvocato della capitale. All’annuncio delle sanzioni si sono create delle lunghe code alle stazioni di ser-vizio di Bamako, mentre in periferia gli abi-tanti davano l’assalto ai negozi di alimenta-ri. Il panico era giustiicato dal fatto che non era stata deinita nessuna durata dell’em-bargo. Il 6 aprile, dopo l’accordo con i mili-tari golpisti, l’Ecowas ha sospeso le sanzio-ni. L’annuncio è arrivato poche ore dopo la

proclamazione dell’indipendenza dell’Aza-wad, la regione rivendicata dai ribelli tua-reg, da parte del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla).

La ribellione nel nord preoccupa molti politici e comuni cittadini , che esigono dai militari il rispetto del loro principale dove-re: la protezione del territorio nazionale nella sua interezza. A Kati, nel sud del pae-se, i rappresentanti di decine di associazio-ni studentesche sono andati a far visita al capitano Sanogo. “Gli abbiamo chiesto del-le armi per difendere le nostre famiglie al nord, che sono esposte al doppio pericolo dei ribelli e dei combattenti islamici”, afer-ma Kimi Hadji ag Haroua, un giovane origi-nario di Gao. “Sono tuareg, ma sono nato in Mali, non nell’Azawad”.

I giovani condannano la situazione nel nord, anche se sono consapevoli dei passi falsi compiuti da Amadou Toumani Touré. “Se c’è qualcuno da rimproverare, è sicura-mente l’ex presidente”, continua Kimi. “Non ha fatto nulla per impedire la caduta del nord in mano ai ribelli, i suoi metodi erano discutibili e non agiva di certo per il popolo. Si deiniva un nazionalista, ma non aveva nessun contatto con la realtà del pae-se. La povertà mette a repentaglio la nostra salute. In Mali solo un giovane su cento rie-

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La crisi maliana risolta a metà

Faten Hayed, El Watan, Algeria

Dopo il golpe, il potere passa a un’autorità civile. Ma la popolazione è preoccupata per la divisione del paese. Reportage da Bamako

Bamako, 6 aprile 2012. Una protesta contro l’occupazione del nord del Mali

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Internazionale 944 | 13 aprile 2012 17

sce a realizzare i suoi sogni”. Nel centro di Bamako si svolgono spesso

delle manifestazioni di giovani, che denun-ciano la violazione dei diritti umani e il sac-cheggio delle città in mano ai ribelli: Kidal, Gao e Tombouctou. I ragazzi chiedono in-nanzitutto l’unità del territorio nazionale. “Come si può essere tuareg senza essere maliano?”, si chiede Elhadji Tahir Macalou. “La divisione del mio paese mi sconcerta, così come l’accanimento dell’Mnla sulle regioni del nord. Se i tuareg fossero davvero rivoluzionari, si sarebbero uniti all’esercito governativo per combattere Al Qaeda”.

La rivolta nel nord è comunque un argo-mento che divide il paese. Secondo alcuni il movimento indipendentista è legittimo. Secondo altri si tratta solo di una minoranza ribelle e mercenaria che mette in pericolo la stabilità della fascia sahelo-sahariana. Ami-nata Dijonké, moglie di un diplomatico, spiega che l’Mnla ha reagito in modo vio-lento perché i tuareg sono maltrattati da più di cinquant’anni. Le loro richieste d’indi-pendenza sono comprensibili. Un diploma-tico maliano ammette che l’ex presidente ha lasciato correre su tutto: “Touré ha dato il colpo di grazia all’esercito, che è compo-sto anche dai tuareg e dalle altre etnie che compongono il paese. Se ogni minoranza dovesse ribellarsi contro il governo, ora ci troveremmo in uno stato di guerra civile permanente”. u cab

Circolano armati ino ai denti a bordo di potenti jeep, hanno mezzi di comunicazione soi-

sticati e grandi quantità di denaro. In pochi giorni hanno sottratto il nord del Mali all’esercito di Bamako, che è male equipaggiato, sottopagato e de-motivato. Ecco i principali gruppi ar-mati che controllano il Sahel.

Ansar eddine Creato all’inizio del 2012 sulla scia dell’ultima ribellione tuareg, il gruppo Ansar eddine (difen-sori dell’islam, in arabo) ha attirato l’attenzione per aver eseguito le con-danne a morte di un centinaio di per-sone alla ine di gennaio nel nord del Mali. Dopo aver stretto un’alleanza temporanea con i ribelli laici del Mo-vimento nazionale di liberazione dell’Azawad, i combattenti islamici hanno partecipato alla conquista di Tombouctou.

Guidato dall’ex capo ribelle tuareg Iyad ag Ghaly, che ha circa 250 com-battenti ai suoi ordini, il gruppo Ansar eddine è molto vicino ad Al Qaeda nel Maghreb islamico, i cui capi si sono stabiliti a Tombouctou, dove è stata imposta la sharia.

Aqmi Al Qaeda nel Maghreb islami-co (Aqmi) non è mai stata così forte dal 2006, l’anno in cui è stata creata dalle ceneri del Gruppo salaita per la predicazione e il combattimento alge-rino. Dalle basi nel nord del Mali, i suoi cinquecento uomini si spostano in Algeria, in Mauritania, in Niger, in Ciad e in Burkina Faso. L’organizza-zione ha stabilito contatti operativi con Boko haram, la setta che agisce

nel nord della Nigeria, e con gli Al Shabaab somali. Grazie a traici di va-ria natura e ai soldi ricavati dal riscatto degli occidentali rapiti, Aqmi è riusci-ta a ottenere armi soisticate dalla Li-bia dopo la caduta di Gheddai. L’of-fensiva di ine marzo nel nord del Mali ha permesso ai combattenti islamici di assumere il controllo di vari aeroporti, dove far transitare gli aerei carichi di armi e droga.

Mujao Creato alla ine del 2011, il Mo-vimento unito per il jihad nell’Africa occidentale (Mujao) è una costola dis-sidente di Aqmi, composta in gran parte da mauritani e maliani. All’inizio di marzo ha rivendicato il suo primo attentato a Tamanrasset, nel sud dell’Algeria. Dall’ottobre del 2011 il movimento tiene in ostaggio tre coo-peranti occidentali (due spagnoli e un’italiana) e chiede dieci milioni di euro per la liberazione di ognuno di lo-ro. È una somma astronomica per il Sahel, dove gli ostaggi occidentali si negoziavano per due o tre milioni di euro. Il Mujao partecipa anche a ope-razioni militari, in particolare a Gao e a Tombouctou.

Mnla Il Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla) è for-mato da duemila uomini, ma sul piano militare non è particolarmente eica-ce visto che ha dovuto cedere Tom-bouctou ad Ansar eddine. Diversa-mente dai jihadisti, rivendica la sua laicità: non vuole conquistare Bama-ko, ma creare nel nordest del Mali uno stato tuareg, l’Azawad, con capitale Kidal. Guidato da Bilal ag Cherif e da Mahmoud ag Ghaly, ha un sito inter-net dove pubblica i suoi comunicati. L’Mnla è il volto presentabile, moder-no e laico della ribellione tuareg. Ma appare in afanno rispetto agli estre-misti islamici. u gim

L’esercito maliano non ha molte speranze contro i gruppi armati presenti nel nord del paese

I nuovi padroni del Sahel

Adrien Hart, Slate Afrique, Francia

Da sapere

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Attualità

Quale direzione prenderà la po-litica africana? Quella del Se-negal, dove il 25 marzo il presi-dente ha ammesso la sconitta elettorale? O quella del Mali,

dove il 22 marzo c’è stato un colpo di stato?Negli ultimi anni in Africa i ribelli in di-

visa da combattimento hanno progressiva-mente ceduto il posto ai politici in giacca e cravatta. La democrazia a sud del Sahara sarà anche disordinata e confusa, ma le ele-zioni e il rispetto del numero e della durata dei mandati sono sempre più una regola, e per chi aspira a governare non rispettarla è un rischio. L’Eritrea è l’unico stato in cui non si svolgono elezioni, mentre perino i golpisti maliani hanno giurato di volerle fa-re il prima possibile.

Eppure molti esperti sostengono che gli standard democratici si stiano pian piano sgretolando. Durante le elezioni in Liberia dell’anno scorso, l’ex signore della guerra Prince Yormie Johnson ha attraversato il paese indossando un fez rosso. Dal inestri-no abbassato del suo suv lanciava bancono-te agli elettori, per ripartire di corsa verso il villaggio successivo. In campagna elettora-le ha accusato di corruzione il presidente in carica, mentre uno dei suoi uomini temeva di restare senza soldi dopo aver pagato i giornalisti in cambio di articoli positivi sul suo capo.

In Africa le elezioni non producono ne-cessariamente governi rappresentativi. Nella Guinea Equatoriale, ricca di petrolio ma alitta dalla povertà, il presidente Teo-doro Obiang Nguema è stato “eletto” con il

95 per cento dei voti. Il suo partito “ha con-quistato” il 99 per cento dei seggi in parla-mento. Molti partiti di opposizione in Gam-bia hanno boicottato le elezioni del 29 mar-zo, dando per scontato che sarebbero state irregolari. In Zambia, un altro paese ritenu-to modello di democrazia, il governo ha cercato di scacciare il partito di opposizione dal parlamento perché non aveva pagato una tassa.

Diversi studi confermano uno scenario non esaltante. Nella classiica annuale delle democrazie stilata dall’Economist solo un paese africano, Mauritius, è indicato come “pienamente democratico”. L’indice Mo Ibrahim, che prende in considerazione in-dicatori quantitativi di buon governo, mo-stra un declino del 5 per cento nella parteci-pazione politica in Africa dal 2007. Secondo il centro studi statunitense Freedom house, negli ultimi sette anni il numero di “demo-crazie pienamente elettive”, sui 49 stati africani presi in esame, è sceso da 24 a 19. Anche in Africa australe, una regione stori-camente più attenta alle regole, non va tutto bene. Nepotismo e corruzione avvelenano il Sudafrica. Il presidente del Madagascar, Andry Rajoelina, è rimasto al potere per tre anni, dopo un colpo di stato. Il governo di-spotico di Bingu wa Mutharika (morto il 6 aprile) ha portato le organizzazioni interna-

zionali a sospendere i programmi di aiuti in Malawi. Ma ci sono anche buone notizie. Entro l’anno non sono escluse nuove ele-zioni in Madagascar. Ed Eduardo dos San-tos, presidente dell’Angola dal 1979, po-trebbe ritirarsi con le prossime elezioni parlamentari.

Progresso a ostacoliIn ogni caso l’Africa ha fatto molta strada. Nel 1990 Freedom house contava solo tre paesi africani che avevano sistemi politici multipartitici, sufragio universale, elezioni corrette e a scrutinio segreto. “È un pro-gresso a ondate”, dice Alex Vines, respon-sabile del programma Africa del centro studi londinese Chatam house. A parte il Mali, nel resto dell’Africa occidentale c’è stato un vero e proprio boom democratico. La Sierra Leone e la Liberia, due casi dispe-rati ino a non molto tempo fa, oggi possono contare su sistemi politici rispettabili, per quanto ancora imperfetti. Le elezioni in Guinea Bissau, paese segnato in passato dai colpi di stato, si sono svolte il 18 marzo sen-za problemi. Era da molto tempo che in Ni-geria e in Niger non si vedevano così tante persone andare alle urne come per le ele-zioni di un anno fa. La democrazia del Gha-na è stata lodata dal presidente Barack Oba-ma. D’altro canto in molti paesi del conti-nente i poveri e gli analfabeti sono elettori facilmente manipolabili. Le violenze du-rante le operazioni di voto sono più fre-quenti. Vecchie spaccature etniche e con-fessionali hanno causato gravi scontri dopo le ultime elezioni nella Repubblica Demo-cratica del Congo, in Costa d’Avorio, Kenya, Nigeria e Zimbabwe.

Il progresso politico nel prossimo de-cennio potrebbe richiedere del tempo, per-ché migliorare la capacità di governo con istituzioni solide è più diicile che racco-gliere voti in un’urna elettorale. Alcuni pas-

Democrazie in crescita

The Economist, Gran Bretagna

Quasi tutti i cittadini africani possono scegliere i loro rappresentanti, ma le elezioni si svolgono spesso in modo irregolare

Da sapere Il nuovo governo senegaleseu “L’ex cantante Youssou N’Dour è la igura di punta del nuovo governo senegale-se, formato il 4 aprile dal pri-mo ministro Abdoul Mbaye”, scrive Jeune Afrique. Dopo la bocciatura della sua candi-datura alle ultime presiden-ziali da parte del consiglio costituzionale, Youssou N’Dour ha appoggiato pub-blicamente Macky Sall, che il

25 marzo è stato eletto presi-dente sconiggendo Abdou-laye Wade al ballottaggio. Il ministero aidato all’ex can-tante è quello della cultura e del turismo, ma per assume-re l’incarico N’Dour dovrà ri-nunciare temporaneamente a dirigere il suo gruppo indu-striale Futurs Médias, che comprende un canale televi-sivo (Tfm), un giornale

(L’Observateur) e una radio (Rfm).

Intanto il presidente Sall ha annunciato le cinque prio-rità del suo governo: evitare l’emergenza alimentare, ab-bassare i prezzi dei generi alimentari, evitare le interru-zioni di elettricità, risolvere il conlitto con i ribelli della Casamance e ridurre le spese dello stato.

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si in avanti, quelli più facili, sono già stati fatti dopo la ine della guerra fredda. Ora bisogna puntare più in alto.

Ci sono molte buone ragioni per essere ottimisti: i gruppi di opposizione sembrano meno confusi, divisi e avidi rispetto al pas-sato. Molti di questi gruppi restano scettici, ma alcuni hanno capito che con un po’ di disciplina possono farcela. Basta vedere cosa è successo in Zambia o in Senegal.

Dopo il declino del marxismo, inoltre, in politica non ci sono state spaccature ideolo-giche importanti e questo ha aiutato i parti-ti di opposizione. Inoltre, per gli elettori africani le competenze individuali contano più delle ailiazioni partitiche. E gli alti tas-si di natalità del continente generano schie-re di giovani elettori pronti a dare una possi-bilità a volti nuovi della politica. In molti paesi un presidente o un partito possono vincere con sostenitori sotto i trent’anni, se le elezioni sono regolari.

Al tempo stesso gli impressionanti tassi di crescita di molti paesi africani hanno fa-vorito una vera e propria esplosione delle comunicazioni. Le campagne elettorali non devono più dipendere dai mezzi d’informa-zione controllati dal governo o da lunghi viaggi per luoghi sperduti. Oggi c’è internet

NIGERIA

COMOREBURUNDI

RUANDA

MAURITIUS

ALGERIA

BURKINAFASO

LIBIA EGITTO

SUDAN

SUDSUDAN

ETIOPIA

KENYA

TANZANIA

ANGOLA

ZIMBABWE

LESOTHO

SWAZILANDSUDAFRICA

NAMIBIABOTSWANA

REP. DEM.CONGO

REP.CENTRAFR.

UGANDA

CONGO

CAMERUN

CIAD

GABON

NIGER

GAMBIA

GUINEABISSAU

SIERRALEONE

LIBERIA

COSTAD’AVORIO

GHANA

SÃO TOMÉE PRINCIPE

GUINEAEQUAT.

GIBUTISomaliland

SaharaOccidentale

TUNISIA

ERITREA

MAROCCO

MAURITANIA

CAPOVERDE

MALI

SENEGALBENIN

TOGOGUINEA

ZAMBIA MALAWI

SOMALIA

SEYCHELLES

MADAGASCAR

MOZAMBICO

Malawi

“s arebbe troppo semplice pensare che i problemi del Malawi siano initi con la

morte del presidente Bingu wa Mu-tharika. Ma per Joyce Banda, leader del partito di opposizione e ora alla guida del paese, è un’opportunità per cambiare il passo e ofrire uno stile nuovo di leadership, più dina-mico”, scrive l’agenzia Ips. Mutha-rika, a capo del paese dal 2004 e al suo secondo mandato, ha avuto un infarto il 5 aprile. “Per tutta la gior-nata del 6 aprile sono circolate voci sulla sua morte. Ma la radio pubbli-ca ha confermato il decesso del presidente solo il giorno dopo. Po-che ore dopo è entrata in carica la vicepresidente Banda. È la prima donna alla guida di uno stato dell’Africa australe – la seconda nel continente – e governerà il paese i-no alle elezioni del 2014”.

Banda si è sempre occupata di diritti delle donne. In un’intervista a dicembre ha afermato che “le donne sono decisamente poco rap-presentate nei luoghi in cui si pren-dono le decisioni economiche. La chiave per cambiare le cose è ai-dare più soldi pubblici alle madri del Malawi”. Ministro degli esteri e delle pari opportunità, Banda ha duramente criticato Mutharika quando nel 2010 “ha indicato il fra-tello Peter Mutharika come candi-dato per le elezioni presidenziali del 2014. Banda è stata espulsa dal partito di Mutharika ma non si è di-messa dalla vicepresidenza. Ha fondato il Partito del popolo ed è diventata l’avversaria più accanita del presidente scomparso”, scrive il quotidiano sudafricano Mail &

Guardian. Tra gli abitanti del Ma-lawi Banda è molto popolare, alcuni però dubitano che sia in grado di far uscire il paese dalla crisi econo-mica. u

Il momentodi Joyce Banda

e soprattutto ci sono i cellulari. Si possono conoscere gli esiti delle elezioni ed even-tuali irregolarità in tempo reale. Nelle ele-zioni nigeriane del 2011, per esempio, deci-ne di migliaia di osservatori hanno registra-to i risultati locali e li hanno inviati via sms a un sistema centrale gestito da volontari. Questo signiica che per manipolare i risul-tati i governi malintenzionati devono ricor-rere a sistemi più complicati.

La mancanza di dati sugli elettori è do-vunque un ostacolo. La maggior parte degli africani non ha documenti d’identità e a ogni tornata elettorale si devono riscrivere le liste elettorali da zero. L’anno scorso nella Rdc il governo ha speso più di 500 milioni di dollari per le elezioni, le più costose del mondo dopo quelle statunitensi.

Gli alti livelli di analfabetismo e la man-canza di istituzioni eicienti di certo non aiutano. Nelle zone di conine in Sierra Le-one i funzionari decidono a chi concedere il certificato elettorale in base all’accento. Comunque, quasi tutti gli abitanti del con-tinente (un miliardo di persone) oggi posso-no esprimere il loro voto in elezioni nazio-nali. Cosa che un miliardo e mezzo di asia-tici, nonostante la crescita economica im-pressionante, non può ancora fare. u gim

Indice di democrazia, 2011

Democrazia

Democrazia incompleta

Regimi misti

Regimi autoritari

Stati falliti

Nessun dato

Conlitti armati Fonte: The Economist

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Africa e Medio Oriente

La crisi siriana va avanti da più di un anno, ma non sorprende che il presidente Bashar al Assad sia ancora fermamente al potere. Il

regime di Damasco aveva promesso di ri-spettare i termini del piano di pace in sei punti presentato da Koi Annan, l’inviato delle Nazioni Unite e della Lega araba. Il piano prevedeva il dialogo con l’opposizio-ne, la ine delle violenze e il ritiro dei soldati governativi dalle città, l’ingresso in Siria delle organizzazioni umanitarie, il rilascio dei prigionieri, l’accesso incondizionato dei giornalisti e il rispetto della libertà di riu-nione. Ma le violenze sono continuate an-che dopo la scadenza issata per il 10 aprile e questa soluzione negoziata sembra essere fallita in partenza.

C’erano ben pochi motivi per pensare che il regime di Assad avrebbe rispettato queste richieste apparentemente ragione-voli. Perché avrebbe dovuto? Il governo esercita ancora una forte inluenza che lo fa sentire forte e gli fa credere di avere il col-

tello dalla parte del manico. Nonostante la morte di quasi diecimila civili, l’arresto di più di ventimila e l’esodo di centomila per-sone, il regime ha ancora un forte sostegno interno. Per non parlare di quello dei suoi benefattori e alleati russi, cinesi e iraniani che fanno di tutto per difenderlo dagli at-tacchi della comunità internazionale.

La domanda più ovvia è come faccia As-sad a godere ancora di tanto sostegno dopo i massacri di cui è responsabile. Chi ha an-cora il coraggio di appoggiarlo nel clima di terrore che ha creato? Che il regime abbia

Chi sostiene ancorail regime di Damasco?

Diecimila vittime, ventimila arresti e la fuga di centomila persone. Ma il presidente siriano Assad ha ancora molti alleati. Soprattutto tra le élite delle città

Bessma Momani, The National, Emirati Arabi Uniti

ancora molti sostenitori è indiscutibile, ma sarebbe semplicistico pensare che si tratti di una questione settaria, come spesso si legge sulla stampa internazionale. La realtà è più complessa: la fedeltà e l’opposizione al regime dividono le comunità e perino le famiglie.

Abbiamo spesso sentito dire che il regi-me è appoggiato dalla minoranza alawita, che è formata da meno dell’11 per cento della popolazione ed è sparsa in tutto il pae-se. Ma questo non basta a spiegare la sua popolarità. Inoltre dire che anche la mino-ranza cristiana, cioè il 10 per cento della popolazione, è a favore del presidente signi-ica non tener conto dei leader della comu-nità cristiana che stanno con l’opposizione, e dei religiosi e attivisti che hanno sacriica-to la loro vita per contrastare il regime. Il sostegno ad Assad non è di tipo settario: in realtà è basato sull’interesse e sul calcolo.

La maggior parte delle proteste è scop-piata lontano da Damasco e da Aleppo. Nel-le zone rurali diversi anni di siccità, l’au-mento dei prezzi, l’abbandono delle infra-strutture da parte del governo e la mancan-za di servizi hanno colpito duramente le comunità agricole, comprese quelle alawi-te. In queste zone le persone hanno poco da

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Da sapereu La Siria ha lasciato scadere l’ultimatum del 10 aprile, sta-bilito dal piano di pace di Koi Annan, senza ritirare i soldati dalle città e proclamare il ces-sate il fuoco. gli attacchi sono continuati soprattutto su Homs. “Bashar al Assad ha dimostrato che il suo vero obiettivo era temporeggiare e ostacolare la comunità inter-nazionale”, commenta il quo-tidiano turco Zaman.

L’11 aprile il regime ha di-

chiarato di voler fermare le operazioni militari dal giorno successivo. “La crisi siriana è entrata in una nuova fase, che la Turchia deve valutare con grande attenzione”, continua Zaman. “Il 9 aprile le forze di Assad hanno varcato il coni-ne turcosiriano e hanno aper-to il fuoco. Hanno ucciso tre siriani che stavano fuggendo e ferito altre 23 persone, com-presi due turchi. Questo gesto può essere considerato un at-

tacco militare in territorio turco. gli esperti discutono da tempo dei rischi di un coinvolgimento turco nella crisi siriana e questa possibi-lità sembra sul punto di con-cretizzarsi”.

Il 9 aprile i soldati siriani sono entrati anche in Libano. A Wadi Khaled hanno spara-to contro la macchina su cui viaggiava il cameraman liba-nese Ali Shabaan, che è rima-sto ucciso.

Idlib, 8 marzo 2012. Il funerale di un uomo ucciso da un cecchino

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Molte aziende europee e statunitensi continuano ad aiutare i regimi autoritari a sorvegliare i loro cittadini

Verso la ine del 2011, mentre il re­gime di Bashar al Assad scatena­va il suo esercito contro i cittadi­

ni, i governi di Iran e Russia hanno ofer­to il loro sostegno diplomatico a Dama­sco. Assad, però, poteva contare sull’aiu­to prezioso di un alleato molto più inatte­so: Area, un’azienda italiana specializzata in intercettazioni telefoniche. Nel 2011 i dipendenti dell’azienda sono andati a Damasco per aiutare i servizi segreti si­riani a installare un sistema computeriz­zato che avrebbe permesso al regime di intercettare e catalogare ogni email spe­dita o ricevuta nel paese.

Con l’aumento delle violenze, sono cresciute anche le pressioni del governo ainché il progetto fosse portato a termi­ne. È stata “una gara contro il tempo per la costruzione dei centri di monitorag­gio”, spiega Trevor Timm, dell’organizza­zione internazionale Electronic frontier foundation, che di recente ha consegnato al parlamento europeo un rapporto sulla vicenda.

Quello dell’azienda italiana non è un caso isolato. La britannica Finisher, la te­desca Trovicor e la statunitense Blue Co­at Systems sono solo alcune delle aziende occidentali in competizione tra loro nella fornitura di apparecchiature tecnologica­mente avanzate per la sorveglianza. Il lo­ro giro d’afari ammonta a 5 miliardi di dollari all’anno e cresce a un ritmo an­

nuale del 20 per cento, soprattutto grazie alla domanda dei regimi autoritari dell’Asia e del Medio Oriente. Queste aziende non sembrano intenzionate a li­mitare il commercio con questi regimi, ed è anche per questo che un numero sempre maggiore di attivisti cerca di fare pressioni su di loro.

Il rapporto consegnato da Timm al parlamento europeo condanna senza mezzi termini alcune aziende occidenta­li. Lo stesso fa Eric King, consulente per i diritti umani di Privacy international, che ha studiato per più di un anno le tecnolo­gie di sorveglianza usate dai regimi auto­ritari. Secondo King, alcune aziende occi­dentali stanno “facendo di tutto” per aiu­tarli.

Ignoranza plausibileL’attenzione crescente degli attivisti co­me Timm e King e le inchieste pubblicate dall’agenzia Bloomberg e dal Wall Street Journal hanno convinto alcuni a cambia­re strada. L’italiana Area, per esempio, ha interrotto i rapporti con la Siria. Ma sono ancora molte le aziende che si nascondo­no dietro una sorta di “ignoranza plausi­bile” – la deinizione è di Timm – soste­nendo che non sapevano che la loro te­cnologia sarebbe stata usata per violare i diritti umani. Questa linea di difesa si ba­sa sul fatto che le tecnologie non sono di per sé illegali e sono usate anche dai go­verni democratici per combattere il cyber­crimine.

Eric King e Privacy international vor­rebbero che i governi occidentali regola­mentassero l’esportazione dei software, e che gli equipaggiamenti avanzati per la sorveglianza seguissero “un regime di controllo delle esportazioni dual-use”. Questo signiica che “prima di esportare tecnologia all’estero le imprese dovreb­bero ottenere una licenza da parte del go­verno nazionale”, spiega King. Inoltre, secondo Privacy international, le aziende che dovessero infrangere le nuove regole dovrebbero afrontare un processo pena­le. u as

Tecnologie italiane per Assad

Nick Robins-Early, The New Republic, Stati Uniti

Inchiestaperdere e sono arrabbiate per la corruzione e la miseria in cui sono abbandonate. La vi­ta nelle campagne siriane è molto diversa da quella nelle grandi città.

Il regno del terrore instaurato da Assad negli ultimi anni ha ulteriormente convinto i contadini che non c’è più spazio per il dia­logo e che è necessario abbattere il regime per impedire che le loro comunità siano martoriate per un’altra generazione. Le éli­te urbane, invece, negli ultimi dieci anni hanno goduto del miglioramento dei servi­zi e della liberalizzazione economica, che ha creato una iorente comunità degli afari. Ormai non hanno più bisogno di andare a Beirut, ad Amman o a Dubai per godersi qualche lusso.

Stabilità e benesserePrima che scoppiasse il conflitto, nelle grandi città la vita era diventata più facile e piacevole. Le élite urbane sono più vecchie e appartengono alle famiglie più impor­tanti di tutte le religioni, che hanno forti legami con le comunità della diaspora in occidente, in America Latina e nell’Africa orientale.

La stabilità garantisce il benessere di questa classe sociale, che di conseguenza è contraria al cambiamento. Ma i suoi igli tollerano sempre meno i sistemi del regime e ambiscono alla libertà che vedono al cine­ma o che hanno sperimentato su internet. Per questo motivo, all’inizio delle rivolte sono scesi in piazza per invocare una mag­giore democrazia.

Quando le proteste sono diventate vio­lente ad Hama e a Homs, la ribellione dei giovani contro il regime di Assad ha acqui­stato nuova energia. Oggi molti ragazzi continuano a lottare, contestando le idee dei loro stessi genitori. Avevano cominciato a scendere nelle piazze di Damasco e di Aleppo improvvisando piccole manifesta­zioni, ma ora che le strade principali sono controllate dalle forze di sicurezza del regi­me, sono costretti a rimanere in casa e a proseguire la loro battaglia online. Oppure hanno trovato il modo per lasciare il paese e protestare dall’estero. In Siria il cambia­mento è inevitabile ma non si sa se avverrà attraverso le riforme varate dal governo, o se il regime ha già superato la soglia della violenza accettabile e la sua caduta sarà l’unico modo per cambiare le cose. La posi­zione dei siriani su questo tema non dipen­de dall’appartenenza religiosa ma da quan­to ognuno di loro rischia di perdere. u bt

L’attenzione degli attivisti e dei giornali ha convinto alcune aziende a cambiare strada

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YEMEN

Battaglia per Lawdar Gli scontri del 9 e 10 aprile vici-no a Lawdar tra esercito e mili-ziani di Al Qaeda hanno causato almeno 133 morti. La città del sud dello Yemen è assediata dai combattenti islamici che cerca-no di riprenderne il controllo. Lawdar si trova a 150 chilometri da Zinjibar, che è in mano da più di un anno al gruppo Ansar al sharia, ailiato ad Al Qaeda nel-la penisola araba, scrive Asharq al Awsat.

IN BREVE

Algeria Ahmed Ben Bella, pri-mo presidente del paese, è mor-to l’11 aprile ad Algeri a 96 anni.Sudan-Sud Sudan L’11 aprile l’Unione africana ha chiesto al Sud Sudan di ritirare l’esercito dalla regione petrolifera contesa di Heglig, che si trova al conine tra i due paesi. Tunisia Il 9 aprile la polizia ha represso una manifestazione in occasione della giornata dei martiri. Almeno 23 persone so-no rimaste ferite.

L’8 aprile il Bahrein ha riiutato di estradare in Danimarca Abdulhadi al Khawaja (nella foto, una manifestazione per la sua liberazione), l’attivista per i diritti umani in in di vita a causa dello sciopero della fame cominciato l’8 febbraio. “Ogni giorno ci sono delle manifestazioni per chiedere la liberazione di Al Khawaja, che è stato arrestato un anno fa e condannato all’ergastolo”, scrive Al Akhbar. Il 9 aprile durante una protesta è esplosa una bomba che ha ferito sette poliziotti. I manifestanti chiedono anche di sospendere il gran premio di Formula uno del 22 aprile. u

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Bahrein

Per la vita di Al Khawaja

Manama, 6 aprile 2012

Secondo i mezzi d’informazio-ne israeliani, il nostro paese è di nuovo in pericolo. Domeni-ca subiremo un pericoloso at-tacco: centinaia di turisti, for-se migliaia, atterreranno in Israele e chiederanno di anda-re in Cisgiordania. Che cala-mità! Che provocazione! Im-maginate mille persone arma-te di biglietto aereo che si ac-calcano agli sportelli dell’im-migrazione e pronunciano la parola proibita: Palestina.

La polizia, i servizi segreti, l’esercito, il ministero dell’in-terno, i funzionari dell’immi-

grazione, i giornalisti, il mini-stero degli esteri, le compa-gnie aeree: sono tutti reclutati per afrontare la minaccia. Se l’esercito di turisti-terroristi non sarà fermato all’aeropor-to, il compito di intercettarli e rispedirli a casa spetterà alle forze dell’ordine.

Un coraggioso giornalista televisivo ha osato rivolgere una domanda al corrispon-dente per gli afari di polizia: “Cosa succede se li lasciamo passare tranquillamente?”. Il corrispondente, spiazzato, ha bofonchiato: “ma no, è impos-

sibile”. Figuriamoci. Benvenu-ti in Palestina è un’iniziativa che vuole denunciare il blocco israeliano (non quello della Striscia di Gaza, ma quello meno rigido della Cisgiorda-nia).

Il governo israeliano, per la seconda volta, è caduto nella trappola. Dipingendo l’arrivo di centinaia di turisti come una minaccia terroristica (o al-meno come un attacco di atti-visti antisemiti), fa capire ino a che punto ha bisogno di na-scondere al mondo il suo do-minio indecente. u as

Da Ramallah Amira Hass

Israele nella trappola

NIGERIA

Gli attacchidi Pasqua Il 9 aprile almeno 39 persone so-no morte nell’esplosione di un’autobomba a Kaduna, nel centronord della Nigeria. L’auto sembrava diretta verso una chiesa, ma è esplosa quando è stata intercettata dalla polizia. Il giorno dopo negli stati di Yobe e di Borno la setta islamica Boko haram ha compiuto nuovi attac-chi contro i civili e le forze di si-curezza, uccidendo sette perso-ne. Il quotidiano Vanguard ri-porta i commenti dell’arcivesco-vo di Abuja, John Onaiyekan, secondo il quale “i nigeriani de-vono risalire alle vere radici di questa minaccia, perché non ci sono motivazioni che spieghino questi attacchi ingiustiicati alla cittadinanza”.

EGITTO

Bloccata la costituente Il 10 aprile un tribunale ha bloc-cato i lavori dell’assemblea co-stituente, scrive Egypt Inde-pendent. I giudici devono valu-tare la legalità della sua compo-sizione, visto che l’assemblea è dominata dai partiti islamici ed è stata boicottata da laici, pro-gressisti, copti e dall’università islamica di Al Azhar. Questa de-cisione arriva in un clima teso, a sole sei settimane dalle presi-denziali, a cui parteciperà anche Omar Suleiman. Secondo molti attivisti, la candidatura dell’ex vicepresidente di mubarak è “la morte della rivoluzione”.

Africa e Medio Oriente

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24 Internazionale 944 | 13 aprile 2012

Europa

Negli ultimi giorni i mezzi d’in-formazione di tutto il mondo hanno ricordato il ventesimo anniversario dell’inizio dell’as-

sedio di Sarajevo, il 6 aprile 1992, con arti-coli e servizi più o meno sulla stessa falsari-ga. Prima di tutto ci hanno ricordato quanto sia stata terribile la guerra, sottolineando il coinvolgimento in prima persona dell’auto-re. Poi ci hanno descritto la Bosnia-Erzego-vina di oggi: un luogo triste e diviso, dove i bambini delle diverse comunità vanno in scuole separate. Tutto qui. Certo, l’assedio di Sarajevo e la guerra in Bosnia sono stati eventi spaventosi. Tuttavia i resoconti di questi giorni – scritti da giornalisti che da

tempo si occupano d’altro – ignorano un fat-to fondamentale: la Bosnia non è la stessa di vent’anni fa. Secondo uno dei cliché più ricorrenti, prima della guerra Sarajevo era una città vibrante e cosmopolita. È falso. Sarajevo era un noioso centro della provin-cia jugoslava, dove serbi, croati e musulma-ni convivevano paciicamente. Oggi Saraje-vo e la Bosnia sono tornate al loro monoto-no passato. In fondo è un bene.

Il ritorno della JugosferaComplessivamente il dopoguerra ha porta-to dei miglioramenti. Certo, il paese è anco-ra povero e diviso, ma considerando il san-gue versato tra il 1992 e il 1995, quello che è successo dopo ha quasi del miracoloso. La pace di Dayton ha messo ine alla guerra e ha diviso il paese in due entità: la Federa-zione croato-musulmana e la Republika Srpska. La situazione, insomma, è compli-cata. Tuttavia, dal 1995 i contrasti tra le co-munità sono rimasti sul terreno della politi-ca, senza mai sfociare in violenze. La storia della Bosnia del dopoguerra ha attraversato diverse fasi. Nei primi anni hanno prevalso i vecchi leader e il vecchio ordine costituito. Il secondo periodo è stato segnato da enor-mi passi avanti per rendere il paese autono-

mo e funzionale, mentre negli ultimi sei anni si è tornati alla stagnazione. Finora, chi aveva previsto un nuovo collasso, evitabile solo con un intervento dell’occidente, ha avuto torto. Paddy Ashdown, l’alto rappre-sentante della comunità internazionale in Bosnia dal 2002 al 2006, ha ripetuto per an-ni che nel paese la situazione stava per pre-cipitare. L’ultima volta lo ha fatto il 5 aprile. Non ho nessuna intenzione di ridicolizzare i suoi allarmi. Tenendo alta la guardia, Ashdown ha fatto sì che la Bosnia rimanes-se costantemente nei pensieri dei governi occidentali. Questo non vuol dire, però, che non abbia ragione anche Gerald Knaus, co-autore di un saggio dal titolo L’interventismo può funzionare?. Knaus è un ottimista, e sot-tolinea che, nonostante sia ancora “povera, isolata e divisa”, la Bosnia “non è stata tea-tro di violenze per oltre un decennio”.

Nell’ottobre 2010 i bosniaci sono andati alle urne, e c’è voluto più di un anno per for-mare il governo nazionale. In questo senso la Bosnia, divisa e iperfederalista, ha molto in comune con il Belgio. Anche le spinte se-cessionistiche che animano la società bo-sniaca possono essere paragonate ad altre simili in Europa. Un referendum sull’indi-pendenza della Scozia è in programma per l’autunno del 2014, e la divisione del Regno Unito è più plausibile di quella della Bosnia, dato che non implica il rischio di un conlit-to armato. Un altro dato confortante è il nuovo contesto regionale. L’adesione all’Unione europea rappresenta per i paesi dei Balcani un obiettivo importante. Que-sta prospettiva indebolisce i diversi estre-mismi e spinge i leader politici a lavorare per il bene dei loro paesi. La Croazia entrerà nell’Unione nel 2013, la Serbia e il Monte-negro sono già candidate, e la Bosnia po-trebbe chiedere lo status di candidato prima della ine dell’anno. A diferenza di vent’an-ni fa, oggi è nell’interesse di Belgrado e Za-gabria spingere Sarajevo verso Bruxelles e continuare a fare afari con la Bosnia. Intan-to, nonostante i problemi della regione, è riemerso il concetto di Jugosfera, un’area di cooperazione commerciale, culturale e po-litica di cui Sarajevo è il centro nevralgico. È giusto ricordare le oltre diecimila vittime della guerra, ma non è giusto ingere che il 2012 sia il 1992. In Bosnia il bicchiere è mez-zo pieno, non mezzo vuoto. u as

Tim Judah è un giornalista britannico. Ne-gli anni novanta è stato il corrispondente dai Balcani per il Times e l’Economist.

I progressi della Bosniaa vent’anni dalla guerra

Nonostante la povertà e le divisioni, oggi la Bosnia è un paese tranquillo. E, diversamente da quanto scrivono i giornalisti occidentali, le prospettive per il futuro sono positive

Tim Judah, Bloomberg, Stati Uniti

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Sarajevo , 6 aprile 2012. L’installazio-ne con le 11.541 sedie vuote che ricor-dano i morti dell’assedio della città

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Internazionale 944 | 13 aprile 2012 25

TURCHIA

Un processoepocale In un paese come la Turchia – segnato da diversi colpi di stato, tutti rimasti senza conseguenze giudiziarie – il processo ai re-sponsabili del golpe del 1980 Kenan Evren (nella foto) e Tah-

sin Şahinkaya, cominciato il 3 aprile, segna un’inversione di rotta molto signiicativa. Come spiega Zaman, quotidiano vici-no al governo islamista modera-to dell’Akp, “il processo è stato reso possibile dal referendum del 2010 che ha abrogato l’arti-colo 15 della costituzione del 1982, approvato proprio per pro-teggere da eventuali inchieste i militari golpisti”. Tuttavia, sot-tolinea la scrittrice Oya Baydar sul sito T24, il vero problema del paese è che le pulsioni anti-democratiche sono ancora forti. In questo senso, scrive Baydar, lo “spirito del golpe del 1980” sopravvive nella deriva autorita-ria del premier Recep Tayyip Erdoğan, “che concepisce la de-mocrazia solo entro i limiti del modello sociale del suo partito”.

Mancano ormai meno di dieci giorni al primo turno delle presidenziali francesi e i sondaggi si fanno sempre più precisi, in particolare dopo che i candidati hanno presentato i loro programmi. Se niente sembra turbare i due favoriti, con il presidente uscente Nicolas Sarkozy e lo sidante socialista François

Hollande sempre testa a testa, e con quest’ultimo dato per vincitore al ballottaggio con quasi dieci punti di scarto, la situazione è più luida nelle seconde ile. Mentre continua a perdere terreno il centrista François Bayrou, Jean-Luc Mélenchon sta per sottrarre alla candidata dell’estrema destra Marine Le Pen il titolo di “terzo uomo”. Il candidato del Fronte di sinistra – dipinto da Le Point come “un indignato permaloso, un ansioso le cui reazioni troppo istintive sono il sintomo di una scarsa autostima” – guida una formazione che raggruppa ex comunisti, dissidenti socialisti ed estrema sinistra non trotzkista. E come spiega Le Monde, “ha saputo sedurre i giovani, gli artisti, gli intellettuali, una parte degli operai e degli ‘indignati’ di ogni tendenza”. A questo punto il suo successo potrebbe costringere Hollande a orientare più a sinistra la campagna per il ballottaggio, che si svolgerà il 6 maggio. ◆

Francia

Mélenchon, il terzo uomo

Le Point, Francia

GRECIA

Austeritàe suicidi Nell’ultima settimana ad Atene si sono svolte molte manifesta-zioni di cordoglio e di solidarie-tà per Dimitris Christoulas, il pensionato di 77 anni che si è suicidato il 4 aprile a piazza Syn-tagma, davanti al parlamento. L’uomo aveva lasciato una lette-ra in cui afermava di preferire una ine dignitosa alla vita di stenti a cui lo costringeva la sua misera pensione. “Questo non è un suicidio, ma un omicidio”, accusa To Ethnos, che punta il dito contro “la dittatura imposta dalla trojka alla Grecia”, che co-stringe “i pensionati a mendica-re e a rovistare nella spazzatura per sopravvivere”. Intanto il go-verno ha annunciato che le ele-zioni legislative si svolgeranno il 6 maggio.

AZERBAIGIAN

Ritornoin piazza Circa diecimila persone sono scese in piazza l’8 aprile a Baku per chiedere le dimissioni del presidente Ilham Alijev nella prima manifestazione autoriz-zata dal 2005. Approittando dell’attenzione internazionale verso il paese, legata al fatto che a maggio Baku ospiterà il con-corso canoro Eurovision, l’oppo-sizione ha chiesto la liberazione degli attivisti arrestati, riforme politiche, elezioni libere e lotta alla corruzione, scrive l’agenzia russa Ria Novosti.

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GEORGIA

Il presidentesecessionista Il nuovo presidente dell’Ossezia del Sud (il territorio secessioni-sta della Georgia autoproclama-tosi indipendente con il soste-gno di Mosca e motivo della guerra del 2008 tra Russia e Ge-orgia) è Leonid Tibilov, che l’8 aprile ha sconitto al ballottag-gio lo sidante David Sanakoev. Già direttore del Kgb locale ne-gli anni novanta, Tibilov si è detto pronto ad accogliere Sana-koev nel suo futuro governo, scrive il quotidiano russo Novie Izvestija. E ha dichiarato che potrebbe ricorrere all’esperien-za di Alla Dzhioeva, la candida-ta dell’opposizione, critica verso l’appoggio russo al regime dell’ex leader osseto Eduard Ko-koity, che aveva vinto le elezioni presidenziali, poi annullate, del novembre 2011.

IN BREVE

Gran Bretagna La Corte euro-pea dei diritti dell’uomo il 10 aprile ha dato il via libera all’estradizione negli Stati Uniti di cinque presunti terroristi, tra cui l’imam radicale Abu Hamza.Norvegia Il 10 aprile una nuova perizia psichiatrica ha stabilito che Anders Behring Breivik, au-tore degli attentati del 22 luglio 2011 a Oslo e Utøya, è in grado di intendere e di volere. Il pro-cesso si aprirà il 16 aprile.Polonia Il 10 aprile migliaia di sostenitori della destra naziona-lista hanno partecipato a una manifestazione antigovernativa a Varsavia.A

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Americhe

La decisione di Rick Santorum di sospendere la campagna presi-denziale mette ine di fatto alla corsa per la candidatura repub-

blicana. Ora Mitt Romney può cercare di rimediare al danno subìto durante le pri-marie, radunare attorno a sé i conservatori e concentrarsi sul confronto con il presi-dente Barack Obama.

Nelle ultime settimane Obama e Rom-ney hanno cominciato a contrapporsi diret-tamente, preigurando lo scontro inale. Da tempo Romney cerca di dipingere Obama come un presidente disastroso, che con le sue politiche ha rallentato la ripresa econo-mica, aumentato l’ingerenza del governo e provocato un accumulo di deicit e debito. Obama, da parte sua, accusa Romney di voler proteggere gli interessi dei più ricchi a scapito della classe media, con il rischio di

trascinare il paese in una recessione ancora più grave.

Già prima del 10 aprile, quando Santo-rum ha annunciato la sua uscita dalla corsa, l’esito della battaglia per la nomination re-pubblicana sembrava chiaro, nonostante gli inaspettati successi di Santorum in alcu-ni stati. Tuttavia il suo abbandono rispar-mia a Romney i costi della campagna elet-torale nello stato roccaforte del suo princi-pale avversario e l’imbarazzo di eventuali sconitte in altri stati. Romney resta lonta-no dai 1.144 delegati necessari per assicu-rarsi la nomination del partito. Inoltre il li-bertario Ron Paul e l’ex presidente della camera Newt Gingrich sono ancora in cor-sa. Gingrich ha ribadito che continuerà a lottare per dare ai conservatori “una vera alternativa” e ha chiesto ai sostenitori di Santorum di appoggiarlo. Ma né i sosteni-tori di Romney né la maggior parte dei re-pubblicani considerano Gingrich o Paul un ostacolo. I consiglieri di Romney ripetono che la priorità ora è vincere le prossime pri-marie e accumulare delegati. Ma anche lo-ro sanno che la battaglia è conclusa.

Le priorità di Romney sono altre. Le pri-marie hanno costretto l’ex governatore del Massachusetts a virare decisamente a de-

stra, perdendo il consenso di alcuni gruppi di elettori che saranno fondamentali per la scelta del prossimo presidente. Secondo l’ultimo sondaggio del Washington Post e di Abc News, il voto delle donne pende a favore di Obama. Inoltre Romney potrebbe avere problemi con gli ispanici, a causa del-le sue posizioni intransigenti sull’immigra-zione e del linguaggio particolarmente du-ro che ha usato per descriverli durante i di-battiti delle primarie.

Un nuovo inizioRomney dovrà concentrarsi soprattutto sul confronto con il presidente Obama, ma allo stesso tempo non può permettersi di igno-rare il suo ianco destro. I repubblicani han-no promesso che si presenteranno uniti alla convention di Tampa di agosto, e conside-rando l’antipatia nei confronti di Obama che anima i più conservatori è probabile che ci riusciranno. Tuttavia l’unità del par-tito dipende anche dalla capacità di Rom-ney di convincere quei conservatori – in gran parte cristiani evangelici – che negli ultimi due mesi hanno sostenuto Santorum e lo hanno trasformato nel suo principale avversario.

In ogni caso non c’è unanimità su come Romney dovrà procedere ora che Santo-rum è uscito di scena. Fino alla ine Santo-rum ha continuato ad attaccare Romney, accusandolo di non essere un vero conser-vatore. Ora bisognerà valutare quanto è grave il danno inflitto alla credibilità di Romney tra gli elettori di destra. Romney si è afrettato a promettere che si batterà con-tro Obama come un vero conservatore. Un suo consigliere, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha spiegato la situazione in que-sto modo: “Ora gli elettori guarderanno Mitt con occhi diversi. Possiamo approit-tare di questo nuovo inizio per rilanciare la campagna e il candidato”. u as

Santorum lascia il campoa Romney

Il candidato ultraconservatore si è ritirato consegnando di fatto la nomination all’avversario Mitt Romney. Che ora deve unire il partito per la battaglia inale contro Obama

Dan Balz, The Washington Post, Stati Uniti

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Rick Santorum a Brookield, nel Wisconsin, il 31 marzo 2012

u Il 10 aprile il candidato repubblicano alle primarie repubblicane Rick Santorum, reduce dalle sconitte in Wisconsin, Maryland e Washington Dc, ha sospeso la sua campagna elettorale. Lo ha annunciato a Gettysburg, in Pennsylvania, lo stato che lo ha eletto due volte senatore e dove il 24 aprile si svolgeranno le primarie. Santorum aveva conquistato 285 delegati, contro i 661 del favorito Mitt Romney. Il 24 aprile si voterà anche in Connecticut, Delaware, Rhode Island, New york e Pennsylvania.

Da sapere

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STATI UNITI

Un casodelicato L’omicidio di Trayvon Martin, il ragazzo di diciassette anni ucci-so il 26 febbraio a Sanford, in Florida, da un vigilante impe-gnato in una ronda di quartiere, non sarà esaminato da un grand jury, annuncia il New York Ti-

mes. Sarà il procuratore distret-tuale della Florida, Angela Co-rey, a stabilire se ci sono prove suicienti a incriminare George Zimmerman, che non è mai sta-to arrestato perché una legge dello stato garantisce l’immuni-tà a chi spara con il ragionevole timore di essere in pericolo di vita o di essere ferito gravemen-te. L’11 aprile gli avvocati di Zimmerman hanno annunciato in una conferenza stampa che il loro cliente è irreperibile e han-no rinunciato al loro incarico. Il 9 aprile il dipartimento di poli-zia di Sanford aveva dovuto chiudere al pubblico dopo che decine di studenti si erano radu-nati davanti all’ingresso per pro-testare contro il mancato arresto di Zimmerman e chiedere un forum nazionale per “eliminare le discriminazioni razziali negli Stati Uniti”. Il giorno dopo a Tulsa, in Oklahoma, due ragazzi bianchi hanno aperto il fuoco per la strada uccidendo tre afro-americani e ferendone due.

IN BREVE

Perù Il 5 aprile il presidente Ol-lanta Humala ha annunciato la sconitta deinitiva dei ribelli di Sendero luminoso nella valle dell’Alto Huallaga, nella regio-ne di Huánuco.

GUATEMALA

Alleanza pericolosa I legami tra i cartelli messicani e alcune gang dell’America Cen-trale sono noti da tempo. Ma ora le autorità del Guatemala sem-brano aver trovato le prove di un’alleanza formale tra Los Ze-tas e le maras guatemalteche. “Il patto, scrive La Nación, preve-de che Los Zetas reclutino e ad-destrino i membri delle maras, che in cambio garantiscono ai messicani un maggior controllo sul mercato della droga locale”. Accordi come questo permette-rebbero agli Zetas di estendere la loro inluenza su importanti città della regione.

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A Cuba passiamo da una visita all’altra. prima benedetto XVI, poi, a pochi giorni di distanza, Camila Vallejo, la carismatica leader degli studenti universi-tari cileni. La sua era una visita strettamente uiciale e Camila non si è discostata di un milli-metro dal programma organiz-zato dal governo cubano. Ha avuto uno scambio di idee e ab-bracci con la segretaria genera-le dell’Unione dei giovani co-munisti di Cuba e con l’attuale presidente della Federazione degli studenti universitari (Feu). entrambi vantano il tri-ste merito di non rappresentare

gli interessi degli studenti di fronte al potere, ma piuttosto il contrario. e così, i grigi dirigen-ti di un’organizzazione priva di qualsiasi autonomia si sono fat-ti fotografare insieme alla lea-der che nel 2011 ha fatto trema-re la politica cilena.

proprio come il papa, la cile-na ha anche avuto un colloquio con Fidel Castro. È entrata cioè in quel luogo quasi segreto dove l’anziano ex presidente scrive i suoi testi lunghi e deliranti. Lo stesso comandante in capo che ha smantellato ogni traccia dell’autonomia degli studenti cubani servendosi di controlli,

informatori ed epurazioni, ha dichiarato la sua simpatia per le storie di ribellione che Camila gli raccontava.

L’uomo che ai tempi in cui era studente universitario si è distinto per i suoi scontri con il potere, ha inito per impedire ai giovani di oggi di fare altrettan-to. Colui che da giovane urlava “Abbasso la dittatura”, ha inito con il crearne un’altra. e sicco-me il nostro è un mondo al con-trario, Camila Vallejo è uscita dal colloquio con lui dichiaran-do che “le rilessioni di Fidel sono un raggio di luce e di spe-ranza per il Cile”. u ma

Dall’Avana Yoani Sánchez

Camila e il comandante

Colombia

La sesta Cumbre de las Americas, in programma il 14 e 15 aprile a Cartagena, in Colombia, potrebbe segnare una svolta su due questioni fondamentali nel continente: la ine dell’isolamento di Cuba e la legalizzazione delle droghe. L’emarginazione di Cuba dal resto del continente, 53 anni dopo la

rivoluzione, non ha più senso. Tanto che i rappresentanti di brasile, perù e Argentina hanno fatto sapere che non parteciperanno più a vertici dove l’Avana non sia rappresentata. Sul fallimento della guerra al narcotraico, ino a poco tempo fa a proporre la legalizzazione delle droghe erano solo gli analisti o alcuni ex leader politici. Il fatto che ora diversi presidenti in carica usino la parola legalizzazione o che gli Stati Uniti siano disposti a discutere l’argomento, è un passo da giganti. Il summit potrebbe anche risolversi, come credono alcuni, in una chiacchierata tra amici. Ma il fatto che siano in ballo questi due argomenti è il segno di una nuova congiuntura storica: è la dimostrazione del fatto che gli Stati Uniti non riescono più a imporre la loro agenda in America Latina. u

Semana, Colombia

Svolta a Cartagena

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Asia e Paciico

L’unica provincia indonesiana governata in base alla sharia ha votato il 9 aprile per eleggere il nuovo governatore. Le elezioni

rappresentano un test per il fragile equili-brio raggiunto dopo trent’anni di guerra separatista. È la seconda volta che ad Aceh si vota dopo lo tsunami del 2004, che nella provincia ha ucciso 170mila persone, e do-po la ine, nel 2005, della guerra separati-sta contro il governo di Jakarta, che ha fatto 15mila vittime.

Aceh, all’estremità occidentale dell’ar-cipelago indonesiano, gode di un’ampia indipendenza e rappresenta un’anomalia in un paese dove la maggior parte dei 240 milioni di abitanti pratica una forma mo-derata di islam. Mentre nel resto dell’Indo-nesia – il paese a maggioranza musulmana più popoloso al mondo – l’alcol è venduto liberamente, ad Aceh è bandito. In alcune zone della provincia alle donne è vietato indossare pantaloni stretti e chi gioca d’az-zardo o beve viene bastonato in pubblico. Nella zona è in corso un dibattito sulla pu-nizione delle adultere: se continuare a fu-stigarle o cominciare a lapidarle.

Un voto paciicoI risultati deinitivi del voto sono attesi per il 15 aprile, ma secondo i primi sondaggi in testa ci sarebbero Zaini Abdullah e Muza-kir Manaf, candidati del Partito Aceh ri-spettivamente alla carica di governatore e di capo distrettuale. Il partito Aceh è nato nel 2008 dalle ceneri del Movimento Aceh libera (Gam), il gruppo separatista che ha combattuto contro il governo di Jakarta per quasi 26 anni.

Irwandi Yusuf, 51 anni, ex capo dell’in-

telligence del Gam, è stato eletto governa-tore nel dicembre del 2006, e ha provato a ottenere un secondo mandato. Sostenitore della sharia, Irwandi è contrario all’ina-sprimento delle leggi islamiche, come nel caso della punizione per l’adulterio.

Zaini Abdullah, 71 anni, è l’ex ministro degli esteri del governo del Gam in esilio. “L’elezione è stata chiaramente uno scon-tro tra Irwandi e il partito Aceh”, spiega Jan Lepeltak, un analista di Jakarta, riferendo-si al fatto che il governatore uscente ha de-ciso di candidarsi come indipendente.

Anche se molti abitanti della provincia temevano che le elezioni, precedute da episodi di violenza, potessero mettere a dura prova la fragile pace seguita al conlit-to, il voto si è svolto regolarmente. La spe-ranza è che la tensione non salga dopo i ri-sultati.

I contrasti tra gli ex leader del Gam so-no aumentati costantemente dal 2005, dopo la pace con il governo centrale. Il par-tito Aceh, che domina il parlamento regio-nale, ha criticato molto duramente Irwandi e pare abbia minacciato gli elettori. Nyak Arief Fadhillah Syah, a capo del comitato di controllo elettorale, ha segnalato inora 57 casi di violenze e intimidazioni. u as

Sida elettorale tra gli ex ribelli di Aceh

L’unica provincia indonesiana dove la sharia è legge ha votato per la seconda volta dalla ine della guerra civile. Il partito del movimento separatista ha vinto ancora

Arlina Arshad, The Jakarta Globe, Indonesia

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u Dopo anni di campagna separatista dei ribelli del Movimento Aceh libera (Gam), nel maggio del 2003 il governo indonesiano impone la legge marziale ad Aceh e comincia un’ofensiva militare che dura un anno. Il Gam, anche se indebolito, resiste. u Nel dicembre del 2004 la provincia di Aceh viene colpita da uno tsunami che uccide 170mila persone.u Nell’agosto del 2005 il Gam e il governo irmano un accordo di pace che mette ine a un conlitto durato quasi 26 anni. Jakarta libera i prigionieri politici e il Gam depone le armi. Ma per gli esperti la pace è fragile.u Nel 2006 il partito degli ex ribelli vince le elezioni ad Aceh.

Da sapere

Preghiera in una moschea di Banda Aceh, 5 aprile 2012

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La parabola di Bo Xilai, ex governatore di Chongqing che puntava ai vertici del potere di Pechino, sembra essersi chiusa deinitivamente con uno degli scadali più clamorosi della storia recente cinese. Dopo essere stato rimosso dalla direzione del Partito comunista di Chongqing a marzo, l’11 aprile Bo è stato sospeso dal politburo e dal comitato centrale, i due posti chiave che occupava. “Una decisione corretta, rispettosa della legge”, ha commentato il Quotidiano del Popolo, organo del partito. La frase fa riferimento all’arresto di Gu Kailai, moglie di Bo, sospettata dell’omicidio di Neil Heywood, un cittadino britannico trovato ucciso a Chongqing nel novembre del 2011. Gu Kailai e i suoi igli avevano avuto dei contrasti con Heywood per questioni economiche, spiega Caijin. La caduta di Bo era cominciata a febbraio quando il suo braccio destro, Wang Lijun, si era rifugiato nel consolato statunitense per un giorno ed era poi stato “messo a riposo”. Il motivo, si è poi saputo, era l’indagine su Gu. u

Cina

La ine di Bo Xilai

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i colpevoli di Ode

Il 9 aprile la squadra investiga-tiva speciale che si occupa delle violenze tra musulmani e indù scoppiate in Gujarat nel 2002 ha giudicato 23 persone colpe-voli del massacro di Ode. Il Ti-mes of India ricorda che il pri-mo marzo 2002 ventitré perso-ne, soprattutto donne e bambi-ni musulmani, rimasero uccise nell’incendio appiccato da due-

mila rivoltosi che si erano riu-niti per vendicare la morte di sessanta pellegrini indù, avve-nuta pochi giorni prima a bor-do di un treno dato alle iam-me. Nei tre giorni successivi furono uccise più di mille per-sone. Il 10 aprile i 58 imputati per un altro massacro, quello del complesso residenziale del Gulbarg society in cui moriro-no 69 persone, sono stati as-solti. Tra questi, il chief mini-ster del Gujarat, Nerandra Modhi, accusato di aver per-messo il massacro.

Bo Xilai a Pechino

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Un satellite per Kim il-sung La Corea del Nord si prepara a lanciare un satellite tra il 12 e il 16 aprile. Per dimostrare la na-tura paciica dell’iniziativa, il governo di Pyongyang ha invita-to giornalisti e osservatori stra-nieri ad assistere all’evento. “Tuttavia non è detto che que-sta dimostrazione di buona vo-lontà sarà apprezzata”, scrive Hankyoreh. Per la Corea del sud, gli stati Uniti e il Giappone, infatti, il lancio viola la risolu-zione del consiglio di sicurezza dell’Onu che vieta “qualsiasi lancio che usi missili balistici”. Mentre celebra il centenario della nascita di Kim Il-sung, Py-ongyang vuole mostrare ai nord coreani “la potenza e la prosperità” del paese. L’11 aprile Kim Jong-un è stato nominato segretario del partito unico.

afghanistan

Propagandaspeciale L’8 aprile gli stati Uniti e l’af-ghanistan hanno irmato un ac-cordo che aida alle forze afga-ne la gestione dei “raid nottur-ni”, le impopolari operazioni speciali che il governo di Kabul ha sempre criticato. “Per gli analisti afgani si tratta di mera propaganda da parte del gover-no”, scrive Tolo News. “secon-do gli esperti, i marines conti-nueranno a condurre i raid an-che perché l’esercito di Kabul non è equipaggiato per farlo”.

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in Breve

Cina Il 10 aprile due attivisti che fornivano assistenza legale alle vittime degli espropri, Ni yulan e suo marito Dong Jiqin (nella fo-to), sono stati condannati rispet-tivamente a due anni e otto mesi e a due anni di prigione.Birmania Il presidente Thein sein ha ricevuto il 7 aprile a Naypyidaw una delegazione dei ribelli karen.Timor Leste Il 16 aprile Franci-sco Guterres e Taur Matan ruak si sideranno nel secondo turno delle elezioni presidenziali.

india-PaKistan

Una visita molto gradita La visita del presidente pachi-stano asif ali Zardari in India l’8 aprile è stata accolta con en-tusiasmo dai giornali indiani. “Quattro anni dopo gli attentati di Mumbai, Zardari, con il suo stile inconfondibile, ha dato una spinta notevole ai rapporti tra i due paesi che nel frattempo si erano bloccati”, scrive The Hindu in un editoriale. rife-rendosi alla sosta del presidente in un tempio sui in rajasthan, il quotidiano continua: “Venendo in India da pellegrino prima che da presidente, Zardari ha fornito un nuovo metro per le visite di alto livello tra i due paesi”. L’ombra degli attentati di Mum-bai incombe ancora sulle rela-zioni bilaterali, “ma il fatto che Zardari abbia deciso di venire in India nonostante le minacce e le proteste di Laskar-e-Taiba, l’or-ganizzazione dietro gli attacchi di Mumbai, è un buon segno”.

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30 Internazionale 944 | 13 aprile 2012

ca navale Fincantieri, poi sottosegretario nell’ultimo governo Berlusconi) avrebbe stornato a vantaggio della famiglia Bossi i soldi dei rimborsi elettorali: circa quattro milioni di euro tra il 2010 e il 2011.

Ed ecco che tutto si rovescia come un guanto. I igli maggiori? Dei buoni a nulla che fanno la bella vita con i soldi dei contri-buenti italiani. La moglie del leader leghi-sta, fondatrice e direttrice di una scuola privata, era una sorta di garante intellettua-le del clan. In realtà si tratta di un’afarista che attingeva alle casse del partito per tap-pare i buchi della sua impresa. Poi c’è l’ami-ca fedele, che ha annusato l’odore dei soldi facili. Inine il patriarca, il senatùr, come lo chiamano nelle valli dell’Italia settentrio-nale dopo la sua elezione al senato nel 1987: ormai è solo un invalido che è stato raggira-to.

Ma cominciamo da Renzo Bossi. Faccia da bambino pafuto, sorriso da sempliciot-to, soprannominato “il Trota”. Il nomignolo è nato quando i giornalisti tempo fa chiese-ro a Umberto Bossi se il iglio Renzo sareb-be potuto diventare il suo delino. Il padre rispose: “Per il momento è solo una trota”. A 21 anni Renzo è stato eletto consigliere della regione Lombardia grazie a una lista bloccata. Stipendio netto: centoventimila euro all’anno. Renzo ama le auto di lusso. Non c’è problema, ci pensa la Lega: un’Audi A6 e anche una piccola Smart per i suoi spo-stamenti in città. Costo: 41mila euro per l’Audi e dodicimila per la Smart. Gli ci vuole una scorta perché un politico italiano senza scorta non è credibile. Non c’è problema: gli mettono a disposizione una decina di persone robuste per 250mila euro all’anno. Se a Renzo servono contanti il suo autista passa alla sede del partito, in via Bellerio a Milano, e si serve.

Ma il Trota ha un complesso. Bocciato per tre volte alla maturità, non sopporta più di passare per un cretino tra i militanti del partito e su internet, dove circola un video che lo mostra confondere senza batter ci-

Nella grande casa della fami-glia Bossi a Gemonio, un piccolo comune della pro-vincia di Varese in Lombar-dia, l’aria è diventata irre-

spirabile. Dietro i muri color ocra Umberto Bossi, 71 anni, fondatore della Lega nord, il partito autonomista e xenofobo, non dice una parola. I igli maggiori, Riccardo, 33 an-ni, e Renzo, 24, passano di sfuggita. Erano l’orgoglio del vecchio leader, la testimo-nianza della sua virilità in un partito che non disdegna il machismo, e ora sono di-ventati la sua croce. Sua moglie Manuela Marrone non esce dalla villa da giorni. Di Rosa Angela Mauro, un’amica della coppia, venuta ad abitare nella casa accanto dopo l’ictus che ha colpito Bossi nel 2006, non c’è traccia. Nessuno osa sostenere lo sguardo pieno di rimprovero del vecchio leader, da quando è stato costretto a dimettersi da se-gretario generale del partito dopo uno scan-dalo inanziario che coinvolge le persone a lui più vicine.

Sono almeno tre le indagini che hanno mandato in pezzi lo stereotipo della fami-glia unita e onesta. I magistrati hanno co-minciato a indagare all’inizio dell’anno do-po che il quotidiano genovese Il Secolo XIX ha pubblicato un articolo in cui si rivela che il tesoriere della Lega nord, Francesco Bel-sito, ha investito i soldi del partito in Tanza-nia e a Cipro. L’accusa è di appropriazione indebita e trufa ai danni dello stato. Inoltre i magistrati sospettano che sia stato ricicla-to del denaro sporco proveniente dalla ’ndrangheta. Il tesoriere (ex buttafuori nel-le discoteche, poi autista di Umberto Bossi, poi vicepresidente del gruppo di cantieristi-

glio i canadesi con gli australiani. In una trasmissione televisiva gli chiedono di elen-care le sue tre virtù preferite. Gliene viene in mente una sola, l’onestà. “E le altre?”, insiste la presentatrice. Ma il risultato è una pietosa scena muta. Ebbene, Renzo deside-ra un titolo di studi così come un bambino crede che avere un trenino farà di lui un conducente di locomotive. Vuol essere an-che lui “dottore” o “ingegnere”. E così ec-colo iscritto a una misteriosa università privata di Londra, dove non mette quasi mai piede. Costo: 130mila euro, natural-mente a spese della Lega nord. Suo padre si sdilinquisce d’ammirazione per il rampollo: “Parla talmente bene l’inglese”, dirà un giorno, “che una volta ha fatto da interprete in un colloquio tra Silvio Berlusconi e Hilla-ry Clinton”. Suo fratello Riccardo ha gusti più modesti: ama le corse automobilistiche, Ed ecco che immediatamante arrivano 59mila euro per una Bmw X5.

La mania del diploma Veniamo alla madre, Manuela Marrone. Ex maestra andata in pensione a 39 anni, ex assistente parlamentare, che ora si dedica all’insegnamento privato. È lei la garante intellettuale del clan. Nella sua scuola, dove ogni mattina accoglie personalmente gli alunni, oltre alle materie obbligatorie si stu-diano anche il dialetto varesino e le danze popolari lombarde. Sul menù della mensa c’è ogni giorno polenta e salsicce. Nel 2011 la scuola ha ricevuto ottocentomila euro di fondi pubblici, e per giunta la Lega nord ha contratto a suo nome un mutuo da un milio-ne e mezzo di euro.

Ma non basta: Francesco Belsito ha stor-nato duecentomila euro a beneficio dell’istituto di Manuela Marrone. La quale, essendo anche cartomante e appassionata di occultismo, nella villa di Gemonio ha al-lestito una stanza interamente dedicata alla sua passione. Tra le altre cose il partito si è fatto carico anche della ristrutturazione della terrazza di casa: 25mila euro.

E inine c’è Rosa Angela Mauro, detta “Rosi” o “la Nera” per via della folta chio-ma corvina. Si dice che non voglia bene a nessuno e che diidi di tutti. Ex sindacalista venuta dal sud, entrata a far parte del “cer-chio magico” – così la stampa italiana dei-nisce gli amici più intimi che si sono raccol-ti intorno a Umberto Bossi dopo l’ictus – è anche soprannominata “la badante”. Vice-presidente del senato dal 2008, anche Rosi vuole la sua fetta di torta. E i suoi diplomi.

La famiglia Bossi esce di scenaPhilippe Ridet, Le Monde, Francia

Nello scandalo che ha travolto i vertici della Lega nord sono coinvolte le persone più vicine al leader Umberto Bossi. Il reportage di Le Monde

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Curiosa mania, questa, in un partito dove ci si vanta di disprezzare gli intellettuali e di ammirare gli imprenditori. Per lei France-sco Belsito troverà 130mila euro per due lauree “comprate” in un’università privata svizzera. Ma Rosi ha un amante che è anche il suo segretario. Anche lui deve poter esibi-re una pergamena che attesti le sue cono-scenze, da appendere sulla parete dietro la scrivania dentro una bella cornice in legno. Ancora una volta Belsito esegue. Ed è così che Pier Moscagiuro, ex poliziotto della scorta di Bossi, è diventato dottore: proprio lui che aveva anche pensato di lanciarsi nel-la musica leggera.

Resta aperto un interrogativo: Umberto Bossi sapeva? Ammalato, messo sotto tute-la dal suo entourage, era consapevole delle irregolarità commesse dal suo tesoriere per conto della famiglia?

“Renzo mi ha detto di aver comprato la sua auto in leasing”, ha sostenuto il padre, che si riiuta di pensare che suo iglio abbia potuto mentirgli. Più di una volta Nadia De-grada, la segretaria amministrativa del par-tito, ha chiesto a Belsito di dire la verità al vecchio capo: “Devi dirglielo”, ha supplica-to nel corso di una conversazione telefonica

intercettata dai carabinieri. Ma lui, che oggi si deinisce “il tesoriere più pazzo del mon-do”, non ha avuto il coraggio. Davanti ai magistrati che l’hanno interrogata per 11 ore di seguito, la segretaria ha ammesso: “Bossi sapeva”. Ora le indagini dovranno dimostrarlo.

Caccia ai traditori

La menzogna ha segnato tutta la vita di Umberto Bossi. In gioventù ha organizzato per ben tre volte una festa per i tre diplomi che non ha mai conseguito. Alla sua prima moglie ha fatto credere di essere un medi-co: usciva di casa ogni mattina con una vali-getta 24 ore in cui teneva il camice bianco piegato e uno stetoscopio. Poi andava a rifu-giarsi nella prima osteria ad aspettare l’ora di rientrare. Lei, quando ha scoperto l’in-ganno, ha chiesto il divorzio.

Oggi, forse, sono stati gli altri – la moglie Manuela, i igli e gli amici – a nascondergli la verità. “Chi ha sbagliato deve pagare, co-munque si chiami”, ha detto il 5 aprile, al momento di lasciare la poltrona di segreta-rio generale del partito per una presidenza tutta onoriica. Renzo ha capito l’antifona e lo ha imitato dimettendosi dal suo incarico

in regione. “Ti ho dato un’occasione e tu non l’hai saputa cogliere”, gli avrebbe detto il padre al termine di un faccia a faccia cari-co di tensione. E ora anche Rosi Mauro po-trebbe seguire l’esempio di Renzo. A via Bellerio i “rinnovatori” guidati dall’ex mi-nistro dell’interno Roberto Maroni hanno aperto la caccia a chi ha tradito gli ideali del partito. La Lega nord, il più grande successo politico di questi ultimi anni, non ha nessu-na certezza di sopravvivere all’uscita di sce-na del suo fondatore. I militanti che nutri-vano una fede incrollabile nell’onestà del capo, in un’Italia dove la corruzione dei lea-der politici è moneta corrente, sono diso-rientati, orfani, tristi. Dovranno trovare un nuovo leader che li faccia tornare a credere nella nascita di quella mitica Padania che non igura in nessun libro di geograia. Il 10 aprile Umberto Bossi ha lasciato la villa di Gemonio per andare a Bergamo dove lo aspettavano quattromila militanti. Gli ha chiesto scusa, anche a nome dei suoi igli. Ha pianto molto.

I militanti lo hanno applaudito educata-mente brandendo delle scope. Un modo per dire che nella Lega le “pulizie di Pa-squa” sono appena cominciate. u ma

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Milano, 22 gennaio 2012. Bossi e Maroni prima di salire sul palco

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Una bomba pronta a scoppiare

Le indagini che coinvolgono la Lega rischiano di far esplodere i contrasti all’interno del partito, favorendo la coalizione che sostiene il governo, scrive il settimanale britannico

The Economist, Gran Bretagna

è la notizia più sensazionale nella vita politica italiana dalla caduta del governo Berlusconi. Umberto Bossi si è dimesso da segretario

della Lega nord, il partito separatista da lui fondato ventun anni fa. Le dimissioni sono arrivate perché la magistratura sta inda-gando sull’uso che la Lega avrebbe fatto del inanziamento pubblico al partito. I fondi sarebbero stati usati a ini personali dalla famiglia del leader leghista. La polizia ha

perquisito la sede della Lega nord accusan-do il tesoriere Francesco Belsito di aver ge-stito, negli ultimi otto anni, le inanze del partito in modo “molto oscuro”.

In seguito il procuratore capo di Milano ha rivelato che Belsito – il quale nel frattem-po si è dimesso dalla carica di tesoriere – è indagato per appropriazione indebita e trufa ai danni dello stato e riciclaggio di denaro. Il magistrato ha aggiunto che Bossi e la sua famiglia per il momento non sono indagati.

L’accusa ipotizza che il denaro dei con-tribuenti sia stato usato per ristrutturare la casa di Bossi e per pagare spese di viaggio e conti dei ristoranti per la sua famiglia. Bel-sito ha respinto ogni accusa, mentre Um-berto Bossi e suo iglio Renzo hanno negato di essere a conoscenza di qualsiasi uso im-proprio del denaro del partito.

Negli ultimi anni Umberto Bossi è stato visibilmente segnato dalla malattia e dall’età, ma ha sempre continuato a mostrare

il dito medio nei comizi. Un dito medio ri-volto in primo luogo alla “vecchia” politica. E proprio l’opposizione a quella politica è alla base della sua ascesa e dei successi del-la Lega nord. Gli italiani ricordano bene gli insulti che vent’anni fa Bossi lanciava ai partiti corrotti – democristiani e socialisti – della prima repubblica. Intanto, al ianco di Silvio Berlusconi diventava uno dei prota-gonisti della seconda repubblica.

Ma ormai è evidente che Bossi, il nume-ro due della destra populista, fa le stesse cose dei tanto vituperati predecessori. Se-condo quanto emerge dalle indagini della magistratura, la Lega nord, che si vantava di essere un partito di funzionari e ammini-stratori onesti, ha trattato lo stato come un self-service. Anche nel partito di Bossi han-no prevalso dei metodi feudali, con moda-lità peggiori rispetto al passato. Erano infat-ti la moglie, i igli e i suoi dubbi consiglieri a decidere le sorti del partito e del paese.

Ma c’è di peggio. Sotto il dominio della Lega e di Berlusconi sono crollate alcune dighe che in altri paesi europei resistono ancora. E anche grazie a Bossi, sono diven-tati normali l’ofesa all’avversario politico e gli insulti agli immigrati o ai gay. Inoltre si è difuso anche un modo di governare che ha tradotto in politica i risentimenti alimenta-ti dalla destra populista.

È una buona notizia che Bossi si sia di-messo, costretto a lasciare la poltrona co-perto di vergogna. Il partito del “sano senti-mento popolare” ha messo al centro della politica italiana l’odio – alimentato dal dar-winismo sociale – nei confronti degli “stra-nieri” e dei “degenerati”. Sarebbe quindi una notizia ancora migliore se la Lega nord fosse costretta ai margini della scena politi-ca italiana per il suo orientamento fascistoi-de e non per via di certi traici di cui benei-ciavano i igli di un potente che ricorda l’ex leader nordcoreano Kim Il-sung. u ma

Michael Braun, Die Tageszeitung, Germania

L’opinione

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Un militante della Lega a Parabiago, marzo 2010

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Tuttavia, come si è afrettato a puntua-lizzare Roberto Maroni, ex ministro dell’in-terno e importante dirigente leghista, quel-le degli ultimi giorni non sono le prime av-visaglie di una gestione sospetta delle i-nanze della Lega. Gli investigatori stavano già cercando di scoprire come mai Belsito avesse investito sette milioni di euro in con-tanti in fondi a Cipro, in Norvegia e Tanza-nia. La base del partito aveva chiesto l’al-lontanamento del tesoriere, ma Bossi ave-va preferito ignorare le richieste.

Fino all’anno scorso la gestione autori-taria di Bossi non era mai stata contestata, forse perché le strategie del segretario si erano rivelate sempre eicaci. Bossi ha por-tato la Lega nord a conquistare il 10 per cento dell’elettorato, entrando a far parte di tutti e tre i governi guidati da Berlusconi dal 2001.

Però molti militanti del partito non han-no approvato la decisione di Bossi di conti-nuare a sostenere l’ultimo governo Berlu-sconi, nonostante gli scandali che hanno coinvolto il premier e le accuse di compor-tamento illecito rivolte ad alcuni ministri. L’anno scorso Bossi ha ricevuto un attacco senza precedenti dai suoi compagni di par-tito, molti dei quali sostenevano che fosse arrivato il momento di cedere il comando a Maroni.

Lo scandalo inluirà sulla stabilità poli-tica in Italia, soprattutto se si considera che Bossi ha deciso di restare all’opposizione dopo la caduta di Berlusconi. Negli ultimi mesi la Lega ha criticato aspramente il go-verno “tecnocratico” guidato da Mario Monti, nominato presidente del consiglio a novembre. A beneficiare delle difficoltà della Lega non sarà solo l’attuale capo del governo, ma anche i tre principali partiti italiani che lo sostengono.

La crisi della Lega minaccia di essere gravissima. Innanzitutto perché il tipo di corruzione ipotizzato dai magistrati mila-nesi va contro tutti gli ideali del partito. Le pretese di autonomia e indipendenza avan-zate da Bossi per conto del nord del paese si basano sulla tesi che la “Padania” sia im-mune dalla corruzione e dagli sprechi che secondo i leghisti dominano l’Italia meri-dionale.

In secondo luogo l’uscita di scena di Bossi rischia di far esplodere i contrasti tra Maroni, leader dell’ala moderata del parti-to, e la corrente radicale. A Milano intanto circola già un volantino che accusa Maroni di essere “un giuda”. u as

Ora critichiamo un uomo illu-stre. La settimana scorsa ci siamo congratulati con il pre-

sidente del consiglio Mario Monti per come aveva afrontato i potenti sinda-cati italiani portando avanti una rifor-ma delle leggi sul lavoro, che in Italia sono notoriamente restrittive e anti-concorrenziali. In un impeto di euro-follia, abbiamo anche espresso la spe-ranza che Monti potesse dimostrarsi un leader del calibro di Margaret Thatcher, disposto a resistere ai mo-derni Arthur Scargill (il leader del sin-dacato dei minatori britannici negli anni ottanta). Ma dopo la resa del pre-mier alle richieste delle forze di sini-stra della sua coalizione, l’analogia mi-gliore con i britannici può essere quel-la con il conservatore Ted Heath, lo sfortunato predecessore della signora Thatcher. In origine la riforma propo-sta da Monti consisteva in un cambia-mento abbastanza modesto dell’arti-colo 18, che proibisce alle aziende con più di 15 dipendenti di licenziare i pro-pri lavoratori.

Il governo voleva sostituire il siste-ma dell’occupazione garantita con ga-ranzie per i lavoratori licenziati per “motivi economici”. Può sembrare un cambiamento poco importante per un paese con i problemi economici dell’Italia oggi. Ma almeno è un primo passo nella giusta direzione, a dispetto di una forte resistenza. Il tasso uiciale di disoccupazione in Italia è al 9,3 per cento – nella media europea – e nascon-de un tasso di occupazione che è solo del 56,9 per cento. Cifre che rendono evidente quanto sia elevato il numero di persone che non hanno accesso al

mercato del lavoro in Italia. Si possono confrontare le percentuali dell’Italia con quelle della Germania, stabile al 72,8 per cento, o del Portogallo, con il 64,5 per cento di occupati (non entusia-sma neppure il dato sull’occupazione negli Stati Uniti, al 66,8 per cento). An-che una riforma modesta come questa è stata considerata eccessiva dai sinda-cati italiani e dai loro alleati politici. Il 4 aprile è stata resa nota la versione ina-le del disegno di legge: ai giudici sarà data una maggiore lessibilità nel de-terminare se un licenziamento sia giu-stiicato o no. Il testo prevede anche un aumento dell’1,4 per cento della tassa-zione sui contratti di lavoro a tempo de-terminato, uno dei modi usati dai dato-ri di lavoro italiani per aggirare le nor-me che disciplinano le assunzioni a tempo indeterminato.

Gli italiani ottimisti (sì, ce n’è qual-cuno) pensano che la riforma sia me-glio di niente. Forse è così. Il problema è che Mario Monti è stato nominato presidente del consiglio per allontana-re il paese dall’abisso in cui era caduta la Grecia. Il disegno di legge sulla rifor-ma sul lavoro è però una resa nei con-fronti di chi stava portando l’Italia nel baratro. u

L’editoriale del quotidiano inanziario statunitense che ha criticato la riforma del premier italiano

La resa di Mario Monti

The Wall Street Journal, Stati Uniti

L’opinione

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Mario Monti

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Le opinioni

34 Internazionale 944 | 13 aprile 2012

Com’era ovvio, il durissimo – e a tratti irritante – poemetto di Günter Grass ha suscitato un’ondata di insulti al suo autore. In efetti Grass si è spinto trop-po oltre, come quando dice che Israele distruggerà il popolo iraniano. E per

questo sarà punito, non solo in Israele ma anche nel suo paese. Ma proprio come quel poemetto di nove strofe ha perso il senso delle proporzioni nel giudizio su Israele, così anche le reazioni furiose sono esagera-te. In un articolo pubblicato il 5 aprile su Ha’aretz, Tom Segev ha scritto: “A meno che il primo ministro israe-liano Benjamin Netanyahu o il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad non gli abbia-no fatto delle confidenze di recente, l’opinione di Grass è senza senso”. Il premier Netanyahu ha ricordato il pas-sato nazista di Grass e l’ambasciata israeliana a Berlino si è spinta ino a di-chiarare – cosa ridicola – che il poema è il prodotto “di un antisemitismo secondo la migliore tradizione europea, quella di scagliare contro gli ebrei, prima di Pe-sach, l’accusa del sangue”.

Non è chiaro se sia stato proprio Grass a chiedere che il componimento fosse pubblicato alla vigilia della Pasqua ebraica, ma comunque non contiene nessuna accusa agli ebrei di fare sacriici umani. Semmai è proprio l’averlo accusa-to di antisemitismo che rientra nella tradizione per cui ogni critica a Israele viene subito tacciata di antisemi-tismo. Quanto poi al passato nazista di Grass – cioè il fatto che da giovane si arruolò nelle Ss – non giustiica il tentativo di metterlo a tacere settant’anni dopo. Ini-ne, la sua opinione è tutt’altro che senza senso. A sen-tire Segev chiunque non sia uno scienziato nucleare o un premier israeliano o un presidente iraniano non dovrebbe dir nulla sul tema oggi più attuale in Israele e nel mondo. È un modo di ragionare sbagliato.

Il poemetto di Grass, intitolato Ciò che deve essere

detto, contiene in efetti cose che devono essere dette. Può e deve essere detto che la politica israeliana sta mettendo a rischio la pace mondiale. La presa di posi-zione di Grass contro la potenza nucleare israeliana è anch’essa legittima, e Grass può benissimo dichiararsi contrario alle forniture di sommergibili allo stato ebraico senza che si tiri fuori subito, a titolo di replica, il suo passato nazista. Però Grass ha esagerato, e que-sto, oltre a non essere necessario, ha danneggiato le sue tesi.

Forse la sua età avanzata e la sua ambizione l’han-no spinto a cercare un’ultima ondata di attenzione o

forse le sue parole sono sgorgate come una cascata do-po che per decenni, in Germania, è stato quasi impos-sibile criticare Israele. È ciò che succede quando ogni critica rivolta a Israele è considerata illegittima e inop-portuna: uno se la tiene per anni, e alla ine esplode. Il poemetto di Grass è stato pubblicato solo poche setti-mane dopo che un altro tedesco eminente, Sigmar Gabriel, presidente del Partito socialdemocratico, aveva scritto che a Hebron c’è l’apartheid, e anche le sue parole hanno suscitato reazioni furibonde. Invece sarebbe meglio ascoltare le critiche, e soprattutto abo-lire il divieto di criticare Israele in Germania.

Israele ha molti amici in Germania. Alcuni di loro sostengono ciecamente lo stato ebraico, altri hanno giustiicati sensi di colpa e altri sono amici veri, e critici, di Israele. Naturalmente è giusto chiedere ai tede-schi di non dimenticare mai il loro pas-sato. Ma questa situazione, in cui ogni tedesco che osi criticare Israele viene subito accusato di antisemitismo, è in-tollerabile.

Anni fa, dopo che un mio articolo era stato pubblicato sul quotidiano tedesco Die Welt, uno dei redattori del giornale mi ha detto: “Nessun nostro giornalista

potrebbe scrivere un articolo del genere”. Poi non mi hanno più chiesto di scrivere per Die Welt. Per anni i giornalisti che andavano a lavorare per il colosso edi-toriale tedesco Axel Springer hanno dovuto irmare un impegno a non scrivere nulla che potesse mettere in dubbio il diritto di Israele a esistere. Era una situazione malsana, a cui l’esplosione di critiche anche esagerate di Grass ha messo ine. Ma Grass non è solo: un altro scrittore non meno illustre di lui, il grande José Sara-mago, quando era già anziano, dopo aver visitato i Ter-ritori occupati aprì il vaso di Pandora facendo un para-gone tra quello che aveva visto lì e quello che era suc-cesso ad Auschwitz. Come Grass, Saramago si era spinto troppo oltre. Eppure queste sue considerazioni sugli israeliani meritano di essere lette: “Vivere all’ombra della Shoah e aspettarsi di essere perdonati per tutto quello che si fa in nome delle proprie sofe-renze mi sembra indecente. Ciò signiica non aver im-parato nulla dalle soferenze dei propri genitori e non-ni”.

Dopo averne denunciato le esagerazioni e dopo aver messo da parte le accuse ingiustiicate, dobbiamo quindi ascoltare questi grandi personaggi. Non sono antisemiti, ma esprimono un’opinione difusa. Invece di metterli in stato d’accusa, faremmo bene a rilettere su ciò che li ha spinti a esprimerla. u ma

Günter Grass esagerama ha ragione

Gideon Levy

GIDEON LEVY

è un giornalista israeliano. Scrive per il quotidiano Ha’aretz.

Il poemetto di Grass, intitolato Ciò che

deve essere detto, contiene in efetti cose che devono essere dette. Deve essere detto che la politica israeliana sta mettendo a rischio la pace

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Ci mettiamo la fi rma

www.fratelliorsero.it

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Le opinioni

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L’istruzione pubblica è sotto attacco in tutto il mondo, e gli studenti protesta-no in molti paesi: Gran Bretagna, Ca-nada, Cile e Taiwan. Anche la Califor-nia è uno di questi campi di battaglia. Il Los Angeles Times racconta il ten-

tativo di distruggere quello che un tempo era il miglior sistema d’istruzione superiore del mondo. “Le autorità dell’università statale della California hanno annuncia-to che in primavera bloccheranno le iscri-zioni in quasi tutti i campus e metteranno in lista d’attesa quelli che hanno fatto do-manda. Prima vogliono vedere che ine farà la proposta di un ulteriore aumento delle tasse dopo le presidenziali di no-vembre”. Sono previsti tagli in tutto il paese. “Nella maggior parte degli stati”, scrive il New York Times, “oggi sono le tasse universitarie e non i inanziamenti pubblici a coprire quasi tutte le spese”, quindi “l’era in cui tutti si potevano per-mettere di frequentare l’università con un sostanzioso contributo da parte degli stati è proba-bilmente inita”. “Si sta passando dall’idea che l’istru-zione superiore sia un vantaggio per il paese all’idea che a beniiciarne siano solo le persone che la ricevono, che quindi devono pagare i conti”, spiega Ronald Eh-renberg, del consiglio d’amministrazione dell’univer-sità di New York.

Una descrizione più precisa della situazione, secon-do me, è il titolo di un recente studio dell’Economic policy institute (Epi): “Un fallimento voluto”. Lo studio dell’Epi (che è un’ottima fonte d’informazioni sull’eco-nomia) analizza il passaggio dell’economia dalla pro-duzione alla inanza e alla delocalizzazione avvenuto una generazione fa. Questa trasformazione è stata spesso giustiicata con quello che il premio Nobel Jose-ph Stiglitz chiama il “dogma dell’eicienza dei merca-ti”, a cui l’attuale crisi inanziaria ha assestato un duro colpo. C’è chi sostiene che l’espansione delle attività inanziarie avvenuta a partire dagli anni settanta sia positiva. Mi sembra invece più convincente l’idea di Martin Wolf, commentatore del Financial Times: “Un settore inanziario fuori controllo sta divorando l’eco-nomia di mercato moderna dall’interno”.

Nello studio dell’Epi si osserva che il “fallimento voluto” è stato una scelta di classe. Per quelli che lo han-no progettato è stato un successo, come rivela l’incredi-bile concentrazione di ricchezza nelle mani dell’1 per cento più ricco della popolazione. In breve, come soste-neva Adam Smith molto tempo fa, i “padroni dell’uma-nità” applicano sempre la loro “vile massima”: tutto per

noi e niente per gli altri.L’istruzione pubblica di massa è stata una delle

grandi conquiste della società americana. Aveva vari scopi. Come scrisse il ilosofo Ralph Waldo Emerson, i leader politici erano preoccupati perché “questo paese si sta riempiendo di migliaia e milioni di elettori, che vanno educati se si vuole evitare che si ribellino”. Ma devono essere educati nel modo giusto: limitando la loro comprensione del mondo e addestrandoli all’ob-

bedienza. La “vile massima” e la sua ap-plicazione hanno sempre suscitato resi-stenze, che a loro volta hanno provocato timori nelle élite. Quarant’anni fa si te-meva davvero che la popolazione stesse per uscire dall’apatia dell’obbedienza.

Nel 1975 il liberalismo più estremo, rappresentato dal think-tank non gover-nativo Commissione trilaterale, avvertì che cominciava a esserci troppa demo-crazia, in parte a causa del fallimento delle istituzioni responsabili “dell’indot-trinamento dei giovani”. Da allora sono

stati presi molti provvedimenti per ristabilire la discipli-na. Uno di questi è stato la crociata per la privatizzazio-ne, che permetteva di trasferire il controllo in mani ai-dabili. Un altro è stato il continuo aumento dei costi dell’istruzione, che sono saliti di circa il 600 per cento dal 1980 a oggi. L’aumento delle tasse universitarie co-stringe gli studenti a indebitarsi per molti anni e quindi a dipendere dai privati. Un altro espediente è stato la commercializzazione delle istituzioni universitarie. Questo ha fatto aumentare a dismisura il numero dei manager nelle università e ha imposto una cultura ideo-logica dell’“eicienza”. Un esempio è la decisione delle università statali di eliminare i corsi di infermieristica, ingegneria e informatica perché sono costosi, anche se sono i settori in cui c’è una maggiore carenza di perso-nale, come scrive il New York Times. Una decisione dannosa per la società ma che favorisce il guadagno immediato. Questa scelta ha prodotto alcuni dei suoi efetti più insidiosi sull’insegnamento e sui criteri di valutazione. Nell’ideale illuminista l’istruzione è un ilo conduttore che gli studenti seguono a modo loro, svi-luppando la propria creatività e libertà di pensiero. L’al-ternativa, che dobbiamo respingere, è quella del conte-nitore da riempire di nozioni che, come tutti sappiamo per esperienza, scivolano via facilmente. Quest’ultimo metodo prevede un insegnamento inalizzato solo agli esami e altri meccanismi che distruggono l’interesse degli studenti cercando di farli rientrare tutti in un mo-dello facilmente controllabile.

Esattamente quello che succede oggi. u bt

L’istruzione pubblicanel mirino

Noam Chomsky

“Si sta passando dall’idea che l’istruzione superiore sia un vantaggio per il paese all’idea che a beneiciarne siano solo chi la riceve, che deve sostenerne i costi”

NOAM CHOMSKY

insegna linguistica all’Mit di Boston. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Per

ragioni di stato (Il Saggiatore tascabili 2012).

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In copertina

Londra ricca

A Blackfriars un ponte invi-sibile attraversa il Tami-gi. I pilastri vittoriani spuntano dal iume, ma la ferrovia che sostene-vano un tempo non c’è

più. È una giornata gelida, gli elicotteri sor-vegliano dall’alto le migliaia di manifestan-ti che silano nel centro di Londra. È il 30 novembre 2011 e due milioni di dipendenti pubblici sono in sciopero. Mary Ezekiel, un’infermiera dell’ospedale dell’University college, elenca le terribili conseguenze che avranno i tagli alle pensioni, il motivo per cui è stata convocata la manifestazione. E indica la scritta sulla sua maglietta. In que-sto periodo, in Gran Bretagna molti gadget riproducono il caramelloso slogan della propaganda della seconda guerra mondia-le: keep calm and carry on (mantieni la calma e tira avanti). Invece sulla maglietta di Eze-kiel c’è scritto get angry and ight back (ar-rabbiati e combatti). “Tutti quelli che han-no parlato sono stati magniici”, dice. “Sono ottimista. Spero che il messaggio arrivi a David Cameron”.

Subito dopo il corteo, il primo ministro critica la mobilitazione, poi cerca di mini-mizzarne il peso. Per i conservatori gli scio-peri sono diabolici e allo stesso tempo pate-tici, ma alla ine non producono nessun ef-

China Miéville, The New York Times Magazine, Stati Uniti. Foto di Zed Nelson

Rainata e stracciona. Ribelle e conservatrice.La città che ospiterà le Olimpiadi raccontata da uno scrittore innamorato delle sue contraddizioni, ma profondamente pessimista

Kingsland road a Shoreditch, Hackney, nell’East End di Londra, 2011

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cca e disperatafetto. “Questo è il rischio dei cortei”, spiega una ragazza scostandosi uno striscione dal-la faccia. “Rischi di essere messo in secon-do piano dalle bandiere”. È circondata da striscioni e manifesti. La bandiera dell’As-sociazione dei radiologi sventola accanto ai cartelli del Partito dei lavoratori comunisti iraniani. Sotto un enorme triangolo rosa un giovane ugandese di nome Abbey dice: “Diamo assistenza a tutti i gay del mondo che chiedono asilo, soprattutto da Uganda, Nigeria, Camerun e Senegal”. È alla mani-festazione per solidarietà con i lavoratori. “È tutto collegato”, spiega. Il taglio alle spe-se sociali, l’aumento delle tasse universita-rie, la ricerca di un capro espiatorio. E la battaglia non riguarda solo il settore pubbli-co. Qualche giorno dopo lo sciopero del 30 novembre sono gli elettricisti della ditta di costruzioni Balfour Beatty a scioperare contro i nuovi contratti. La mobilitazione riguarda tutti i settori.

Sport e comunitàIl quartiere di Stratford, nell’East End lon-dinese, sta subendo una ristrutturazione di dimensioni bibliche. È dicembre, e dal fan-go che avvolge l’Olympic park emerge l’Ar-celorMittal Orbit, di Anish Kapoor e Cecil Balmond, una grande scultura di nastri in-trecciati che somiglia a una specie di ernia attorcigliata che esce dalla terra. Il nome dell’opera è la testimonianza della genero-sità del suo donatore, Lakshmi Mittal, l’uo-mo più ricco della Gran Bretagna. Accanto al monumento sorge lo stadio Olimpico, il cui futuro dopo i giochi (che si terranno a Londra dal 27 luglio al 12 agosto) è incerto. Qui c’è il centro acquatico progettato da Za-ha Hadid. All’estremità meridionale del complesso il passaggio pedonale è costruito su un vecchio canale di scolo ormai coperto. Oh, Londra, vecchia regina del melodram-ma, non dovevi farci questo. Costringerci a guardarti da una fogna.

Si calcola che le Olimpiadi costeranno ai contribuenti 14,7 miliardi di sterline (quasi 18 miliardi di euro). In un’epoca di austeri-tà, mentre i circoli giovanili e le biblioteche chiudono perché considerati lussi di cui si può fare a meno, a quanto pare questa spesa

Kingsland Road, 2011

Hackney, 2011

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era inevitabile. I londinesi protagonisti dei riots che hanno fatto tremare il paese l’esta-te scorsa sembrano aver capito tutto: “Vole-te ospitare le Olimpiadi per fare bella igura agli occhi del mondo”, ha detto uno di loro, “ma alla ine siamo noi a pagare”.

Mike Marqusee, scrittore e attivista po-litico, abita nell’East End ed è uno sportivo da sempre. Nonostante sia americano di nascita, non solo capisce e ama il cricket, ma ci ha perino scritto un libro. A luglio sa-rà felicissimo di poter seguire le gare di atle-tica a due passi da casa, ma rimane contra-rio alle Olimpiadi. “Per motivi che sono stati tutti confermati”, dice. “In genere que-sti grandi eventi sono dannosi per le comu-nità locali, non garantiscono posti di lavoro a lungo termine e sfruttano le zone in cui si svolgono”. Chi visita Stratford è costretto a seguire percorsi stabiliti, andare fuori pista è rigorosamente vieta-to. Le “vie d’accesso” sono enor-mi strutture progettate in modo cervellotico e perennemente sor-vegliate. Perché non si trasformi in un cimitero di scheletri, dopo la ine dei giochi la zona dovrà svilupparsi come un essere vivente, cioè in contrasto con le in-tenzioni di chi l’ha progettata. Quando glie-lo dico Kathryn Firth, capo progettista dell’Olympic park legacy company, l’ente che in futuro si occuperà delle infrastruttu-re costruite, sorride. “Ha colto nel segno”, mi risponde. “A essere sinceri, è una batta-glia continua. Ovviamente il gruppo che prende le decisioni sulla pianiicazione vor-rebbe delle certezze per il futuro. Ma poi qualcuno inevitabilmente risponde che il futuro è lontano e che dobbiamo sbrigarci”. Sarà facile? “No, per niente. Abbiamo molti vincoli, è diicile fare qualcosa di coraggio-so e di diverso”. La sincerità di Firth è con-fortante. Anche perché di solito le autorità sono entusiaste e ottimiste. A dicembre, durante un convegno, il sindaco Boris John-son ha scherzosamente deinito “catastro-isti” quelli che osavano criticare i giochi.

Intanto i piani di sicurezza per le Olim-piadi diventano sempre più distopici e sur-reali. Ci saranno cecchini in elicottero, jet, navi da guerra sul Tamigi, più soldati a Lon-dra che in Afghanistan. “Non succederà”, dice Marqusee, “ma sarebbe una buona idea trasformare queste Olimpiadi nei Gio-chi dell’austerità. Basterebbe eliminare quello che non serve e lasciare solo lo sport. Ci divertiremmo lo stesso e spenderemmo la metà”. Con l’orgoglio del londinese d’ele-zione, Marqusee prosegue: “In fondo siamo a Londra. Non possiamo competere con Pechino, questo non è un paese autoritario

meticolosità. La reazione è stata di panico puro. I tribunali hanno dispensato sentenze molto più severe di quelle che di solito col-piscono reati come questi. I cani da guardia del governo hanno annunciato che, in futu-ro, la polizia potrebbe usare munizioni vere per sparare sui protagonisti delle rivolte. A dicembre, nel tentativo di dare un senso a questi eventi, il Guardian e la London school of economics hanno pubblicato Rea-ding the riots, un rapporto su quanto era ac-caduto. Dopo ampie ricerche e una serie di interviste, è emerso che alla base del com-portamento dei ragazzi c’era un difuso ri-sentimento nei confronti della polizia e un profondo senso di ingiustizia. Eppure, per quanto possa sembrare ovvia, questa con-clusione non convince tutti. Theresa May, ministra dell’interno nel governo Cameron, parla di “pura e semplice criminalità”. È il solito ritornello dei conservatori, lo stesso usato dopo le sommosse di Brixton e Tot-tenham all’inizio degli anni ottanta, e in occasione dello scoppio di ogni tipo di di-sordini. Mentre May sostiene queste ovvie-tà, il suo dipartimento non batte ciglio sulle perquisizioni e i fermi di polizia, i cosiddetti poteri di stop and search, che colpiscono so-prattutto chi appartiene a minoranze etni-che e irritano profondamente i londinesi. Tra il 1998 e il 2009 in Gran Bretagna sono morte 333 persone sotto la custodia della polizia, 87 delle quali dopo essere state pic-chiate dagli agenti. Non un solo poliziotto è stato condannato. Tra tutti i modi più o me-no sottili in cui viene fatto capire ai giovani londinesi – quelli che non vivono a Chelsea

che può costringere diecimila persone a marciare all’unisono. Perché non essere semplicemente noi stessi? Perché non in-gaggiare qualche ragazzino per ballare l’hip-hop per strada?”.

L’eredità dei riotsIl video di Unorthodox, del rapper Wretch 32, è ambientato nel Broadwater Farm Esta-te di Tottenham, nella zona nord di Londra. È un quartiere caratterizzato da una straor-dinaria diversità etnica e da un grande or-goglio locale, nonostante la disoccupazione e la povertà. Nel video sembra sorprenden-temente bello. “Molti rappresentano que-ste zone in modo negativo”, dice Ben New-man, il regista, “mentre io ho cercato di ca-povolgere i cliché”. L’atmosfera multicultu-rale che si coglie nei palazzi della zona è il

sogno di una Londra allegra e chiassosa divenuto realtà. Ma c’è anche un’altra Tottenham, altret-tanto vera, che l’estate scorsa ab-biamo visto tante volte in tv e sui giornali. Lo scheletro carbonizza-

to di un vecchio negozio di tappeti, uno dei punti di riferimento del quartiere. È qui che il 6 agosto sono cominciate le rivolte, dopo la morte di Mark Duggan, un ragazzo ucci-so dalla polizia in circostanze poco chiare. I disordini si sono poi allargati a tutta Londra e al resto del paese. Gli inglesi hanno visto decine di video di palazzi in iamme, vetri rotti, strade piene di gente arrabbiata. Gruppi di giovani hanno assaltato i negozi per rubare televisori, vestiti, cibo, a volte con stordita esuberanza, altre con grande

London Fields, Hackney, 2011

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TE massimo e cominciano a cantare seguendo

i versi di Notorious B.I.G.: “Every Saturday rap attack. Mr. Magic, Marley Marl/I let my tape rock till my tape popped”.

Per capire quanto Londra odi i suoi gio-vani, o almeno alcuni di loro, basta salire su un autobus o sulla metropolitana. La stupi-dità e la scortesia degli adolescenti, che ascoltano musica in mezzo agli altri passeg-geri, sono vissute come un esempio di grave degrado sociale. In efetti il degrado in città non manca. Ma ha davvero a che fare con questi comportamenti? “Da un lato i giova-ni sono trattati in modo paternalistico e vi-ziati”, aferma Saleha Ali, 25 anni, coordi-natrice di WORLDwrite, una ong del quar-tiere di Hackney che si occupa di istruzione. “Dall’altro ci sono regole molto severe. So-no tutti terrorizzati all’idea che i giovani si ubriachino e vadano in giro a far danni”.

Nel 1998 il governo di Tony Blair ha in-trodotto gli Asbo, una serie di misure per combattere i comportamenti antisociali dei giovani. Questi provvedimenti criminaliz-zano anche comportamenti legali, creando una sorta di reati personalizzati. A un di-ciassettenne è stato proibito di bestemmia-re, a un ragazzo di due anni più vecchio è stato vietato di giocare a calcio per strada. “I britannici hanno un atteggiamento mol-to strano nei confronti dell’adolescenza e dell’infanzia,” dice Camila Batmangheli-djh, che ha fondato e dirige l’organizzazio-ne per la difesa dei diritti dei bambini Kids Company. “Ho il sospetto che quello di cui si vergognano di più sia la vulnerabilità, che è tipica del periodo dell’infanzia”.

Volpi e pappagalliUn tempo non era normale vedere una vol-pe a Londra: quando succedeva si aveva la sensazione di essere entrati in una favola. Oggi basta fare una passeggiata di sera per incontrarne qualcuna. Nel 2011 uno di que-sti animali si è intrufolato nello Shard, l’ediicio più alto della città, ancora incom-piuto, e si è arrampicato ino a 300 metri d’altezza per vivere degli avanzi degli ope-rai. Al tramonto e all’alba si vedono dei pro-iettili verdi che volano bassi nel cielo: sono stormi di pappagalli selvatici che si sono stabiliti in città. Passeggiando di prima mattina nel fango di Wormwood Scrubs, un parco vicino al carcere omonimo, dagli alberi si levano suoni striduli. Mentre Lon-dra si sveglia, stormi di questi pennuti im-migrati litigano rumorosamente tra loro.

David Lindo è uno scrittore e un osser-vatore appassionato della presenza degli uccelli nella capitale, molto noto tra i bird-watchers britannici. Per lui la presenza di

o a Bloomsbury e non sono ricchi – che non contano niente, questo è il più crudele.

Dritto in piedi sul podio, nelle sua uni-forme immacolata, il nuovo capo della poli-zia metropolitana Bernard Hogan-Howe espone in tono paterno al pubblico della London policy conference il suo piano per il “controllo totale” della città. È appassiona-to ma vago. Si entusiasma all’idea di un gran numero di agenti che pattugliano i quartieri e reprimono ogni minimo reato. Parla di automobili non assicurate.

Helen Shaw, condirettrice di Inquest, un’organizzazione che indaga sulle morti sospette sotto custodia, non è d’accordo. Teme che il “controllo totale” si tradurrà in “una presenza della polizia molto più ag-gressiva, atteggiamenti violenti e più pau-ra”. In effetti Hogan-Howe dice di voler “instillare il terrore nei criminali”. Shaw è più brutale: “Ci saranno più morti”.

Gli ultimi due anni non sono stati facili per la polizia londinese. Anche gli elettori che di solito non sono critici nei suoi con-

fronti sono rimasti colpiti dall’uso del me-todo del kettling – accerchiare i manifestan-ti per ore e non farli muovere – durante le proteste studentesche del 2010. Nella ma-nifestazione del 9 dicembre di quell’anno uno studente, Alfie Meadows, è finito in ospedale con una lesione cerebrale e un ra-gazzo disabile, Jody McIntyre, è stato prele-vato dalla sua sedia a rotelle e trascinato a terra da alcuni agenti. L’anno prima, duran-te un altro corteo, Ian Tomlinson, un vendi-tore ambulante di giornali, che non c’entra-va nulla con la protesta, era morto dopo es-sere stato colpito da un poliziotto. Poi c’è stato il caso di Mark Duggan. All’inizio la polizia ha sostenuto che era stato a lui a spa-rare per primo, ma in seguito è stato dimo-strato che non era vero.

Le paure degli adultiDue ragazzi prendono l’autobus nella zona nordovest di Londra diretti in centro. Salgo-no al piano di sopra, si piazzano sul sedile davanti, mettono il volume del cellulare al

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questi uccelli è una catastrofe. “Quelli sono gabbiani”, dice, guardando in un’altra dire-zione. Poi indica un giovane gabbiano, un merlo femmina, una gazza. Ricorda i bec-cofrusoni portati dalla neve l’anno scorso. Ma capisce il fascino che esercitano i pap-pagalli. All’alba volano basso, con i becchi ricurvi, sempre affamati, e occupano gli alberi vuoti. “Nidiicano in tutti i buchi che trovano”, dice Lindo. “In alcuni casi estro-mettono gli uccelli indigeni, come gli stor-ni, i colombi e i picchi muratori”. E aggiun-ge tristemente dopo una pausa: “Non ci sono più molti spazi vuoti”.

E non ci sono nemmeno per gli esseri umani. Tutti sanno che sta per veriicarsi una catastrofe: in pochi possono ancora permettersi di vivere nella loro città. Ma non è sempre stato così. “In Gran Bretagna le case popolari sono di proprietà pubblica e servono a dare un tetto a chi ne ha biso-gno”, spiega Eileen Short, presidente dell’associazione Defend council housing. “Non è una forma di assistenza ai meno abbienti, è un diritto: le case popolari sono servite a eliminare le baracche e a garantire un alloggio a tutti negli anni di crisi dopo la prima e la seconda guerra mondiale”. A Londra, questo signiica “alloggi spaziosi e di buona qualità per permettere ai lavora-tori a basso o medio reddito e agli anziani di vivere nelle zone ricche della città”. A Londra i quartieri ricchi sono stati a lungo abitati da tutte le classi sociali. “Fino a trent’anni fa il 30 per cento dei britannici viveva in case popolari. Ed era una cosa di cui la gente comune andava molto iera”.

Ma questa riserva di alloggi si sta esau-rendo. Le case popolari, messe in vendita durante gli anni di Margaret Thatcher e comprate in massa dagli aittuari, non so-no state rimpiazzate da nuovi alloggi. I la-buristi hanno fatto ben poco per invertire la tendenza. E oggi la carenza di alloggi è un problema serio. Gli aitti sono alle stelle e i prezzi delle abitazioni, anche se piuttosto stabili, sono proibitivi. Il governo, inoltre, ha stabilito un tetto ai sussidi per la casa, e si prevede che presto 800mila famiglie in tutto il paese saranno costrette dai prezzi esorbitanti a lasciare le loro comunità. I senzatetto sono sempre più numerosi.

Se questa tendenza è evidente, anche i risultati sono prevedibili. “Quello che pre-vediamo”, aferma Bharat Mehta, ammini-stratore delegato di Trust for London, che studia la povertà nella capitale britannica “è un grande esodo verso le periferie”. A Parigi le case a buon mercato sono state fatte sparire dai boulevards e relegate nelle banlieues. Con la sua storia di edilizia resi-

denziale pubblica, Londra, invece, è sem-pre stata molto più mescolata sotto il proi-lo sociale, con persone delle varie fasce di reddito sparse in tutta la città. Ma le cose stanno cambiando. È cominciata la ban­lieueficazione di Londra. Per costruire si costruisce, e anche parecchio, ma non edi-lizia popolare. La grande architettura della città è molto stilizzata. Il palazzo al numero 30 di St. Mary Axe – il Gherkin – ha meno di dieci anni ma fa già parte del panorama ur-bano. Lo Shard torreggia su South London, mentre al numero 20 di Fenchurch street c’è il cosiddetto Walkie-Talkie. È troppo presto per capire come questi leviatani si integreranno nella città. Alcuni sono brutti. Ma forse non è il guaio peggiore: Londra può metabolizzare anche questo. Il Centre

Point, la tozza torre all’incrocio tra Oxford street e Tottenham Court road, è brutto ma, anche se a malincuore, i londinesi si sono afezionati all’ediicio. Il punto è che sono sempre più numerosi i inti spazi pub-blici – spazi privati che ingono di essere piazze e strade – da cui i cittadini sono esclusi. I movimenti di protesta, e altri si-mili fenomeni irritanti, hanno bisogno di spazi aperti, non possono essere relegati nei vicoli. La città, e chi oggi la sta riproget-tando, non tiene conto delle emergenze urbane.

Fascismo liberalLe ondate migratorie hanno aiutato questa città. Quello del multiculturalismo gastro-nomico è un terribile cliché, ma c’è un mo-tivo se i londinesi lo accettano. Ristoranti come il St. John hanno cercato di valorizza-re la cucina inglese, riscoprendo le fratta-glie, la carne di maiale, le bacche. Benissi-mo. Ma se avete una certa età e siete cre-sciuti qui, vi ricorderete che, a parte pochi fortunati, ricchi o immigrati arrivati di re-cente, i britannici non avevano una loro cucina. Rosicchiavamo pane bianco di pla-stica e formaggio che sapeva di sapone. Eravamo un popolo afamato. I nuovi lon-dinesi hanno avuto pietà di questo popolo malnutrito e infelice e hanno condiviso con noi i loro piatti.

Ogni gruppo di nuovi cittadini porta con sé le sue tradizioni: oggi va di moda la cucina polacca, i bagel si trovano dal for-naio all’angolo e i kruki, dei dolcetti al ca-ramello, al supermercato. Il razzismo, na-

u Il 3 maggio a Londra si voterà per eleggere il sindaco. I due principali candidati sono il sindaco in carica Boris

Johnson, del Partito conservatore, e il laburista Ken Livingstone, già primo cittadino dal 1981 al 1986 (quando guidò il Greater London council, l’organo di governo locale della capitale, soppresso nel 1986 dal governo di Margaret Thatcher) e dal 2000 al 2008 come sindaco di Londra, carica reintrodotta proprio nel 2000. u Dal 27 luglio al 12 agosto Londra ospiterà la trentesima edizione delle Olimpiadi. Gran parte delle competizioni si terrà nella Zona olimpica, realizzata nei quartieri di Bow, Stratford e Leyton, nell’East End, una delle aree più povere della città.

Da sapere

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Sul iume Lea, Hackney, 2011

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to, ha letto un testo magico che non avreb-be dovuto leggere. Il volto di Margaret Thatcher compare a ogni angolo, non tra nubi di zolfo ma tra i gas di scarico delle macchine, sugli autobus che esibiscono i manifesti del ilm con Meryl Streep. Da po-co sono stati resi pubblici i rapporti uicia-li sui disordini che si veriicarono 31 anni fa in tutto il paese, da Brixton a Leeds, da Bir-mingham a Liverpool. Secondo questi do-cumenti – ma il punto è ancora discusso – da allora si è afermata la politica del ma-naged decline (declino controllato) per le aree problematiche. In pratica si è trattato di lasciarle marcire in pace.

Lionel Morrison ripensa al passato. Po-che persone sono in grado di analizzare con il suo acume questo presente fatto di scandali giornalistici, accuse e controac-cuse di razzismo, abusi della polizia, po-vertà e rivolte urbane. Morrison è sudafri-cano. Nel 1956 rischiò la pena di morte per le sue battaglie contro l’apartheid, e nel 1960 riuscì a fuggire a Londra. Nel 1987 diventò il primo presidente nero del sinda-cato nazionale dei giornalisti. Nel 2000 è stato insignito dal governo di quello che, tristemente, viene ancora chiamato Obe, l’Ordine dell’impero britannico. Siamo se-duti a casa sua, tra ritratti inglesi che devo-no avere due secoli e sculture intagliate provenienti dal suo paese d’origine. È idu-cioso? Ottimista? “Ci ho rilettuto”, dice con tono grave e una voce che conserva an-cora un forte accento sudafricano. “In un certo senso sono ottimista. Ma questo otti-mismo viene continuamente messo a dura prova”. Da chi? Da tutto.

“È come se là fuori ci fosse un lupo ar-rabbiato che non vuole andarsene. A volte si sposta, ma lentamente”. Mima l’animale che si muove, lasciando libero un piccolo spazio, una via d’uscita. “La gente dice: ‘L’abbiamo preso!’. Ma poi lui colpisce di nuovo”. Le sue mani si abbassano, la presa del lupo si allenta. Morrison non sembra disperato. Ma è stanco. “Ogni volta che fai qualcosa e non succede niente, ti senti svuotato”, dice. “Prevale l’amarezza”. La gente perde la speranza. Qualcuno smette di combattere. E allora viene da dire: “La-sciamo che le cose, cioè il caos, facciano il loro corso”. u bt

turalmente, c’è ancora, ma si è adattato alle circostanze. Seguendo le esigenze dell’ideo logia, ha trovato nuovi bersagli d’odio. Negli anni trenta erano gli ebrei, poi i neri, poi gli asiatici. Negli ultimi dieci anni nel mirino ci sono stati soprattutto i musulmani. Il velo usato dalle donne infa-stidisce persone che non avrebbero nessun titolo per preoccuparsi della questione, e nell’ambito della strategia antiterrorismo il governo ha perfino chiesto ai docenti universitari di segnalare gli studenti mu-sulmani depressi. Le aggressioni contro i musulmani aumentano, alimentate – se-condo i ricercatori dell’università di Exeter – dalla difusa islamofobia dei leader poli-tici e dei mezzi di comunicazione. Sui mu-sulmani ormai si possono dire cose terribi-li.

Anche il fascismo inglese “tradiziona-le” sta cambiando e sta prendendo di mira nuovi capri espiatori. Nata da organizza-zioni come il British national party e da gruppi di hooligans, la English defense lea-

gue attacca principalmente i musulmani, seguendo le solite tattiche intimidatorie. Ma di recente ha mostrato anche un volto insolito, arruolando (pochi) militanti neri, ebrei o gay. Un nuovo fascismo liberal.

Ma Londra è Londra. “Qui il peso dell’English defense league è minimo”, spiega Martin Smith, dell’associazione Unite against fascism. “Perché Londra è una città dove esiste davvero l’integrazio-ne. Con tanti immigrati”, continua, “è pos-sibile che si sviluppino quelli che chiamerei sentimenti razzisti anche tra i neri e gli asiatici”. Smith conosce bene questa real-tà. È ottimista, ma non rilassato. Non sono tempi facili. “Anche a Londra si potrebbe scatenare il panico. È diicile, ma non lo escludo”.

Fantasmi ovunqueLondra è piena di fantasmi: strade fanta-sma, cimiteri grandi come città, pubblicità fantasma, come sbai di vernice sui matto-ni. Oggi la città ha evocato un nuovo spiri-

L’AUTORE

China Miéville è uno scrittore inglese di romanzi di fantascienza. È iscritto al Socialist workers party e insegna scrittura creativa all’università di Warwick. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La città

& la città (Fanucci 2011).

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Fuori da un pub ad Hackney, 2011

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In copertina

Forbes è una rivista statuniten-se, e il suo Cost of living extre-mely well index o Clewi (una sorta di indice del costo della bella vita) misura l’andamen-

to annuale dei prezzi dei beni più richiesti tra le fasce di reddito più elevate. Quest’in-dice prende in considerazione oggetti e servizi – come dire – particolari: una pellic-cia di zibellino russo (240mila dollari), un lifting facciale (18.500), un puledro puro-sangue da corsa (319.340), un elicottero Sikorsky (14,8 milioni), una composizione loreale da cambiare ogni settimana in sei stanze (98.100) o la retta annuale di Har-vard (52.652). Da un certo macabro punto di vista, fa sorridere che un corso di laurea ad Harvard sia considerato un bene di lus-so. Se poi tutto questo vi sembra eccessivo, potete sempre optare per una settimana di relax alla Golden Door Spa in California (6.750 dollari) o passare tre quarti d’ora da uno strizzacervelli dell’Upper East Side, a New York (325 dollari). È come un romanzo su un gruppo di persone che possiedono cose che nessuno vorrebbe avere e fanno cose che nessuno vorrebbe fare. Un ro-manzo che, peraltro, non avrei particolar-mente voglia di leggere.

Londra è piena di persone che fanno parte dell’1 per cento più ricco del pianeta. Come sappiamo, al momento la condizio-ne di questo 1 per cento è al centro delle attenzioni del restante 99. Ma il bello è che se per gli standard comuni questo 1 per cento è composto da individui molto ric-chi, non è necessariamente così per gli standard dei ricchi. Per far parte di questo 1 per cento in termini di reddito bisogna guadagnare almeno 150mila sterline all’anno (circa 180mila euro). Per la mag-gior parte della gente sono un sacco di sol-

La capitaledei PaperoniJohn Lanchester, The Guardian, Gran Bretagna

Grazie alla sua politica iscale, Londra attira i ricchi di tutto il mondo. Ma non è detto che la loro presenza sia un bene per l’intera società

di, ma non per i ricchi. Ho chiesto a un po’ di persone del giro – quelli che frequentano i ricchi veri – quanto bisogna avere per es-sere considerati ricchi. La cifra che mette tutti d’accordo è cento milioni di dollari. A quei livelli si è considerati ricchi anche dai ricchi. Ovviamente quando uno dispone di una simile quantità di denaro non deve più preoccuparsi dei bisogni materiali.

Come in SvizzeraIn Gran Bretagna questi ricchi sono sem-pre di più, e hanno ancora più soldi che in passato. Nel 1990 per far parte dei primi duecento della lista dei ricchi britannici compilata ogni anno dal Sunday Times ba-stavano cinquanta milioni di sterline. Oggi ce ne vogliono 430. Negli ultimi anni i red-diti di quasi tutte le classi sociali sono ri-masti fermi, mentre i super-ricchi hanno continuato ad arricchirsi, accaparrandosi una fetta sempre più grande della torta. Si tratta di un dato in controtendenza rispetto ai decenni precedenti e, comunque, il fatto che non abbia in nessun modo risentito della contrazione economica smentisce l’intera teoria liberista sui redditi più alti.

I ricchi, sostiene questa tesi, dovrebbe-ro essere lasciati liberi di arricchirsi ancora di più perché in questo modo si innesca un processo in cui si arricchiscono tutti. In re-altà tutto questo non è mai successo: men-tre i ricchi si arricchivano, tutti gli altri di-

ventavano più poveri. “Gli squilibri econo-mici e la diseguaglianza sociale” sono i due più grandi rischi a livello globale messi in evidenza quest’anno al World economic forum di Davos, in Svizzera. C’erano 70 miliardari: è un argomento che conoscono bene.

Se vi state chiedendo cosa c’entra tutto questo con Londra, la risposta è: anche troppo. La capitale britannica vanta una delle più grandi concentrazioni di super-ricchi del mondo, per il semplice fatto che ha scelto di attirarli attraverso una precisa strategia politica. Fondamentale, in questo senso, è stato il famoso provvedimento sul “domicilio” in relazione alla posizione i-scale delle persone isiche. Tutti i paesi ci-vili del mondo tassano i cittadini sulla base del loro reddito e dei loro capitali: la regola base è che se vivi in un paese paghi le tasse in quel paese.

In Gran Bretagna, invece, le cose non stanno così. Chi arriva dall’estero e può di-mostrare di avere ancora forti legami con il suo paese – dove prima o poi ritornerà – ha la facoltà di dichiarare un domicilio estero separato dalla sua residenza britannica. In questo caso il trattamento iscale è com-pletamente diverso: come tutti i cittadini la persona in questione paga le tasse sul reddito prodotto in Gran Bretagna e può importare capitali. Ma il suo reddito este-

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Hackney, 2011

Da sapereLa distribuzione della ricchezza a Londra per fasce di popolazione (decili), percentuale

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100

reddito

ricchezza immobiliare

ricchezza inanziaria

Decile più povero Decile più ricco

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ro, fin quando rimane all’estero, è fuori della competenza della Inland revenue, l’agenzia delle entrate britannica.

In pratica è come se in Gran Bretagna ci fosse un gigantesco cartellone con su scrit-to: “Ricchi di tutto il mondo, venite a vive-re qui! Non pagherete le tasse!”. Si tratta di una misura anomala per un paese svilup-pato, tant’è vero che nessun’altra nazione ha mai pensato di adottarla. Alcuni stati hanno tasse molto basse per attirare le im-prese straniere – per esempio l’Irlanda e i Paesi Bassi – ma gli unici paesi che applica-no agevolazioni iscali per i ricchi simili a quelle britanniche sono universalmente riconosciuti come paradisi fiscali, per esempio il Principato di Monaco o la Sviz-zera (dove, però, le politiche iscali variano da cantone a cantone e sono regolarmente sottoposte al voto dei cittadini).

Tyler Cowen, un economista statuni-tense che ha un blog molto seguito, descri-ve la Gran Bretagna come “un paradiso i-scale per gli stranieri residenti”. Dalle liste dei residenti più ricchi del paese è diicile capire se sia davvero così, perché è impos-sibile conoscere nel dettaglio la posizione iscale delle singole persone isiche. Quello che colpisce, però, è che tra le dodici perso-ne in cima alla lista annuale del Sunday Times ci sono solo due cittadini britannici. Gli altri, chiaramente, sono stati attratti

dal clima... Gli aspetti sorprendenti di que-sta politica iscale sono due: innanzitutto che sia rimasta immutata per decenni, a prescindere dai governi; e poi che nessuno si sogni mai di difenderla o di spiegarne i motivi in pubblico. Di tanto in tanto contro questa legge si alza un vento di protesta, a cui il governo risponde bofonchiando qual-cosa o, in rarissimi casi, facendo qualcosa: per esempio introducendo una tassa di do-micilio annua di 30mila sterline, che quest’anno aumenterà ino a 50mila. Ma per i super-ricchi queste cifre – basta una rapida occhiata al Clewi per capirlo – non si avvicinano nemmeno al conto del ioraio di una delle loro numerose proprietà. I par-titi si scagliano contro le leggi sul domicilio quando sono all’opposizione ma, una volta al governo, non le cambiano.

Perché? Perché sono convinti che i su-per-ricchi portino al paese più soldi di quanti ne sottraggano al isco. I documenti del ministero del tesoro non rivelano mol-to in proposito e riassumono i presunti vantaggi della legge in una sola frase: “Il governo rico-nosce che le persone isiche non domiciliate nel paese (i cosiddet-ti non-dom) possono dare un va-lido contributo all’economia britannica per il denaro che spendono, i capitali che investono, le competenze che portano e le tasse che pagano”. Lasciando da parte la prima domanda che sorge spontanea – per-ché la Gran Bretagna è l’unico paese al mondo a pensarla così? – l’elemento più importante tra quelli elencati è il primo: “Per il denaro che spendono”.

Soldi e tasse

È strano che il tesoro non abbia pubblicato nemmeno uno studio su quanto spendono i non-dom più facoltosi, ma gli efetti della loro presenza sono ben visibili in tutta Lon-dra, come del resto quelli di un secondo gruppo di super-ricchi: quello degli stra-nieri che non vivono stabilmente in Gran Bretagna ma hanno acquistato delle pro-prietà immobiliari in città. Questo gruppo è il motivo principale per cui Londra, alme-no nelle sue zone centrali, è profondamen-te isolata dai problemi economici del resto del paese. Questi super-ricchi comprano casa a Londra per una serie di motivi legati tra loro, per esempio l’eicienza del siste-ma giudiziario e la stabilità politica. Ma il motivo principale dell’attuale boom del mercato degli immobili di lusso nella capi-tale è il calo del valore della sterlina. Agli inglesi i prezzi delle case al centro di Lon-dra sembrano folli perché non comprano

in euro. Nel momento della sua massima svalutazione, nel dicembre del 2008, la sterlina aveva perso il 30 per cento rispetto al dollaro e all’euro: un dato sorprendente se si pensa che alla ine degli anni sessanta una svalutazione di appena il 14 per cento fece a pezzi la credibilità economica del governo laburista allora in carica. Dal 2008 l’euro si è un po’ indebolito, ma comprare casa a Londra, per chi paga in valuta este-ra, è ancora un afare. L’anno scorso i soli investitori greci e italiani hanno acquistato immobili a Londra per un valore di mezzo miliardo di sterline. Il loro obiettivo princi-pale, ovviamente, era portare i soldi lonta-no dai loro paesi e dai guai dell’euro. Sono state queste persone che l’anno scorso a Londra hanno fatto aumentare i prezzi del-le case più che a New York, Parigi e Hong Kong.

Questi due gruppi, i non-dom e i pro-prietari di case stranieri, formano il grosso dei super-ricchi di Londra. Non parliamo

dell’1 per cento e nemmeno dello 0,1 per cento, ma dello 0,01 per cento della popolazione: poche migliaia di multimilionari. La Gran Bretagna fa di tutto per at-tirarli. Di fatto, però, sull’impatto

della loro presenza nel paese – cioè su quanto condizionino il dibattito sulla dise-guaglianza o su quanto un gruppo di perso-ne che semplicemente non deve preoccu-parsi del prezzo delle cose inluenzi l’eco-nomia – non esistono studi aidabili. Uno dei tratti salienti di Londra, come sottoli-neano i suoi vecchi abitanti, i nuovi arriva-ti e i turisti – cioè tutti – è che la vita costa moltissimo. Certo, pesano le alte retribu-zioni della City, ma anche i super-ricchi fanno la loro parte. I soldi che spendono sono ovviamente i benvenuti, ma ho l’im-pressione che per il sistema nel suo com-plesso il prezzo da pagare sia troppo alto.

L’allargamento della diseguaglianza è statisticamente legato a una serie di efetti negativi per la società: aumento del tasso dei disturbi mentali e della popolazione carceraria, crisi familiari, e poi alcolismo, abuso di stupefacenti, e suicidi. Adottando questa politica iscale la Gran Bretagna ha scelto di aggravare i suoi problemi sociali. Per di più, concentrando nella capitale il gradino più alto della scala della disegua-glianza. Sulle conseguenze di questa scelta c’è bisogno di uno studio serio. u fs

L’AUTORE

John Lanchester è un giornalista britannico.Il suo ultimo libro uscito in Italia è Dalla bolla

al crac (Fusi orari 2008).

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Hotel MigranteFederico Mastrogiovanni, Gatopardo, MessicoFoto di Fabio Cuttica

Negli Stati Uniti hanno una famiglia e un lavoro.Ma non hanno i documenti in regola. I messicanicostretti a rimpatriare trovano rifugio a Mexicali,in un albergo a pochi passi dal conine

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Migranti dormono in un corridoio dell’hotel Migrante. Mexicali, Messico

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Messico

Le ombre proiettate dalle luci della dogana degli Stati Uniti si avvicinano lente e compatte nella nebbia. So-no le due del mattino. La frontiera che separa la città

di Mexicali e quella di Calexico è un pozzo di oscurità, umidità e freddo. Il gruppo cammina senza fretta. Una ventina di uo-mini vestiti in pantaloni e maglietta nono-stante la bassa temperatura. Si avvicinano all’uicio dell’Istituto nazionale di migra-zione. Qui tutte le luci sono accese, come a sottolineare che non c’è orario di chiusura, che c’è sempre qualcuno in servizio. Ma l’impiegato di turno è immerso in un sonno profondo. Russa sprofondato in una sedia e non ha la minima intenzione di occuparsi di queste persone appena entrate in territo-rio messicano. Disorientati e stanchi, tre-manti dal freddo, gli uomini si allontanano per cercare un posto dove passare la notte.

Sono tutti cittadini messicani. Sono ar-rivati, come tanti altri ogni giorno, da qual-che carcere degli Stati Uniti. Sono stati ar-restati perché senza documenti. Qualcuno di loro ha commesso dei reati, ma tutti sono stati fermati perché erano immigrati irre-golari. Di solito arrivano con i vestiti che hanno indosso e poche altre cose che ave-vano con loro al momento dell’arresto. Spesso non sono preparati per il freddo dell’inverno di Mexicali.

I vestiti sono il problema minore. È ve-nerdì sera e l’uicio migrazione è chiuso, quindi per avere un documento provvisorio dovranno aspettare lunedì. Le istituzioni messicane non sono certo famose per il so-stegno oferto a queste persone. Il loro rien-tro è considerato semmai un problema. E se si osserva il modo in cui i funzionari trat-tano i loro compatrioti appena arrivati, l’impressione è che si siano formati nelle stesse scuole dei loro colleghi statunitensi.

Un’altra ombra spunta dall’oscurità e raggiunge il gruppo, dice qualche parola di benvenuto e dà alcune informazioni: “A po-chi isolati da qui c’è l’hotel Migrante. È un rifugio sicuro. Non è un granché, ma ci sono acqua calda, cibo e coperte. Non è molto lontano. Se volete potete andarci, è perico-loso starsene qua in giro la notte”.

L’ombra è Hugo Castro, un volontario dell’associazione Ángeles sin fronteras, che opera nella zona di frontiera della Baja Ca-lifornia e ha base a Mexicali. Hugo è un uo-mo alto, robusto, che trasmette iducia. È nato e cresciuto dall’altra parte del conine, e ha deciso di ofrire il suo sostegno alle mi-gliaia di espulsi che ogni anno sono scarica-ti alla frontiera con Calexico.

“Come si chiama questo posto? Dove siamo esattamente?”, chiede uno degli espulsi con voce angosciata. “Siamo a Me-xicali”, risponde Hugo. “Siete arrivati in Baja California. Benvenuti in Messico”.

L’hotel Migrante non ha avuto sempre questo nome. Per più di venticinque anni è stato conosciuto come l’hotel Centenario. C’è ancora un’insegna che dice: “Bar e ho-tel (di passaggio) aperto ventiquattr’ore su ventiquattro”. È un ediicio che si staglia imponente di giorno e minaccioso di notte. Dalla strada è diicile capire cosa sia. Sem-bra solo una grande costruzione rossa nel centro della città, nella zona dei bar e dei night club.

L’hotel Migrante si trova sopra il 13 Ne-gro, un bar famoso per gli spettacoli di spo-gliarello. Quando arrivano i migranti, mol-ti dei clienti che fumano una sigaretta fuori dal bar si girano a guardarli. C’è sempre qualcuno sul piccolo portone dell’albergo a vigilare, a dare informazioni a chi arriva e a evitare problemi tra le persone alloggiate nell’albergo e i clienti dei bar.

Stanotte sulla porta c’è Iván, un ragazzo di venticinque anni con il corpo ricoperto di tatuaggi e l’aria da teppista. Quando arriva il gruppo Iván fa alcune domande di routi-ne, spiega come funziona l’albergo e le sue regole. Prima di far passare gli uomini, sor-prendentemente, sfodera un sorriso ami-chevole e gli dà il benvenuto. Le scale sono strette e buie. In fondo c’è un’altra porta con un altro vigilante. Poi si apre un lungo corridoio senza luci, illuminato solo dalla luce esterna che iltra dai tanti inestroni.

Nel corridoio fa freddo e dal lato oppo-sto alle inestre, a intervalli regolari, si apro-no delle camere senza porta. In ogni stanza dalle tre alle sette persone sdraiate per ter-ra, avvolte in coperte spesse, che cercano di riposare. Chiacchierano a voce bassa e rac-contano storie. È un’oscurità sicura e acco-gliente, anche se non esattamente comoda, ma serve per far uscire allo scoperto gli in-cubi dei mesi passati nelle carceri dei grin-gos.

“Mi hanno espulso dopo che mi hanno beccato in una rissa per strada davanti a un

Un messicano appena espulso dagli Stati Uniti

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bar a Phoenix, in Arizona”, racconta una voce da un angolo, nella parte più buia della stanza, dove non arrivano i raggi di luna o la luce dei lampioni per strada. “Non è colpa mia se ci trattano come bestie, per forza uno s’incazza, non possiamo sempre sop-portare tutto. Ho spaccato la faccia a uno con una bottiglia. È arrivata una pattuglia e i poliziotti mi hanno arrestato. Ho passato un po’ di tempo in carcere e poi mi hanno dato un calcio in culo e mi hanno spedito qui. Non sapevo neanche dov’eravamo quand’ho passato questa merda di frontie-ra. Ero negli Stati Uniti da quasi cinque an-ni. Ora non sono più pulito e tornare laggiù sarà un casino”.

Dall’altra parte della stanza un iammi-fero accende una sigaretta che accompa-gna un’altra voce. “Mi hanno beccato a gui-dare senza documenti. Ho passato tre mesi in carcere e oggi mi hanno spedito qui. So-no di Guerrero ma da quasi vent’anni vivo a Denver, in Colorado. Non so proprio cosa farò a Guerrero. La mia famiglia in Messico non mi conosce più. Tutto quello che ho è

negli Stati Uniti”. L’altra ombra sdraiata in questa stanza è un ragazzo che avrà poco più di diciotto anni e non ha molto da rac-contare. Lui non è neanche riuscito a entra-re negli Stati Uniti. La migra (come i messi-cani chiamano la polizia di frontiera statu-nitense) l’ha acciufato nel iume Colorado mentre cercava di varcare il conine vicino a Mexicali. È entrato negli Stati Uniti per inire dritto in carcere per tre mesi. Dopo aver scontato la sua pena è stato espulso. Domani se ne andrà ad Altar, Sonora, per attraversare il deserto, perché di sicuro a Oaxaca non rimetterà piede. Ci sono gruppi che preferiscono rimanere in corridoio o nella piccola biblioteca, dove quelli che so-no arrivati prima hanno lasciato romanzi e libri di poesia. C’è un uomo sulla cinquanti-na, non molto alto, con l’espressione dura, i capelli rasati da militare, che legge con at-tenzione una rivista. Si muove con un paio di giovani sempre minacciosi e silenziosi. È diicile vederlo da solo e non mangia in ho-tel, preferisce comprare qualcosa fuori.

L’hanno fermato negli Stati Uniti ed è rimasto cinque anni in prigione per traico di droga. Era un agente speciale della poli-zia federale messicana. Non ha voglia di parlare, vuole solo chiarire che sono molti i colleghi federali che fanno questo tipo di afari tra il Messico e gli Stati Uniti. Non

cerca giustiicazioni, ha l’atteggiamento di una persona pragmatica: “Adesso qui sono uno qualsiasi, ma dentro la polizia molti hanno fatto e fanno ancora quello che ho fatto io. Ho solo avuto la sfortuna di avere bisogno di sempre più soldi, ho esagerato e mi hanno preso. Ma molti altri continuano a farla franca, perché la frontiera è un busi-ness, tutto quello che è vietato è un busi-ness, il traico di persone, di armi, e se hai la fortuna di essere dentro a un’istituzione che ti permette di sfruttarlo a tuo favore è come aver vinto alla lotteria. Non mi pento di quello che ho fatto, ma se potessi tornare indietro cercherei di fare tutto meglio, con più attenzione”.

Un pessimo cittadinoI migranti che arrivano sono identiicati in un piccolo uicio in cui c’è sempre qualcu-no, giorno e notte. Di solito a occuparsi del registro è Miguel, un rimpatriato che ha de-ciso di restare a vivere qui. È lui a spiegare a chi è appena arrivato le regole dell’hotel: si può rimanere tre giorni, per riposare e cer-care di recuperare le forze e di trovare il modo di tornare nella propria città di origi-ne. Quelli che vogliono rimanere più a lun-go entrano nel programma Ángeles sin fronteras e cominciano a lavorare nell’ho-tel, facendo le pulizie, aiutando gli altri, dando da mangiare ai nuovi e uscendo per strada a chiedere un contributo ai passanti. Inoltre partecipano alle manifestazioni or-ganizzate dal movimento per sensibilizzare la gente sul problema dei rimpatri.

All’arrivo Miguel registra la provenien-za dei migranti, gli permette di fare una chiamata a casa, gli dà una coperta e li man-da a mangiare qualcosa in una mensa che fa le veci di una cucina. Il cuoco è Gerardo, detto El Gordo, il grasso. Più di un anno fa l’hanno espulso da Los Angeles. Dopo trent’anni negli Stati Uniti ha dovuto lascia-re la famiglia. In Messico, dopo tanto tem-po dall’altra parte della frontiera, non cono-sceva più nessuno e non sapeva come arri-vare al suo paese d’origine, nello stato di Jalisco. Allora ha deciso di rimanere a Me-xicali e di mettersi a disposizione dell’al-bergo.

“Ho commesso molti errori. Ho fatto un sacco di stronzate”, dice Gerardo mentre riscalda una pentola di fagioli e delle tortil-las per i nuovi arrivati. “Sono stato in carce-re e ho pagato per quello che ho fatto. Sono stato un pessimo marito e un pessimo citta-dino, ma ho pagato per tutto, e quando sono arrivato qui, dopo tanti anni, senza niente, in una città che neanche conoscevo, ho in-contrato queste persone. Ho incontrato

Da sapere

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Sergio Tamai, che mi ha aiutato a recupera-re forze, volontà, iducia e mi ha dato un posto dove stare. Ho deciso che forse pote-vo essere utile a qualcun altro, per una vol-ta. E sono rimasto a fare il cuoco”.

Sergio Tamai Quintero è l’anima dell’hotel Migrante. La sua è una delle più antiche famiglie di origini giapponesi di Mexicali. Ha un sorriso ironico, uno sguar-do a cui non sfugge niente e un’energia ap-parentemente inesauribile. “Ci siamo im-barcati in questa pazzia perché abbiamo sentito il bisogno di fare qualcosa per un problema che ormai era diventato serio”, racconta Tamai passeggiando nella pe-nombra dei corridoi dell’hotel. “Non pote-vamo più tollerare il trattamento riservato ai migranti che arrivano a Mexicali. Tutti i giorni arrivano messicani che sono deruba-ti o subiscono estorsioni: arrivano senza niente e sono vittime di abusi di ogni gene-re. La persone del posto non volevano ve-derli in giro per la città a cercare di racimo-lare un po’ di soldi per andarsene. Gli ostel-li religiosi hanno delle regole assurde, per esempio non accettano migranti che arri-vano di notte o nei ine settimana. Allora c’era gente costretta a rimanere per strada. Il nostro è nato come un movimento di cit-tadini per dare una risposta comunitaria a

fondere facilmente con un membro della comunità cinese di Mexicali, molto grande e spesso discriminata. Ma Tamai non dà grande peso al razzismo: “Credo che sia una condizione umana, un prodotto della paura e dell’ignoranza, e chiaramente ti fa male, ma si può superare. Da bambini ci di-cevano ‘cinesi mangiacacca’, e nella mia famiglia la reazione era sempre di indigna-zione e di orgoglio, poi si è trasformata in spirito di solidarietà verso gli altri discrimi-nati”.

Vocazione per gli afariTamai è stato a lungo missionario mormo-ne, poi ha lavorato al ministero della sanità, dove ha potuto farsi un’idea della corruzio-ne all’interno delle istituzioni messicane. Ha anche fatto parte del Pentathlón depor-tivo militarizado universitario, un’organiz-zazione giovanile nazionalista fondata dal politico di Mexicali Jorge Jiménez Cantú negli anni trenta. Tamai mi parla della sua vocazione per gli afari: “Sono sempre gui-dato da uno dei princìpi del Libro di Mor-

mon: produrre ricchezza per aiutare il pros-simo. Gli afari e il successo personale non sono in contraddizione con l’impegno nei confronti della tua comunità. Anzi, è un’op-portunità per crescere insieme, come il

ingiustizie che dovrebbero risolvere le isti-tuzioni. Con i nostri soldi abbiamo aittato questo vecchio albergo, il Centenario, che era abbandonato, e insieme ai primi rimpa-triati abbiamo cominciato a pulirlo e a ri-metterlo in sesto per renderlo utilizzabile. Mancano ancora molte cose, ma bisogna considerare che stiamo facendo tutto da soli”.

Questo è un tratto che ha sempre carat-terizzato Sergio Tamai, in dalla sua giovi-nezza, tra gli insegnamenti di judo del pa-dre e l’educazione religiosa della madre guidata dai princìpi mormoni. “Ho avuto la fortuna di avere dei buoni genitori. La mia famiglia è stata un esempio importante, ha forgiato il mio carattere e il mio senso mo-rale. Fin da piccoli mio padre, iglio di un giapponese approdato a Mexicali nel 1900 e deportato in un campo di concentramen-to a Città del Messico durante la seconda guerra mondiale, ci ha insegnato a combat-tere contro i problemi, a difenderci dalle discriminazioni e dal razzismo con le arti marziali, il judo e il pugilato, e a difendere i più deboli. Siamo sempre stati una famiglia molto unita e molto legata alla nostra co-munità, a cominciare dal quartiere povero in cui siamo cresciuti, quello di Bellavista”.

I tratti orientali di Sergio lo fanno con-

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Un gruppo di messicani arriva all’hotel Migrante

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principio del jita kyoei del judo: il benessere per tutti con l’aiuto reciproco. Tutti abbia-mo un enorme potenziale, e la discrimina-zione porta a uno spreco di questo poten-ziale, che invece potrebbe servire ad arric-chire gli altri e a risolvere i conlitti”.

È grazie alla sua formazione nella chiesa mormone che Sergio è entrato in contatto con i princìpi morali che riconosce ancora come sua guida. “Non pretendo che la gen-te creda alle stesse cose in cui credo io. Quello che ho sempre fatto, i movimenti sociali a cui ho sempre partecipato, dalla lotta contro la privatizzazione del tratto di strada La Rumorosa a quella contro le tarif-fe dell’elettricità ino all’hotel Migrante, sono contesti in cui tutti trovano un loro spazio e una loro motivazione, qualunque essa sia: il marxismo, la socialdemocrazia, il cattolicesimo. La mia è la parola di Dio e del Libro di Mormon, ma quello che importa davvero è che ci sia un senso di giustizia, di ciò che è positivo e negativo, del bene e del male. Nel nostro movimento c’è di tutto: atei, cristiani, cattolici, ma ci concentriamo sul servizio che vogliamo ofrire alla nostra comunità”.

Sergio dice che molti lo considerano un pazzo che disturba e manifesta di continuo, o un ricco che non sa come spendere i suoi

soldi. “Vivo della mia piccola tipograia, un’attività imprenditoriale che mi dà da mangiare. E non sono pazzo, anzi, capisco e credo fermamente nell’importanza di or-ganizzarci come cittadini e di afrontare le autorità come popolo organizzato, come massa critica, come forza d’urto che, come nel caso degli espulsi, può obbligare i politi-ci messicani e le istituzioni statunitensi ad ascoltare le nostre richieste”.

Sergio è un iume in piena di idee e di parole. A 59 anni prende forza dall’energia che lo circonda. Dal gennaio del 2010, quando è cominciata l’avventura dell’hotel Migrante, da qui sono passati più di quaran-tamila migranti, e Sergio pensa che arrive-ranno a centomila prima della ine del 2012, a causa dell’aumento delle deportazioni dagli Stati Uniti.

La notte è fredda e gli ospiti continuano a registrarsi, in attesa della cena. Sono arri-vati altri gruppi da diversi punti degli Stati Uniti. Sono stati guidati da Hugo ino all’ho-tel. Sergio Tamai continua a parlare: “Il go-verno messicano non fa quasi niente per i rimpatriati, ed è proprio quello che noi co-me organizzazione stiamo chiedendo alle istituzioni del paese: vogliamo che diano sostegno ai migranti, anche considerando che ogni anno i messicani che vivono negli

Stati Uniti spediscono in patria più di venti miliardi di dollari. In molti casi a spedire i soldi sono gli stessi che poi sono fermati dalla polizia ed espulsi. Quindi sarebbe giu-sto che il governo si prendesse cura di loro nel momento del bisogno”.

Uscire per strada a chiedere un contri-buto per l’hotel è una delle principali attivi-tà che svolgono ogni giorno i migranti che decidono di rimanere a Mexicali. Fin dalle prime ore del giorno, la zona della frontiera si riempie di migranti con la loro canottiera verde di Ángeles sin Fronteras. Chiedono soldi in barattoli di metallo agli automobili-sti che vanno verso gli Stati Uniti. La metà dei soldi che raccolgono rimane a loro, l’al-tra metà è per le spese dell’hotel.

“Anch’io ho cominciato chiedendo con-tributi per strada, e ogni tanto durante il giorno indosso una canottiera verde ed esco, continuo a farlo”, dice Miguel, che prende un cafè nel suo piccolo uicio, tra un gruppo di migranti e l’altro. Sono le tre e mezza di notte e il tempo sembra essersi fermato. “Quando sono arrivato, quasi un anno fa, mi sentivo tradito. Volevo racco-gliere il prima possibile i soldi necessari per tornare subito dall’altra parte. Mi hanno beccato per un controllo che hanno fatto a casa dei miei vicini, che litigavano sempre.

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Un rimpatriato messicano di fronte all’hotel

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Messico

Io non c’entravo nulla, ma hanno visto la faccia da latino e già che c’erano mi hanno chiesto i documenti. Non li avevo. Dopo diciotto anni negli Stati Uniti con una mo-glie, due iglie bellissime, un bel lavoro, non avevo regolarizzato la mia situazione”.

Dimenticare tuttoIl fumo del cafè svanisce e la bevanda co-mincia a rafreddarsi. Miguel quasi non se ne rende conto e prosegue con la sua storia. “Devi capire che qui non arrivano solo i po-veri. In realtà la maggior parte di quelli che sono all’hotel Migrante sarebbero conside-rati di classe medio-alta in Messico. Io per esempio vendevo macchine in California e poi in Nevada. Le cose mi andavano bene. Negli ultimi tempi guadagnavo anche quat-tromila dollari a settimana. E spendevo tutto. Mi sono comprato una casa, delle macchine, ho fatto regali a mia moglie, le mie iglie avevano tutto, non ho mai pensa-to che potesse succedermi una cosa del

genere. Ho cominciato lavorando in una concessionaria, con il tempo mi sono gua-dagnato la iducia del capo, che apprezzava la mia capacità di convincere le persone. Negli ultimi anni mi ero messo in proprio. E poi mi è crollato tutto addosso. Quando sono arrivato qui”, continua Miguel, “ho cominciato a cercare il modo di tornare laggiù. Mi hanno ribeccato o semplicemen-te non ce l’ho fatta più. E quando mi sono reso conto che non ci sarei riuscito, quando ho perso la speranza, mia moglie mi ha det-to che di me non voleva più saperne, che aveva un altro, che era meglio che rimanes-si dov’ero. Così ho fatto, ed eccomi qui. Ora cerco di convincere i miei compagni, quelli che arrivano qui ogni giorno e ogni notte, che attraversare la frontiera è troppo ri-schioso, anche se quando sono decisi a far-lo niente e nessuno li può fermare. Ma noi ci dobbiamo provare, perché sta diventan-do sempre più diicile e pericoloso entrare negli Stati Uniti, e forse non ne vale la pe-na”.

Questo posto è diverso dalle case di mi-granti dove arrivano i cittadini centroame-ricani che cercano di arrivare negli Stati Uniti. Quelli sono luoghi di riposo e di spe-ranza per chi cerca di attraversare la fron-tiera per la prima volta. Anche se sono afa-

disposto a raccontare la sua storia: “Mi hanno beccato a Phoenix, in Arizona, per possesso di droga”, dice senza smettere di guardare la strada, toccandosi continua-mente la parte posteriore dell’orecchio si-nistro, dove si è appena fatto un tatuaggio con un nome di donna. “Mi hanno portato in galera, ma mi è andata bene perché in realtà la droga io la vendevo solo il ine set-timana, gli altri giorni lavoravo come giar-diniere nelle case dei ricchi. E poi per arro-tondare vendevo marijuana. Ma non mi importa di essere stato espulso. Ho un ami-co che è di un paesino vicino al mio, di Jali-sco, che lavora con gente della maia dello stato di Sonora. Il piano è semplice: raccol-go un po’ di grana per arrivare ad Altar, So-nora, e lui mi mette in contatto con quei delinquenti. Mi porto dietro uno zainetto ino a Phoenix senza pagare il biglietto al coyote. E mi danno anche qualcosina, mille e ottocento dollari”.

Nello zaino di cui parla Iván ci stanno venticinque chili di erba che grazie a lui ar-riveranno in Arizona. “Certo, se ti porti uno zaino di coca ino a Chicago ti pagano an-che settemila dollari, ma io non rischio tan-to. Questa cosa l’ho già fatta un paio di vol-te quando sono andato a trovare la mia fa-miglia a Jalisco. Poi se hai il permesso dei maiosi attraversare la frontiera è molto più facile e sicuro”.

Mentre si avvicina l’alba l’hotel sembra più tranquillo, silenzioso. Ma nell’uicio c’è una lampada accesa. Sergio Tamai sta preparando la prossima manifestazione per chiedere al governo degli Stati Uniti e a quello messicano di cominciare a dare ri-sposte concrete al problema dei rimpatri. “Abbiamo fatto una marcia da Tijuana a Mexicali qualche mese fa, ci abbiamo mes-so diversi giorni, è stato un evento incredi-bile. Siamo anche andati a protestare alla frontiera. Il problema è che manca la vo-lontà politica di risolvere la situazione. Il nostro ruolo è quello di continuare a lotta-re, per dimostrare con i fatti che bastano anche pochi soldi per ofrire assistenza ai messicani espulsi. In in dei conti questo movimento è un grido d’aiuto, un grido nel deserto che chiede giustizia. Alla frontiera rimangono migliaia di messicani che non riescono a tornare nei loro luoghi di origine perché non hanno più radici. Vogliono tor-nare negli Stati Uniti ma rimangono nelle città messicane e creano molti problemi: alcolismo, tossicodipendenza, vandali-smo. Un circolo vizioso che vogliamo cambiare con la proposta di riforma della legge sull’immigrazione che abbiamo ela-borato”. u fr

mati e stanchi, anche se i gruppi criminali li sequestrano o se subiscono estorsioni da funzionari dell’istituto nazionale di migra-zione, dalla polizia federale, o dai poliziotti locali, quei migranti hanno una forza e una determinazione negli occhi che dimostra che, nonostante tutto, non si arrenderan-no, lotteranno ino all’ultimo per riuscire ad andare a lavorare negli Stati Uniti e per migliorare le condizioni di vita della loro famiglia.

Qui è diverso. Molti dei rimpatriati han-no già sperimentato il benessere degli Stati Uniti. Hanno già guadagnato dei soldi, li hanno mandati in Messico, avevano una bella macchina e una casa dignitosa. E de-vono ricominciare da capo.

“È facile dimenticarsi di chi si era pri-ma, da dove si veniva”, dice nell’oscurità la voce di un signore di una certa età, con l’ac-cento del nord. Parla lentamente e non c’è tristezza nella sua voce, piuttosto ironia. “È facile abituarsi a un certo tipo di benessere,

di servizi, di comodità. All’inizio non ti di-mentichi di casa tua. Cerchi di mantenere un rapporto costante con il tuo luogo di ori-gine. Se puoi, cerchi di tornare e poi di rien-trare negli Stati Uniti, ma con il tempo le visite diminuiscono, perché diventa più diicile o più costoso attraversare la fron-tiera. E poi ti rimane solo un ricordo ro-mantico della tua terra e il desiderio di tor-narci un giorno. Passano gli anni, e anche se sei riuscito a renderti invisibile per la mi-gra o la polizia, corri sempre il rischio di perdere tutto se non paghi una multa o gui-di senza la cintura di sicurezza. È così che funziona per noi”.

La valigetta di IvánSotto, all’ingresso dell’hotel, c’è movimen-to, si sentono delle grida. È vietato uscire di notte: è il momento più pericoloso . I clien-ti del 13 Negro non sempre tollerano il lus-so di migranti che arrivano in hotel e a volte scoppia una rissa. Ma le spogliarelliste e le prostitute hanno dimostrato di avere una certa sensibilità nei confronti dei migranti, e in diverse occasioni hanno fatto una col-letta per comprare pacchi di riso, fagioli o patate per le minestre di Gerardo.

Alla porta d’ingresso Iván sorride più di quanto non facesse un paio d’ore fa ed è più

La maggior parte di quelli che sono all’hotel Migrante sarebbero considerati di classe medio-alta in Messico

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Scienza

“Ma che aveva in testa?”. È una domanda co-mune tra i genitori, che spesso non

capiscono il comportamento dei loro igli adolescenti. Com’è possibile che un ragaz-zo ragionevole, perfettamente consapevo-le della necessità di non guidare in stato di ebbrezza, provochi un incidente da ubria-

co? Perché una ragazza che sa tutto sul controllo delle nascite si ritrova ad aspetta-re un bambino da un ragazzo che non le piace neanche? Che ne è stato di quel bam-bino fantasioso e brillante, che a scuola era bravo, ma poi ha abbandonato l’università, ha fatto una lunga serie di lavoretti precari e si è ridotto a vivere nel seminterrato dei genitori?

L’adolescenza è sempre stata un perio-do diicile ma per ragioni misteriose oggi

la pubertà comincia molto prima. Una del-le teorie più accreditate spiega questo fe-nomeno con i cambiamenti del bilancio energetico umano: i bambini di oggi man-giano di più e si muovono meno rispetto al passato.

Allo stesso tempo, prima con la rivolu-zione industriale e poi con quella informa-tica, i ragazzi hanno cominciato ad assu-mere ruoli adulti sempre più tardi. Già cinquecento anni fa William Shakespeare

La mente imperfetta degli adolescenti

Alison Gopnik, The Wall Street Journal, Stati Uniti. Foto di Claudine Doury

I bambini raggiungono la pubertà in anticipo ma diventano adulti più tardi. Alcuni studi cercano di spiegare cosa succede nel cervello umano in questa fase di passaggio

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La colonia estiva di Artek, in Ucraina

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sapeva che la combinazione, emotivamen­te esplosiva, tra la sessualità adolescenzia­le e i comportamenti a rischio condizionati dai coetanei può risultare fatale, come in Romeo e Giulietta. D’altro canto, se non fos­se morta, la tredicenne Giulietta sarebbe diventata moglie e madre nel giro di un an­no o due. Le Giuliette di oggi (per la dispe­razione di tutti quei genitori che desidera­no un nipotino) possono vivere i turbamen­ti dell’amore per almeno vent’anni prima di decidersi a diventare madri. E spesso i moderni Romei rimangono dei poeti con la testa tra le nuvole ino a dopo l’università.

Due sistemiCosa succede quando i bambini raggiun­gono la pubertà in anticipo ma diventano adulti in ritardo? La risposta è: un bel po’ di stranezze adolescenziali. Fortunatamente gli psicologi dello sviluppo e i neuroscien­ziati stanno cominciando a trovare delle spiegazioni.

Secondo una nuova tesi, esistono due diversi sistemi neurali e psicologici che in­teragiscono per trasformare i bambini in adulti. Negli ultimi due secoli – e ancora di più nel corso dell’ultima generazione – la sincronia evolutiva dei due sistemi si è mo­diicata. Questo ha profondamente cam­biato l’adolescenza, generando nuovi tipi di turbe adolescenziali. Il grande interro­gativo è cosa si possa fare per rimettere in sincronia questi ingranaggi della mente giovanile.

Il primo di questi sistemi ha a che fare con le emozioni e la motivazione. È stretta­mente connesso ai cambiamenti biologici e chimici della pubertà, e interessa le aree del cervello che rispondono alle gratiica­zioni. Questo sistema trasforma dei pacii­ci ragazzini di dieci anni in adolescenti ir­requieti, esuberanti ed emotivi, decisi a raggiungere ogni obiettivo, a realizzare ogni loro desiderio e a provare ogni nuova sensazione. Con il passare del tempo li tra­sforma di nuovo in adulti relativamente tranquilli.

Gli studi condotti da B.J. Casey, una neuroscienziata della Cornell university di Ithaca, nello stato di New York, hanno di­mostrato che gli adolescenti sono sperico­lati non perché sottovalutano i rischi, ma perché sopravvalutano le gratificazioni (cioè gli attribuiscono un valore più alto rispetto a quanto facciano gli adulti). Nel cervello di un adolescente l’area collegata alla gratiicazione è molto più attiva rispet­to a quella dei bambini e degli adulti. Basta pensare all’incomparabile intensità del primo amore o alla gioia irripetibile di vin­

cere il campionato di basket al liceo.I giovani desiderano innanzitutto le

gratiicazioni sociali, e in particolare il ri­spetto dei coetanei. Laurence Steinberg, uno psicologo dell’età evolutiva della Tem­ple university di Filadelia, in Pennsylva­nia, ha monitorato con la risonanza ma­gnetica il cervello di alcuni adolescenti che stavano afrontando una simulazione di guida spericolata. Le aree del loro cervello collegate alla gratiicazione si illuminava­no molto di più se i ragazzi pensavano che un loro coetaneo li stesse osservando, e lo­ro erano pronti ad assumersi più rischi.

Una lunga infanziaIn una prospettiva evolutiva questa spiega­zione ha perfettamente senso. Una delle caratteristiche che distinguono gli esseri umani dagli animali è un’infanzia straor­dinariamente lunga e protetta. I cuccioli d’uomo dipendono dagli adulti molto più a lungo di qualunque altro primate. Questo periodo di protezione prolungato ci per­mette di imparare molto di più rispetto agli animali. Ma alla ine anche noi siamo co­stretti a lasciare il bozzolo della vita fami­liare, prendere quello che abbiamo impa­rato da bambini e applicarlo al mondo adulto.

Diventare grandi significa lasciare il mondo dei nostri genitori e cominciare a farsi largo verso il futuro che vivremo con persone che hanno la nostra età. La puber­tà non solo instilla nuova forza nel sistema motivazionale ed emozionale, ma ci allon­tana anche dalla famiglia e ci spinge verso il mondo dei nostri coetanei.

Il secondo sistema cruciale del nostro cervello ha a che fare con il controllo, per­

ché incanala e imbriglia tutta quest’ener­gia. In particolare la corteccia prefrontale arriva a coordinare le altre aree del cervel­lo, comprese le regioni che governano la motivazione e l’emozione. È il sistema che inibisce gli impulsi e guida il processo deci­sionale, che incoraggia la progettazione a lungo termine e rimanda la gratiicazione. Questo sistema di controllo è legato all’ap­prendimento. Diventa più eicace nel cor­so dell’infanzia e continua a svilupparsi durante l’adolescenza e l’età adulta, di pari passo con le nostre esperienze. Facendo scelte imperfette e poi correggendoci, im­pariamo a prendere decisioni migliori. Continuando a fare piani, mettendoli in atto e rivedendo più volte i risultati, diven­tiamo dei bravi organizzatori. La compe­tenza viene con l’esperienza.

In un passato lontano questi sistemi di motivazione e controllo erano in larga mi­sura sincronizzati. Nelle società di caccia­tori, raccoglitori e agricoltori, l’educazione dei bambini implicava un apprendistato formale e informale. I bambini avevano più spesso l’opportunità di praticare le abi­lità necessarie per la vita adulta. La psico­loga culturale Barbara Rogof ha studiato questo tipo di educazione informale in una popolazione indigena del Guatemala, dove ha scoperto che, grazie all’apprendistato, anche i bambini più piccoli riuscivano a di­ventare dei veri esperti in mansioni diici­li e pericolose come usare il machete.

In passato per diventare un buon racco­glitore e cacciatore, per imparare a cucina­re o ad accudire i bambini ci si esercitava a fare queste cose durante l’infanzia e nella prima adolescenza. In questo modo nell’area della corteccia prefrontale si crea­vano le connessioni necessarie per svolge­re gli stessi lavori da adulti. Tutto questo avveniva sotto la supervisione di esperti e nel mondo protetto dell’infanzia, dove l’impatto degli insuccessi era attutito. Quando arrivava la spinta motivazionale della pubertà, i giovani erano pronti a cer­care le vere gratiicazioni nel mondo ester­no con nuova intensità ed esuberanza, ma avevano anche l’abilità e il controllo neces­sari per agire con eicacia e ragionevole sicurezza.

Nella vita moderna il rapporto tra que­sti due sistemi è profondamente cambiato. La pubertà arriva prima e anche il sistema motivazionale si mette in moto in anticipo. Allo stesso tempo i bambini di oggi hanno pochissima esperienza con i compiti che dovranno svolgere da grandi. I ragazzi han­no sempre meno opportunità di praticare attività come cucinare o accudire i piccoli.

Nelle società di cacciatori, raccoglitori e agricoltori, i bambini avevano più spesso l’opportunità di praticare le abilità della vita adulta

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Scienza

Gli adolescenti e i preadolescenti di oggi spesso non fanno quasi nulla a parte anda-re a scuola. Perino i lavoretti come conse-gnare i giornali o fare la baby-sitter sono praticamente scomparsi.

L’esperienza di raggiungere un obietti-vo reale in tempo reale e nel mondo reale si sposta sempre più avanti negli anni. Ma lo sviluppo del sistema di controllo dipende proprio da queste esperienze. Il risultato? Ronald Dahl, pediatra e psicologo dell’età evolutiva all’università della California a Berkeley, lo spiega con una metafora: gli adolescenti sviluppano un acceleratore molto tempo prima di imparare a girare il volante e frenare.

Questo non signiica che gli adolescen-ti siano più stupidi di un tempo. Per molti versi sono più in gamba. Con l’allungarsi del periodo di immaturità e dipendenza, i giovani possono imparare molto di più di quanto facevano in passato. Alcune ricer-che indicano che il quoziente d’intelligen-za è aumentato sensibilmente da quando un maggior numero di bambini passa più tempo a scuola. Secondo altri studi, il quo-ziente intellettivo più elevato può addirit-tura essere messo in relazione con un ritar-do nello sviluppo del lobo frontale del cer-vello.

Oggi i giovani sanno di più e su argo-menti più vari. Ma per diventare un cuoco davvero esperto non basta conoscere la na-tura del calore o la composizione chimica del sale, cioè le cose che si imparano a scuola. Ci sono diversi modi di essere in-telligenti. Conoscere la isica e la chimica non basta a fare un buon soulé. Un’istru-zione ampia e lessibile come quella che riceviamo al liceo e all’università può en-trare in conlitto con la capacità di svilup-pare una competenza approfondita e mira-ta in un determinato settore, il genere di apprendimento che un tempo contraddi-stingueva le società umane. Per gran parte della storia, i bambini hanno cominciato il loro tirocinio a sette anni, non a ventiset-te.

DisorientatiGli anziani si sono sempre lamentati dei giovani e questa è una vecchia storia. Ma questa nuova spiegazione basata sui tempi dello sviluppo fa chiarezza sui paradossi dell’adolescenza di oggi.

Molti giovani sono straordinariamente intelligenti e istruiti, ma sono anche diso-rientati. Sono entusiasti ed esuberanti, ma incapaci di impegnarsi nel lavoro o in un rapporto afettivo prima dei trent’anni. C’è anche il caso, più grave, dei ragazzini che si

torneremo a una società agricola e smette-remo di dar da mangiare ai nostri igli o di mandarli a scuola, la stessa lessibilità del cervello durante la fase dello sviluppo può suggerirci delle soluzioni.

Il pezzo mancanteLe ricerche sul cervello spesso sono inter-pretate come una dimostrazione del fatto che gli adolescenti in realtà sono soltanto adulti imperfetti, cresciuti con una parte mancante. I dibattiti politici sugli adole-scenti si concentrano su quando, esatta-mente, si sviluppano certe aree del cervello e quindi sull’età giusta per dare ai ragazzi il permesso di guidare, sposarsi o votare, cioè per essere considerati pienamente re-sponsabili di eventuali reati. Ma secondo questa nuova visione del cervello, il pro-blema degli adolescenti non è legato al fat-to che i loro lobi prefrontali non sono abba-stanza attivi, ma che i ragazzi non sono correttamente addestrati e non fanno pra-tica.

Aumentare di un anno o due l’età in cui si può guidare, per esempio, non fa dimi-nuire il tasso di incidenti. Quello che fa la differenza è un sistema in cui gli adole-scenti acquisiscono gradualmente più ca-pacità e allo stesso tempo maggiore liber-tà: un apprendistato della guida.

Invece di limitarci a ofrire ai ragazzi nuove esperienze scolastiche dovremmo concentrarci sulle opportunità di appren-distato. Per esempio, l’AmeriCorps, il pro-gramma statunitense di volontariato gio-vanile, propone delle esperienze di vita reale con allo stesso tempo la garanzia del-la protezione e della supervisione degli adulti.

Portare il iglio al lavoro dovrebbe di-ventare un’abitudine per i genitori, invece di un’iniziativa limitata a un giorno all’an-no. Gli studenti universitari dovrebbero passare più tempo a osservare e aiutare scienziati e studiosi nel lavoro di ricerca invece di limitarsi ad ascoltare le lezioni. Le attività estive come i campi scuola e i viaggi studio potrebbero essere alternate a lavori estivi con responsabilità concrete.

La buona notizia è che non dobbiamo rassegnarci ad accettare i modelli di svi-luppo del cervello degli adolescenti. Pos-siamo inluenzarli e cambiarli. u gc

trovano a fare i conti con gli impulsi ses-suali, la smania di potere e la volontà di ottenere il rispetto altrui, senza però avere la capacità di controllarli, evitando di an-dare incontro alle gravidanze indesiderate o di ricorrere alla violenza.

Questa nuova spiegazione illustra an-che due fatti importantissimi e spesso tra-scurati che riguardano la mente e il cervel-lo. In primo luogo, l’esperienza modella il cervello. Non è detto che se un’abilità è lo-calizzata in una determinata regione del cervello, questo debba significare che è “innata” e immutabile. Il cervello è così potente proprio perché è sensibile all’espe-rienza. L’esperienza che otteniamo con-trollando i nostri impulsi fa sviluppare la nostra corteccia cerebrale. Con l’evolvere della regione prefrontale del cervello, di-ventiamo più bravi a controllare gli impul-si. La nostra vita sociale e culturale incide sulla nostra biologia.

In secondo luogo, lo sviluppo ha un ruo-lo cruciale nello spiegare la natura umana. Secondo il vecchio schema della psicologia evolutiva, i geni erano direttamente re-sponsabili di un determinato modello di comportamento adulto, un “modulo”. Ma l’evidenza dimostra che i geni sono soltan-to il primo passo nelle complesse sequenze dello sviluppo, nella cascata di interazioni tra organismo e ambiente, e che questi pro-cessi modellano il cervello adulto. Anche dei piccoli cambiamenti nei tempi dello sviluppo possono portare a grandi trasfor-mazioni nella persona.

Se teniamo conto di queste caratteristi-che del cervello, scopriamo che interagire con gli adolescenti di oggi non è un’impre-sa così disperata. Anche se diicilmente

Secondo lo psicologo Ronald Dahl, i ragazzi sviluppano un acceleratore molto tempo prima di imparare a girare il volante e frenare

L’AUTRICE

Alison Gopnik insegna psicologia all’università della California a Berkeley. In Italia ha pubblicato Tuo iglio è un genio

(Dalai Editore 2003) e Il bambino ilosofo

(Bollati Boringhieri 2010).

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Che fai il 5-6-7 ottobre?Internazionalea Ferrara.

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Sierra Leone

In Africa non ho mai conosciuto nessuno disperato come Jusu Jar-ka. L’ho incontrato nel 1999, poco prima di Pasqua, quando ho visi-tato la Sierra Leone per raccontare le conseguenze devastanti della

guerra civile. Decine di migliaia di sfollati erano bloccati nello stadio di Freetown, la capitale, mentre un paio di centinaia di feri-ti gravi si erano rifugiati nel Connaught ho-spital, l’ospedale del centro città abbando-nato a se stesso. Jarka se ne stava seduto con lo sguardo smarrito su una panchina di pie-tra del cortile interno, e mi ha mostrato le cicatrici dei suoi moncherini. Tre mesi pri-ma i ribelli gli avevano mozzato entrambi gli avambracci. Come si saluta un uomo che non ha più le mani? Io gli ho siorato la spal-la con imbarazzo e mi sono seduto accanto a lui.

Pur avendo superato miracolosamente diverse operazioni d’urgenza, Jarka aveva perso la voglia di vivere. Era stanco, confu-so, roso dal rancore. Aveva la testa rasata e il terrore si era impresso nei lineamenti del suo viso. Mi guardava con occhi spenti e farfugliava frasi sconnesse. “Un poppante indifeso sta meglio di me. Se mi prude la testa devo sfregarla come un animale con-tro la struttura del letto”. Jarka possedeva solo quel che aveva addosso: una canottiera a rete turchese, pantaloncini corti imbratta-ti di sangue e un paio di ciabatte di gomma. Un uomo di 45 anni gravemente traumatiz-

zato, senza mani, senza speranza. “Come farò a lavorare? Come darò da mangiare al-la mia famiglia? Chi mi vorrà?”.

Jusu Jarka era rimasto vittima di una del-le guerre civili più brutali della storia post-coloniale dell’Africa. Il conlitto tra le forze governative e i ribelli del Fronte unito rivo-luzionario (Ruf ) è durato dal 1991 al 2002. Le truppe di pace delle Nazioni Unite se ne stavano inermi tra i due eserciti e solo l’energico intervento militare dell’ex poten-za coloniale britannica ha posto ine alla carneicina. La conta dei morti è compresa tra le cinquantamila e le duecentomila per-sone, ma il numero preciso è ancora oggi

sconosciuto. Ad almeno cinquemila perso-ne sono state mozzate le mani, le braccia o le gambe. Il Connaught hospital era gremi-to, nelle camerate aleggiava l’odore dolcia-stro della putrefazione. Dappertutto la stes-sa visione: uomini, donne, bambini mutila-ti. Mancavano letti, farmaci, bende, medici e infermieri. I pazienti aspettavano invano l’arrivo di una protesi.

“I neri non sono buoni con gli altri neri”, diceva Jusu Jarka. In quei giorni l’uomo mi ha raccontato una di quelle storie di dolore che noi corrispondenti dall’Africa ascoltia-mo di continuo. Le mettiamo per iscritto provocando una reazione sbigottita tra i let-tori, ma le vittime vengono a sapere del no-stro articolo solo raramente: in genere non le vediamo più e la loro sorte viene presto dimenticata, mentre noi già ci occupiamo della guerra, della carestia, della catastrofe successiva. Alla ine chi ha soferto non è altro che una comparsa rimpiazzabile sul palcoscenico dell’informazione.

Eppure talvolta quelle visioni continua-no a perseguitarci, e se ai lettori succede la stessa cosa le comparse hanno avuto fortu-

Le manidi JarkaBartholomäus Grill, Die Zeit, Germania Foto di Pascal Maitre

Dieci anni fa è inita una delle guerre civili più violente della storia dell’Africa postcoloniale, in cui sono morte almeno cinquantamila persone.Il racconto di uno dei sopravvissuti

Mozambico

Swaziland

Zambia

Sierra Leone

Lesotho

Zimbabwe

Afghanistan

Repubblica Centrafricana

Liberia

Ruanda

39,2

39,6

42,4

42,6

42,6

43,5

43,8

44,7

45,7

46,2

I dieci paesi con la più bassa speranza di vita alla nascita, 2005-2010

Anni

Fonte: United Nations world population prospects: 2006 revisions

Da sapere

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na e si afrancano dall’anonimato. Così è andata a Jusu Jarka.

La sua storia, comparsa su Geo nel feb-braio del 2000, ha raggiunto la parrocchia di St. Matthäus, nella città di Minden, in Westfalia, e i fedeli hanno raccolto 1.400 marchi e li hanno spediti a Freetown. La somma, equivalente a un milione e mezzo di leone (la moneta locale), è stata per Jarka il capitale di partenza per farsi una nuova vita. L’uomo ha usato una parte di quei soldi per fondare la Amputees and war wounded association of Sierra Leone, l’associazione nazionale degli invalidi di guerra, e si è bat-tuto per fare ottenere un risarcimento a tut-ti quelli che erano stati colpiti dal suo stesso destino, ottenendo il sostegno di varie or-ganizzazioni umanitarie.

Jarka ha anche fatto arrivare alcune pro-tesi dall’estero e nel 2000, grazie all’inter-vento di una fondazione statunitense, an-che a lui sono state applicate due braccia artiiciali al Long Island hospital di New York. A quel punto si sentiva di nuovo un uomo normale, guadagnava soldi e aveva una missione che lo spingeva ad andare

avanti. Nel 2001 è diventato presidente dell’associazione dei mutilati di guerra e quello stesso anno è nato il suo ultimo iglio. In segno di riconoscenza per l’articolo che gli ha fatto arrivare aiuti dalla Germania, Jarka ha chiamato il bambino Bartho-lomäus, come me. Oggi Bartholomäus ha dieci anni ed è un ragazzo magro e di poche parole che sulle prime mi squadra con dii-denza. Sono tornato in Sierra Leone nove anni dopo la ine uiciale della guerra. Jar-ka mi corre incontro, e io non so neanche questa volta come salutarlo. Lui mi porge la protesi destra. Acciaio gelido. Due pinze avvitate a due coni di legno su cui corrono sottili ili metallici che li collegano al ben-daggio. Protesi per arti superiori con co-mando a trazione: così gli ortopedici deini-scono questi apparecchi azionati dalla forza muscolare. Quando Jarka li solleva di colpo per raforzare le sue parole con un gesto, sembra una marionetta mossa da una mano invisibile.

“Welcome. Finalmente si fa vedere da queste parti”, mi dice con un vago tono di rimprovero. “Stanotte ho sognato che le

mie mani erano rispuntate e che la portavo in giro in macchina”. Oggi Jarka ha 57 anni, è energico e in salute e i muscoli delle sue braccia (“Li tocchi un po!”) sono duri come pneumatici goni. “Ma resto comunque uno storpio inutile”, dice lui. La famiglia si è riu-nita per accogliermi: insieme a Mariama, la moglie di Jarka, 43 anni, ci sono i sette igli e il nipotino Jussuf. Da nove anni vivono tutti nella Jui Kobba Farm di Kossoh, una comu-nità per vittime di guerra nei pressi di Free-town costruita con fondi norvegesi. Ai Jarka è stato assegnato il lotto numero 3: due ca-sette in mattoni ricoperti d’argilla, una ri-messa sul retro e poi banani, alberi di papa-ya, un paio di capre, galline e anatre con sullo sfondo uno stagno paludoso. Luoghi come questo servono a nascondere i muti-lati agli occhi della nazione: per molti sier-raleonesi è meglio così. “La guerra civile viene rimossa. La nostra vista evoca brutti ricordi”, spiega Jarka conducendoci verso il suo posto preferito nel cortile sul retro della casa, dove se ne sta seduto ogni giorno a leggere e a meditare. Bartholomäus rimette in piedi uno sgabello di legno. “Lui è il mio migliore assistente”, lo elogia il padre.

Famiglia allargataI Jarka sono una normalissima famiglia afri-cana allargata, uno dei milioni di nuclei fa-miliari che condividono una vita di stenti. Una piccola fattoria garantisce la loro sussi-stenza: vendono i frutti della terra sul ciglio della strada, la madre cuce tovaglie con stofe batik, i igli e le iglie adulti guadagna-no qualche soldo in più con lavoretti occa-sionali. “Ma è sempre troppo poco”, si la-menta Jarka che si vergogna della sua po-vertà. Spesso ritorna con il pensiero ai tem-pi in cui era ancora un uomo relativamente ricco.

Lamin Jusu Jarka è nato il 1 giugno 1954 in una famiglia di contadini. Il suo villaggio non poteva ofrirgli alcun futuro, così partì ancora giovanissimo, si arruolò nelle forze armate, fece carriera ino al rango di uicia-

Jusu Jarka

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Sierra Leone

le e restò in servizio esattamente per tredici anni e novanta giorni. In seguito trovò un posto isso come guardia giurata presso la Barclays Bank di Freetown, e dato che face-va scrupolosamente il suo lavoro e parlava bene l’inglese, diventò responsabile della sicurezza. Poi è scoppiata la guerra civile, la banca ha chiuso e la vita tranquilla è inita. Ora Jarka passa il suo tempo seduto sul re-tro della sua casa, di cattivo umore, in attesa che un angelo venga a salvarlo. L’associa-zione dei mutilati di guerra ha interrotto le attività per mancanza di fondi. Il governo ha dimenticato le persone colpite dal con-litto. E le organizzazioni umanitarie che dopo la guerra assistevano le vittime, alla ine le hanno piantate in asso. Il carrozzone della misericordia si è trasferito altrove. Ma Jarka è un combattente: non si darebbe mai per vinto. Detta lettere alla iglia Sia, telefo-na a funzionari statali, consulta gli annunci di lavoro sul giornale e si esercita con le pro-tesi. Con orgoglio ci mostra i suoi progressi. Sfoglia con gli artigli una rivista spiegazza-ta, versa lo zucchero nel tè, usa il rasoio per radersi. “Non è facile, e non riesco a fare tutto. Per esempio quando vado al gabinet-to non riesco a pulirmi bene”. Nel pronun-ciare queste parole, Jarka si rabbuia di colpo e le rughe del viso si fanno più profonde.

Ritorno a KissyBartholomäus nel frattempo ha preso con-idenza con me e nei giorni successivi mi sta appiccicato. Vuole venire assolutamente anche a Kissy, nei luoghi dell’orrore dove oggi suo padre tornerà per la prima volta. Kissy, un quartiere di Freetown, sovrasta dall’alto la capitale. Jusu Jarka ha evitato questa zona per dieci anni, la detesta. Il no-stro giro parte da Thompson street, da un albero di mango antico e nodoso. Gli abi-tanti del posto si fermano volentieri all’om-bra del suo fitto fogliame e i ragazzini si dondolano appesi alla lunga radice che esce dal tronco come la zampa di un granchio enorme. Se sapessero cosa è successo qui, scapperebbero subito. Jusu Jarka li manda via. “È questo il posto”, dice.

All’inizio del 1999, quando i ribelli pre-sero d’assalto Freetown, iniziò la fase peg-giore della guerra civile. I combattimenti intorno alla capitale continuarono per due settimane, poi il rombo dei cannoni inì. Jarka ricorda benissimo il silenzio che av-volgeva Kissy il mattino del 20 gennaio 1999. Era solo l’ingannevole quiete prima della tempesta che avrebbe portato in città morte e distruzione. Verso mezzogiorno Jarka udì i primi spari e le grida. I ribelli, tra cui c’erano molti bambini soldato, avevano

stesso incubo. Nel sogno Jarka sente la risa-ta del carneice mentre i suoi avambracci cadono nella polvere con un tonfo e lui vede un altro assassino gettarli in un sacco pieno di mani mozzate. “Erano trofei da presen-tare ai comandanti per salire di grado”.

“Let’s shoot him! Facciamolo fuori!”, rin-ghiava uno dei ribelli, un gracile bambino soldato. Ma il capobanda rispose: “No, tan-to morirà lo stesso, non sprechiamo proiet-tili”. Jarka non sa dire quante persone siano state mutilate sotto quell’albero di mango. Ma il nome del boia non lo dimenticherà mai: Co Cuthands, comandante Tagliama-ni. Com’è possibile che un essere umano faccia una cosa del genere a un suo simile?

Andiamo a trovare Madeleine Samuels, che sta lavando piatti di plastica nella sua veranda decrepita. Subito dopo l’amputa-zione il ferito corse da lei, la vicina più pros-sima, che gli versò iodio sulle ferite e nell’emergenza lo bendò con stracci e pan-nolini. “Mister Jarka issava i suoi monche-rini sanguinanti e non faceva che urlare, strillò per tutta la notte”, ricorda la signora Samuels. “I ribelli erano drogati. Annega-vano i bambini nelle latrine, squarciavano la pancia alle donne incinte, cavavano gli occhi”. Mutilare, non uccidere: una barba-rie calcolata. Alle vittime toglievano brac-cia, occhi e genitali: gli organi della creativi-tà, della percezione e della riproduzione. I più recenti studi sulla violenza hanno rive-lato che in un gruppo di assassini tutte le leggi, i valori e i tabù etici cadono: i respon-sabili piombano in un delirio omicida e pro-vano un senso di potere assoluto e di libertà illimitata. Madeleine Samuels descrive la situazione in termini molto più semplici: “Erano diavoli usciti dall’inferno”. I diavoli hanno ucciso, torturato e stuprato in nome dell’esercito ribelle del Ruf. Fonday San-koh, il loro capo, voleva rovesciare il gover-no corrotto. La sua banda di assassini non aveva un obiettivo politico ma era spinta dalla semplice avidità, dal folle desiderio di possedere e dominare tutto il paese, soprat-tutto i diamanti insanguinati che in cambio di armi consegnavano a Charles Taylor, il capo di stato della vicina Liberia.

Tre anni fa Jusu Jarka ha testimoniato alla Corte speciale per la Sierra Leone con-tro l’ex presidente Charles Taylor, accusato di crimini contro l’umanità. Il signore della guerra se ne stava lì seduto nei suoi abiti eleganti con aria innocente. Jarka gli ha messo le sue protesi sotto gli occhi. È stato uno dei momenti più commoventi del pro-cesso cominciato nel 2007. “Taylor ha gira-to la testa dall’altra parte e mi ha ignorato”, racconta Jarka. “Quando ho chiesto a Grif-

cominciato a massacrare con machete e coltelli le persone nella chiesa di Saint Pa-trick, a trecento metri da casa sua. Pian pia-no si fecero strada lungo Thompson street, ino alla casa di legno al numero 3a dove si erano nascosti Jarka e Hannah, sua iglia di 11 anni. Gli altri familiari si erano rifugiati da amici o erano chissà dove in giro per la città. Alle tre del pomeriggio i massacratori bussarono alla porta. Hannah fuggì da una inestra sul retro della casa. Jarka, che da ex soldato sapeva battersi bene, riuscì a scap-pare dopo una violenta colluttazione con gli aggressori. Ma, girato l’angolo, due ragazzi-ni lo buttarono a terra e lo trascinarono ino all’albero di mango. “Prima di me c’erano cinque uomini. Li uccisero uno dopo l’altro.

Un colpo alla testa o alla nuca. Io ero il sesto nella ila”. Jarka appoggia le protesi sulla radice. “‘Maniche lunghe o maniche corte?’ chiesero”. Il viso di Jarka si distorce in una smoria. Le sue protesi tremano, il dolore dell’arto fantasma gli ha raggiunto i mon-cherini. L’uomo descrive con orrenda pre-cisione come la pesante ascia da pompiere si abbatté per due volte sui suoi avambracci. Sinistra, zac! Destra, zac! “L’uomo con l’ascia urlò ridendo: ‘Ora vai dal tuo presi-dente e lavora per lui!’”. Jarka fa un sorriso amaro. “Volevano che crepassi. Ma sono ancora vivo”.

Quella scena continua a ossessionarlo. Ogni notte torna a tormentarlo sempre lo

u La guerra civile in Sierra Leone comincia nel 1991, quando il Fronte unito rivoluzionario (Ruf ) si ribella contro il presidente Joseph Momoh e occupa alcune città vicino al conine con la Liberia. Dopo l’intervento dell’esercito britannico, nel 2002 la guerra inisce con il disarmo di 45mila combattenti del Ruf.u La Corte speciale per la Sierra Leone nasce nel 2002 da un accordo tra le Nazioni Unite e il governo di Freetown per processare i principali responsabili dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi durante la guerra civile.L’ex presidente liberiano Charles Taylor, accusato di aver aiutato l’esercito del Ruf fornendogli le armi e reclutando bambini soldato, è stato formalmente inquistito dalla Corte speciale il 3 marzo 2003. Il 26 aprile 2012 è atteso il verdetto.

Da sapere

Mutilare, non uccidere: alle vittime toglievano braccia, occhi e genitali

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iths, il suo avvocato, se lo avrebbe difeso anche se suo iglio fosse stato una delle vit-time, lui ha risposto sommessamente: ‘Sto solo facendo il mio dovere’”. Il verdetto su Taylor è previsto per il 26 aprile, e Jarka sta seguendo il processo con attenzione. “La Corte speciale è una grande conquista. Ora i criminali sanno che dovranno rendere conto dei loro atti sempre e ovunque”.

Il mattino dopo l’amputazione Jusu Jar-ka si trascinò a valle. La strada sconnessa è ancora iancheggiata dalle rovine delle case date alle iamme. Due ragazzini indicano curiosi i suoi artigli. Alcuni abitanti del po-sto riconoscono Jarka e lo salutano caloro-samente. A Freetown è un personaggio importante, perché ha sempre esortato il governo ad assistere le vittime del conlitto. Il suo viso è comparso spesso sui giornali, come nella foto in cui è ritratto insieme a Paul Wolfowitz, il presidente della Banca mondiale dell’epoca. “Anche lui è uno di quelli che hanno promesso aiuti”, dice Jar-ka. “Però noi non abbiamo visto niente”.

La panchina di cemento su cui dodici anni fa Jarka se ne stava paralizzato dalla tristezza non si trova più sotto il pino del cortile interno dell’ospedale, ma lungo il vialetto coperto. Per il resto niente è cam-biato. Le brande in tubi d’acciaio nella sala 3, le apparecchiature per leboclisi arruggi-

nite, le zanzariere bucate, il letto numero 14 in cui Jarka è rimasto per tre mesi tormenta-to dai dolori perché gli antidoloriici erano initi: ogni cosa è rimasta al suo posto. Ed ecco anche Patrick, l’infermiere. Di Jarka si ricorda bene. “Era molto paziente. È incre-dibile quanto ha soferto”.

La notte cade su Freetown come una pietra. Al buio la città sembra uno slum ster-minato che dilaga intorno al logoro sfarzo degli edifici coloniali britannici. Jarka è esausto: “Questa visita mi ha stancato mol-to più di quanto pensassi”. Lungo il viaggio di ritorno il suo cellulare squilla un paio di volte. La suoneria è una dawah, una benedi-zione islamica. Jarka tira fuori il telefono dalla borsa a tracolla con i suoi artigli. È stu-pefacente vedere l’abilità con cui riesce a usarlo su questo sterrato pieno di buche. Bartholomäus guarda fuori dal inestrino. Quando passiamo accanto a una pattuglia di militari, il bambino chiede al padre senza mezzi termini: “Sono questi i soldati che ti hanno mozzato le mani?”. Il padre non ri-sponde subito e lui aggiunge: “Quando sarò grande ti vendicherò!”. Jarka tace. I suoi oc-chi sono pieni di lacrime.

Cosa farebbe se incontrasse per caso il comandante Tagliamani? Prova mai un de-siderio di vendetta? “No, assolutamente. Non mi servirebbe certo a riavere le mie

mani”, mi spiega. Jarka è molto religioso, un musulmano sunnita come due terzi de-gli abitanti della Sierra Leone. L’hajj, il pel-legrinaggio alla Mecca, era il suo più grande sogno e per anni ha messo da parte i soldi per realizzarlo. Non si chiede mai perché Dio abbia permesso che avvenissero tutte le atrocità della guerra? “No. La mia sven-tura è stata voluta dalla provvidenza divina. Se sono sopravvissuto è per il volere di Al-lah”. Jarka non nutre molte speranze per il suo paese. La Sierra Leone è ancora pove-rissima, sottosviluppata e alitta dalla vio-lenza, e neanche sotto la guida del presi-dente Ernest Bai Koroma la situazione è migliorata. Una società che ha vissuto l’in-ferno potrà mai riprendersi?

Sono i giorni del Ramadan, e in cortile stanno preparando l’iftar, il pasto di rottura del digiuno. Jarka stasera sembra contento. Eppure le preoccupazioni non mancano e le sue protesi andrebbero sostituite o almeno riparate. Jarka non sa come pagare la retta della scuola di Bartholomäus. “Portalo con te in Germania, ha il tuo nome, tu sei il suo secondo padre”. Nelle zone di guerra capita di ricevere richieste del genere. Il bambino ci ascolta con attenzione e prima della mia partenza mi rivolge uno sguardo speranzo-so. “Allora, mi porti con te, papà Bartho-lomäus?”. u fp

Jarka alla moschea per la preghiera del venerdì

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Un pranzo con l’investitore Ross Perot nella futura fabbrica della NeXT, l’azienda fondata da Steve Jobs dopo l’uscita dalla Apple (quel giorno Perot decise di investire 20 milioni di dollari), Fremont, California, 1986.

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Inventori

in azione

Le fotograie scattate da Doug Menuez nella Silicon valley tra il 1985 e il 2000, in mostra alla Photobiennale di Mosca, sono un documento storico. Visita guidata di Christian Caujolle

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La storia è stata raccontata così tante volte che ormai la conosciamo a memoria. Negli anni trenta Frederick Terman, professore di inge-gneria elettronica a Stan-

ford, sconcertato dall’assenza di posti di lavoro per i neolaureati, convince due suoi studenti, William Hewlett e David Packard, a creare la loro azienda in California invece di trasferirsi sulla costa est. Poi nel 1971 il giornalista Don Hoeler deinisce Silicon valley la regione di Santa Clara, ino ad allo-ra nota soprattutto per i suoi frutteti. È qui che nascono le startup, aziende create dal nulla che diventano giganti tecnologici e

industriali – il garage di famiglia Hewlett-Packard è ormai un simbolo del sogno ame-ricano – come Apple, Sun Microsystems o Intel. I protagonisti di queste straordinarie avventure moderne erano ragazzi e ragazze che sognavano di cambiare il mondo per le persone, per i gruppi o per l’intera società, convinti che la tecnologia fosse lo strumen-to migliore per farlo. Hippy della tecnolo-gia, visionari della comunicazione, dell’er-gonomia e delle relazioni tra individui e gruppi, questi igli dei iori un po’ speciali hanno realizzato una vera rivoluzione, an-che se poi gli sviluppi industriali, economici e inanziari hanno trasformato il progetto iniziale.

Queste cose le abbiamo lette, ma veder-le è tutta un’altra cosa. Esiste infatti una straordinaria serie di immagini dedicata alla Silicon valley. Queste foto vanno dal 1985, quando Steve Jobs è costretto a lascia-re la Apple e si lancia nella progettazione di un computer destinato a rivoluzionare l’in-formatica, ino al 2000, quando il fotografo si convince che i calcoli economici e la ne-cessità di “fare soldi” hanno deinitivamen-te preso il posto dello slogan “cambiare il mondo”.

Il fotografo è Doug Menuez, che oltre a lavorare per la pubblicità e le aziende ha svi-luppato grandi progetti personali. Progetti che lo portano da New York, dove vive, in

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Qui sopra: pausa per la ginnastica in una fabbrica Intel, Rio Rancho, New Mexico, 1998. A destra, dall’alto: Jobs in pulmino dopo un picnic aziendale, Santa Cruz highway, California, 1987; un impiegato della Sun Microsystems, Santa Clara, California, 1992; dipendenti della Apple si sidano a biliardino dopo un incontro con gli impiegati della Apple Europe, Parigi, Francia, 1992.

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Brasile, un paese molto amato (e ritratto sia in bianco e nero sia a colori), ma anche in Vietnam, a Dubai, in Giappone e in tutte le città che lo afascinano.

Inquadrature classichePer la sua inchiesta sulla Silicon valley Me-nuez ha scelto il bianco e nero e, dopo aver conquistato la iducia di Steve Jobs e dei suoi collaboratori, ha prodotto una cronaca leggera e al tempo stesso profonda, con del-le istantanee diventate icone. Come quelle di Jobs mentre ride, rilette o scrive le sue idee alla lavagna, concentrato, carismatico, sempre simpatico. Abbiamo visto alcune di queste foto dopo la morte di Jobs, ma il grande merito della mostra in corso alla no-na Photobiennale di Mosca è di proporre un insieme completo da un punto di vista cro-nologico, che evidenzia la coerenza dell’ap-proccio fotograico e l’evoluzione del conte-sto.

Il bianco e nero – con inquadrature clas-siche, semplici, sensibili – assicura l’unità dell’insieme e rivela l’essenza stessa di que-sto lavoro: raccontare un frammento di sto-ria recente degli Stati Uniti. E non è un caso se la biblioteca dell’università di Stanford

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ha comprato questi archivi, un insieme uni­co che mostra il passaggio da una ricerca fondata sull’umanismo al predominio degli afari. Si passa dall’immagine di un neonato che gioca nel corridoio mentre i suoi geni­tori lavorano al computer a quella dell’acco­glienza ai possibili investitori, classici uo­mini d’afari riuniti in un grande albergo.

L’approccio libero, discreto, attento ed empatico del fotografo permette di accu­mulare questi piccoli istanti che si raccorda­no tra loro per formare una storia con un signiicato. In una fotograia scattata dall’al­to un gruppo intorno a un tavolo pranza in un enorme spazio vuoto. In un’altra foto un ragazzo con la testa tra le mani, sommerso

dai computer e dagli scatoloni, sembra chiedersi da dove cominciare dopo un tra­sloco. C’è anche un magnifico ritratto di una ragazza attraversata da strisce di luce e ombra mentre scruta il suo computer. E poi c’è Jobs, ancora lui, sempre convincente mentre parla a un gruppo di persone.

Menuez ha messo ine al suo lavoro per­ché ha colto il cambiamento di atteggia­mento, di interessi e di obiettivi, ma anche perché ha capito che era durato troppo ed era diventato improduttivo. Eppure il foto­grafo, come molti altri, rimpiange già Jobs: “L’epoca che ho documentato dovrebbe servirci da lezione. Dal 2000 negli Stati Uniti non c’è stata una sola innovazione tecnologica che abbia permesso di creare milioni di posti di lavoro come ha fatto lo sviluppo dei personal computer. Facebook, Twitter, Google e altre startup hanno creato solo 50mila posti di lavoro e sono per lo più il frutto dello sviluppo di programmi soft­ware. La diicoltà di creare posti di lavoro è un problema mondiale, ma negli Stati Uniti l’economia è in crisi e il sistema dell’istru­zione perde colpi. Quest’anno sono stati assegnati meno dottorati in informatica che nel 1970. Abbiamo anche ridotto i visti per i lavoratori e gli studenti stranieri, cosa che limita ancora di più la nostra capacità di in­novare. I ragazzi oggi non riescono a imma­ginare un mondo senza sms, email e social network. Assorbono le nuove tecnologie digitali come spugne, ma non sanno dove e come si sviluppano. Quanto dovremo aspettare per la prossima generazione di inventori? Chi saranno i prossimi Steve Jobs?”. u adr

Qui accanto: due impiegati di Adobe durante la festa aziendale, San Francisco, California, 1988. Nella pagina accanto dall’alto: ingegneri della Apple a colazione, Cupertino, California, 1991; John Doerr della Kleiner Perkins Caulield & Byers durante una riunione per decidere come investire nelle aziende di internet, Palo Alto, California, 1994; un’impiegata della NeXT al lavoro su un Macintosh, Sonoma, California, 1986. In basso: l’amministratore delegato della Microsoft Bill Gates alla conferenza Agenda 92, Laguna Niguel, California, 1992.

INFORMAZIONI

Fearless genius: the digital revolution in Silicon

valley 1985-2000, di Doug Menuez, è in mostra ino al 9 maggio alla Galleria delle belle arti Zurab Tsereteli, nell’ambito della Photobiennale di Mosca (informazionisul sito mamm­mdf.ru).

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Don Johnson non ricorda alla perfezione tutte le carte. E c’è da capirlo. Ad aprile del 2011 ha passato dodici ore a un tavolo di blackjack del

casinò Tropicana di Atlantic City, nel New Jersey. Nei momenti più intensi giocava quasi una mano al minuto.

Con il passare delle ore decine di curiosi hanno cominciato ad accalcarsi sui vetri della “fossa” riservata ai grandi giocatori. Seduto davanti a un panno verde e a un croupier in uniforme nera, un uomo corpu-lento di mezza età con una felpa dello stato dell’Oregon e un berretto rosso scommet-teva fino a centomila dollari ogni mano. Quando le puntate raggiungono livelli simi-li è inevitabile che la voce si sparga in tutto il casinò. Johnson continuava a vincere una mano dopo l’altra. Aveva pile di iches colo-rate ammonticchiate davanti a sé. I dirigen-ti del casinò osservavano attentamente la sequenza di vittorie dalle telecamere. Quel-la sera Johnson ha vinto 800mila dollari in una sola mano. In tre mani consecutive si è messo in tasca 1,2 milioni.

Le regole fondamentali del blackjack sono semplici. Giochi contro il banco. Due carte scoperte per te e due carte per il ban-co, di cui una coperta. Il seme non ha alcuna importanza, conta solo il valore numerico. Le igure valgono dieci, l’asso può valere uno o undici. L’obiettivo è arrivare a ventu-no, o a un numero il più vicino possibile a

ventuno, senza “sballare”, cioè senza supe-rarlo. Valutando le carte sul tavolo, il gioca-tore può decidere di fermarsi o continuare a chiamare le carte per avvicinarsi a ventu-no. Dato che una delle carte del banco è co-perta, il giocatore non sa qual è la mano. In altre parole non sa quale punteggio deve superare per battere il banco. E qui sta il bel-lo del gioco.

Johnson mi racconta della mano da 800mila dollari. Ha cominciato puntando-ne centomila e il croupier gli ha servito due otto. Se un giocatore ha una coppia di carte uguali può decidere di dividere (split) la ma-no in due: separa le carte e ne chiede altre due per formare due coppie, raddoppiando la puntata. Johnson ha fatto così e ha ricevu-to altri due otto. Quattro carte uguali di ila non capitano spesso, ma capitano (Johnson mi ha raccontato che una volta ha pescato sei assi uno dietro l’altro, al casinò Mohegan Sun, in Connecticut). A quel punto ha “split-tato” di nuovo, e si è trovato a giocare con-temporaneamente quattro mani, ognuna con un otto, e con 400mila dollari in ballo.

Ma non era afatto nervoso. È abituato a lunghe giocate e le oscillazioni delle singole mani, per quanto pesanti possano essere, non lo preoccupano. Johnson è un veterano del tavolo verde. Ha una concentrazione di

ferro, niente lo innervosisce. La carta sco-perta del banco era un cinque. Il primo dei quattro otto è stato accompagnato da un tre, e Johnson ha raddoppiato la puntata su quella mano, portandola a 200mila dollari. Il secondo otto ha ricevuto un due. Johnson ha raddoppiato anche lì. Un altro tre per il terzo otto e un altro due per il quarto. Lui ha raddoppiato anche su queste due mani. In tutto stava giocando 800mila dollari.

Il croupier ha pescato un dieci, quindi il totale scoperto del banco era quindici. Poi ha girato la carta coperta: un dieci. Totale 25, il banco sballa. Johnson ha vinto tutte e quattro le mani. Ma non ha festeggiato. Ha innalzato un’altra pila di iches davanti a sé e ha fatto segno al croupier di andare avan-ti. Aveva appena cominciato.

Il giorno dopo il quotidiano The Press of Atlantic City è uscito con un titolo che ha scaldato il cuore di tutti quelli che nella loro vita hanno scommesso un dollaro o hanno fatto il tifo per i perdenti: “Giocatore di blackjack vince quasi sei milioni di dollari al Tropicana, rovinando da solo gli incassi mensili del casinò”.

Ma la storia non inisce qui. L’assalto al Tropicana è stato solo l’ultimo di una serie di blitz nelle sale da gioco di Atlantic City. Nei quattro mesi precedenti Johnson aveva già scucito cinque milioni di dollari al casi-nò Borgata e altri quattro milioni al Caesars. Mi ha raccontato che al Caesars a un certo punto gli hanno impedito di continuare a giocare e in seguito lo hanno bandito da tut-ti i casinò della catena nel mondo.

Quindici milioni di vincite in tre diverse sale da gioco: nessuno è tanto fortunato. Come ha fatto allora Johnson? L’ipotesi più ovvia è che abbia contato le carte. Alcuni giocatori di blackjack riescono a tenere il conto di tutte le carte che escono e, adattan-do le loro puntate in base a quelle rimaste

Don JohnsonGiocate perfette

In una notte ha vinto sei milioni di dollari al casinò Tropicana di Atlantic City. E aveva già svuotato le casse del Borgata e del Caesars. Ecco come ha fatto

Mark Bowden, The Atlantic, Stati Uniti

◆ 1963 Nasce in Oregon, Stati Uniti. Cresce occupandosi dei cavalli da corsa di suo zio. A quindici anni diventa fantino professionista.◆ Anni novanta Lavora come manager del Philadelphia park, prima che l’ippodromo della Pennsylvania sia trasformato in casinò. Qualche anno dopo fonda la Heritage Development Llc, una società di servizi per le scommesse ippiche.◆ 2011 Vince sei milioni di dollari al Tropicana.

Biograia

Ritratti

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nel mazzo, si assicurano un forte vantaggio sul banco. È un metodo che richiede una memoria infallibile e capacità matematiche molto elevate. Nei casinò equivale a barare. E in molti stati i professionisti del conteggio sono banditi, ma non nel New Jersey. In ogni caso, nell’arco di alcune ore è possibile riconoscere lo stile di gioco di chi conta le carte, e per questo motivo Johnson è stato osservato attentamente. Il verdetto è stato chiaro: lui le carte non le ha contate. Ha bat-tuto il banco senza imbrogliare.

I casinò hanno accusato il colpo. Nella classiica degli incassi di aprile 2011, il Tro-picana è arrivato penultimo tra gli undici casinò di Atlantic City soprattutto a causa delle vincite di Johnson. Mark Giannanto-nio, presidente e amministratore delegato del casinò, l’uomo che ha autorizzato la par-tita da centomila dollari a mano, è stato li-cenziato poche settimane dopo. L’impatto delle partite di Johnson sulle inanze del Borgata e del Caesars non è stato diverso. I tre casinò, tra l’altro, erano già in grandi dif-icoltà, soprattutto per la difusione del gio-co d’azzardo negli stati vicini. Ad aprile, come nei trentadue mesi precedenti, gli in-troiti dei casinò erano inferiori a quelli dello

stesso mese dell’anno precedente. Comunque, per la maggior parte delle

persone, il titolo del quotidiano locale era una buona notizia. Un uomo qualunque con un cappello rosso e una felpa nera aveva massacrato i casinò. Sembrava la realizza-zione del sogno che attira orde di giocatori al tavolo verde. Ma, anche se il suo abbiglia-mento è poco ricercato, Don Johnson non è certo uno come gli altri.

Non uno qualunqueIntanto, è un grandissimo giocatore di blackjack. Tony Rodio, che ha sostituito Giannantonio alla guida del Tropicana, è convinto che giochi “in modo perfetto”. Sa esattamente qual è la decisione migliore da prendere. Certo, al mondo ci sono migliaia di ottimi giocatori. Il vantaggio di Johnson è che è bravissimo a giocare con le carte, ma è ancora più bravo a giocare con i casinò.

Gli incassi degli undici casinò di Atlantic City sono passati dai 5,2 miliardi di dollari del 2006 a 3,3 miliardi di dollari dell’anno scorso. Quando le entrate crollano, i casinò si aidano ai loro clienti più preziosi: i gio-catori che puntano enormi somme di dena-ro, nell’ordine delle decine o centinaia di

migliaia di dollari alla volta. Attirare e con-quistare gli “squali”, come vengono chia-mati in gergo, è fondamentale. Natural-mente “ci sono squali e squali”, mi spiega Rodio, l’unico manager dei casinò di Atlan-tic City che accetta di parlarmi di Johnson. “Se un giocatore di blackjack fa tutte le scel-te giuste, il vantaggio del banco è abbastan-za limitato. In media in quel caso riusciamo a vincere una o due mani in più ogni cento giocate. Poi ci sono gli altri giocatori, quelli che non usano una strategia perfetta. Con loro il nostro vantaggio aumenta”. I mana-ger prestano grande attenzione ai giocatori di alto livello. Se uno di loro si conquista la reputazione di vincente, il corteggiamento inisce. Per questo gli squali cercano in tutti i modi di non farsi una fama, e a volte arri-vano perino a camufarsi prima di entrare nel casinò.

Anche se ha vissuto nell’ambiente del gioco d’azzardo da quando è nato, 49 anni fa, Don Johnson è riuscito a non dare nell’occhio ad Atlantic City. Alto e massiccio, è diicile credere che un tempo fosse un fantino. È cresciuto occupandosi dei cavalli da corsa di suo zio a Salem, in Oregon. A 15 anni ha cominciato a cavalcare

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da professionista. Nei suoi anni migliori come fantino pesava appena 48 chili per un metro e ottantacinque di altezza. Lavorava con un medico per non prendere peso, assumeva medicine per la tiroide per accelerare il metabolismo e viveva quasi esclusivamente di integratori vitaminici. Alla ine non è più riuscito a reggere quella vita e ha abbandonato la carriera di fantino. Il suo corpo ha ripreso rapidamente proporzioni normali, e ha cominciato a lavorare nell’amministrazione degli ippodromi. A circa trent’anni è stato assunto per amministrare un ippodromo, il Philadelphia park di Bensalem, la città dove vive tutt’ora. Quando l’ippodromo è stato trasformato nel Parx casinò, a Johnson è stato affidato il compito di occuparsi dell’amministrazione dei tavoli e delle scommesse. Ha lavorato come ispettore statale in Oregon, Idaho, Texas e Wyoming. E ha imparato tutto sul gioco d’azzardo, nel momento in cui l’industria era in pieno boom.

Circa dieci anni fa Johnson ha fondato una società che abbina l’analisi computeriz-zata alle scommesse ippiche. Il software usato dalla compagnia analizza una quanti-tà di dati che un normale periziatore (la per-sona che assegna i vantaggi ai concorrenti) non riuscirebbe ad analizzare neanche se vivesse mille anni, e deinisce i rischi a un livello impensabile cinque anni fa.

Johnson gioca a carte seriamente da una decina d’anni, confrontando con attenzio-ne le sue probabilità di vittoria e quelle del banco. È un grande giocatore d’azzardo so-prattutto perché è meno disposto degli altri a rischiare. Il 99 per cento dei giocatori arri-va al casinò e si mette a giocare. Per Johnson questo signiica “buttare via denaro senza criterio”. La struttura del gioco garantisce al banco un vantaggio signiicativo, anche se questo non vuol dire che non si possa vin-cere seguendo le regole standard. La gente di tanto in tanto vince, anche se la stragran-de maggioranza dei giocatori “normali” perde. E più a lungo giocano, più perdono.

I giocatori più evoluti, invece, non se-guono le regole standard. Negoziano un regolamento speciale. Gli squali sono una risorsa fondamentale per i casinò, che pro-prio per questo sono disposti a scendere a patti con loro ofrendo sconti o “rimborsi delle perdite”. Quando un casinò concede uno sconto del 10 per cento signiica che se il giocatore perde centomila dollari dovrà pagarne solo novantamila. Inoltre i gioca-tori ricevono spesso una cospicua quantità di iches per avviare il gioco.

“I casinò hanno cominciato a prendere

più rischi, nel tentativo di fare incassi mag-giori”, mi ha spiegato Israel Posner, esperto del settore e insegnante del vicino Stockton College. E Johnson se n’è accorto. “Faceva-no oferte mai viste nella storia dei casinò del New Jersey”, racconta. “Nessuno era mai stato invogliato in questo modo”.

Prendere dei rischi

I manager dei casinò di Atlantic City sape-vano che Johnson era un giocatore capace e pronto a puntare forte. Ma non era conside-rato abbastanza bravo da dover essere evi-tato o ostacolato. E così, alla ine del 2010, gli hanno telefonato per invitarlo. Johnson non giocava al Borgata da più di un anno. Da tempo cercava di migliorare il suo gioco a blackjack ma non aveva mai vinto grosse somme. In precedenza aveva ottenuto uno “sconto a vita” ma, a causa di una serata vincente, aveva perso i beneici dello scon-to. Quando lo hanno chiamato per convin-cerlo a tornare, lo ha fatto presente ai rap-presentanti del casinò. Ricorda ancora la risposta del manager del Borgata: “Perché allora non cambiamo le cose? Che ne dice di uno sconto sulla singola serata?”. John-son ha cominciato a negoziare. Una volta raggiunto l’accordo con il Borgata, il Cae-sars e il Tropicana gli hanno oferto agevo-lazioni simili. Ed è proprio grazie a queste concessioni che è riuscito a batterli siste-maticamente, uno dopo l’altro.

In teoria, non sarebbe dovuto accadere. I casinò usano modelli computerizzati per calcolare le probabilità ino all’ultimo pen-ny, in modo da poter ofrire agevolazioni ai grandi giocatori mantenendo il vantaggio del banco. “Quando arriva un giocatore, indipendentemente da quale sia il gioco, lo inseriamo nel modello”, spiega Rodio. “Ba-sandoci sul suo stile e sulla sua abilità siamo in grado di conoscere subito il vantaggio del banco, e a quel punto sappiamo ino a che punto possiamo spingerci con gli sconti”. Allora come è possibile che tutti e tre i casi-nò abbiano inito col dare a Johnson quello che lui stesso deinisce un “margine enor-me?”. “Penso che qualcuno abbia sempli-cemente sbagliato i calcoli”, ha dichiarato Rodio.

Johnson, invece, i suoi calcoli non li ha sbagliati. Al Tropicana ha accettato di gio-care con uno sconto del 20 per cento nel caso di perdita superiore ai 500mila dollari, ma soltanto se abbinato a una riduzione del vantaggio del banco. Non ha intenzione di rivelare gli adeguamenti inali concordati via email con la direzione del casinò, ma sappiamo che ha ottenuto tre cose: l’impe-gno a giocare con un sabot di sei mazzi me-

scolati a mano, il diritto di “splittare” e rad-doppiare la puntata ino a quattro mani alla volta e un “soft 17” (in una mano in cui il to-tale è sei più un asso il giocatore può chia-mare un’altra carta, contando l’asso come uno o come undici, mentre nello stesso ca-so il banco deve fermarsi e contare l’asso solo come undici). Alla ine dei negoziati, Johnson aveva smussato il vantaggio del banco ino a uno 0,25 per cento. In sostanza avrebbe giocato alla pari contro il casinò, e considerando lo sconto pattuito rischiava soltanto 80 centesimi ogni dollaro perso. Si è impegnato con il casinò a sborsare un mi-lione di dollari per giocare, ma come spiega, “non avrei mai perso un milione. Se avessi perso 500mila dollari mi sarei fermato, e grazie al mio 20 per cento avrei dovuto pa-gare soltanto 400mila dollari”.

In una partita alla pari il giocatore si as-sume sostanzialmente gli stessi rischi del banco. E se gli gira bene e comincia a vince-re, è difficile fermarsi. “Avevo già un bel gruzzolo, e allora ho pensato che potevo permettermi di prendere un ulteriore ri-schio. D’altronde stavo giocando con il loro denaro, usando lo sconto contro di loro”.

Il Tropicana si è tirato indietro dopo che Johnson aveva vinto 5,8 milioni di dollari. Il Borgata ha smesso di giocare dopo aver perso 5 milioni. Il croupier del Caesars si è riiutato di fare rifornimento di iches quan-do la vincita di Johnson ha raggiunto i 4 mi-lioni. In seguito ha scoperto che qualcuno aveva chiamato il manager del casinò, che si trovava a Londra, e gli aveva spiegato che Don Johnson era sopra “di quattro”.

“Quattrocentomila dollari?” aveva chie-sto il dirigente.

“No, quattro milioni”. E così anche il Caesars ha staccato la spina.

Da quell’incredibile serie di vincite la vita di Johnson non è cambiata molto. Non ha fatto nessun acquisto eclatante, e vive nella stessa casa di prima, a Bensalem. Nell’ultimo anno, però, ha frequentato Bon Jovi e Charlie Sheen, ha spruzzato lo cham-pagne più costoso del mondo sulla folla in una discoteca di Londra e ha organizzato la festa di compleanno di Pamela Anderson a Las Vegas. Nel frattempo si gode la fama nell’ambiente del gioco d’azzardo, e vola in jet privato da una parte all’altra del mondo senza pagare un centesimo. Tutti vogliono sidare il più famoso giocatore di blackjack del mondo. u as

Mark Bowden è un giornalista e scrittore statunitense. Il suo libro Falco nero (Rizzoli 1999) ha ispirato il ilm Black HawkDown di Ridley Scott.

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Viaggi

balneari ridanno vita a una terra piuttosto arida e a un’acqua che non ospita forme di vita. La nostra guida ci spiega che negli ul-timi anni il mare si è ridotto di trenta chilo-metri a causa della siccità. Ma l’atmosfera di questi luoghi è così particolare che peri-no la scoperta dell’acqua sulla luna sembra una cosa banale. È un luogo commovente, come la leggenda che avvolge la sua storia secolare.

Non è solo per la sabbia sottile o per il mare che i turisti arrivano qui da tutto il mondo. Anche la terra argillosa attira qui tanti turisti, soprattutto donne che voglio-no “farsi una pelle nuova”. La ricetta è faci-lissima: bagnarsi nell’acqua del mar Mor-to, che ha una salinità cinque volte più elevata del normale, prima di applicare sul corpo la “terra magica”, medicamentosa, che si trova nelle giare disposte lungo le rive. Dopo quindici minuti si riparte con una “pelle da neonato”. Nei dintorni è io-rito un ampio commercio di prodotti di bellezza.

Zona francaIl mar Morto è la frontiera naturale tra la Giordania e Israele. “Di fronte a noi c’è la città di Gericho. Gerusalemme, invece, si trova proprio dietro le montagne”, ci spie-ga Djaâfer mostrando l’orizzonte con un dito. Il suo paese, ci spiega, conta tre vie d’accesso allo stato coninante. Gli orga-nizzatori del nostro viaggio ci hanno tenuti a distanza dalle zone del paese dove la ten-sione politica è più percepibile. Non vo-gliono mostrare cosa “bolle in pentola” nel regno. E anche se questo paese con sei mi-lioni di abitanti si crede al sicuro da repen-tini rovesciamenti della situazione politi-ca, non è impermeabile ai cambiamenti che stanno sconvolgendo i paesi arabi. Nella stagione estiva si avverte già un pri-mo efetto negativo: per quanto breve sia stata la “primavera araba”, in Giordania l’estate rischia di essere ancora più corta. Circa un anno fa il paese è stato attraversa-

to da alcune scosse politiche: ci sono state delle manifestazioni per reclamare mag-giore libertà e giustizia economica e socia-le.

Lasciando il mar Morto e proseguendo verso sud arrivo ino ad Aqaba, il vanto del turismo balneare nel paese di re Abdallah II, anche se la costa che dà sul mar Rosso è lunga solo poche decine di chilometri.

La città gode dello status di zona fran-

La valle è a strapiombo sul iume Giordano, oggi quasi prosciugato, e sul mar Mor-to. “Da qui si può ammira-re la vista panoramica su questo mare interno lungo

cinquanta chilometri”, ci indica la nostra guida Djaâffer. “All’orizzonte si vede la Cisgiordania, una terra palestinese se non fosse occupata da Israele. L’importanza religiosa della valle è associata al nome del profeta Mosè, e alla sua traversata per rag-giungere la Terra promessa”, prosegue, indicando quella parte di Medio Oriente dove è in corso il conlitto più duro della nostra epoca. L’importanza di questa tap-pa è testimoniata dai numerosi gruppi di turisti, ognuno con una guida. Siamo a Ma-daba, una delle cinque mete del pellegri-naggio cristiano in Giordania. Questa città carica di storia, nel V secolo fu un impor-tante centro religioso. Si trova a una venti-na di chilometri dalla capitale Amman. Gerusalemme è a una cinquantina di chi-lometri da qui.

In epoca bizantina Madaba è stata an-che un centro ecclesiastico. La città ospita molte chiese. Ci sono famiglie che hanno lo stesso nome, ma sono di religioni diver-se, una parte è cristiana e l’altra musulma-na.

Secondo Djaâfer, la città oggi è abitata da circa trecentomila cristiani, la maggior parte ortodossi. Per raggiungere il mar Morto ci vogliono una decina di minuti lungo una strada tortuosa. Il clima è molto caldo. La colonnina di mercurio schizza in alto una volta raggiunti i 440 metri sotto il livello del mare. Hotel di lusso e stazioni

Due maria confrontoAli Benyah, El Watan, Algeria

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In Giordania tra i paesaggi lunari del mar Morto e le chiese di Madaba. E poi ad Aqaba, famosa per le sue spiagge sul mar Rosso

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ca, ed è vicina a tre paesi: Israele, Egitto e Arabia Saudita. La città israeliana di Eilat è a portata di sguardo. Aqaba è la seconda destinazione turistica del paese dopo Pe-tra.

“Aqaba è stata dichiarata capitale del turismo arabo nel 2011, ma la tensione nel-la regione rischia di far fallire i tentativi di condurre una politica turistica comune con i paesi vicini. Un programma con la Siria

che prevedeva l’arrivo di 280 turisti è stato cancellato. I programmi comuni rappre-sentano oltre il 60 per cento del turismo”, spiega Salah Bitar, presidente dell’associa-zione degli hotel di Aqaba. Il settore, che rappresenta una fonte importante di red-dito per il regno e che fornisce una miniera di posti di lavoro, sta sofrendo da mesi.

Ora tutti insieme, professionisti del set-tore turistico e amministratori pubblici

sono alla ricerca di palliativi per limitare i danni. I politici sembrano aver ormai capi-to, almeno per quanto riguarda il turismo, che devono cambiare strada. La posta in gioco è la sopravvivenza di un settore che, se trascurato, rischierà di avere conse-guenze molto dolorose dal punto di vista sociale.

La Giordania conta di difendersi cer-cando di darsi una vocazione turistica a pie-no titolo, che non si limiti più ai programmi comuni con i paesi vicini dai quali non trae comunque grandi vantaggi. L’obiettivo del governo siriano è avere programmi propri, anche perché molti paesi che possono esse-re considerati concorrenti, come la Tunisia, non sono in grado di soddisfare tutte le ri-chieste di prenotazioni nelle strutture al-berghiere. Per raccogliere parte di questo mercato la Giordania deve giocare tutte le sue carte. “Abbiamo il triangolo d’oro (Aqa-ba, Petra, Wadi Rum)”, dice Oussama Su-leiman, dell’associazione degli hotel di Aqaba. u oda

u Arrivare Il prezzo di un volo dall’Italia (Lufthansa, Egyptair, Austrian Airlines) per Amman parte da 403 euro a/r. L’unico volo diretto è quello della Jordan Airlines da Roma. Il prezzo parte da 676 euro a/r.u Dormire A Madaba, il Mosaic city hotel (mosaiccityhotel.com) si trova a pochi metri dalla chiesa di San Giorgio. Le camere sono spaziose e il personale gentile. Il prezzo di una doppia parte da 42 euro a notte. L’albergo mette a disposizione dei clienti delle biciclette. L’albergo Al Quidra (alqidrahotelaqaba.com) si trova nel centro della città e ha un buon rapporto qualità-prezzo: una doppia parte da 58 euro a notte.u Leggere Gianni Borta, Alla ricerca dell’iris nero. Un viaggio fuori dal tempo da Israele alla Giordania, Campanotto 2009, 19 euro.u La prossima settimana Viaggio in Argentina, lungo la cordigliera delle Ande. Avete suggerimenti su posti dove mangiare, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratiche

La costa di Aqaba, in Giordania

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Graphic journalism Cartolina da Alicante

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Pablo Auladell è un illustratore e un autore di fumetti nato ad Alicante nel 1972.Il suo ultimo libro è Soy mi sueño (De Ponent. Onil 2008) su sceneggiatura di Felipe Hernández Cava.

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Cultura

Fotograia

L o scrittore e giornalista Jean Hatzfeld probabilmente ha trovato l’immagine migliore: “I fotograi si sono dati il cam-bio al capezzale della Bosnia e

di Sarajevo”. Di rado un conlitto contem-poraneo ha attirato tanta attenzione e tanti talenti. Dall’Europa all’America, giovani e vecchi, principianti ed esperti, impulsivi e rilessivi, reporter di guerra e artisti. Prima di andarci c’era chi non sapeva neanche do-ve fosse Sarajevo. Altri hanno pensato al ri-torno dei demoni nazionalisti della seconda guerra mondiale. Ron Haviv o Jon Jones so-no arrivati nel 1992 e per dieci anni sono andati e tornati molte volte. Altri vi hanno fatto solo una breve sosta. C’è chi ha foto-grafato i morti e chi invece ha preferito mantenere una maggiore distanza. Oggi alcuni tornano sulle strade di quella città fredda e intellettuale che li ha temprati.

Perché qui? Lo abbiamo chiesto a una decina di fotograi e tutti ci hanno dato la stessa risposta. Perché loro, che avevano spesso mostrato il dolore lontano in Africa o altrove, si sono trovati in mezzo a un incu-bo familiare, in mezzo a gente che si veste, mangia, beve, legge, vive e pensa come lo-ro. “Come potevamo immaginare una guerra così vicino a casa nostra?”, si chiede Jones, in una città che agonizza e in un’Eu-ropa che non si muove. “Si poteva bere un cafè a Vienna a mezzogiorno e la sera tro-varsi in un campo di concentramento”, dice Haviv. “Sarajevo sembra Grenoble”, osser-va Laurent Van der Stockt, che aggiunge: “A

due ore da qui, a Spalato, mangiavamo frut-ti di mare. È questa assurdità, questa osce-nità che mi è rimasta impressa. Una situa-zione che è durata anni e che ha attirato molti fotograi”.

Sarajevo era una città assediata. L’arti-glieria serba era posizionata davanti alla città e i cecchini avevano la popolazione co-me obiettivo. Pericoloso entrare, pericoloso uscire, pericoloso muoversi. “Le condizioni di vita erano terribili”, racconta Van der Stockt. “Non c’era acqua corrente, l’inver-no era freddissimo, non c’era riscaldamen-to, si rimaneva chiusi in casa, con il cecchi-no che ti aspettava”. E all’epoca non c’erano internet o i telefoni cellulari, tutte cose che hanno cambiato il lavoro dei fotograi.

Quattro anniQuesti fotograi si sono fermati, hanno par-lato con la gente, hanno creato delle rela-zioni: “Le immagini traducono questa in-credibile vicinanza. Quando vai a cercare l’acqua con delle persone che vedi tutti i giorni, si crea un’intimità”, dice Jones. “Si sono creati dei legami molto forti”, confer-ma Haviv. Ma c’era una diferenza fonda-mentale: “Io potevo andare via”, aggiunge, “loro no”. Noël Quidu lo dice ancora più brutalmente: “A Sarajevo avevamo un mo-

do di dire: ‘Loro muoiono a causa di questa guerra, noi ci viviamo’”.

A Sarajevo sono morte circa diecimila persone in quattro anni, e i morti sono pre-senti in alcune immagini particolarmente forti: per esempio quella della donna coper-ta di sangue con il suo cane (Luc Delahaye). O quelle di miliziani serbi, sigaretta fra le labbra, che danno un calcio ai corpi di bo-sniaci agonizzanti (Ron Haviv). Ma molte foto raccontano la vita quotidiana di una città assediata. Le più significative sono quelle di uomini, donne e bambini che escono dai loro rifugi e si giocano la vita sul-la “sniper alley”, la strada dei cecchini, per andare a cercare tre patate.

Quattro anni di assedio sono tanti. I fo-tografi hanno visto cambiare l’atteggia-mento della popolazione nei loro confronti. A causa di un sentimento ben descritto nel documentario Rapporteurs de guerre (1998) di Patrick Chauvel e Antoine Novat: “Siamo arrivati a Sarajevo come dei salvatori”, spie-ga Haviv. “Dopo tre mesi si sono resi conto che non avevamo cambiato nulla”. E ag-giunge: “La gente mi diceva: ‘Nessuno si interessa a noi e nessuno si interessa al vo-stro lavoro, non fa alcuna diferenza, quindi andate via’. Sono cose diicili da sentire”.

I fotograi sono stati costretti a interro-garsi sul loro ruolo. Nina Berman osserva: “Dopo Sarajevo non posso più credere all’idea della crociata giornalistica, che sve-la l’orribile verità”. La maggior parte dei reporter non arriva però al punto di dire che le foto non sono servite a niente. Per Gilles Peress “se non ci fosse stato l’intervento dei giornalisti in Bosnia, ci sarebbe stato un nu-mero maggiore di morti”. Haviv è convinto che la reazione internazionale è stata più rapida in Kosovo, nel 1999, grazie anche alle immagini che arrivavano della Bosnia.

Nina Berman, per esempio, ha fotogra-fato le donne musulmane, violentate dai serbi per obbligarle a mettere al mondo dei igli serbi e non musulmani: “Lo stupro è diventato un crimine di guerra dopo la Bo-snia”. Laurent Van der Stockt ha sempre in mente l’immagine di un anziano che, rasse-gnato a morire nell’indiferenza, ripeteva che attraverso le immagini le generazioni future avrebbero imparato qualcosa. “Guar-dando tutto quello che è venuto fuori”, insi-ste Van der Stockt, “mi dico che dovremmo dare più iducia al documento fotograico come traccia storica. Ero diidente, ma il

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L’assedio alla capitale bosniaca ha rappresentato un passaggio decisivo per la carriera e la vita di un gruppo di fotograi

GenerazioneSarajevoMichel Guerrin e Claire Guillot, Le Monde, Francia

Di rado un conlitto contemporaneo ha attirato così tanti talenti. Dall’Europa all’America, esperti e principianti, reporter di guerra e artisti

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materiale raccolto è enorme”. E il Tribunale penale internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia ha usato alcuni documenti visivi per giudicare dei crimini di guerra in Bo-snia, una novità in questo campo.

Anche la ilosofa Susan Sontag è stata a Sarajevo e ha scritto un libro, Davanti al do-

lore degli altri (Mondadori 2003), in cui ana-lizza il ruolo delle foto: “Lasciamoci osses-sionare dalle immagini atroci”.

La Bosnia ha inluenzato così tanto i fo-tografi che Haviv o Jones parlano di una “generazione Sarajevo”. Il primo la consi-dera un’esperienza “fondamentale” nella “comprensione della fotograia e del suo ruolo”. Il secondo spiega: “Questo evento ha segnato in modo indelebile la carriera di molti fotograi. Eravamo una decina e sia-

mo rimasti a lungo in questa città, siamo invecchiati insieme, siamo diventati ami-ci”. Un conlitto può avvicinare le persone. “Ne riparliamo sempre attraverso gli aned-doti”, racconta Van der Stockt, ricordando una discussione con Enrico Dagnino sulle loro “belle ragazze”. “Ci si rende conto che la cosa che faceva davvero paura non era la possibilità di morire a Sarajevo, ma quello che la guerra si prende, quello che ci lascia-mo alle spalle”. u adr

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Pale, Bosnia. Inverno 1994. I fotore-porter che seguono la guerra si pren-dono un momento di pausa

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LA VOCE DEL PIANETA.Greenpeace esiste perché il nostro fragile Pianeta merita

di avere una voce. Servono soluzioni, cambiamenti, azioni.

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Cultura

Cinema

I l video è molto coinvolgente, si può vedere su YouTube. È fatto con un cellulare. Le immagini sono trabal-lanti e confuse, ma forse un ilmato professionale non avrebbe cattura-

to in modo così autentico la gioia (e il sollie-vo) dei migranti eritrei ammucchiati sul barcone alla deriva nel Mediterraneo quan-do sono arrivati i soccorsi della marina ita-liana, dopo quattro giorni di atroce traver-sata. La felicità dei migranti, convinti che presto sbarcheranno in Italia, è evidente.

Ma la loro storia non ha un lieto ine. Gli uiciali della Marina li rispediscono in Li-

bia, dove vengono rinchiusi nei campi di detenzione.

Questa drammatica scena è il cuore di Mare chiuso, il documentario di Stefano Li-berti e Andrea Segre. Nel ilm, uno dei mi-granti rispediti in Libia racconta come si è sentito quando ha capito che lo stavano ri-mandando in Africa. “Grazie italiani”, dice con voce rotta dall’amarezza. “Amiamo l’Italia e gli italiani. Grazie davvero”.

Una brutta paginaIl documentario non ha trovato molto spa-zio nei circuiti di distribuzione italiani. Ma c’è una forte domanda da parte di cineclub e di organizzazioni che si battono per i dirit-ti umani: nei prossimi tre mesi sono in pro-gramma un centinaio di proiezioni. Non è prevista una distribuzione all’estero, ma in tutti i festival in cui è stato presentato il ilm ha ricevuto un’ottima accoglienza.

Mare chiuso racconta un momento mol-to delicato della storia italiana recente: tra la primavera e l’estate del 2009, circa un migliaio di migranti che cercavano di arri-vare in Italia sono stati fermati e rimpatria-ti in Libia. Una strategia concordata dall’al-lora primo ministro Silvio Berlusconi insie-me a Muammar Gheddafi: “È stata una pagina orribile della storia dell’immigra-zione in Italia”, ha detto Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. “Speriamo che il documentario possa contribuire a cam-biare la gestione dei soccorsi in mare”.

I registi del ilm, il documentarista An-drea Segre e il giornalista Stefano Liberti, hanno detto che riuscire a inluire sul modo in cui l’opinione pubblica si confronta con le questioni dell’immigrazione è un ele-mento centrale del loro lavoro. Un modo per “raddrizzare un’ingiustizia” è raccon-tarla, ha detto Segre durante il Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina di Milano. Qui Mare chiuso ha vinto due premi, uno dei quali assegnato da una giu-ria di immigrati di seconda generazione.

I precedenti documentari di Andrea Se-gre raccontano tutti storie dure. Il sangue verde (2010) parla dello sfruttamento dei lavoratori africani nei campi della Calabria; Come un uomo sulla terra (2008), a cui ha collaborato anche Stefano Liberti, denun-cia le terribili condizioni dei migranti afri-cani nei campi di detenzione libici.

Un documentario di Stefano Liberti e Andrea Segre racconta i respingimenti dei migranti che arrivano in Italia

Mediterraneo mare chiusoElisabetta Povoledo, The New York Times, Stati Uniti

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Mare chiuso

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I due si sono incontrati in Niger mentre lavoravano per due ong a un progetto per tracciare le rotte dei migranti. Segre era stato inviato in quanto regista di documen-tari, Liberti come giornalista. Dall’incontro è nato A sud di Lampedusa, che è diventato anche il titolo del libro di Liberti sull’immi-grazione africana.

I registi di Mare chiuso s’interessano da molto tempo alle questioni dell’immigra-zione. Liberti se n’è occupato nei suoi re-portage, Segre ha viaggiato un po’ dapper-tutto, dall’Europa dell’est all’Africa, per capire, dice, cosa spinge le persone a tenta-re di penetrare nella “fortezza Europa”.

“Seguiamo le vicende dell’immigrazio-ne, a volte insieme e a volte da soli, e spesso i nostri percorsi s’incrociano”, dice Stefano Liberti. Con Mare chiuso hanno voluto ri-chiamare l’attenzione sulle crudeli conse-guenze dei respingimenti dall’Italia.

Italia condannata

L’occasione d’incontrare i migranti si è pre-sentata dopo lo scoppio della guerra libica, nel marzo 2011, quando molti profughi afri-cani sono fuggiti dai campi di detenzione dove erano stati rinchiusi. Alcuni hanno attraversato il conine con la Tunisia ed è nel campo profughi di Shoshua che Liberti e Segre hanno raccolto le loro storie.

Anche se apre una vasta prospettiva sul tema dell’immigrazione, Mare chiuso si concentra soprattutto sulla storia di Seme-re, un eritreo che racconta come nel 2009 la moglie Tsige, all’epoca incinta di nove mesi, sia riuscita ad arrivare sana e salva in Italia. La barca dove c’era Semere, invece, è stata bloccata in mare e rimandata in Li-bia. È stato lui a girare con il telefonino il video di cui abbiamo parlato, che è diventa-to una scena chiave del documentario. Esperto di computer, Semere cercava di fuggire dall’Eritrea, un paese totalmente militarizzato.

Il ilm fa vedere il suo disperato ritorno nei terribili campi in Libia e i rari momenti di gioia quando parla al telefono con la mo-glie e con la iglia Nahere, nata in Italia die-ci giorni dopo lo sbarco della madre. La coppia si è riunita, di fronte alle telecame-re, l’8 agosto 2011, dopo più di due anni di separazione.

Liberti sottolinea che il ilm non sareb-be stato possibile senza l’aiuto dei protago-nisti, che hanno permesso ai registi di ri-prendere anche aspetti molto intimi della loro vita.

“Non era solo una questione di giustizia privata”, spiega Liberti. “Non volevano che cose del genere accadessero di nuovo e quindi hanno accettato di diventare porta-voce di un’ingiustizia collettiva”.

A volte sembra quasi che i documentari di Segre e Liberti abbiano davvero un efet-

to. L’estate scorsa, mentre ilmavano in Tu-nisia, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha cominciato a occuparsi di un caso che riguardava 24 migranti, somali ed eritrei, rispediti forzatamente in Libia nel 2009. I migranti hanno fatto causa all’Italia per violazione della Convenzione europea sui diritti umani e a febbraio il verdetto del-la corte ha obbligato l’Italia a pagare a ognuno di loro 15mila euro di danni. Gli av-vocati difensori dei migranti hanno mo-strato anche alcune sequenze di Come un

uomo sulla terra, per dimostrare che l’Italia aveva mandato gli africani incontro a un trattamento orribile.

In Mare chiuso si vede anche il momento in cui la Corte europea emette questa sen-tenza decisiva, e la reazione dei migranti che si erano riuniti a Roma negli uici dei loro avvocati in attesa del verdetto. Quando arriva la telefonata da Strasburgo scoppia-no grida e risate.

Il governo italiano ha riconosciuto la sentenza della Corte, ma inora non ha an-cora formalmente preso misure per fron-teggiare la questione della migrazione di massa, che probabilmente si riproporrà ora che il clima torna a riscaldarsi.

Liberti ha detto che la prima del ilm è stata programmata in coincidenza con i nuovi sbarchi: “Vogliamo fare pressione sull’opinione pubblica, che può poi inluen-zare le azioni del governo”, ha aggiunto. “È questo il nostro obiettivo”. u nv

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Da sinistra: Andrea Segre, Matteo Ca-lore e Stefano Liberti sul set del ilm

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Cultura

CinemaItalieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana Paul Bompard, corrispon-dente di Times Higher Educa-tion e collaboratore del Times.

Il sorriso del capoDi Marco Bechis. Italia 2011, 75’●●●●● Un rainato collage di spezzoni di ilm di propaganda del periodo fascista mette a fuoco gli aspetti individuali, umani e psicologici di un tempo lungo e non tanto remoto della storia d’Italia. Di documentari sul fascismo illustrati da ilmati dell’Istituto Luce e del Minculpop ne sono stati “assemblati” molti. Ma questo è diverso. I ilmati scelti da Bechis mostrano lati insoliti e curiosi della propaganda. Il commento viene in parte dalle voci retoriche degli stessi ilmati, ma soprattutto dai racconti del padre di Bechis, Riccardo, che con pazienza e candore spiega cosa volesse dire vivere e crescere nell’Italia fascista, e la fondamentale ingenuità e innocenza di un’Italia che in vent’anni viene plasmata nella bolla di vetro del regime. Nato nel 1920, da un padre bonariamente fascista e da una madre (ebrea) apolitica ma che “non sopporta Mussolini”, Riccardo Bechis ripercorre i suoi ricordi delle scuole, della gioventù, poi della guerra e della disillusione inale. Un documentario toccante, commovente, che lascia il dubbio che in qualche modo l’Italia sia ancora oggi, in parte, il prodotto di quel regime e del “vuoto” storico che ha prodotto.

Durante la cerimonia degli Oscar russi esplode una polemica sul sostegno elettorale a Putin da parte di alcuni attori Domenica 8 aprile, a Mosca, sono stati assegnati i premi Ni-ka, conferiti dall’accademia russa delle arti e delle scienze, l’equivalente degli Oscar. Il premio per il miglior ilm dell’anno è andato a Zhila-byla odna baba (C’era una volta una donna) del regista Sergei Smir-nov. Ma a fare notizia è una po-lemica che coinvolge la pre-sentatrice della serata Ksenija Sobchak e l’attrice Çulpan Khamatova. Khamatova, che

molti ricordano per la sua in-terpretazione in Good bye, Le-nin! e che gestisce una fonda-zione per i bambini malati di cancro, ha partecipato insieme ad altri attori russi a un video-clip di sostegno a Putin, in oc-casione delle elezioni presi-denziali. Sobchak ha chiesto

all’attrice se è vero che è stata costretta a prendere parte al video, altrimenti i inanzia-menti pubblici alla sua fonda-zione sarebbero stati sospesi. L’attrice ha preferito glissare, ma in sala si è scatenato un pu-tiferio e la polemica si è in-iammata nei giorni successivi, soprattutto su internet. Il con-sigliere economico del Cremli-no, Arkadi Dvorkovich, ha aspramente criticato Sobchak che si è difesa sul suo blog: “Non ho criticato Khamatova né l’ho giudicata. Le ho solo fatto una domanda che inte-ressa tutti, alla quale lei ha pre-ferito non rispondere”.Libération

Dalla Russia

Sostegno al presidente

Çulpan Khamatova

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Legenda: ●●●●● Pessimo ●●●●● Mediocre ●●●●● Discreto ●●●●● Buono ●●●●● Ottimo

Biancaneve 1111111111 - 11111 11111 - - 11111 - 11111 11111

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11111La furia Dei titani 1111111111 - 11111 11111 - 11111 - 11111 -

GhOst riDer 1111111111 11111 - 11111 11111 - 11111 - 11111 11111

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In uscita

Bel amiDi Declan Donnellan e Nick Or-merod. Con Robert Pattinson, Uma Thurman, Christina Ricci, Kristin Scott Thomas. Gran Bre-tagna/Francia/Italia 2012, 102’●●●●● Georges Duroy (Robert Pat-tinson), un povero reduce di guerra di origini contadine, entra nel mondo della buona società parigina, sotto l’ala protettrice del suo vecchio amico Charles Forestier. Du-roy sembra molto interessato alle belle dame dell’alta socie-tà tra cui Madeleine Forestier (Uma Thurman), Virginie Walters (Kristin Scott Tho-mas) e Clotilde De Marelle (Christina Ricci). Per il suo aspetto Pattinson sembra par-ticolarmente adatto a inter-pretare il protagonista del rac-conto antimoralista di Guy de Maupassant. Ma dietro le ap-parenze c’è ben poco. Nel ro-manzo del 1885 Duroy è un giovane attraente, cinico e astuto, che usa i suoi doni na-turali per sedurre ogni donna inluente in grado di garantir-gli l’ascesa sulla scala sociale. Pattinson senza dubbio è un bel ragazzo, ma se gli si chiede di trasmetterci le abilità di Du-roy con dialoghi a dir poco mi-nimali, tutto si traduce in sguardi penetranti che si ripe-tono alla noia. Anche la storia è moderna e attuale. Oggi è ancora più possibile di allora raggiungere fama e successo

senza avere particolari doti. Ma questo ilm, che raduna un cast notevole in una serie di performance più o meno tea-trali, ha ben poco dietro la su-pericie. Come Duroy, è bello da vedere, ma dentro è com-pletamente vuoto. Del resto Robert Pattinson non è John Malkovich.Olly Richards, Empire Magazine

LennoNycDi Michael Epstein. Stati Uniti 2011, 115’●●●●● Di documentari su John Len-non ne sono stati fatti tanti. Forse uno ogni autunno, da quando è morto. E questo, al-meno all’inizio sembra uno dei tanti. Ma poi c’è un punto di svolta che lo rende molto in-teressante. Non tanto perché svela qualcosa di inedito sul rapporto di Lennon con New York. Come ricordano alcuni amici di Lennon, gente con la memoria da elefante, il can-tante mise in grande imbaraz-zo Yoko Ono: dopo la rielezio-ne di Nixon, Lennon era stra-volto e fuori di testa e a un par-ty tradì Yoko Ono con un’altra donna. Ono lo mise al bando da New York e lui se ne andò sulla West Coast. E proprio a questo punto il documentario di Epstein è riuscito a stringere l’obiettivo su John Lennon e non su “John Lennon”. Il ilm di Epstein si distingue per il suo genuino interesse nei con-fronti dell’uomo e dell’abitan-te della grande mela e non sul leggendario cantante dei Beat-les e poi del grande paciista, impegnato politicamente e in-separabile compagno di Yoko Ono. È forse indicativo che in questo ilm John Lennon si ve-de quasi sempre in momenti di relax. Chris Cabin, Slant Magazine

BattleshipDi Peter Berg. Con Taylor Kitsch, Rihanna, Liam Neeson. Stati Uniti 2012, 131’●●●●● Gli scienziati mandano un se-gnale radio nello spazio, alla ricerca di vita aliena. La rispo-sta arriva dal Pianeta G, sotto forma di navi aliene che s’ina-bissano dalle parti delle Ha-waii. Toccherà al marinaio Alex Hopper (Taylor Kitsch) e alla sua ciurma impedire un’invasione aliena su larga scala. Battleship sembra un progetto talmente idiota, sia nel concetto sia nella realizza-zione, che quasi si è tentati di pensare che il regista Peter Berg, il protetto di Michael Mann, autore di The Kingdom, abbia voluto scherzare. Gli scienziati (booo!) mettono in pericolo l’umanità. Per fortu-na c’è la marina (urra!) a ri-mettere a posto le cose. Un ilm che, sulla scia di Trasfor-mer, ha intenzione di rilancia-re un gioco da tavolo, la buona vecchia battaglia navale (na-turalmente nella versione in scatola marcata Hasbro). Dev’essere uno scherzo. Ma invece è evidente che sia il re-gista sia i produttori fanno sul serio. Già il fatto che la marina militare sia realmente coin-volta nel progetto doveva far venire qualche sospetto. Berg e i suoi collaboratori forse vanno anche ammirati per es-sere riusciti a concepire una sequenza che richiama il gio-co da tavola su cui il ilm, as-

surdamente, si basa. Ma è un tocco di stravaganza dramma-ticamente isolato in un gioco che sembra aver mancato completamente l’obiettivo. Nick de Semlyen, Empire Magazine

Ancora in sala

17 ragazzeDi Delphine e Muriel Coulin. Con Louise Grinberg, Juliette Darche. Francia 2011, 90’●●●●● Di fronte al primo lungome-traggio delle sorelle Coulin viene in mente Il giardino delle vergini suicide di Soia Coppo-la, altra opera prima che inda-ga nei misteri dell’adolescen-za femminile. Ambientato dalla parte opposta dell’Atlan-tico, nella cittadina portuale di Lorient, 17 ragazze sembra la visione speculare, proleta-ria e vitale, dell’altro ilm. Se il ilm solare di Soia Coppola i-niva con il suicidio di cinque sorelle, il ilm lunare (anche solo per l’inluenza dell’astro sulle maree) delle sorelle Coulin comincia con dicias-sette liceali che si ritrovano incinte. Il loro stato non è do-vuto al passaggio di una mi-steriosa forza aliena sul villag-gio, ma solo alla volontà delle ragazze di prendere in contro-piede il loro incerto avvenire e costruire un’utopia collettiva in cui allevare tutte insieme i loro igli.Le sorelle Coulin hanno saputo cogliere tutte le potenzialità che ofre il corpo di una ragazza madre, elevate alla diciassettesima potenza. Filmano i corpi in gestazione, sospesi tra infanzia ed età adulta, oscillando tra paura di esclusione e volontà di essere presenti. E tutto il ilm sembra rispondere a questa dinamica pendolare.Nicolas Azalbert, Cahiers du cinéma

Mare chiusoDi Andrea Segree Stefano Liberti (Italia, 60’)

Young adultDi Jason Reitman (Stati Uniti, 94’)

Cesare deve morireDi Paolo e Vittorio Taviani (Italia, 76’)

I consigli della

redazione

Bel ami

Battleship

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Libri

Un dizionario molto particolare cerca di individuare i tormenti dell’identità tedesca Non è una novità. La Germa-nia è sempre in diicoltà quando deve parlare di se stes-sa. “Dopo la barbarie totalita-ria del nazismo, per decenni la questione dell’identità più profonda del paese è stata ac-curatamente evitata”, così lo scrittore e giornalista Richard Wagner (marito del premio Nobel per la letteratura 2009, Herta Müller) introduce il suo libro Die deutsche Seele (L’anima tedesca), irmato in-sieme alla scrittrice Thea Dorn, molto popolare in Ger-mania. Il volume, che da gen-naio è stabilmente ai primi po-sti delle classiiche della saggi-stica, si presenta come un

Dalla Germania

L’anima di un popolo

Carola SusaniEravamo abbastanza bambiniMinimum fax, 210 pagine, 13,50 euro

Che strano e fascinoso romanzo ha scritto Carola Susani inventando una vicenda non realistica ma romanzescamente plausibile, che afonda l’ispirazione nella cronaca così come in Dickens, Stevenson, Hugo e nelle favole nere dei bambini in mano agli orchi e alle streghe, afascinati dal piferaio di Hamelin. È uno di loro, un preadolescente, a

raccontare. Rapito alla famiglia da uno strano zoppetto assistito da altri bambini da lui rapiti e che loro chiamano il Raptor, segue i destini del gruppo dal conine triestino ino a Roma, dove la storia avrà la sua soluzione, tragica per il Raptor, che in qualche modo se la cerca, e apparentemente positiva per i ragazzi e l’ultimo rapito, un neonato, tra La Rustica e piazza San Pietro. Ma chi è il Raptor? Non è uno zingaro, ma un ex religioso che sida la chiesa e delle cui idee

sappiamo il poco che ne sanno i bambini che – con le loro diverse origini e sensibilità, le loro tenerezze e la loro aggressività – vivono con lui la precarietà dell’avventura, in un mondo adulto incerto o ostile, a volte ancora simpatico. Dove “la specie umana va a caso, spazzando via tutto”. Un viaggio iniziatico? Un itinerario mosso da domande senza risposta (il papa tace) ma dove l’andare potrebbe ancora essere, tra libertà e paura, un andare di vita. u

Il libro Gofredo Foi

Il piferaio della Rustica

Italieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Frederika Randall, che scri-ve per The Nation.

Alessandro CoppolaApocalypse TownLaterza, 235 pagine, 13 euro

●●●●●Nel 1919 il giornalista statuni-tense Lincoln Stefens visitò l’Unione Sovietica, e ne tornò entusiasta. “Ho visto il futuro, e funziona”, scrisse. Più tardi se ne pentì. L’urbanista Ales-sandro Coppola, davanti alla devastazione postindustriale della rust belt, la cinta di ruggi-ne degli Stati Uniti, si chiede se “la ine del fordismo reale” non abbia “generato più mace-rie” dell’Unione Sovietica. De-troit, Bufalo, Cleveland, Youngstown: fabbriche chiuse, famiglie distrutte, intere zone abbandonate, miseria, droga, criminalità. La classe politica, in gran parte senza idee e spesso corrotta, tenta la fortu-na nel peggiore dei modi, cer-cando di attirare casinò o car-ceri per rinnovare l’economia locale. Eppure, nelle macerie della rust belt, Coppola vede più di un barlume di speranza. L’attività artigianale di smon-tare e riciclare le vecchie case di Bufalo. Gli orti urbani di Milwaukee diventati modelli di una nuova agricoltura urba-na rispettosa dell’ambiente e perino un’alternativa alla mo-nocoltura industrializzata. Senza illusioni, Coppola vede progetti che invitano alla par-tecipazione, creano lavoro, usano risorse in modo creati-vo. Può Detroit, ridotta a un terzo della sua popolazione del 1950, convertirsi in un ar-cipelago verde? Un bel saggio con mille idee nuove per un Italia stanca e avvilita.

glossario. Diviso in 62 voci, s’interroga sulle componenti della “personalità nazionale”, partendo dal presupposto che non è possibile, e non è giusto, concentrare duemila anni di storia nel solo periodo che va dal 1933 al 1945. Dorn si è oc-cupata della parte giocosa

dell’opera, facendo ricorso alla poesia, a inti dialoghi e a spe-rimentazione di vario genere. Wagner invece ha il ruolo del-lo storico serio, senza tuttavia pretendere di dominare ogni settore del sapere. Frankfurter Allgemeine Zeitung

Cultura

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Ferdinand von SchirachIl caso ColliniLonganesi, 167 pagine, 14 euro ●●●●●Probabilmente è giusto dire che Ferdinand von Schirach è diventato uno dei più famosi scrittori tedeschi nonostante il suo cognome, e non a causa di esso. Suo nonno era infatti Baldur von Schirach, il nazista che guidò la gioventù hitleria­na e fu condannato a vent’anni di prigione per crimini contro l’umanità al processo di No­rimberga. Ora il nipote ha de­ciso di afrontare pubblica­mente il suo passato familiare, includendo nel suo ultimo li­bro un personaggio basato sul nonno. Il caso Collini è un thril­ler che racconta la storia di Ca­spar Leinen, un giovane avvo­cato che deve difendere un as­sassino italiano di nome Fabri­zio Collini. Dopo poche pagine Collini ammette di aver ucciso un industriale tedesco di no­me Hans Meyer, sparandogli quattro volte alla nuca. Ma non dice perché. La vittima era il nonno del migliore ami­co d’infanzia di Leinen e per l’avvocato era diventato una i­gura paterna. Dopo un lungo esame di coscienza, Leinen decide di seguire il caso. Que­sto romanzo è un classico esempio di quel che in Germa­nia si chiama Vergangenheits-bewältigung, il fare i conti con il passato. Helen Pidd, The Guardian

Meg WolitzerLa città delle ribelliGarzanti, 246 pagine, 16,60 euro●●●●●Nell’ultimo romanzo di Meg Wolitzer, come nella Lisistrata di Aristofane, tutte le donne – da quelle nel pieno della pu­bertà a quelle per cui il sesso è solo un ricordo piacevole – de­cidono di chiudere bottega. La

commedia antica era ambien­tata ad Atene. Il romanzo a Stellar Plains, nel New Jersey, e le donne studiano o insegna­no al liceo Eleanor Roosevelt. Ci sono altre diferenze signi­icative. Ad Atene, le donne fanno lo sciopero del sesso per un nobile obiettivo: mettere i­ne alla guerra del Peloponne­so. Nel romanzo, sono stregate da un misterioso vento freddo che soia nelle loro case, sotto le loro gonne, nei loro cuori. E se le donne di Aristofane non smettono di desiderare il sesso – di modo che il loro è un au­tentico sacriicio – le donne di Stellar Plains hanno solo occa­sionali momenti di desiderio. Non sono in sciopero, hanno semplicemente chiuso. C’è una sorta di strega nel liceo, la nuova insegnante di teatro, che decide di mettere in scena la Lisistrata come recita scola­stica. Durante le prove dello spettacolo, l’incantesimo dila­ga per alcune delle protagoni­ste. Ovviamente, mariti e i­danzati sono furiosi, ofesi, sconcertati. Potrebbe suonare come un romanzo femmini­sta, ma gli uomini ne escono piuttosto bene. Jincy Willett, The New York Times

Vanessa Schneider17 ragazzeBarbès, 180 pagine, 14 euro●●●●●Nel 2008 la città di Glouces­ter, sulla costa orientale degli Stati Uniti, ha registrato un boom delle nascite. Diciasset­te ragazze della stessa scuola hanno partorito nel giro di po­chi mesi. Non avevano neppu­re sedici anni e correva voce che alcune di loro avessero de­ciso di restare incinte insieme. Questo fatto di cronaca, all’epoca molto seguito dai mezzi d’informazione, ha ispi­rato il romanzo di Vanessa

Katia MetelizzaIl nuovo abbecedario russo (66thand2nd)

William LangewiescheEsecuzioni a distanza (Adelphi)

Ed McBainVite a perdere (Einaudi)

I consigli della

redazione

Annalena McAfeeL’esclusivaEinaudi, 400 pagine, 21 euro●●●●●L’esclusiva è un racconto dalla logica crudele, ma anche una commedia di maniera, estre­mamente divertente, sugli ul­timi giorni di Fleet street e il culto della celebrità.

È il primo romanzo di An­nalena McAfee, giornalista con trent’anni di esperienza. La tentazione è quindi di leg­gerlo come un romanzo a chiave, ma non ce n’è bisogno. L’esclusiva crea un suo mondo a parte perfettamente credibi­le. Tamara Sim, reporter sui vent’anni ambiziosa ma idio­ta, ha ricevuto l’incarico della sua vita. Deve intervistare l’ottantenne Honor Tait, un’ex corrispondente di guerra, contemporanea di Martha Gellorn e nota per i suoi modi dispotici. La posta in gioco è alta. Honor è rimasta quasi al verde e ha bisogno che il suo nuovo libro venda. Ma sa an­che di essere vecchia e stanca: questa intervista potrebbe es­sere l’ultima. Per Tamara è l’occasione di dare una svolta alla sua carriera.

Tamara è un grande perso­naggio comico nella tradizio­ne di Bridget Jones: perdente ma in grado di suscitare com­passione. L’intervista a Honor Tait è un incarico a sorpresa. Il problema è che Tamara è più a suo agio con la Lista delle ce­lebrità colpite da cellulite.

Tuttavia McAfee è impar­ziale. La grande Honor Tait è ovviamente un immenso, au­tentico talento, una donna do­tata di integrità morale ed equilibrio, tutto quello che Ta­

Il romanzo

Uno spasso giornalistico

mara – con le tasche piene di note spese contrafatte – non è. Ma chi delle due è la vera scema? Anche Tait può essere vista come un’egocentrica bufona. Ogni mese riunisce giovani uomini di bell’aspetto che le servono bicchieri di Martini e la intrattengono con umoristiche recensioni teatra­li. Nell’intimità è perseguitata dai suoi ricordi: Buchenwald, Norimberga, Corea, Vietnam. Ha anche un inconfessabile segreto.

L’esclusiva è un intelligente spasso letterario. La narrazio­ne passa senza sforzi da un re­gistro all’altro, mettendo fac­cia a faccia il serio e pesante giornalismo di cui Honor è stata una pioniera, con le chiacchiere da tabloid che hanno invaso il cervello di Ta­mara.

E come nella migliore tra­dizione dei romanzi satirici che parlano di giornalismo, si tratta di una scrittura delizio­samente impregnata di umo­rismo nero. Viv Groskop, The Independent

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Annalena McAfee

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Cultura

Libri

Studs TerkelI giganti del jazz Sellerio, 253 pagine, 10 euroIn Italia è uscito solo il suo pri-mo libro, questa raccolta di biograie di jazzisti scritta nel 1956. Ma negli Stati Uniti, e più in generale tra chi s’inte-ressa di storia e società, Studs Terkel è considerato un capo-stipite. Prima come intervista-tore e conduttore di program-mi radiofonici e televisivi, poi come ricercatore presso il Chicago history museum, Ter-kel, morto a 96 anni nel 2008,

ha dato un contributo impor-tante a quella che oggi viene chiamata storia orale, la rico-struzione del passato attraver-so i racconti delle persone.

Libri come Division street America (1967) sulla città di Chicago, o Hard times. An oral history of the Great Depression (1970), o ancora Race. How blacks and whites think and feel about the american obsession (1992) non sono altro che rac-colte di discorsi a largo rag-gio, preceduti da poche righe di introduzione che fornisco-no le informazioni essenziali

su chi parla. La grande onestà intellettuale del raccoglitore di testimonianze e il suo ri-spetto per le storie che le per-sone raccontano (e per il mo-do in cui lo fanno) mettono il lettore nella condizione di fa-re qualcosa che di solito, leg-gendo un saggio, si tende a non fare: ragionare su un pro-blema, trovare una soluzione piuttosto che capire cosa so-stiene l’autore, compiere in-somma una propria ricerca, con i ritmi lenti e fertili dell’ascolto di una storia coin-volgente. u

Non iction Giuliano Milani

Il collezionista di voci

Schneider. Una giornalista straniera intervista quattro di queste ragazze, amiche, che si confessano gradualmente. Questo mormorio di voci in-crociate rivela le loro motiva-zioni. Lana, indicata come la mente del quartetto, espone le sue convinzioni: le ragazze so-no rimaste incinte insieme e insieme cresceranno i loro bambini. Sue, che viene da una famiglia molto cattolica, tiene testa alla madre e soprat-tutto al padre, un uomo bruta-le e ottuso. Kylie, cresciuta da una madre single che voleva fare di lei una piccola Miss, si abbandona a sogni di celebri-tà. Inine Cindy, che abita con il fratello minore a casa della zia, spera di poter vivere pre-sto con Tim, il padre del bam-bino. Vanessa Schneider ha scelto di raccontare il caso at-traverso queste voci immagi-narie, basandosi sulle infor-mazioni circolate all’epoca, e questo conferisce al suo ro-manzo nervoso un accento di verità. Il resto si deve a eicaci

espedienti romanzeschi. Fa-cendo da levatrice alla parola di queste ragazze, la giornali-sta porta alla luce le ferite del-la loro infanzia, mette in risal-to le loro speranze e il loro do-lore per la disafezione di geni-tori e parenti. Le ragazze aspettano con ansia il loro bambino, che ameranno e che le renderà invulnerabili. Françoise Dargent, Le Figaro

David FoenkinosLe nostre separazionie/o, 170 pagine, 17 euro

●●●●●“Le unioni create dall’amore in generale iniscono male”, scriveva Schopenhauer. Nutri-to dalla prosa amara del iloso-fo, Fritz, l’eroe del settimo ro-manzo di David Foenkinos, possiede un talento speciale per il disastro. Quando si lega ad Alice, ragazza di buona fa-miglia, sente che la loro rela-zione li porterà fuori strada. Ed è vero che insieme non smetteranno di sbandare, a

forza di rotture e riavvicina-menti. A tenerli uniti è tuttavia un sentimento forte, “uno di quelli che vi collocano nella categoria degli esseri ridicoli”. Strano ed emozionante, il ro-manzo di Foenkinos è caratte-rizzato dalla sua consueta iro-nia pungente, ma stavolta è un umorismo che si tinge di ma-linconia. Sulla carta, la storia d’amore che il libro racconta sembra simile a tutte le altre. A farla fallire è la natura volu-bile e adolescenziale del pro-tagonista, e la sua incapacità di essere felice. Il romanzo non punta tanto a ofrire una visione pessimista e assurda dei legami sentimentali, quan-to a seguire ino alla ine una traiettoria amorosa deviata dal suo traguardo originario. I due protagonisti non arriveranno mai a vivere insisme. Un genio maligno sembra accanirsi con-tro di loro. Tuttavia, i loro de-stini continuano a seguire strade parallele ino a saldarsi in modo inatteso. Le Nouvel Observateur

Psicologia

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Susan CainQuiet VikingInno agli introversi e ai timidi, a chi preferisce ascoltare inve-ce di parlare, leggere piuttosto che andare a una festa. Secon-do Susan Cain, che ha dovuto lottare per superare la sua ti-midezza, gli introversi hanno dato, e continuano a dare, un contributo essenziale – e sotto-valutato – alla nostra società.

John L. LockeDuels and duets Cambridge University PressNella prima pagina del suo saggio, Locke, professore di linguistica a New York, afer-ma che le diferenti strategie dell’uso del linguaggio tra uo-mini e donne sono biologiche e non sociali o culturali.

Charles DuhiggThe power of habit Random HouseCharles Duhigg, giornalista del New York Times, ha stu-diato le abitudini – buone e cattive – in tutti i loro risvolti, psicologici, sociali, cognitivi. Libro convincente e piacevole.

Elise Ricadat e Lydia TaïebRien à me mettre Albin MichelPerché ci vestiamo, per mo-strarci o per nasconderci? E per chi, per noi o per gli altri? Due note psicanaliste francesi cercano di rispondere a queste domande apparentemente ba-nali, citando casi esemplari.Maria Sepausalibri.blogspot.com

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Ricevuti

Fumetti

Un palombaro nel deserto

Stéphane LevalloisNoéDouble Shot, 176 pagine, 13 euroI racconti brevi di Moebius, Arzach e Il garage ermetico, sono impostati sulla base del celebre editoriale-manifesto scritto dallo stesso Moebius in uno dei primi numeri di Métal Hurlant, a metà degli anni settanta. Auspicava storie inalmente non concepite come una casa, con una porta per entrare, le inestre per guardare fuori e il caminetto per il fumo. Piuttosto storie a forma di elefante (Arzach) o iammella di cerino (Il garage ermetico, i racconti brevi). Stéphane Levallois, autore di Noé, è un tardo iglio di Moebius. Noé è stato pubblicato in Francia oltre dieci anni fa dagli Humanoïdes Associés (il nome è di Moebius), editori di Métal Hurlant. Levallois per molti anni ha lavorato come illustratore. L’afermarsi della graphic novel gli consentì di tornare a realizzare, per

Futuropolis-Gallimard, nuovi libri, muti e onirici come questo. L’autore, nell’intervista per l’edizione italiana, spiega che ha voluto fare “un’ucronia sulla guerra e la cattiveria dell’uomo”. Un palombaro trascina faticosamente un’arca nel deserto, fa capolino la cattedrale di Notre Dame, guerrieri berberi e soldati franchisti si afrontano, momenti fossili dell’immaginario e della storia. Ben presto non si avanza: il palombaro s’immobilizza. Come Moebius con Il garage ermetico, un altro fumetto sulla crisi degli immaginari che qui diventano immobili in sincronia con la storia umana. Il segno graico di Levallois, mobile quanto appuntito come una stalagmite, è perfetto per indicare questa immersione in un fascinoso universo di vestigia che si sgretola o prende fuoco.Francesco Boille

Win TinUna vita da dissidenteObarraO, 231 pagine, 16 euroIl racconto dell’esperienza da prigioniero politico del braccio destro di Aung San Suu Kyi e cofondatore della Lega nazio-nale per la democrazia.

Patrick WhiteieldPermacultura per tuttiTerranuova, 212 pagine, 10,50 euro Derivato dalla fusione di per-manent e agricolture (agricol-tura permanente), la perma-cultura va oltre l’agricoltura sostenibile e progetta insedia-menti umani modellati sugli ecosistemi naturali in grado di automantenersi e rinnovarsi con un basso consumo di energia.

Alfredo MacchiRivoluzioni s.p.a. Chi c’è dietro la primavera arabaAlpine Studio, 301 pagine, 14 euro Il ruolo di organizzazioni, fon-dazioni, sceicchi e servizi se-greti dietro le rivolte che han-no interessato Nordafrica e Medio Oriente.

Ilaria SesanaLa manutenzione della bicicletta e del ciclista in cittàAltraeconomia, 138 pagine, 9 euro In tempi di benzina a quota due euro, un manuale per chi vuole usare il mezzo di tra-sporto più semplice, veloce e conveniente.

A cura di Mimma Pallavicini30 segreti del giardiniere Vallardi, 80 pagine, 6,90 euro Trucchi ed espedienti utili per

vivere al meglio l’esperienza del giardinaggio.

Slavoj ŽižekBenvenuti in tempi interessanti Ponte alle Grazie,138 pagine, 13 euro I tempi prossimi saranno dav-vero interessanti perché ci da-ranno modo di ripensare le ra-dici stesse della convivenza umana.

Bruno TintiLa rivoluzione delle tasse Chiarelettere,153 pagine, 12 euro La vera rivoluzione di Monti sarebbe quella di far pagare le tasse a tutti. Potremmo essere più ricchi. Ma bisogna volerlo e non aver paura di perdere il voto degli evasori.

Autori variA4God Promo,107 fogli, 20 euro Più di cento artisti e illustrato-ri hanno disegnato per questo progetto la loro idea di Dio. In vendita in alcune librerie e su www.a4god.com

Mario PiantaNove su dieci Laterza,176 pagine, 12 euro Ogni ricco ha il reddito di cen-to poveri. Com’è potuto succe-dere? Togliere ai poveri per dare ai ricchi, rendere il lavoro più debole e il capitale più for-te è da trent’anni l’orizzonte del liberismo.

Gabriele SalariN come natura Editoriale Scienza,128 pagine, 12,90 euro Un viaggio attraverso i cinque continenti e i sette mari, alla scoperta della natura e del no-stro meraviglioso pianeta. Per bambini di almeno otto anni.

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Cultura

1 Cesare Picco Piano calling Quelle volte che manco ti

alzeresti dal letto, che le cavi­glie si piegano sotto la zavorra di piombo della mente, che tutto sembra inutile come è, conviene fuggire con il piani­sta dalla ine calligraia. Picco, milanese che dà appuntamen­ti al buio portando il pubblico dentro e fuori l’oscurità a bor­do di note educate all’essen­ziale, torna con un nuovo al­bum che emana segnali. Piano calling forse è semplice voca­zione allo strumento, e forse è quel potere limpido della mu­sica, che chiama, come la vita. Come un codice morse per contattare l’anima.

2 Maps & Atlases Be three years old Regredire in maniera in­

telligente si può: prendere sti­lemi country e trattarli come una dimostrazione di matema­tica alla lavagna, poi a colpi di spugna, di spazzole e di tex­ture ruminare su quel che resta del rock, senza mai annoiare. Sono quattro ragazzi ex del Columbia college di Chicago, si son dati un bel nome di band da sussidi didattici per la geo­graia, e con l’album Beware and be grateful provvedono alla mappatura di nuove aree di di­sincanto all’americana, fuori dalle morte gore del main­stream, verso nuove avventure tra riserve indie e leghe nerd.

3 Wora Wora Washington Love it

A volte la regressione diventa aggressiva, si rinchiude in una Capannonia a nordest di techno noise e groovebox, as­solda una poetessa di bordo, scarica nuovi software attra­verso cui far scorrere l’energia sinusoidale da new new wave. Sembra di prendere piccole pillole dalle parti di Manche­ster, ma è un’energia tutta ita­liana, il sudore di tre ragazzi veneti spremuto e imbottiglia­to dalla label trevigiana Shyrec per il nuovo album Radical bending. Inebriato ma capace di stare in equilibrio al bivio tra rock ed elettrotecnica.

MusicaDal vivo120 DaysTorino, 18 aprile, spazio211.com

Beth Jeans Houghton Torino, 19 aprile, spazio211.com; Milano, 20 aprile, thisisplastic.com; Conegliano Veneto (Tv), 21 aprile, apartamentohofman .com; Roma, 22 aprile, locandatlantide.com

Michael Kiwanuka Milano, 20 aprile, magazzinigenerali.it

We Have A Band Brescia, 14 aprile, myspace.com/vinile45

The Strange Boys Segrate (Mi), 16 aprile, circolo magnolia .it; Roma, 17 aprile, circoloartisti.it; Bologna, 18 aprile, locomotivclub.it

Steve Hackett Firenze, 18 aprile, viperclub.eu; Roma, 19 aprile, stazionebirra .it; Cortemaggiore (Pc), 20 aprile, illmoreclub.net

Royal Baths Bari, 15 aprile, myspace.com /oasisanmartinomusiclive; Roma, 17 aprile, locandatlantide.com; Savignano sul Rubicone (Fc), 18 aprile, myspace.com /sidroclub; Milano, 19 aprile, teatrofrancoparenti.com; Bologna, 20 aprile, covoclub.it

Grimes è una giovane arti-sta molto determinata

Si chiama Claire Boucher, ha 24 anni, è nata a Vancouver ed è cresciuta a Montréal. E con il nome d’arte Grimes ha pubblicato da poco il suo terzo album, Visions. “Mi sento come se fosse il pri­mo”, osserva. I suoi primi due lavori erano panorami sonori elettronici tra beat, ta­stiere e solo qualche tocco pop. Poi la svolta, con una nuova sicurezza come can­tante, un contratto con la 4Ad, etichetta indie storica , e Visions, che mantiene lo scintillante sound dei primi dischi, ma con strutture più

tradizionali e testi emotiva­mente coinvolgenti. “Non vo­glio che si capisca per forza cosa signiicano le canzoni, ma non c’è niente di casuale”. Boucher ha anche attirato l’attenzione del mondo della moda, e Hedi Slimane, neodi­rettore creativo di Yves Saint Laurent, l’ha fotografata per la copertina di Dazed & Con­

fused. “All’inizio era orribile, perché tutti volevano render­mi un oggetto sessuale. Ma è stata un’esperienza prezio­sa: ho imparato a essere stronza”. Grimes prosegue una carriera anche come pit­trice, e i suoi lavori stanno per essere esposti in una colletti­va a New York: “Se sei un ar­tista lo sei in tutte le arti. Quando dipingo mi accorgo subito se quel che sto facen­do è da buttare via. Con le canzoni è lo stesso: se non c’è l’energia giusta è meglio lasciar perdere. Perché fun­zioni devo essere arrabbiata, ma non troppo”. Kevin Ritchie, Now Magazine

Dal Canada

Non solo canzoni

Playlist Pier Andrea Canei

Capannonia calling

JOH

N L

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The Strange Boys

Grimes

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RockGraham Coxon

A+E(Parlophone)●●●●●

L’album precedente di Gra-ham Coxon, The spinning top, suggeriva che l’ex chitarrista dei Blur, 43 anni, era pronto ad abbandonare il rock per un sound più consono a un uomo di mezza età. Ma ora il chias-soso A+E riaferma la sua vo-lontà di essere il teenager più anziano in circolazione. Al po-sto delle rilessioni sulla mor-talità e delle elaborate note di chitarra folk, ci sono canzoni dai titoli infantili (Ooh, yeh, yeh, Bah singer, Meet+drink+ pollinate). Coxon riprende lo spirito dei primi Blur, a cui ag-giunge l’essenzialità del punk e un tocco di Joy Division. Non è un album soisticato, ma è avvincente, e rilette dall’inizio alla ine la gioia di vivere del suo autore. Paul Mardles, The Observer

Gene Clark

Roadmaster(Sundazed)●●●●●

Cominciata sotto i migliori auspici, la carriera di Gene Clark, ex cantante dei Byrds, non ha mai raggiunto le vette che avrebbe meritato. Mae-stro nello scrivere canzoni ric-che di armonie vocali, Clark è stato un personaggio tormen-tato, come del resto la sua pro-duzione musicale, molto frammentaria. Roadmaster è uno dei suoi album più sfortu-nati. Compilato con brani re-gistrati tra il 1970 e il 1972, ini-zialmente fu pubblicato solo nei Paesi Bassi e cadde presto nel dimenticatoio, anche se continuò a essere ricercatissi-mo dai clarkoili più accaniti. Il disco ha i suoi grandi mo-

dio alti sostenuti da melodie irresistibili e mischiando be-ach pop e punk. Sembrerà ba-nale, ma rispetto ad altri mu-sicisti simili, lei è a un livello più avanzato grazie alla since-rità della scrittura. E chi ascol-ta capisce che La Sera non è qui per produrre cinicamen-te divertimento ma per farlo davvero. Andrew Halverson, Beats Per Minute

Soul

Dr. John

Locked down(Nonesuch)●●●●●

La particolarissima voce me-tallica di Mac Rebennack, no-to anche come Dr. John, co-mincia a sentire il peso di più di cinquant’anni di carriera, ma non ha perso nulla del suo spirito soul impertinente. Questo disco, prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys, è il suo migliore da molti anni. È pieno di ritmi funky e deci-samente rétro, ma anche di svolte e sorprese, rozze chitar-re blues, iati in staccato e cori angelici. Il risultato è che le lo-sche storie e le furiose prote-ste dell’artista non suonano mai datate. Dr. John ha detto che lavorare con Auerbach è stato “molto igo”. Ha proprio ragione. Joe Breen, The Irish Times World

Martha Mavroidi Trio

Portaki(Martha Mavroidi)●●●●●

Il primo album di Martha Mavroidi, The garden of Rila, era il frutto di una vitalità esplosiva e di una grande crea tività. Quell’album, che era una sintesi perfetta della musica greca di Mavroidi e

delle inluenze balcaniche e turche e dove l’artista metteva in scena pezzi e arrangiamenti autoprodotti, era uno dei mi-gliori del decennio. Portaki è diverso. È costruito intorno a un trio dal suono jazz: oltre all’artista greca ci sono Gior-gos Ventouris al contrabbasso e Giannis Aggelopoulos alla batteria, che accompagnano il suono agile e veloce della lafta elettrica (detta anche liuto di Costantinopoli) di Mavroidi, su uno sfondo di atmosfere balcaniche. Nel complesso è un album piacevole, prodotto di una sensibilità artistica straordinaria.Chris Potts, Froots

Classica

Trio Zimmermann

Beethoven: trii per archi op. 9Trio Zimmermann(Bis)●●●●●

Robert Simpson diceva che i trii op. 9 di Beethoven sono un miracolo per come non fanno mai sentire la mancanza di un secondo violino, e li deiniva “un locus classicus della lette-ratura per trio d’archi per il lo-ro stupefacente peso e la loro ricchezza di suono”. Il Trio Zimmermann è sempre all’al-tezza delle richieste del com-positore, e mantiene un per-fetto equilibrio tra le parti sen-za mai avere troppa cautela. Gli estremi radicali nell’espressione, meticolosa-mente indicati da Beethoven, sono rispettati con cura. E an-che i tempi solo scelti con grande equilibrio. Insomma, l’autore sarebbe iero del risul-tato: questo è un cd di livello straordi nariamente alto, gra-zie anche a una registrazione in sacd molto pulita. Nalen Anthoni, Gramophone

menti: Full circle song e Rough and rocky, per esempio. Ma il rilassante country rock del re-sto dell’album non è all’altez-za del valore di Clark.Will Hodgkinson, Mojo

Pop

La Sera

Sees the light(Hardly Art)●●●●● L’eterna lotta tra il sound che un artista vorrebbe e il prodot-to inale spesso si risolve in una sconitta. Le Vivian Girls e il progetto collaterale All Saints Day erano in un mo-mento di assoluta soddisfa-zione artistica quando, nel 2011, la bassista Katy Good-man crea La Sera. Il primo la-voro è in linea con la produ-zione lo-i delle Vivian Girls e fa sperare in un futuro fatto di ottimi album pop. Sees the light è un ottimo album pop. Nella band d’origine la dolcezza era il tocco della Goodman, qui domina con registri vocali me-

La Sera

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Aleksandr Melnikov

Šostakovič: concerti per piano, sonata per violino(Harmonia mundi)

Guido Cantelli

Fiery angel of the podium(Emi)

Kathleen Ferrier

Centenary edition(Decca)

Graham Coxon

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ClassicaScelti da Alberto

Notarbartolo

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Cultura

Kim Jong-IlDomenica 15 aprile, ore 21.00 RaiStoriaUn ritratto del leader della Co-rea del Nord dal 1994 al 2011. Figlio e successore di Kim Il Sung, sotto la sua guida non si sono attenuati né l’isolamento del paese né le tensioni con la Corea del Sud.

Io, la mia famiglia rom e Woody AllenDomenica 15 aprile, ore 21.00 BabelLaura Halilovic racconta la sua storia di ragazza rom in un quartiere popolare alla perife-ria di Torino, dove la sua fami-glia afronta i cambiamenti e le diicoltà della nuova vita stan-ziale.

The Pixar storyDomenica 15 aprile, ore 21.15 Rai5Viaggio alla scoperta della ca-sa di produzione americana di John Lasseter, che dopo gli esordi e qualche passo falso nei primi anni ottanta, si è av-viata a cambiare il mondo del cinema d’animazione.

Gli italiani sul TitanicDomenica 15 aprile, ore 23.00 HistoryChannelIl destino degli italiani a bordo del Titanic: oltre ai molti membri dell’equipaggio, c’era lo scultore Emilio Portaluppi, a cui sarebbe ispirato il perso-naggio di Di Caprio nel ilm di James Cameron.

Le navire du buteurMercoledì 18 aprile, ore 23.25 ArteJonathan Akpoborie è un ex calciatore nigeriano. Nel 2001 al largo delle coste africane viene bloccata un’imbarcazio-ne a lui intestata, con a bordo un carico di piccoli campioni. Una nuova forma del traico di esseri umani.

Video

vice.comI reportage di Vice si distinguono per la violazione delle regole del giornalismo tradizionale, ma anche per il pregio di documentare con molta faccia tosta situazioni che altri snobbano. Shane Smith, uno dei fondatori di Vice, si è recato alla Special operations forces exhibition in Giordania, la iera biennale dedicata agli armamenti che raccoglie circa 12mila partecipanti intorno alle proposte di almeno trecento espositori. Generali e ministri spendono i soldi dei contribuenti in sistemi missilistici, jet e carri armati. Qualsiasi divieto di vendita a regimi canaglia e governi responsabili di crimini umanitari è aggirato nel nome del mostruoso fatturato del “complesso industriale-militare”.

In rete

Per trent’anni la tv svedese ha custodito ore di ilmati realiz-zati per un’inchiesta sulle Black panthers e la comunità afroamericana. Recentemente ritrovati, sono l’ossatura di The Black power mixtape 1967-1975 di Göran Hugo Olsson, rac-conto a ritmo di musica di un movimento rimasto nell’om-bra delle lotte per i diritti civili,

caratterizzato da posizioni po-liticizzate e conlittuali tuttora di forte attualità. Interviste d’archivio a leader come Sto-kely Carmichael e Bobby Sea-le sono accompagnate da voci di igure di riferimento della comunità nera di oggi. Il dvd è uscito in Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania.blackpowermixtape.com

Dvd

Nove coppie

Sofex

Ci sono tanti modi di ricordare un disastro. A un anno di di-stanza da Fukushima – al di là delle celebrazioni, solenni o di protesta, che si sono svolte in Giappone – catene umane contro il nucleare, manifesta-zioni e marce silenziose di per-sone in tuta bianca sono silate in tutto il mondo.

Lo street artist francese Combo, per esempio, se n’è andato dalle parti di Cernobyl, in una zona contaminata che da qualche tempo è accessibile ai turisti per una visita di dub-

bio gusto di cui hanno l’esclu-sivo controllo solo poche agenzie di viaggio ucraine. Fe-dele alle sue modalità di inter-vento, Combo, senza chiedere alcuna autorizzazione, ha at-taccato sui muri scrostati di viadotti e svincoli autostradali delle immagini che prendono di mira la propaganda (e le menzogne) sulla pulizia e la si-curezza dell’energia nucleare. In una di queste immagini si vede la famiglia Simpson, sor-ridente, che si prepara per un picnic mentre sullo sfondo si

staglia, minacciosa, una cen-trale nucleare.

Con semplicità e immedia-tezza la street art, venuta dai graiti e da una forma di pro-vocazione narcisistica, dimo-stra la sua maturità, chiara-mente politica. In un momen-to in cui il mercato dell’arte sembra capace di digerire ogni crisi, questi artisti diventano star senza mostrarsi e senza pensare ai soldi. Combo ora tornerà in Francia. È tempo di elezioni e ci sono tanti muri scrostati ad attenderlo. u

Fotograia Christian Caujolle

Arte contro tutto

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L’anno dell’arte in IsraeleNegli ultimi mesi la diploma-zia israeliana si è concentrata nel dimostrare all’Europa il di-namismo della sua produzione culturale, visto che siamo nell’Art year. Il Museo di Tel Aviv ha invitato un gruppo di artisti della nuova generazio-ne a condividere gli spazi espositivi della mostra di An-selm Kiefer e dell’ultima in-stallazione video di Michael Rovner. Artisti israeliani di fa-ma internazionale, come Si-glait Landau o Yael Bartana, fanno parte di una generazio-ne che sembra essere uscita dall’isolamento creativo per un impegno attivo nella vita quotidiana e nelle cause politi-che e sociali. Con un terzo del-la popolazione al di sotto dei trent’anni e un sindaco libera-le, Tel Aviv prende le distanze dal resto del paese. Le iniziati-ve che cercano di instaurare una collaborazione creativa tra le due parti in conlitto, tutta-via, suscitano sempre diiden-za. C’è il timore che si possa far leva sulla politica. Il Mu-seum of the seam, che si trova sulla vecchia Linea verde tra ebrei e palestinesi di Gerusa-lemme, fa eccezione. Raphie Etgar, curatore del centro di arte contemporanea, collocato dal New York Times tra i primi venti musei del mondo, sce-glie opere di artisti di fama in-ternazionale. “Non abbiamo bisogno dell’arte per ricordarci che la realtà fuori è dura”, dice Etgar. “Non siamo né a destra né a sinistra ma sul conine tra ciò che è giusto e ciò che è sba-gliato”. Il museo è un ex edii-cio militare addolcito da opere di Bill Viola, Andrés Serrano, Christian Boltanski, Wim Wenders, Tacita Dean, Tho-mas Ruf e altri 25 nomi che ar-ricchiscono la recente mostra sul tema della memoria.La Vanguardia

Damien Hirst Tate Modern, Londra, ino al 9 settembre, tate.org.ukIl banco di medicinali acqui-stato dalla Tate occupa una stanza intera. Crematorium è un posacenere grande come una vasca idromassaggio, pie-no di mozziconi, cenere, carte di caramelle e iammiferi usa-ti. C’è anche A thousand years, una teca in vetro con fessure che emanano un odore nausea bondo. Dentro la teca, le mosche svolazzano su una testa di mucca coricata in una pozza di sangue congelato. È quasi impossibile scrivere un

commento incisivo sulla ras-segna di Hirst, è già stato det-to tutto. La curatrice della Ta-te, Anna Gallagher, ha tentato di spogliare l’eccesso e la ripe-tizione con scarsi risultati. La mostra si apre con i lavori de-gli ultimi anni ottanta. Poi è la volta dei primi armadietti di medicinali. A thousand years, realizzata nell’anno in cui ab-bandonò il college, è potente e sorprendente. Pulita e sudi-cia, piena di vita e di morte, formalmente sconvolgente e ricca, ha già l’aria di essere un’opera matura. Su questo la-voro Lucian Freud disse:

“Credo che tu abbia comincia-to con l’atto inale, mio caro”. È paragonabile unicamente alla vetrina sigillata che con-tiene scrivania, sedia e posa-cenere, ma anche questa ha il sapore di un’estrapolazione e non di uno sviluppo. La palli-na da ping pong sospinta ver-so l’alto da un getto d’aria, si tiene sull’ironia. Quando ha ripetuto il trucco con una pal-lone da spiaggia, l’idea non è diventata più brillante. Il resto sono variazioni e ripetizioni. Produzione, in parole povere: il business dell’arte. The Guardian

Londra

Eccessi e ripetizioni

Cultura

Arte

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Sympathy in white major. Absolution II, 2006

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“Lo stesso giorno in cui a Las Vegas il sedicenne Levi Presley si gettò dal-la terrazza panoramica a 350 metri d’altezza dell’hotel-casinò Strato-sphere, l’amministrazione cittadi-na vietò temporaneamente la lap

dance in 34 locali di spogliarello dotati di regolare licen-za, alcuni archeologi dissotterrarono da sotto un bar chiamato Buckets of Blood frammenti della più antica bottiglia di Tabasco mai rinvenuta e una signora del Mississippi sconisse una gal-lina di nome Ginger a una partita di tris durata 35 minuti”.

Comincia così What happens there, l’articolo in cui John D’Agata esplora poe-ticamente il boom disperato della Las Vegas del nuovo millennio. O almeno co-sì cominciava, ino a quando non appro-dò sul tavolo dei fact checker della rivista The Believer.

“Ciao, John. Sono Jim Fingal, lo stagi-sta incaricato di veriicare le informazio-ni contenute nel tuo articolo su Las Vegas. Ho indivi-duato una piccola discrepanza tra il numero di locali di spogliarello indicato nell’articolo e quello riportato nel-la documentazione di supporto”. La risposta di D’Aga-ta: “Ciao, Jim. Forse c’è stato un problema di comunica-zione, perché il mio ‘articolo’, come lo chiami tu, va bene così. Non serve che qualcuno veriichi i fatti. Per-lomeno questa era l’intesa con l’editor con cui ho lavo-rato inora. Mi sono preso qualche libertà, ma niente di compromettente”.

Ha così inizio quell’esercizio – a volte avvincente, altre esasperante – che è il libro The lifespan of a fact (Vi-ta media di un fatto), resoconto del conlitto tra Jim Fin-gal, redattore zelante, e John D’Agata, giornalista misti-icatore, cominciato nel 2005 e sfociato in questa colla-borazione. I frammenti dell’articolo originale di D’Aga-ta appaiono al centro delle pagine, mentre gli scambi tra i due sui fatti contestati sono pubblicati tutt’intorno. D’Agata esordisce affermando con disinvoltura che l’articolo non ha bisogno di veriiche, anche se nella maggior parte delle testate il cosiddetto fact checking è una procedura standard, che fornisce un supporto cru-ciale, per quanto nascosto, alla loro credibilità. Oltre-tutto, l’unico motivo per cui l’articolo era approdato a The Believer è che era già stato cestinato da Harper’s Magazine, su consiglio del redattore addetto al fact checking.

The lifespan of a fact testimonia i tentativi sempre più esasperati da parte di Fingal di far rispettare a D’Agata un minimo ragionevole di precisione, e il ten-tativo di D’Agata, sempre più arroccato, di far sentire Fingal un selvaggio per il semplice fatto di credere in una nozione tanto desueta. Prendiamo per esempio la prima frase. Fingal conferma l’età e il nome di Presley. Conferma l’altezza e il nome dello Strato sphere. Non può però confermare il numero di locali di spogliarello.

E in realtà il rinvenimento della bottiglia di salsa piccante è avvenuto quindici giorni prima del suicidio di Presley, sotto un bar chiamato Boston Saloon, che ef-fettivamente è vicino a un altro bar chia-mato Buckets of Blood. Solo che nessuno dei due si trova a Las Vegas. Il match di tris “signora contro gallina” risale invece a un mese dopo il suicidio.

La reazione di D’Agata a queste di-screpanze, come in un primo momento le deinisce gentilmente Fingal, può rias-sumersi in: chi se ne frega. Suona meglio

dire che quegli eventi sono accaduti tutti lo stesso gior-no, invece di appesantire il paragrafo d’apertura con una valanga di precisazioni. “Le informazioni, in que-sto caso, non sono pensate per servire da semplici in-formazioni. Il loro scopo è più quello di creare un’im-magine che d’informare”. Nel corso del centinaio di pagine che segue – la revisione occupa uno spazio alme-no cinque volte superiore a quello dell’articolo in sé – Fingal solleva dubbi non solo su alcune date, ma sull’esistenza stessa di intere conversazioni, etimolo-gie, sequenze di avvenimenti. Verso la ine, i due si ri-ducono a scambi estenuanti. Jim: “Io, ipotetico lettore, conido nel fatto che tu mi dica cose vere, o che almeno tu ti prenda la briga di avvisarmi quando dici qualcosa di palesemente falso, anche se questa falsità dipende da ‘ragioni artistiche’. Voglio dire, chi sei tu per potermi spacciare come dati di fatto delle leggende messe insie-me alla bell’e meglio, inischiandotene di qualsiasi cri-terio di veridicità?”. John: “Si chiama ‘arte’, sciocco”.

In realtà non dice “sciocco”: ho dovuto modiicare il virgolettato, in linea con le regole del New York Times in materia di turpiloquio, violando così un’altra regola secondo la quale i virgolettati non si possono cambiare. Ma a D’Agata cosa volete che importi?

La tesi di D’Agata è che dovremmo rinunciare all’idea che esista un genere chiamato “saggistica”, tor-nando invece ai tempi più ambigui e artistici, grosso

La dura lotta del fact checker

“Io, ipotetico lettore, conido nel fatto che tu mi dica cose vere, o che almeno tu ti prenda la briga di avvisarmi quando dici qualcosa di palesemente falso”

Gideon Lewis-Kraus

è un giornalista statunitense. Questo articolo è uscito sulla New York Times Book Review con il titolo The fact-checker

versus the fabulist.

Gideon Lewis-Kraus

Pop

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Internazionale 944 | 13 aprile 2012 97

modo da Erodoto fino al 1940, in cui della parola “saggio” ci bastava l’accezione più strettamente etimo-logica di “tentativo, prova, esperimento”. Dall’alto del-la sua cattedra di docente di saggistica alla University of Iowa, D’Agata ha più volte sostenuto che testi come questi si leggono per la “poesia dell’esperienza”, più che per la semplice “esattezza”. Questa retorica gli ha fatto guadagnare un seguito di culto tra i giovani scrit-tori dediti a quel genere solitamente (benché inadegua-tamente) deinito in inglese non iction. Se fosse possi-bile smettere di usare l’espressione non iction e coniar-ne invece un altro, quali sarebbero le ricadute per scrit-tori e lettori?

D’Agata ritiene che la domanda sia interessante in astratto, ma che le relative deinizioni siano inevitabil-mente sociologiche. Lodiamo, deinendolo non iction,

quel che è in linea con i criteri stabiliti da qualsiasi isti-tuzione che nel corso del tempo abbia pubblicato reso-conti credibili. Di questo D’Agata è perfettamente con-sapevole, e si guarda bene dal valicare conini che lo farebbero scadere nel ridicolo. Non si sognerebbe mai, per esempio, di sostenere che Jayson Blair, l’ex giorna-lista del New York Times licenziato per aver inventato articoli di sana pianta, meriti la nostra ammirazione perché quel che scriveva era poesia. Ma un po’ difende James Frey, l’autore del romanzo autobiograico In un milione di piccoli pezzi, accusato di aver inserito nel libro episodi falsi, perché, pur ritenendolo uno scrittore sca-dente, trova che abbia comunque assolto a uno dei suoi obblighi nei confronti dei lettori, quello di “dare un’esperienza di qualità”. Ma allora dove va collocato il conine tra irresponsabilità e licenza poetica? L’unico

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modo per dare un valore a questa tesi della “terza via” è quella di ascrivere a D’Agata il desiderio di veder nasce-re un nuovo tipo di istituzione, capace di generare aspettative coerenti con un genere d’opera nuovo che abbia, come dice lui, “valore artistico”. Ci sono già mol-ti scrittori del genere, ma potrebbe comunque essere interessante rivendicare la necessità di una terza via, se solo D’Agata riuscisse a indicare qualche miglioramen-to concreto che comporterebbe la sua nascita uiciale.

Quel che la sua tesi non coglie, o che ignora delibe-ratamente, è che il “valore artistico” di un testo scritto ha molto a che vedere con la misura in cui soddisfa le aspettative dei lettori. D’Agata vorrebbe che giudicassi-mo un testo sulla base dei soli meriti artistici, quando in realtà, nel caso della non iction, questi meriti sono le-gati al mondo reale. L’autorevolezza della narrativa di-pende dalla sospensione dell’incredulità: un romanzo deve convincerci che i sentimenti di persone inventate siano rilevanti. La non iction, invece, è innocente ino a prova contraria. Le andiamo incontro mossi dal natu-rale senso d’immedesimazione che proviamo verso tutto quel che avremmo potuto vivere in prima persona, e quindi con le difese abbassate. Ne consegue che l’au-torevolezza della non iction deriva dall’organizzazione al tempo stesso rigorosa (chi ha scritto si è dato da fare) e abile (ha saputo scegliere i dettagli giusti) di una serie di osservazioni che, nell’insieme, formano un racconto dai signiicati sorprendenti.

Se quindi il tratto distintivo della narrativa è l’inte-resse per persone inesistenti, e quello della non iction “ortodossa” è l’organizzazione dagli esiti rivelatori di una serie di dettagli veriicabili, che genere d’espe-rienza ci ofre D’Agata con le sue ammiccanti manipo-lazioni? Spesso lascia intendere che il genere da lui praticato sia l’arte del “saggio poetico”, il che colloche-rebbe il suo lavoro nel solco di una tradizione che da Seneca e Cicerone arriva ino a Montaigne, tutti auto-ri che se la sono cavata benissimo anche senza redat-tori zelanti. Altrove, D’Agata scrive di aver abbracciato la causa perché “nella nostra cultura la saggistica tenta invano da decenni di essere considerata arte”, ma per gli appassionati di giornalismo letterario raffinato un’afermazione del genere è assurda. Inine, sostiene con un certo paternalismo che per i lettori sarebbe sa-lutare doversi sforzare un po’ di più per distinguere da soli quel che è vero da quel che è inventato.

Il sottinteso di questa afermazione è che una for-ma ibrida è necessaria per svezzarci dall’ingenua con-vinzione che la semplice etichetta di “saggistica” basti in sé a garantire che un’opera rappresenti il mondo co-sì com’è. L’ambiziosa aspirazione della non iction ha però a che vedere non solo con la rappresentazione della verità, ma anche con la sua riproducibilità. Ci piace credere che, date le stesse opportunità, anche noi saremmo potuti arrivare alla stessa interpretazio-ne degli eventi. È afascinante pensare che basti sco-prire i dettagli del mondo e condividerli. Conforta credere che vivere un’esperienza equivalga a saperla narrare. È questa, secondo me, la ragione per cui i let-tori di Frey si sono sentiti così traditi: se quegli eventi fossero capitati nello stesso ordine anche a noi, avrem-

Storie vereSusan Cole, 57 anni, era stata chiamata per far parte di una giuria al tribunale di Denver, nel Colorado. Si è presentata in uno stato disastroso: aveva le scarpe e le calze spaiate, e secondo un testimone, sembrava “come se avesse appena inito uno spettacolo”. “Sono scappata alla violenza domestica entrando nell’esercito, e ne ho avuto dei gravi danni”, ha spiegato Cole. “Uno è il disturbo post-traumatico da stress, e vivo per la strada”. Il giudice Anne Mansield ha rapidamente deciso di lasciarla andare via. Qualche mese dopo ha sentito Cole alla radio che raccontava ridendo come aveva fatto a fregare il tribunale. Ora è accusata di falsa testimonianza. La donna è autrice di un libro che insegna “come gestire le relazioni e le situazioni diicili” leggendo la Bibbia.

mo tutti potuto scrivere un libro.Un buon esempio è in un articolo di Alec Wilkin-

son, pubblicato di recente dal New Yorker, sui princi-pali detentori di record del Guinness dei primati. Biso-gna faticare un sacco per far appassionare un lettore al fatto che un personaggio inventato ha mangiato nove tonnellate di metallo altrettanto inventato. Non biso-gna praticamente muovere un dito, invece, per farlo appassionare alla vicende di un uomo che si fa chia-mare Monsieur Mangetout e che l’ha fatto in circo-stanze dimostrabili. Basta avere alcune persone ai-dabili che lo garantiscano. Fingal, passando al vaglio l’articolo di D’Agata, si è fatto garante in prima perso-na: ha sfruttato le sue vacanze a Las Vegas per riper-correre fanaticamente i passi dell’autore. Agendo per conto di tutti gli invisibili soldatini della credibilità istituzionale, ha tentato di tradurre alla lettera la no-zione che l’esperienza possa essere riprodotta.

Quel che in deinitiva risulta più bizzarro, tuttavia, è quanto il ricamare di D’Agata sembri superluo. La rilevanza dei fatti messi in discussione è quasi ossessi-vamente scarsa: le “discrepanze” sono perlopiù bana-li, e prima della pubblicazione su The Believer sono state tutte appianate. D’Agata, per esempio, descrive la sequenza di attività commerciali accanto alle quali Levi Presley sarebbe passato mentre si dirigeva alla torre. Fingal ricostruisce i possibili passi, scoprendo che D’Agata ha scelto accuratamente quelli con i nomi più eccentrici tra tutti i percorsi possibili verso lo Strato sphere. Conlitti del genere si sarebbero potuti evitare con un minimo di diplomazia preventiva. Ma l’istrionismo di D’Agata ha generato un puntiglio esa-sperato.

È in troppo chiaro come mai l’autore abbia voluto far pubblicare questa versione commentata: l’articolo originale è ottimo, decisamente superiore alla versio-ne apparsa su The Believer. Ma la colpa non è né dei fatti narrati, né del genere letterario: è di John D’Agata. Quello che non si capisce è come mai abbia voluto ma-nipolare così scioccamente il lavoro in partenza. Io, come probabilmente molti altri, provo una naturale solidarietà con una versione mitigata delle sue tesi. Esistono modalità di scrittura che si muovono agevol-mente nelle zone grigie. Tutti quanti conosciamo dei narratori i cui abbellimenti e piccoli inganni non ci danno fastidio. Ma è una consapevolezza che si svilup-pa nel corso del tempo: non spetta a nessuno di diritto. E siamo molto più portati a concedere libertà d’azione a un testo umoristico che a una seriosa meditazione sul sucidio di un adolescente.

Il problema, in deinitiva, è che D’Agata non vuole davvero nuove regole. Il fatto che le sue licenze gli ab-biano reso diicile pubblicare per il grande pubblico è un costo che ha scelto di pagare. Se non vuole avere a che fare con i Fingal di questo mondo, forse gli convie-ne cercare di pubblicare i suoi lavori come narrativa, genere che soddisfa perfettamente la sua deinizione di “arte”. Ma tentare semplicemente di piazzare i suoi testi con l’astuzia e la prepotenza è una strategia che sa di malafede, e usurpa il prestigio di una credibilità a cui lui rinuncia. u mc

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Se siete vegetariani e vi trovate ad Addis Abeba in questo periodo dell’anno, vi sen-tirete molto fortunati, visto che i ristoranti ofrono per lo più pasti vegetariani e poco altro.

È il periodo della quaresima per gli etiopi di fede ortodossa, che sono più del quaranta per cento degli ottanta milioni di abitanti del paese. Quin-di il digiuno, in questa stagione, non interessa solo le famiglie cristiane ortodosse più religiose, ma quasi tutti. Perino i musulmani, che sono circa il 35 per cen-to della popolazione, e i cristiani protestanti, che ne costituiscono il restante venti per cento, hanno dii-coltà a giustiicare il fatto che non digiunano.

La questione è che la pratica religiosa e la parteci-pazione alle feste comandate sono legate principal-mente all’indiscussa esistenza di Dio, che in Etiopia è onnipresente.

Prendete per esempio la città di Mekelle, dove in-segno io: in questa zona vendere carne durante la qua-resima è peccato. I ristoranti e le macellerie che osano contravvenire sono condannati e messi al bando, e i sacerdoti ordinano ai loro fedeli di non rimetterci pie-de inché i titolari non avranno chiesto perdono e i lo-cali non saranno stati benedetti con l’acqua santa.

Perino uno come me, che ha un nome tipicamente musulmano, deve rassegnarsi al fatto che in quel pe-riodo la carne è praticamente introvabile. Ma se la si trova, può capitare che costi di meno. A quanto pare, nella mia parte di Etiopia l’oferta non è necessaria-mente regolata dalla domanda: c’è anche lo zampino di Dio.

Dio è responsabile anche di tutto quello che di buo-no accade in quel momento e potrebbe accadere in futuro: dal “buongiorno” quotidiano (a cui si risponde “il Signore sia lodato”) all’economia nazionale, che dipende dall’agricoltura, che a sua volta dipende dalla pioggia. Se piove, la gente loderà Dio, se non piove ab-bastanza dirà che “non è la Sua volontà”.

Non è diicile trovare Dio, in Etiopia. Basta salire a bordo di uno di quei vecchi minibus bianchi e blu che circolano ad Addis Abeba, ribattezzati “diavoli blu” per la guida spericolata e la maleducazione dei condu-centi: la prima cosa che si nota sono le citazioni bibli-che aisse all’interno e all’esterno delle vetture.

Le citazioni sacre degli autisti musulmani sono tratte dal Corano, e inframmezzate con foto di Ma-donna, Angelina Jolie, il rapper 50 Cent o qualche can-tante pop americana seminuda.

C’è chi dice che gli autisti più giovani hanno “un’anima di riserva” a casa, visti i rischi che corrono. Sembra che siano responsabili di più dell’80 per cento degli incidenti nella capitale, e per questo sono stati

La città dove Dioè dappertutto

Mohammed Selman

MOHAMMED SELMAN

è un giornalista che vive in Etiopia. Questo articolo è uscito sul Mail & Guardian con il titolo Where life is governed

from above.

soprannominati “Al Qaeda”.Sono capaci di provare a convincervi che la loro si-

curezza viene “dall’alto” e che a proteggerli dagli inci-denti sono le citazioni sacre dentro e fuori i loro mini-bus.

Ma non è solo chi guida a ostentare la sua fede, lo fa anche il tizio seduto accanto a voi. I fedeli più ferventi sono convinti che la libertà di culto gli dia anche il di-ritto di tenere il volume del cellulare al massimo per farvi ascoltare la loro musica, come se non bastasse quella sparata dai vecchi ampliicatori rotti del mini-bus, che sputano polvere a ogni battuta.

A volte gli altoparlanti vi rimbombano sotto i piedi proprio quando siete al telefono con il vostro capo e il tizio seduto accanto a voi ondeggia rapito ascoltando la sua musica gospel. Se solo provate a guardarlo male, vi risponderà con un’occhiataccia perché non volete condividere quella beatitudine con lui.

Una volta scesi, per dirigervi ovunque siate diretti, avete buone probabilità di essere travolti da una marea bianca. Gente che indossa i netela cristiani e i jelebiya musulmani entra o esce dalle chiese o dalle moschee vicine, anche nei giorni feriali.

Ma la domenica o il venerdì pomeriggio lo scenario cambia. Quelli che vanno in chiesa o alla moschea in-dossano scialli bianchi e sono inseguiti da ambulanti che vendono libri religiosi, croci e mateb, i cordoncini neri e bianchi o rossi e bianchi che i fedeli della chiesa ortodossa etiopica portano allacciati intorno al collo. È proibito non portarli.

Poi ci sono i soliti minibus. Ma stavolta sono vuoti e collegati a enormi altoparlanti, che possono anche essere montati su dei furgoni. Le vetture sono tappez-zate di copertine di cd della nuova canzone islamica o cristiana.

Seduti davanti alle loro auto, i venditori chiamano a sé i fedeli invitandoli a comprare l’ultimo disco. E mentre gli altoparlanti suonano brani di canzoni, gli ambulanti spiegano con voce implorante il signiicato

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profondamente religioso di quel pezzo. I fedeli li pren-dono d’assalto come se vendessero i biglietti di ingres-so per il Paradiso.

I rumori dei cocktail si mescolano alle preghiere provenienti dalle chiese e difuse dagli altoparlanti esterni, che a loro volta si mescolano alle voci dei venditori del mercato che urlano i prezzi della loro merce.

Poi ci sono i sacerdoti e gli sceicchi che dicono di provenire da chiese o moschee rurali molto povere, e di avere bisogno di un tetto nuovo o di qualche altro aiuto. Di solito, sotto un’immagine colorata e a gran-dezza naturale del santo patrono della loro chiesa, mettono in bella vista centinaia di birr, la moneta loca-le, per invogliare i fedeli a fare una donazione.

Durante la preghiera del venerdì nella moschea di Anwar (la più grande del paese e forse una delle più grandi di tutta l’Africa) nel cuore di Addis Abeba, cen-tinaia di mendicanti si mettono in ila di fronte ai can-celli dell’ingresso principale per spillare qualche cen-tesimo ai musulmani, che così si guadagneranno la chiave del janna, il paradiso arabo.

Alla ine, arriverete a casa stanchi morti e vi mette-rete a dormire. Cioè, almeno inché non risuonerà il richiamo delle chiese e delle moschee alla preghiera del mattino, alle quattro. Appena svegli, troverete la colazione vegetariana preparata dalla vostra domesti-ca, a cui non darete più di una decina di euro al mese, che ad Addis Abeba è considerato un ottimo stipen-dio.

Dopodiché potrete chiederle di fare il bucato, ma è probabile che vi risponda gentilmente di no perché è il giorno di san Gabriele. Allora le chiederete se può far-lo il giorno dopo, o quello dopo ancora. E lei risponde-rà che l’indomani è lo shabbat, e non può lavare i panni. E il giorno dopo ancora potrebbe essere la festa dell’As-sunzione, quindi è fuori discussione.

Oppure, potreste fare gli spiritosi e dire alla vostra

domestica che forse dovrebbe farsi pagare dai santi: ma ricordatevi che è vietato scherzare sulla religione perché non tutti sono così tolleranti, come di recente ha scoperto il mio caro amico Bewqetu Sium, noto scrittore satirico. Un diacono della chiesa ortodossa etiopica gli ha dato un pugno in faccia dopo aver letto un suo articolo in cui scriveva che “mentre preghiamo rivolti al cielo stiamo perdendo la nostra terra”.

Vedete, il fatto è che qui in Etiopia la vita è governa-ta dagli dèi. Decidono tutto loro: dalla sveglia al buca-to, al pranzo vegetariano. E perino il destino che ci attende, nel bene e nel male. u dic

Salima Saa, presidente dell’Agen-ce nationale pour la cohé sion so-ciale et l’égalité de chances (Acsé) in Francia, a marzo ha consegna-to un rapporto “sull’apertura so-ciale nell’insegnamento superio-re”. L’égalité, sottolinea, è un pila-stro ideale della repubblica. Ma i igli di operai e impiegati sono 45 su cento uscendo dalle elementa-ri, solo 36 arrivano al bac (il diplo-ma di maturità), solo 13 entrano nel canale universitario privile-giato delle grandes écoles. Qui i i-gli di dirigenti e professionisti, 19

su cento all’anagrafe, sono invece il 54 per cento. Come risultava già dal secondo volume dell’indagine Pisa del 2009, “Overcoming so-cial background”, realizzare una scuola inclusiva è diicile dove, come in Cile, Italia, Polonia, gli alunni svantaggiati sono più di 20 ogni cento. La Francia ha con-dizioni migliori ma, a diferenza di altri paesi (Finlandia, Canada), riesce solo in parte a ofrire pari chances educative a tutti gli alun-ni nel loro intero percorso. Le condizioni di partenza pesano e la

scuola divarica invece di accorcia-re le distanze. Per migliorare le cose non basta migliorare singoli provvedimenti già in atto. Secon-do Saa, commissioni giudicatrici di soli accademici legati a un’idea libresca di cultura continueranno a cercare di produrre cloni, sacri-icando energie culturali creative. Bisogna cambiare l’idea di ciò che è una cultura. Pierre Bayle, l’En-cyclopédie, Kant lo dissero già se-coli fa, con moderati risultati. Ac-cademici e intellettuali di oggi leggeranno il rapporto? u

Scuole Tullio De Mauro

Un sasso nella Senna

li incontrammo nel bosco, su una radura:

due spedizioni nel crepuscolo che mute

si osservavano. tra di noi nervoso

il telegraico ronzio dello sciame di zanzare.

mia nonna era famosa per via della ricetta

degli champignons farcis. l’ha chiusa con sé nella

sua tomba. tutto ciò che è buono, diceva,

va riempito di se stesso e poco più.

in cucina poco dopo tenevamo

i funghi all’orecchio e ruotavamo il gambo –

in attesa del leggero scatto interno,

alla ricerca della giusta combinazione.

Jan Wagner

Poesia

Champignons

JAN WAGNER

è un poeta nato ad Amburgo nel 1971. Questa poesia è raccolta in Ricostruzioni. Nuovi

poeti di Berlino, a cura di Theresia Prammer (Scheiwiller 2011). Traduzione di Irene Fantappiè.

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Scienza

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Chi poteva immaginare che nel nostro mondo interconnesso il vecchio musical di Broadway avesse ancora qualcosa da inse­

gnarci sulla creatività? è quello che pensa­no i sociologi Brian Uzzi e Jarrett Spiro, che hanno studiato il misterioso mondo della collaborazione. I due ricercatori hanno ana­lizzato 474 musical di Broadway messi in scena tra il 1945 e il 1989 e hanno valutato il complesso intreccio di collaborazioni e rap­porti tra produttori, librettisti, coreograi e così via. Il risultato sempliicato dello stu­dio che circola su internet è che per un’inte­sa ottimale e innovativa i componenti di un gruppo non devono aver già lavorato troppo insieme, ma non devono neanche essere dei perfetti sconosciuti. La struttura del rapporto (quantiicata da un fattore indica­to con la lettera “Q”) dovrebbe essere una

via di mezzo. Se Q esce da una certa fascia ottimale il gruppo non funziona: o non tro­va un terreno comune oppure, circondato dalle solite vecchie facce, produce la solita roba. C’è solo un problema: in realtà il con­tenuto dello studio di Uzzi e Spiro non è pro­prio questo. Ma è ancora più interessante!

Piccoli mondiPartiamo dalla Q. è formata da due parti. La prima è il numero medio di relazioni che servono a due persone a caso in una rete per essere collegate. Questo numero può essere sorprendentemente piccolo, perino in una rete enorme: per esempio, due uten­ti a caso di Facebook possono entrare in contatto, in media, attraverso una catena di meno di cinque amici. La seconda parte di Q misura le probabilità che hanno due per­sone in contatto con lo stesso utente di en­trare in contatto tra loro: la “natura di rag­gruppamento” del network. Si potrebbe immaginare che una rete con molti rag­gruppamenti, in cui le persone si riunisco­no in piccoli gruppi intrecciati, richieda lunghe catene di contatti per passare da una cricca all’altra. Ma spesso non è così: nei veri network, che vanno dalle amicizie su Facebook ai neuroni dell’ippocampo, i

gruppetti sono assai raggruppati, ma la pre­senza di legami rari eppure cruciali tra rag­gruppamenti distanti signiica che si può saltare da una persona all’altra con pochis­simi passaggi. Le reti con questa proprietà sono chiamate “piccoli mondi” e hanno alti valori di Q.

A quale rete somiglia quella di Broad­way? Uzzi e Spiro hanno scoperto che di­pende dal periodo: Q parte alla grande nel 1945 e cresce arrivando al picco massimo nel 1947, quando è addirittura più alta del valore ritenuto ottimale da Uzzi. Poi scende progressivamente passando per la “fascia ideale” intorno al 1950, l’anno di Bulli e pu-pe, e tocca il minimo all’inizio degli anni settanta. A parte una breve risalita tra la ine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta (sapevo che per Cats c’era una spiegazione) non si riprende più. Inoltre le tendenze di Q seguono quelle del successo economico e artistico di Broadway nel suo insieme.

Che c’è di interessante in tutto questo rispetto alla sempliicazione eccessiva da cui siamo partiti? C’è che Q non è una pro­prietà di un singolo spettacolo ma dell’inte­ro network. Nel linguaggio matematico di­remmo che è globale, non locale. è una di­stinzione fondamentale. Immaginiamo di scoprire che gli abitanti dei paesi con una maggiore stratiicazione economica godo­no in media di una salute migliore. Sarebbe folle reagire aumentando lo scarto tra i red­diti di moglie e marito sulla base del fatto che la stratiicazione economica tiene alla larga il medico. Come Q, anche la stratiica­zione è una misura globale che vale per l’in­tera società. Non è un valore locale, che si può applicare a un individuo o a una fami­glia. Uzzi e Spiro hanno scoperto un nesso minimo o nullo tra successo e misure locali, come la frequenza con cui i membri di una troupe avevano lavorato insieme in spetta­coli precedenti. Il successo o il iasco di uno spettacolo dipendevano più dalle condizio­ni generali della rete in quel momento che non dai rapporti tra i nomi in cartellone.

Forse gli imprenditori che vorrebbero prendere esempio da Broadway rimarran­no delusi dalla natura globale di Q. Ma non dovrebbero. La nuova scienza sociale dei network complessi si sta occupando di un problema diverso, più profondo e poten­zialmente più importante. Invece di stabili­re come costruire un gruppo per massimiz­zarne la creatività, questa ricerca si chiede quale tipo di società massimizzi la creativi­tà di ciascuno. u sdf

Sei gradi di innovazione

Cosa ci rende creativi? Studiando le reti di relazioni tra le persone nell’ambiente dei musical di Broadway, due ricercatori sono andati alle radici della creatività

Jordan Ellenberg, Slate, Stati Uniti

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IN BREVE

Spazio Sono state osservate tempeste magnetiche, dette ri-connessioni, anche su Venere (nel disegno). La scoperta è sor-prendente perché Venere non ha un suo campo magnetico. Se-condo Science, le tempeste po-trebbero generare aurore polari. Paleontologia È stato scoperto in Cina un dinosauro simile al Tyrannosaurus rex dotato di penne. Probabilmente le penne avevano una funzione isolante, ma non si possono escludere al-tre funzioni. Chiamato Yutyran-nus, è vissuto circa 125 milioni di anni fa e pesava 14 quintali.Neuroscienze Le persone che parlano cantonese, una lingua tonale, hanno una migliore per-cezione delle altezze delle note musicali rispetto ai parlanti francese o inglese, scrive Plos One. Inoltre i parlanti cantonese afetti da amusia sono comun-que più abili di chi parla lingue non tonali.

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PALEONTOLOGIA

I nostri primi fuochi Già un milione di anni fa si cuci-nava sul fuoco. Lo testimoniano i resti di cenere e di frammenti ossei trovati vicino alla grotta di Wonderwerk, in Sudafrica. I fuochi sembrano essere stati ac-cesi intenzionalmente per cuci-nare verdure e carne. Ma da chi? Probabilmente dall’Homo erec-tus che abitava in quella zona nel paleolitico e le cui caratteri-stiche anatomiche sono espres-sione di un adattamento a una dieta con cibi cotti. Le ceneri di Wonderwerk, spiega Pnas, anti-cipano di almeno 200mila anni il primo fuoco usato per cucina-re nella storia evolutiva dell’Ho-mo. Prima di questo ritrovamen-to le più antiche prove di focola-ri domestici risalgono a un sito israeliano e sono datate tra i 700mila e gli 800mila anni fa. Secondo alcuni archeologi, pe-rò, per retrodatare l’uso del fuo-co servirà la conferma di molte altre ceneri.

BIOLOGIA

Lo status che fa bene La posizione sociale inluenza il sistema immunitario. Uno stu-dio condotto su 49 scimmie ma-caco reso (nella foto) mostra che gli animali ai gradini inferiori del gruppo hanno una percen-tuale di linfociti T, cellule del si-stema immunitario, più bassa ri-spetto a chi è ai vertici. Secondo Pnas, l’innalzamento dello sta-tus induce modiiche biologiche.

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Ascoltare la musica può al-leviare il dolore?

Sono sempre di più i medici che usano la musica convinti che possa avere efetti analge-sici sui pazienti o almeno di-strarli da una procedura dolo-rosa. In uno studio recente, pubblicato sul Journal of Pain, 153 persone sono state sotto-poste a scosse sulle mani sem-pre più dolorose mentre ascol-tavano musica. Intanto erano incoraggiate a interessarsi alle

canzoni e a individuare certi toni e note. Misurando la dila-tazione delle pupille e l’attività cerebrale, gli scienziati hanno scoperto che, quando si con-centravano sulle melodie, i soggetti provavano meno do-lore. L’efetto maggiore è stato osservato nei volontari che all’inizio erano più preoccupa-ti. Uno studio svedese pubbli-cato nel 2009 riferiva risultati simili: i bambini sottoposti a “musicoterapia” dopo un lieve intervento hanno fatto ricorso

a meno morina degli altri. Una metanalisi dei dati relativi a 3.600 pazienti di 51 studi, pubblicata sul Cochrane Data-base, ha tuttavia evidenziato che la portata dell’efetto non è molto ampia, per cui la sua potenziale utilità nella pratica clinica, almeno per ora, è stata giudicata “incerta”.Conclusioni ascoltare musica durante o dopo un intervento medico può alleviare il dolore, ma servono altre ricerche.The New York Times

Davvero? Anahad O’Connor

Musicoterapia

Genetica

Malaria, il rimedio a rischio

Un gruppo di ricercatori ha individuato la radice genetica della resistenza all’artemisina. Grazie alla sua eicacia, questo antimalarico derivato dell’Artemisia annua, una pianta usata nell’erboristeria cinese, è diventato il trattamento più usato in quasi tutti i paesi. negli ultimi anni, però, sempre più pazienti nel

sudest asiatico sono diventati resistenti all’artemisina. In queste persone il farmaco funziona ancora, ma elimina il parassita della malaria, il Plasmodium falciparum, molto più lentamente. Uno studio pubblicato su Science indica che il fenomeno è dovuto a recentissime mutazioni comparse nel genoma del plasmodio. Sono stati individuati sette geni mutati sul cromosoma 13 che potrebbero essere responsabili, almeno in parte, della minore eicacia del farmaco. Inoltre, il problema della resistenza si sta difondendo ad altre aree geograiche: un altro studio, su The Lancet, mostra che la resistenza all’artemisina non riguarda solo la Cambogia, ma è presente anche al conine tra Birmania e Thailandia. “La difusione dei parassiti resistenti all’artemisina e ai suoi derivati potrebbe essere catastroica per il controllo della malaria”, scrive Science, soprattutto se dovesse toccare anche l’India e l’africa subsahariana. u

Science, Stati Uniti

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Il diario della Terra

44,4°CN’Guigmi,

Niger

-71,7°CVostok,

Antartide

Nepal

Pakistan

DaphneAscensione,Gran Bretagna

5,8 M

Cile5,2 M

Stati Uniti

Argentina

Perù

Nigeria

Ciad

Indonesia8,7 M

Afghanistan4,9 M

Filippine5,0M

NuovaZelanda

4,5 M

Pakhar

Nei paesi in via di sviluppo ci sono più di 670 milioni di per-sone che avrebbero bisogno di occhiali da vista. Allora perché non donare i propri occhiali vecchi? In realtà, uno studio pubblicato sulla rivista Opto-metry and Vision Science mostra che riciclare gli occhia-li da vista non conviene, per-ché si tratta di prodotti molto personalizzati e quindi diffi-cilmente riutilizzabili.

Nello studio sono state analizzate due partite di oc-chiali, donati a Sydney e Can-berra, in Australia, e spedite a Honiara, nelle isole Salomo-ne. È stato valutato il costo di selezione, pulitura, classifica-zione e consegna ai medici lo-cali degli occhiali da vista. Dei 275 occhiali donati solo il 7 per cento non aveva graffi, parti danneggiate o lenti progressi-ve ed era quindi adatto al riu-so. Per ogni paio di occhiali il costo totale del processo di ri-ciclo è stato di 20,49 dollari, molto più di quanto costa un paio di occhiali premontati nuovi. Un particolare non tra-scurabile è che spesso lo stile della montatura non piace a chi lo riceve, che tende perciò a portare poco gli occhiali. Inoltre, il costo dello smalti-mento dei prodotti inservibili ricade sulle comunità povere che si vorrebbe aiutare.

Gli autori dello studio con-sigliano alle organizzazioni di volontariato di inviare dona-zioni in denaro: con venti dol-lari si copre il costo di una visi-ta oculistica e di un paio di oc-chiali da vista premontati nuovi. Ancora meglio sarebbe aiutare a sviluppare in loco le conoscenze per la correzione della vista.

Occhialiusati

Ethical living

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 8,7 sulla scala Richter è stato registrato al largo dell’isola indonesiana di Su-matra. I governi di molti paesi dell’area hanno lanciato un al-larme tsunami. Scosse più lievi sono state registrate nell’isola britannica dell’Ascensione, in Cile, nelle Filippine, in Nuova Zelanda e in Afghanistan.

Tempeste Una tempesta con venti superiori ai 150 chilo-metri all’ora ha causato la mor-te di 17 persone in Argentina. La zona più colpita è stata la provincia di Buenos Aires. u Ventidue persone sono mor-te nel crollo di una chiesa, cau-sato da una violenta tempesta, nel centro della Nigeria. Valanghe Una valanga ha travolto 135 persone, tra cui 124 soldati, nel Kashmir pachista-no.

Cicloni Il ciclone Daphne ha raggiunto le isole Figi, ag-

gravando le alluvioni in corso da alcune settimane. u Quat-tro persone sono morte nel passaggio del tifone Pakhar sul sud del Vietnam.

Alluvioni Le alluvioni causate dalle forti piogge che hanno colpito la provincia amazzonica di Loreto, nel nordest del Perù, hanno costretto più di 19mila persone a lasciare le loro case.

Tornado Due tornado hanno scoperchiato i tetti di alcune case a Dallas, nel sud degli Stati Uniti.

Siccità Il Programma ali-mentare mondiale ha lanciato un ponte aereo per portare

aiuti a 36mila bambini minac-ciati dalla siccità in Ciad.

Felini Un ragazzo è stato ucciso da una tigre nel parco nazionale Chitwan, in Nepal. Tre abitanti di un villaggio vicino a Kathmandu sono stati feriti da un leopardo.

Clima L’anidride carbonica è stata un fattore determi-nante nella ine dell’ultima glaciazione, scrive Nature. Dall’analisi di campioni di ghiaccio, sedimenti e fossili raccolti in 80 siti nel mondo è emerso che diecimila anni fa l’innalzamento delle tempe-rature è stato preceduto da un progressivo aumento di CO2 nell’atmosfera.

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Banda Aceh, Sumatra

Mare Con un modello computerizzato sono state ricostruite tutte le correnti oceaniche mondiali osservate dai satelliti della Nasa tra il giugno 2005 e il dicembre 2007. Il modello servirà a studiare l’evoluzione della circolazione oceanica nel tempo, in particolare quella degli oceani polari.

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u Il mar Morto deve il suo no­me all’alta salinità, che scorag­gia la presenza di piante e di pe­sci. Si trova nella più profonda depressione terrestre, dove il continente asiatico e quello africano si allontanano, a poco meno di 400 metri sotto il livel­lo del mare. Nei giorni d’estate, caldi e secchi, l’acqua può scen­dere dai due ai tre centimetri a causa dell’evaporazione.

Queste foto dai colori artii­ciali sono state scattate tra il 1972 e il 2011 dai satelliti Land­

sat 1, 4 e 7. Tutte e tre usano una combinazione di lunghezze d’onda nel vicino infrarosso, nel rosso e nel verde. L’acqua profonda è di colore azzurro o blu scuro, mentre i celesti indi­cano le acque basse e gli stagni salati (a sud). Le zone rosa chia­ro e sabbia sono desertiche, mentre il verde indica una ve­getazione sparsa. La vegetazio­ne più itta è di colore rosso in­tenso. Al centro delle immagini si vede la penisola di Lisan, un ponte di terra sul mar Morto.

Gli antichi egizi usavano il sale del mar Morto per la mum­miicazione e per produrre i fer­tilizzanti e la potassa (un sale a base di potassio). Oggi il cloru­ro di sodio e il potassio estratti dal mare si usano per il tratta­mento delle acque, per scioglie­re il ghiaccio sulle strade e per la produzione di Pvc. Nell’arco dei trentanove anni è chiara­mente visibile l’espansione del­le enormi saline nella parte me­ridionale del lago.–Aries Keck e

Mike Carlowicz

Il mar Morto è un lago sala-to situato tra Israele, Cisgiordania e Giordania. Queste foto, scattate nell’arco di quasi qua-rant’anni, mostrano l’espansione delle saline.

Il pianeta visto dallo spazio

Il mar Morto

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Tecnologia

Sorveglianza signiica sicurezza. È questa la tesi sostenuta ogni volta che un governo chiede nuovi pote-ri per controllare i suoi cittadini. La

nuova proposta di legge del governo britan-nico, che garantirebbe alla polizia e ai servi-zi segreti l’accesso a email, telefonate via Skype e messaggi su Facebook, è solo l’ulti-mo esempio. Ma è anche l’ennesima dimo-strazione dell’inutile e pericolosa collabo-razione dello stato con le aziende. Il gover-no britannico ha dichiarato che, in assenza del mandato di un giudice, potrà ottenere informazioni solo su “chi, quando e dove” (orari, date, numeri e destinatari delle co-municazioni), non sul contenuto di email, chat o telefonate via Skype. Per accedere al contenuto sarà ancora necessaria l’autoriz-zazione di un tribunale. Inoltre le autorità potrebbero avere accesso a canali di comu-

nicazione che attualmente sono of limits. Il modo più semplice per farlo è costringere le aziende di tecnologia a creare delle back door (porte di servizio) per accedere ai loro dati, dando così la possibilità di “intercetta-re” uno scambio online come se fosse una conversazione telefonica.

Il problema è che un terzo potrebbe an-che approittare di queste back door senza che nessuno se ne accorga.

La macchina di GoogleIl timore delle agenzie di intelligence bri-tanniche e statunitensi è che internet le ab-bia portate sull’orlo del going dark (restare all’oscuro), secondo l’espressione usata dall’Fbi per indicare l’impossibilità di acce-dere a informazioni su sospetti che si na-scondono nella rete.

Ma è una tesi che non regge: se sempre più persone sono spinte a rivelare la loro po-sizione geograica tramite gli smartphone, se tutti i loro amici sono su Facebook e se la cronologia di navigazione permette a un’azienda di scoprire che una ragazza è incinta prima dei suoi genitori, è diicile credere che lo stato sia penalizzato dalla re-te. Prendiamo il caso di Max Schrems, un ragazzo di 24 anni che ha promosso una

campagna in difesa della privacy. Nel 2011 Schrems ha presentato un reclamo al ga-rante della privacy irlandese e si è avvalso di un articolo di legge per chiedere a Facebook di inviargli tutte le informazioni in possesso dell’azienda sul suo conto. Poco dopo si è visto recapitare un dossier di 1.200 pagine. Il going dark è un mito: viviamo nell’età d’oro della sorveglianza. I servizi di intelli-gence hanno accesso a una quantità di dati più vasta che mai. L’unica diferenza è che sono raccolti da aziende private.

Invece di dare più potere ai servizi se-greti, dovremmo preoccuparci della con-vergenza tra le esigenze dello stato in termi-ni di raccolta dati e gli imperativi commer-ciali delle aziende di tecnologia. Prendiamo Google: qualche settimana fa ha ottenuto un brevetto che potrebbe consentirgli di usare i nostri telefoni per studiare l’ambien-te in cui ci troviamo (registrando i livelli di rumore, le condizioni di illuminazione e la temperatura) e personalizzare gli annunci pubblicitari. Le agenzie di intelligence sa-rebbero contente: quanto meno, potrebbe-ro risparmiare un bel po’ di soldi sulle inter-cettazioni telefoniche.

Google ha tutto l’interesse a mantenere una parte dei suoi dati in memoria non crip-tata. Come ha dichiarato nel 2011 l’infor-matico Vint Cerf, “non potremmo far fun-zionare il nostro sistema se tutti i suoi con-tenuti fossero criptati, perché non saprem-mo quali pubblicità mostrarvi”.

È un’idea sciagurata. I dati in memoria criptati sarebbero fuori della portata della maggior parte dei governi. Immaginate co-sa potrebbe signiicare tutto questo nel caso delle attesissime auto con pilota automati-co di Google. Il tragitto del veicolo sarà regi-strato e memorizzato nei server di Google? In questo caso, la polizia e le agenzie di in-telligence non avranno bisogno di installare localizzatori satellitari sulle automobili dei sospetti: Google ci farà registrare tutte que-ste informazioni volontariamente. Lo stato non dovrebbe fare altro che chiederle.

L’idea che occorra facilitare questo com-pito ai governi è semplicemente ridicola. Dovremmo fare l’esatto opposto. Solo pre-venendo le conseguenze di quest’alleanza pericolosa tra aziende tecnologiche e agen-zie di intelligence potremo difendere le no-stre libertà. u eds

Evgeny Morozov è l’autore di L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di in-ternet (Codice edizioni 2011).

L’età d’orodella sorveglianza

I governi chiedono più poteriper controllare i cittadini. In realtà i servizi segreti hanno accesso a sempre più dati, raccolti da aziende private. L’opinione di Evgeny Morozov

Evgeny Morozov, Financial Times, Gran Bretagna

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Economia e lavoro

L’ultima volta che la venditrice ambulante Yvonne Chikotsa è entrata in una banca era il 2008, quando l’inflazione in

Zimbabwe ha raggiunto il picco. La donna si svegliava ogni mattina all’alba per arriva-re prima che si formasse una lunga ila e ri-tirava più di mille miliardi di dollari zim-babwiani, una cifra che all’epoca corrispon-deva al prezzo di una pagnotta. “Le banche mi fanno ancora una paura tremenda”, di-ce. Chikotsa vende vestiti usati in un mer-cato di Mbare, un quartiere di Harare, e ac-cusa la banca centrale di aver alimentato l’inlazione incontrollata che ha tolto valore al suo modesto reddito. “Ora tengo i soldi sotto il cuscino”, conclude.

Se oggi le cose vanno un po’ meglio è perché nel 2009 il governo ha sostituito la valuta nazionale con il dollaro statunitense.

Questa mossa ha bloccato l’inlazione e la fuga degli investitori. Ma i cittadini conti-nuano ad avere una profonda siducia nella capacità del governo di gestire le questioni inanziarie. Così evitano di depositare i loro soldi nelle banche, e queste non possono inanziare le imprese favorendo una cresci-ta più sostenuta, che servirebbe ad attenua-re le tensioni nel paese.

I dollari ingrigiti che circolano in Zim-babwe (tra cui abbondanti scorte di banco-note da due dollari, che negli Stati Uniti non sono più stampate dal 2006) sono il segno di un’economia basata sulla liquidità, aggi-rando gli istituti di credito. I fondi deposita-ti nelle banche ammontano a 3,3 miliardi di dollari, ma secondo l’associazione bancaria locale quelli custoditi fuori dagli istituti so-no di più, circa 3,5 miliardi.

Disoccupazione al 90 per centoLa sete di contanti degli istituti zimbabwia-ni e la perdita di controllo della banca cen-trale sulla valuta ricordano la situazione di altri paesi, come la Grecia, il Malawi e lo Swaziland, ma in Zimbabwe le cose vanno peggio. Negli ultimi dieci anni la banca cen-trale ha prestato 1,5 miliardi di dollari al go-verno del presidente Robert Mugabe. Oggi

l’istituto deve 1,1 miliardi di dollari ad alcu-ne banche centrali straniere e agli organi-smi africani per lo sviluppo, ma non li può restituire perché non ha mai ricevuto i rim-borsi dallo stato. Così la crisi del sistema i-nanziario priva le aziende dei capitali ne-cessari per investire e per ridurre la disoc-cupazione, che colpisce il 90 per cento della popolazione attiva.

Da quando lo Zimbabwe ha rinunciato alla sua moneta in favore del dollaro, l’eco-nomia ha registrato un tasso di crescita del 6 per cento nel 2009 e del 9 per cento nel 2010. Ma l’anno scorso il tasso è risceso al 6 per cento e secondo il Fondo monetario in-ternazionale quest’anno arriverà al 3,1 per cento, proprio a causa dell’ineicienza del settore bancario. I problemi delle banche hanno prosciugato gli investimenti, mal-grado il paese disponga di giacimenti di platino e di ricchi terreni agricoli. Ma pochi sono disposti a mettere a rischio i propri ri-sparmi investendoli nella politica di “indi-genizzazione” del presidente Mugabe, che vuole trasferire ai neri le risorse del paese.

A febbraio la banca centrale ha imposto agli istituti di credito esteri, come Barclays e Standard Chartered, di tenere nel paese almeno il 70 per cento dei depositi e delle attività locali. Gideon Gono, che dirige la banca centrale dal 2003, ha promesso san-zioni per gli istituti che non rispettano le regole. Questo però ha scoraggiato le ban-che dall’operare in Zimbabwe, e a farne le spese sono state le piccole aziende locali. L’anno scorso Tofara Kwenda ha chiesto un prestito di duemila dollari alla Standard Chartered per cominciare a produrre can-dele, ma la banca non gli ha neanche rispo-sto. Alla ine Kwenda ha ottenuto un presti-to da una delle molte società che erogano microinanziamenti a scopo di lucro e che in Zimbabwe hanno cominciato a prolifera-re da quando gli istituti di credito tradizio-nali hanno ridimensionato le loro attività.

Intanto gli zimbabwiani tirano avanti come possono, senza prestiti e conti corren-ti. Yvonne Chikotsa, la venditrice ambulan-te di Harare, dice di non aver mai sentito parlare di Gono e della banca centrale ino a quando i suoi pochi risparmi hanno perso valore. “A scuola ci hanno insegnato a con-tare ino a mille, ma quel tizio, Gono, ci ha fatto conoscere cifre che non potevamo ne-anche immaginare”, commenta. Il governo aveva annunciato risarcimenti per i rispar-miatori. Ma sono passati tre anni e Chikotsa sta ancora aspettando. u fp

Lo Zimbabwesi aggrappa al dollaro

Harare ha risolto il problema dell’inlazione sostituendo la moneta locale con il dollaro statunitense. Ma le banche sono in crisi perché gli abitanti tengono i soldi sotto il cuscino

Patrick McGroarty, The Wall Street Journal, Stati Uniti

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MOZAMBICO

La speranza del gas La recente scoperta di enormi riserve di carbone e di gas tra-sformerà presto l’economia del Mozambico. Dal 2011 l’azienda brasiliana Vale estrae il carbone nella regione di Tete, mentre all’inizio del 2012 l’italiana Eni e la statunitense Anadarko hanno annunciato la scoperta di giaci-menti di gas ofshore tra i più grandi del mondo. Così da qual-che tempo gli investitori stranie-ri si interessano al Mozambico, uno dei paesi più poveri del mondo, dove più di metà della popolazione vive con meno di mezzo dollaro al giorno, scrive Jeune Afrique. La produzione di gas, che comincerà nel 2018, renderà il paese uno dei princi-pali esportatori del mondo. Se-condo la Banca mondiale, le en-trate del gas saranno due o tre volte superiori al bilancio attua-le dello stato (3,6 miliardi di dol-lari). “Ma la popolazione teme che le ricchezze del paese saran-no accaparrate da pochi”, con-clude il settimanale.

IN BREVE

Stati Uniti Il 6 aprile il diparti-mento del lavoro ha annunciato che l’economia statunitense ha creato 120mila posti di lavoro a marzo, un dato inferiore alle at-tese (la stima era 200mila). Il tasso di disoccupazione è co-munque sceso all’8,2 per cento.Giappone Il 9 aprile il quotidia-no economico Nikkei ha annun-ciato che il gigante dell’elettro-nica Sony licenzierà diecimila persone nel mondo entro la ine del 2012.

STATI UNITI

Facebook fa acquisti Il 9 aprile Facebook ha annun-ciato l’acquisto, per un miliardo di dollari, di Instagram, un’ap-plicazione per scattare foto da condividere online. È la più im-portante operazione inanziaria efettuata dal fondatore di Face-book Mark Zuckerberg. “L’ac-quisto di Instagram permette a Facebook di ampliare la sua of-ferta liberandosi al tempo stesso di un potenziale rivale”, scrive il Wall Street Journal. Insta-gram, lanciata da Kevin Systrom e Mike Krieger nell’ottobre del 2010, ha più di 30 milioni di utenti.

Spagna

Rajoy annuncia nuovi tagli

Il 9 aprile il governo spagnolo ha annunciato altri dieci miliardi di tagli alla sanità e all’istruzione. La decisione di raforzare le misure di austerità, dopo che alla ine di marzo l’esecutivo aveva annunciato una inanziaria da 27,3 miliardi di euro per il 2012, è dovuta alla pressione dei mercati, con il crollo della borsa e l’aumento dello spread oltre i 400 punti, scrive El País. I nuovi tagli saranno messi a punto all’inizio di maggio durante una riunione tra il governo e i rappresentanti delle regioni. u

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Mariano Rajoy in parlamento, l’11 aprile 2012

Portland, Stati UnitiIl numero Tito Boeri

2,6 miliardi

Dal report calcio 2012 pubbli-cato dalla Figc emerge che i debiti delle società di serie A ammontano a 2,6 miliardi di euro. La cifra corrisponde al 123 per cento dei ricavi annua-li, proprio come il debito pub-blico italiano. Continuano a crescere vertiginosamente i debiti inanziari (più 35 per cento) e quelli verso altre so-cietà (più 21 per cento). Le so-cietà non pagano più in modo tempestivo e dipendono sem-pre di più dalle banche, che so-no ormai le vere proprietarie del calcio italiano.

Come spiega Fausto Pa-

nunzi su lavoce.info, il peggio-ramento della situazione di-pende da una forte riduzione dei ricavi a fronte di costi che stentano a diminuire. Scendo-no in particolare i ricavi dagli ingressi allo stadio, ma calano anche quelli da diritti televisivi e da plusvalenze sulla vendita dei calciatori. La riduzione delle entrate ha provocato per-dite per 428 milioni di euro, in aumento rispetto all’anno pre-cedente.

Per uscire dall’emergenza è indispensabile avere stadi migliori, perché sono proprio i ricavi da stadio il tallone

d’Achille delle nostre società. I biglietti d’ingresso costano molto meno che all’estero. Ma i proprietari non investono nemmeno per la gestione ordi-naria perché aspettano incen-tivi dal governo, che non arri-veranno con la crisi economi-ca in corso. Purtroppo le socie-tà non sembrano in grado di afrontare problemi così seri (sono incapaci perino di tro-vare un successore al presi-dente della Lega, Maurizio Be-retta, ormai dirigente di uni-credit). Ci vorrebbe forse un governo tecnico anche per il calcio italiano. u

Valore stimato di Instagram,milioni di dollari

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L’oroscopo

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Internazionale 944 | 13 aprile 2012 113

tanto, però, invidio quelli che han-no una famiglia più numerosa. Se crescere un solo bambino è stato così gratiicante, forse tirarne su di più sarebbe stato ancora me-glio. Ho chiesto a un conoscente che ha sei igli come fosse riuscito a portare avanti un’impresa così diicile. E lui, molto candidamen-te, mi ha risposto: “Il mio segreto è che non sono un buon padre. Sono molto negligente”. Ti racconto questa storia perché, in questa fa-se della tua vita, faresti bene a pre-ferire la qualità alla quantità.

SCORPIONE

Prevedo che questa setti-mana succederanno fatti

curiosi. Per esempio, un’idea ap-parentemente banale potrebbe impedirti di prendere una decisio-ne stupida. Un segreto palese po-trebbe aiutarti a sconiggere un nemico nascosto. E un inconve-niente potrebbe veriicarsi giusto in tempo per aiutarti a fare una co-sa non proprio entusiasmante, ma sicuramente corretta. Ce la fai a sopportare tutti questi paradossi, Scorpione? A gestire tutta questa confusione? Ci sono anche altre due strane fortune che potrebbero capitarti: un insegnamento umile da parte di un esperto improbabile e un picco di entusiasmo dovuto a un’esaltazione imbarazzante.

SAGITTARIO

Alcuni dei nostri antenati pagani pensavano di dover

aiutare il risveglio della natura ce-lebrando ogni primavera riti della fertilità. Non sarebbe divertente se anche tu potessi aiutare le pian-te a germogliare e i iori a sboccia-re facendo dolcemente l’amore nei campi? Come minimo, celebrare questa cerimonia potrebbe stimo-lare la tua creatività personale. In conformità con i presagi astrali, ti invito ad andare in un luogo ap-partato, da solo o con il tuo part-ner. Su un foglio di carta, scrivi un progetto che ti piacerebbe si svi-luppasse nei prossimi mesi. Sep-pelliscilo nella buona terra e goditi un atto d’amore proprio lì sopra.

CAPRICORNO

Una volta mi sono innamo-rato di una brillante donna

d’afari di nome Loreen. L’ho cor-teggiata con tutti i mezzi, speran-do di conquistare il suo amo-re. Dopo aver fatto la diicile per due mesi, mi ha sorpreso con un invito sfacciato: mi sarebbe pia-ciuto accompagnarla in una va-canza lampo a Parigi? “Penso di sì”, le ho risposto. Ma c’era un problema: ero completamente al verde. Che fare? Decisi di racco-gliere un po’ di soldi vendendo un prezioso cimelio della mia infan-zia, una collezione di seimila igu-rine d’epoca di giocatori di base-ball. Forse questa storia ti spinge-rà a fare qualcosa di simile, Capri-corno: sacriica un vecchio ricor-do, un tesoro o una fantasia giova-nile per dare una chance a un nuo-vo amore.

ACQUARIO

Sappiamo tutti che i ragni sono creaturine piene di ta-

lento. La loro seta è forte come l’acciaio e le loro tele, tessute con precisione geometrica, sono mira-coli di ingegneria. Ma anche se ammiro le sue qualità, non penso che avrò mai un rapporto intimo con un ragno. La stessa cosa suc-cede con le persone. Conosco crea tori e leader straordinari che però non hanno quell’integrità personale e quella capacità di en-trare in relazione con gli altri che li renderebbero aidabili come al-leati. La loro bellezza si apprezza meglio da lontano. Forse in questo momento faresti bene a meditare su questo concetto, Acquario.

PESCI

Ti è mai successo di rima-nere senza iato? All’inizio

è una sensazione strana, ma non lascia danni permanenti. Prevedo che presto ti succederà una cosa simile. Metaforicamente parlan-do, resterai senza iato. Ma aspet-ta prima di tirare conclusioni af-frettate e maledirmi per averlo predetto, ascolta il resto del mio messaggio. Il iato che ti verrà tol-to è un iato che doveva essere eli-minato perché ti crea confusione a livello di intuito viscerale. In al-tre parole, per te restare senza ia-to sarà un bene. Dopo ti sentirai molto meglio, e vedrai le cose più chiaramente.

ARIETEAlcune persone fraintendono la mania della tribù degli Arieti di fare le cose di corsa, pensando che porti inevi-tabilmente a farle male. Nelle prossime settimane, ti

prego di dimostrargli che si sbagliano. Afronta le interessanti possibilità che ti si presentano con tutta la tua esuberanza. Non lasciare che teorie e concetti frenino la tua naturale energia, ma assicurati anche di non scambiare l’irruenza per intuito infallibi-le. Tieni presente che la tua originale visione del futuro potrebbe aver bisogno di qualche modiica per tradursi in dettagli concreti.

TORO

C’è la possibilità che alla i-ne dell’arcobaleno ci sia una

pentola d’oro. Le probabilità non sono molte, ma neanche ze-ro. L’arcobaleno, invece, c’è sicu-ramente e te lo puoi godere. Natu-ralmente, per gustartelo a pieno dovrai lavorare un po’ di più su te stesso. L’unico problema è che po-tresti avere l’impressione che l’ar-cobaleno sia meno prezioso della pentola d’oro. Perciò ti chiedo: e se il vero premio fosse quello?

GEMELLI

“È l’eternità che gira la ma-novella in ognuno di noi”,

diceva Franz Kaka. O almeno do-vrebbe essere così, aggiungerei io. Il guaio è che molte persone la-sciano che a girare la manovella siano altre cose meno importanti, come per esempio il desiderio compulsivo di denaro, potere o amore. Ti invito a controllare al più presto cos’è che fa girare la tua manovella. Se non è l’eternità, o qualsiasi cosa corrisponda all’eter-nità nella tua visione del mondo, sistema la faccenda. Nei prossimi mesi, è cruciale che a tenerti in moto sia il carburante più puro.

CANCRO

Per essere un inglese del di-ciannovesimo secolo, David

Livingstone era insolitamente aperto. In viaggio in Africa, si rife-riva a quelli che allora venivano chiamati “stregoni” come “i miei colleghi”. Nelle prossime settima-ne, Cancerino, ti invito a prendere esempio da Livingstone e amplia-re la tua idea di possibili allea-ti. Per esempio, considera tuoi col-leghi tutti quelli che provano a in-luire sul mondo come fai tu, an-che se lavorano in settori diversi

dal tuo. Quale potrebbe essere la tua versione degli stregoni di Li-vingstone? Esci dalla solita cerchia e guardati intorno alla ricerca di persone che potrebbero indicarti nuove prospettive e risorse che non hai mai immaginato di poter usare.

LEONE

Sulla bandiera della Califor-nia c’è l’immagine di un or-

so grizzly, e quell’enorme carnivo-ro è il simbolo uiciale dello sta-to. Eppure in California gli orsi grizzly sono estinti dal 1922, quan-do fu ucciso l’ultimo esempla-re. C’è qualche discrepanza simile nella tua vita, Leone? Continui a comportarti come se un certo sim-bolo fosse importante per te anche se non è più presente nella tua vi-ta? Se è così, sarebbe un buon mo-mento per cambiare atteggiamen-to nei suoi confronti.

VERGINE

Il personaggio del gatto Fe-lix debuttò nel 1919. Ai

tempi del muto era una star del ci-nema, poi diventò un fumetto e in-ine ebbe un programma televisivo tutto suo. Ma solo nel 1953, a 34 anni, ha avuto la sua prima borsa magica, grazie alla quale ha potuto fare molte cose che prima non era in grado di fare. Te ne parlo, Vergi-ne, perché credo che anche tu stia per ricevere una borsa magica che non potevi avere ino a quando non fossi maturato al punto in cui sei adesso. Per essere sicuro di ot-tenerla, però, dovrai crescere an-cora un po’.

BILANCIA

Ho una iglia, ed educarla coscienziosamente è stata

una delle gioie della mia vita. Ogni

COMPITI PER TUTTI

Perché questo è un momento perfetto? Raccontalo a [email protected]. Per sapere

perché lo è secondo me, sintonizzati sul mio podcast: bit.ly/PerfectionNow

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L’ultima

“Farò tardi, tesoro. Qui è roba da matti”.

Piano di pace di Koi Annan per la Siria, ma niente cessate il fuoco. “Voi siete qui”.

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“tutto succedeva alle mie spalle”.

cina e corea del nord. “Dormi, dormi bel bambino”.

rilasciate in Florida 800mila licenze di porto d’armi. “tesoro, nostro iglio ha appena ucciso la sua prima persona sospetta”.

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Le regole Dj1 Scegliti un nome simpatico e facile da ricordare. 2 ma se punti a una carriera internazionale, informati su cosa signiica o inirai come il giapponese Dj Ano. 3 non siamo nel 1978: non toccare il microfono. 4 Accetta richieste musicali solo da chi vuoi portarti a letto. 5 cos’è quella faccia seria? Se non ti diverti tu, non si divertirà nessuno. [email protected]

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