Integrazione religiosa a Trieste

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Integrazione religiosa a Trieste Storia delle comunità e delle stru1ure religiose presen4 in ci1à

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Cesare dell’Acqua La proclamazione del porto franco di Trieste 1717

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CHIESA EVANGELICA LUTERANA A TRIESTE La chiesa Envangelica Luterana di Trieste è un edificio in stile neogotico con particolari guglie e tetti a spiovente in lastre di ardesia, che sorge nel borgo Teresiano. L'edificio è lungo 35 m e largo 22 m ed è rivestito in pietra calcare del carso così come le 4 colonne poste all'interno della chiesa. Il campanile a punta arriva fino a 50 m di altezza e poggia su 238 pali di legno affondanti nel terreno dove un tempo c'erano le saline. Una particolarità è che le 3 campane, di cui ne è rimasta solo una, vennero fuse nella canna di un cannone francese. Sulla torre si trovano le sculture raffiguranti animali fantastici. Molto bella è l'entrata centrale raffigurante la trasfigurazione di Cristo di Raffaello, mentre la fonte battesimale venne donata da Heinrich Ranner e come l'altare e il pulpito fu eseguito dall'artista falegname Breslao. La chiesa è stata progettata dall'architetto Zimmermann di Breslavia ,ma realizzata dagli architetti Giovanni Berlam e Giovanni Scalmanini.

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Vengono ospitati anche due monumenti funebri opera di Antonio Bosa da Bassano, allievo di Canova nel 1873. La Chiesa fu aperta ai fedeli nel 1874, e fu grazie a Maria Teresa d'Austria che la comunità evangelica di Confessione Augustana poté professare liberamente il proprio credo. Va ricordato che il luteranesimo comparve a Trieste nel 1717, quando la città venne dichiarata porto franco e, proprio per incrementare il commercio, agli stranieri venne permesso di mantenere la propria religione. Trieste divenne così un esempio di tolleranza edi collaborazione pacifica volta a creare benessere spirituale e materiale per tutti. Sempre nel 1717 arrivarono le prime famiglie luterane dalla germania e, come primo atto istiruzionale, venne aperto il cimitero evangelico, situato tra le attuali via Silvio Pellico e Corso Italia, poi spostato in via del Monte dove si vede ancora il vecchio ingresso. Grazie alle sue origini ormai antiche, la Comunità Evangelica Luterana di Trieste è ben integrata nel tessuto sociale della città e ha visto negli ultimi 40 anni una progressiva internalizzazione.

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Chiesa Metodista Il metodismo arrivò a Trieste alla fine dell’800 per iniziativa del triestino Felice Dardi, pastore metodista a Venezia, che volle iniziare un’opera di evangelizzazione in lingua italiana nella città che allora era sotto amministrazione asburgica. Chiese protestanti erano già presenti a Trieste (la Chiesa Luterana e la Chiesa Riformata Elvetica), ma erano di lingua tedesca, per cui Dardi pensò bene di portare il messaggio evangelico alla maggioranza italiana ed in particolare fra il proletariato ed i ceti più poveri. I primi anni furono molto duri per la forte avversione della Chiesa Cattolica locale, ma Dardi trovò un valido appoggio ed aiuto da parte delle altre chiese evangeliche, elvetica e luterana, che vedevano di buon occhio una predicazione alla popolazione italiana nella propria lingua. Agli inizi le riunioni di culto e le conferenze si tenevano in diversi locali o appartamenti sparsi nei vari quartieri della città, ma nel 1898 Felice Dardi riuscì ad ottenere un locale di culto vero e proprio (la cappella dell’ex cimitero evangelico di via del Monte) che è ancora oggi la sede della locale Chiesa Evangelica Metodista con il nuovo ingresso di Scala dei Giganti. Anche il pastore Dardi non limitò la sua missione alla sola predicazione, ma da buon metodista si preoccupò anche dei problemi sociali che affliggevano la società triestina del tempo, in particolare l’alcolismo, una vera piaga fra i ceti proletari triestini. Per questo fondò “La Lega Antialcolica” che operò in città per molti anni, liberando molte famiglie da questa tremenda schiavitù. Oggi la Lega Antialcolica non c’è più, ma la chiesa metodista, che continua ancora a dare testimonianza dell’evangelo nella città, resta sempre attenta, attraverso i suoi membri, anche ai problemi sociali ed umani attuali.

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Chiesa evangelica valdese La Chiesa evangelica valdese di Trieste nasce con l’arrivo in città, già nei giorni immediatamente successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale, di alcuni militari, funzionari e impiegati valdesi che assieme a tanti altri venivano a sostituire i funzionari e impiegati triestini “compromessi” con l’amministrazione austro-ungarica. Con loro arrivò anche, inviato dalla Tavola Valdese, il pastore Francesco Rostan che il giorno di Natale 1918 tenne il primo culto dell’appena nata comunità valdese, nella basilica di San Silvestro, messa a disposizione dalla Comunità evangelica di Confessione Elvetica, a sua volta in quel tempo ospitata nella Chiesa Luterana. Per motivi di salute, il pastore Rostan lasciò quasi subito Trieste e dopo un breve intervallo fu sostituito nell’ottobre del 1919 dal giovane pastore di origine abruzzese Guglielmo Del Pesco, che rimarrà alla guida della comunità per 29 anni fino a quando, nel 1948, sarà nominato Moderatore della Tavola Valdese. Nel 1923 gli Elvetici rientrarono in San Silvestro, e ebbe così inizio quella “convivenza” fra le due comunità “sorelle” (perché ambedue riformate) che perdura ancora oggi. Per alcuni anni il pastore Del Pesco curò le comunità valdese ed elvetica insieme all’anziano pastore elvetico Schalaudek, che morirà nel 1925. A quel punto gli Elvetici fecero la scelta di un pastore di lingua italiana, ed in particolare chiesero di poter continuare ad essere seguiti da Del Pesco. Si arrivò così nel 1927 alla firma di una Convenzione fra la Tavola Valdese e la Comunità elvetica che, rinnovata più volte ed ancora in vigore, stabilisce che la Comunità elvetica accoglie nella sua chiesa e nei suoi locali la Comunità valdese, mentre la Tavola fornisce il pastore che si occupa delle due comunità. Dopo il Pastore Del Pesco, gli altri pastori che hanno curato le due comunità di San Silvestro sono stati Giorgio Girardet, Umberto Bert, Teodoro Fanlo y Cortez e Renato Coisson, che nell’ultima parte del suo ministero a Trieste dovette anche prendersi cura, per problemi sorti nella conduzione di quella comunità, della Chiesa metodista di Scala dei Giganti. Dopo Coisson tornò a Trieste, sua città natale, il pastore metodista Giovanni Carrari che prima si occupò da solo delle tre comunità, e poi fu affiancato dal pastore emerito Enos Mannelli. Purtroppo il pastore Carrari è precocemente mancato nel 2008, ed è stato sostituito dal Candidato al pastorato Michel Charbonnier, ancora affiancato dal pastore Mannelli. Dall’estate 2010, il pastore delle tre chiese elvetica, metodista e valdese, è Ruggero Marchetti. La chiesa valdese conta oggi circa 90 membri iscritti, ed è la più numerosa fra le nostre tre comunità triestine. Il Consiglio di chiesa valdese è attualmente presieduto da Dionisio Cignola. La vice presidente è Rosy Castelletti Balos.

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Cimitero Islamico

Questo piccolo e seminascosto cimitero si trova in un avvallamento alle spalle del cimitero greco: la sua presenza è rivelata dalla mezzaluna che spunta dall’alto muro di cinta della strada che costeggia il complesso cimiteriale. La sua particolarità è innanzitutto quella di essere l’unico cimitero interamente musulmano in Italia: e anche questa è un’eredità del passato asburgico della città e dei rapporti diplomatici tra l’impero austro-ungarico e quello ottomano. Non è agevole visitarlo poiché, a differenza degli altri cimiteri, non ha un orario fisso di apertura, visto anche l’esiguo numero di sepolture: per accedervi, occorre chiedere le chiavi al Consolato onorario di Turchia in piazza dell’Unità, ma ne vale veramente la pena. Il cimitero risale al 1849; vi si entra da un portone con arco a ferro di cavallo: all’interno, sulla sinistra, si trova la porta della cappella-depositorio: sopra ad essa, una targa in bronzo forse anteriore all’istituzione del cimitero; sopra l’edificio una cupola con in cima una mezzaluna e, accanto ad esso, un pozzo da cui attingere l’acqua per il lavaggio rituale dei defunti. Le tombe più antiche, meritevoli di attenzione, si trovano nella parte posteriore del cimitero, a ridosso del muro di cinta. Tre lapidi anonime con grandi spadoni incisi ci suggeriscono la presenza di militari, ma i gioielli di questo luogo sono tre steli del XIX secolo sormontate da turbanti; su ciascuna di esse le figure incise, le iscrizioni turche in caratteri arabi e le tipologie di turbante hanno svelato non solo l’identità dei loro occupanti ma anche il loro status sociale. .

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La prima di esse, del 1845-1846 (l’anno riportato su queste tombe è quello dell’egira e si colloca a cavallo tra due anni dell’era cristiana), è sormontata da un turbante in cui è scolpita una rosa, il che fa supporre che si tratti di un affiliato a una confraternita sufi: si sa inoltre che proveniva da Ulcinj, città costiera del Montenegro; la seconda è datata 1862-1863 e vi è sepolto il comandante di una nave; la terza lapide, con uno spadone inciso a lato, risale al 1874-1875 e appartiene a un militare bosniaco che aveva effettuato il pellegrinaggio alla Mecca: su tutte, l’invito a recitare una fatiha (la prima sura del Corano) per lo spirito del defunto. Nella stessa zona, vi sono sette lapidi risalenti al periodo della prima guerra mondiale: alcune sono pressoché interamente coperte da licheni e, pertanto, impossibili da decifrare, ma tre di esse sono leggibili e riservano una sorpresa: le scritte in tedesco rivelano i nomi di due soldati bosniaci caduti nel 1917 mentre nell’altra tomba, risalente al 1918, riposa un prigioniero di guerra tartaro dell’esercito russo detenuto in un campo di prigionia in Boemia. Al tempo della prima guerra mondiale, sia Trieste che la Bosnia facevano parte dell’impero asburgico: triestini e musulmani bosniaci erano dunque commilitoni, per cui non vi è nulla di strano nel fatto che i due soldati siano sepolti in questa città. Le tombe più recenti, oltre che a turchi, albanesi, somali e ad un italiano convertito appartengono, per la maggior parte, a musulmani bosniaci trasferitisi a Trieste dopo la seconda guerra mondiale: alcuni di essi, sospettati di collaborazionismo con gli occupatori nazifascisti, dovettero lasciare la Jugoslavia. Nella figura a fianco tombe con il Fez. Queste tombe sono di origine recente; in Bosnia cominciarono a diffondersi dopo il 1832 in seguito all’introduzione di riforme militari. I fez appaiono sulle tombe dei militari, spesso assieme ad ornamenti.

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La chiesa greco ortodossa La liberalizzazione dei traffici in Adriatico sancita con patente da Carlo VI del 1717, il trattato di Passorowitz con cui furono sviluppati i commerci attraverso Trieste tra l’Austria e l’impero ottomano, che comprendeva la Nazione greca (lo Stato greco non esisteva ancora), ma soprattutto l’editto dello stesso Carlo VI del 1719 col quale si dichiarava Trieste porto franco, posero le premesse per lo sviluppo dei commerci e l’insediamento di colonie di popoli di altre nazionalità presso la nostra città. Particolare rilevanza assunsero i negozianti di borsa, commercianti marittimi e molti benestanti bottegai provenienti da numerose regioni della Grecia. Uno dei primi greci fu Nicolò Mainati da Zante (1734): assieme ad altri venne a formare un’unica comunità dei greci ortodossi con una presenza minoritaria di illirici, oggi serbi. Il termine greco identificava infatti la religione e non la nazionalità. Nel 1751, anno della concessione della libertà di culto da parte di Maria Teresa, l’archimandrita Omero Damasceno ottenne anche di erigere, in zona adiacente al canale, una chiesa dedicata a San Spiridione. Nel 1770 la differenza di lingua e costumi portarono i greci a chiedere al governo la separazione dagli illiri. La comunità greca orientale viene così a formarsi ufficialmente nel 1782 e la richiesta di autorizzazione ad erigere un proprio tempio sul fronte mare ne fu il primo atto. La costruzione, avvenne tra il 1784 e il 1795, ma già nel 1787 vi fu celebrata la prima messa.

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La chiesa greco ortodossa vista dal mare

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La Chiesa di rito serbo – ortodossa

La Chiesa di rito serbo – ortodossa, nota anche con il nome di chiesa degli Schiavoni, è consacrata a S. Spiridione Taumaturgo. Essa sorge sulle fondamenta di una chiesa ortodossa preesistente, che, nel ‘700, veniva utilizzata sia dalla comunità greca che da quella serba. Vuoi per alcuni contrasti tra le due comunità, vuoi per l’accresciuto numero dei fedeli, l’odierno edificio fu realizzato su progetto del milanese Carlo Maciacchini, tra il 1861 e il 1868, su commissione della sola comunità serbo ortodossa. Oggi può accogliere fino a 1600 persone.

Il tempio, nella tradizione orientale, presenta una pianta a croce greca sormontata da cinque cupole dal caratteristico colore azzurro. La pietra di costruzione è, in buona parte, di provenienza locale, eccetto le colonne in marmo di Verona ed i cornicioni in marmo di Toscana.

L’interno presenta affreschi e pitture di pregio ma, ciò che domina su tutto, è l’iconostasi in legno massiccio, riccamente ornata da intagli, che divide il presbiterio dal resto della chiesa. Le quattro icone, raffiguranti la Madonna, Gesù, S. Spiridione e L’Annunciazione, realizzate a Mosca all’inizio dell’800, sono ricoperte di oro e argento.

Di particolare interesse il grande candelabro d’argento donato, in occasione di una visita a Trieste nel 1782, dal futuro zar Paolo

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Successivamente nel 1818 l’originaria facciata fu abbellita ad opera dell’architetto Matteo Pertsch, allievo del milanese Piermarini, qui chiamato per questa e molte altre opere da Demetrio Carciotti; il tempio fu chiuso da una nuova cancellata. La facciata si articola su sei paraste ioniche su alto basamento ed è coronata da un timpano allargato su cui si elevano due campanili con probabile influsso barocco tedesco. Le campane ben concertate, fuse in Udine dal Cobalchini, diffondono un suono armonico. Sopra la porta d’ingresso, sotto il semirosone, l’epigrafe su marmo nero ricorda il permesso alla costruzione concesso dai sovrani d’Austria e il citato restauro. I greci di Trieste dedicarono il nuovo tempio a San Nicolò e alla SS.Trinità: a questa, quale radice e fine di tutto il mondo cristiano, al Santo per la venerazione goduta in tutto il Levante e perchè patrono delle genti che vivono le attività marinare. Trieste infatti gli era devota da secoli: a San Nicolò era intitolato anche il più antico cantiere navale. La comunità greca contribuì sensibilmente allo sviluppo della città fondando ditte commerciali, negozi per mercati del porto e istituti d’assicurazione accrescendo anche l’arredo artistico ed architettonico con numerosi palazzi ed intervenendo anche nel sociale, raggiungendo una consistenza massima di 5000 persone. A sinistra pianta della chiesa serbo-ortodossa (San Spiridione)

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Interni ed esterni della chiesa serbo-ortodossa

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Comunità ebraica Il documento più antico che menziona un insediamento ebraico a Trieste risale al 1236. Si tratta un atto notarile con cui il vescovo Giovanni vende i suoi diritti sovrani al Comune per 500 marche, così da risarcire l’ebreo Daniele David di Carinzia, residente a Trieste, della somma spesa per combattere i ladroni del Carso. Nel Medioevo la componente ebraica è ridotta: non più di un centinaio di famiglie, molte delle quali proveniente da oltralpe, dedite al commercio e al prestito (la principale attività dei primi residenti sono i banchi di pegno), che non costituiscono ancora una vera e propria comunità. La presenza ebraica è però destinata ad aumentare con rapidità. Nel corso del Quattrocento la presenza sempre più marcata degli ebrei nella vita cittadina è testimoniata da protocolli, piccoli processi e documenti. A metà del Seicento il clima disteso che fino allora ha accompagnato l’opera dei banchieri e dei piccoli commercianti ebrei inizia però a guastarsi. Con notevole ritardo arriva anche a Trieste l’eco delle misure persecutorie ordinate dai pontefici romani. Questi sentimenti trovano voce in memoriali alle autorità centrali e in accuse gravissime. I Giudici rettori e il Consiglio dei patrizi chiedono più volte l’espulsione degli ebrei dalla città. Ma l’imperatore Leopoldo I disattende il sentimento della cittadinanza e del clero. Separa infatti gli ebrei dal resto della città istituendo un ghetto. L’area prescelta è quella, allora periferica, di corte Trauner. Alla popolazione ebraica sono assegnate 13 case intorno a una piazzetta e lungo due contrade parallele che tagliano il quartiere in direzione nord sud. La realizzazione del ghetto in un’area cittadina ricca e mercantile è frutto di una lunga lotta fra il Consiglio cittadino e la minuscola Comunità ebraica.

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La proclamazione del porto franco di Trieste nel 1719, a opera di Carlo VI d’Asburgo, porta con sé privilegi e libertà per tutte le nazionalità e le confessioni religiose. Il fiorire dei traffici e dei commerci s’accompagna a un incremento demografico che attraversa anche il nucleo ebraico, destinato ben presto ad assumere un ruolo centrale nelle fortune dell’emporio cosmopolita. Gli ebrei triestini sentono la necessità di dare vita a una vera e propria Comunità e nel 1748 viene inaugurata la prima Sinagoga. Nel 1784, si aprono le porte del ghetto e, nell’agosto del 1785, si abolisce definitivamente la segregazione. Nel 1810 è proclamata l’uguaglianza religiosa e civile di tutti i cittadini. Si elimina ogni forma di discriminazione verso gli ebrei ancora in vigore. Si sopprimono i divieti di possedere dei fondi e si considerarono validi tutti gli atti di vendita, compravendita e cessione di beni immobili fatti da ebrei. L’Ottocento vede svilupparsi in modo impetuoso la vita economica dell’emporio triestino e segna il momento di maggiore fioritura civile e culturale degli ebrei di Trieste. Nel porto degli Asburgo nascono le prime compagnie assicurative e di navigazione mentre i traffici marittimi vivono un impulso senza precedenti.

A fine Ottocento, su una popolazione di 123 mila persone, la comunità ebraica conta quasi 5 mila iscritti.

Un chiaro segno dell’importanza raggiunta dalla Comunità triestina nella prima metà del Novecento è la realizzazione della monumentale sinagoga di piazza Giotti, ancora oggi uno dei simboli della Trieste multireligiosa. L’edificio, che sarà inaugurato nel giugno 1912 alla presenza delle autorità cittadine guidate dal governatore, il principe di Hohenloe, è realizzato su progetto degli architetti Ruggero e Arduino Berlam. Si vuole così dare risposta alle esigenze di una comunità sempre più fiorente, che nel 1938 conta quasi 6 mila abitanti.

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L’arrivo dell’Italia liberale a Trieste, nel 1919, spazza via le ultime discriminazioni ancora in vita. Ma la libertà sarà un intermezzo molto breve prima della catastrofe della Shoah. Nel settembre 1938, in un discorso pronunciato proprio a Trieste, in piazza Unità, Benito Mussolini annuncia infatti la promulgazione delle leggi razziali. Dopo una serie di misure restrittive tese a isolarli ed emarginarli, si sancisce così la completa espulsione dei cittadini ebrei dalla società civile. Nel giro di pochi anni gli ebrei sono espulsi dalle scuole, dagli impieghi pubblici, dall’esercito, dall’insegnamento, dalla direzione e dalla proprietà di medie e grandi aziende, dall’esercizio delle professioni, dall’industria teatrale e cinematografica. Si limita il loro diritto di proprietà e, con effetto retroattivo, si revoca la cittadinanza italiana a quanti l’hanno ottenuta dopo il 1919, creando così circa 500 apolidi privi di ogni protezione, impossibilitati anche a emigrare perché privi di passaporto. Molte aziende passano a una proprietà ariana, ad esempio il quotidiano Il Piccolo, la Raffineria Aquila, gli Oleifici Luzzati o la Società istriana dei cementi. Infine, il 22 febbraio 1939, viene sciolta la Comunità israelitica che fino allora aveva rappresentato un elemento fondamentale di riferimento e di coesione.

L’applicazione delle leggi razziali si accompagna al montare dell’antisemitismo popolare. Dal 1941, anche sulla scia degli eventi bellici, la persecuzione si fa via via più aspra. Gli incidenti e i maltrattamenti si susseguono fino alla devastazione, il 18 luglio 1942, della maestosa Sinagoga.

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Tra novembre e dicembre del 1943 la Risiera di San Sabba, complesso di edifici industriali dei primi Novecento, un tempo adibito alla pilatura del riso e poi a caserma, viene trasformato nell’unico campo di sterminio realizzato sul territorio italiano. Per gli ebrei il campo di San Sabba è solo una sistemazione temporanea in attesa della deportazione, di solito in direzione Auschwitz. Fin dall’inizio dell’occupazione i nazisti rastrellano metodicamente la popolazione ebraica triestina.

La Comunità triestina è colpita nel profondo. Al momento della liberazione i soldati neozelandesi dell’ottava Armata britannica trovano in città solo 4-500 ebrei, ormai ridotti allo stremo. Il 7 maggio del 1945 una quindicina di loro, insieme al rabbino Lipscitz della Brigata ebraica e a un corrispondente di guerra canadese, si reca alla Sinagoga e ne riapre le porte. Il grande Tempio, come gli uffici comunitari ai piani superiori, ha superato quasi indenne la tempesta bellica. I nazisti lo hanno infatti trasformato in deposito di libri e opere d’arte. Gli argenti rituali della Comunità, in parte ora esposti al Museo ebraico Carlo e Vera Wagner, si sono però miracolosamente salvati dalla razzia, grazie a un ingegnoso nascondiglio ricavato all’interno dello stesso complesso sinagogale. La Shoah riduce la grande Comunità triestina all’ombra di se stessa. E’ difficile conoscere con esattezza il numero degli ebrei deportati. Ma si tratta di almeno 700 persone, il 10 per cento degli ebrei italiani.

Fanno ritorno dai campo di sterminio solo in 19, soprattutto donne, che testimonieranno l’orrore subito. Dopo la guerra rientra in città un migliaio di sopravvissuti nascostisi in Italia o in Svizzera. Molti di loro emigreranno in Palestina o nelle Americhe. Rimangono a Trieste circa 1500 ebrei e a metà degli anni ‘60 un netto scompenso tra morti e nascite ridurrà il loro numero di circa 500 unità.