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Novembre-Dicembre 2008, n° 13, 2008

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Idde per un nuovo orizzonte della laicità. Idee per una riforma della politica

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Novembre-Dicembre 2008, n° 13, 2008

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofi e per una riforma della politica

Adesioni

Bruno ACCARINO (Univ. di Firenze), Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapien-za, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giusep-pe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapien-za, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senato-re, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Maurizio IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASUL-LO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontifi cia Università Urbaniana), Alessandro PAGNINI (Univ. di Firenze), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corra-do VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI (Univ. di Padova).

Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Gennaio-Febbraio 2008, n° 14. (Numero 15, 28 Febbraio 2009) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Uffi cio stampa, Enrica Sanna. E-Mail: [email protected] Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.

Direzione: Elio Matassi - Vannino ChitiCoordinamento: Carmelo Meazza

I N D I C E

La questione morale e la “rivoluzione democratica”di ELIO MATASSI p. 3

Barak Obama, oltre l’orizzonte della guerra infinitadi UMBERTO CURI p. 7

Religione ed ethos democraticodi MARCO IVALDO p. 14

Le difficili vie del progresso nell’Italia odiernadi MAURO VISENTIN P. 18

La crisi avanza. Il PD ancora nella nebbia di ANDREA MARGHERI P. 24

Il pensiero di Emmanuel Levinas tra ispirazione profetica e filosofiaIntervista a IRENE KAJON

a cura di BACHISIO MELONI P. 29

Alcune riflessioni di J. L. Nancydi CARMELO MEAZZA P. 35

Quale Cristianesimo per i liberali?di STEFANO MASCHIETTI P. 38

La questionemorale ela “rivoluzione democratica”

di Elio Matassi

Nella più immediata contemporaneità sono molti ad osservare che la politi-ca, dopo la sua eclissi nella modernità, dove fi nisce con l’essere soppiantata dalle leggi economiche e dall’espertocrazia, può tornare ad essere centrale grazie all’ausilio dell’estetica e della poetica. A questo proposito è molto utile riportare alcune considerazioni critiche di Vittorio Foa, mutuate da un suo dialogo radiofonico con Natalia Ginzburg. Foa parte dalla constatazione che in politica vi sono almeno tre diversi livelli: “C’è un livello utilitario, che io non giudico una cosa volgare, che è una cosa necessaria, però se rimane li, l’immaginazione non è servita, l’immaginazione resta spenta. Se resta spenta l’immaginazione, resta spento anche il movimento della vita…; poi c’è la sfe-ra etica, nel senso che le cose che si fanno hanno un senso per la collettività, per gli altri, e in questi altri c’è da scegliere… E c’è un terzo livello, che è il livello…della poesia. Che non è vero che è fuori dalla politica: è il livello

dell’immaginazione…è la capacità di scegliere nella vita delle cose con un certo criterio e non con altri: con il criterio dettato da te stessa, capisci? Cioè tu non segui in quel caso delle regole. Le costruisci tu, come si costruisce una poesia”. Questi tre livelli ed in particolare il terzo, l’immaginario poetico, sembrano quanto mai indispensabili per affrontare l’esplosione della que-stione morale che ha coinvolto in profondità alcune giunte regionali e comu-nali dalle maggioranze di centrosinistra e dal Partito Democratico. Bisogna fare uno sforzo supplementare e di largo respiro per discutere l’idea stessa di democrazia (da approfondire e rafforzare), un’idea che non può rimanere ancorata entro un’ottica meramente giuridico-procedurale.Il primo problema che deve essere posto in tutta la sua radicalità è il seguen-te: la questione morale è un problema che compete ad una sfera diversa da quella meramente politica o è l’espressione di una crisi profonda dell’idea stessa di politica e di democrazia? La democrazia, infatti, deve essere con-siderata l’unica forma di società in cui la sfera politica viene esplicitamen-te istituita come attività collettanea e, nel contempo, confl ittuale. In questo ambito democrazia, politica e fi losofi a nascono e vivono insieme in quanto forme di messa in discussione della datità sociale istituita nello spazio pub-blico.Se questi sono i limiti entro cui deve essere contestualizzata la questione morale, la prima risposta è in parte già obbligata. La questione morale non è un accidente, un incidente di percorso da espungere e dimenticare rapida-mente, ma il segno rivelatore di una crisi di una certa idea della democrazia che il Partito Democratico deve essere in grado di rinnovare. L’esplosione della questione morale non è esterna ma interna alla crisi stessa del tessuto democratico, è l’espressione trasparente della crisi di un modello di democrazia, retto sostanzialmente da una competizione fra oligarchie li-berali che il sistema della rappresentanza giuridica dovrebbe essere in grado di garantire.Il Partito Democratico è (o dovrebbe) essere nato non semplicemente per una fusione-integrazione di culture politiche eterogenee ma per rimettere al centro dell’attenzione l’idea stessa di democrazia, di fornire, fi nalmente, un signifi cato nuovo a quell’aggettivo, ‘democratico’. Per tenere fede a tale progetto è indispensabile partire dall’unica premessa veramente fondante in maniera radicale. Che cos’è la democrazia, come è nata la democrazia? Per chi come me ha una visione non minimalistica della democrazia (la de-mocrazia non è il meno peggio dei sistemi politici ma il migliore in assoluto senza ‘se’ e senza ‘ma’), la democrazia ha un carattere ed una vocazione es-senzialmente partecipativa, negati e traditi sia nel mondo occidentale con il progressivo trasformarsi delle democrazie parlamentari in oligarchia liberali e nel mondo orientale, dominato dai paesi usciti dal ‘socialismo reale’, con società intrinsecamente burocratiche. Società burocratiche ed oligarchie liberali sono due facce della stessa me-daglia, due aspetti speculari e complementari dello stesso problema, il tra-dimento dell’idea stessa di democrazia. L’esplosione della questione morale non potrà concernere solo alcuni che hanno sbagliato, ossia un dettaglio marginale. Se la democrazia viene correttamente individuata nella sua di-mensione-declinzione associativo-partecipativa, anche la questione morale va riportata dentro alle origini di quest’idea ‘forte’ della democrazia. La cor-ruzione non è solo l’errore di un singolo o di alcuni gruppi, la corruzione è in primo luogo il risultato più tangibile e della degenerazione dell’idea di democrazia in un sistema oligarchico o burocratico, l’uno solo controaltare del secondo. Dopo questa degenerazione e dopo tale corruttela è venuto il

momento di una vera e propria rinascita della democrazia, di una restau-razione del suo signifi cato più profondo ed originario, di quella che può essere defi nita ‘rivoluzione democratica’, che il Partito Democratico dovrà saper interpretare fi no in fondo, in primo luogo, contro il proprio passato (anche recente).Quando parlo di ‘rivoluzione democratica’ non penso affatto ai termini in cui ne parlava Tocqueville, che vi scorgeva un evento storicamente inelutta-bile, dal carattere essenzialmente sociologico. Come è noto all’indomani del-la rivoluzione francese Tocqueville vedeva nell’avvento della democrazia un nuovo regime sociale, nel quale avrebbero fatto la loro comparsa sulla scena della storia le masse, fi no ad allora tenuta ai margini. La democrazia non è, invece, purtroppo, nulla di ineluttabile né tanto meno di provvidenziale. L’attuale empasse del movimento democratico, l’attuale crisi dell’attività politica sono dovute in primo luogo alla progressiva eclissi del signifi cato immaginario della modernità, concorrente rispetto al primo costituito dal dominio di una razionalità assoluta, dal predominio dell’economico, del quantifi cabile come valore esclusivo. Bisogna tornare all’immaginario poe-tico sollecitato da Vittorio Foa e ben presente nella rifl essione di Corlelius Castoriadis, il pensatore greco-francese che ha coniato l’espressione stessa di ‘rivoluzione democratica’: il vero compito di una linea politica autentica-mente democratica, e quindi solo in tal senso un compito ‘rivoluzionario’, è quello di considerare gli esseri umani come protagonisti attivi del proprio cambiamento. Non vi è nulla di astratto o di velleitario in tale progetto; l’argomentazione di Castoriadis è più complessa ed anche più aderente alla crisi della democrazia. La passione, infatti, per un’idea forte dell’autonomia e della sua realizzazione deve essere riportata all’interno della dialettica isti-tuente-instituito. Per Castoriadis non vi sono alterità di alcuna tipologia, né ieratica o biologica o puramente razionale che, dall’esterno, possano fondare universalmente il sociale. Lo sdoppiamento di istituente ed istituito è immanente ad ogni società data. Questo è il senso da attribuire all’espressione ‘rivoluzione democratica’: la società democratica in quanto auto- istituzione, equilibrio dinamico, costan-temente in fi eri tra l’istituente e l’istituito e, dunque, non governata come la natura da leggi universali, non può non avere una dimensione intrinseca-mente ed originariamente politica. A risultare determinante nell’equilibrio di una determinata società è la società stessa, un’opera collettanea in cui ogni società è al contempo soggetto ed oggetto. L’unica forma di società che l’as-sume, la esplicita fi no alle estreme conseguenze, proponendosi di coltivarla, è la democrazia.La democrazia non è la norma ma l’eccezione proprio in virtù di tali sue prerogative rivoluzionarie, ossia in quanto implica un capovolgimento pro-spettico della tendenza spontanea all’eteronomia sociale, cui fa, invece, rife-rimento Paul Valéry in questa sua lapidaria osservazione: “La politica fu in primo luogo l’arte di impedire alla gente di immischiarsi in ciò che la riguar-da”. L’obiettivo rivoluzionario di una politica autenticamente democratica è esattamente il contrario, entrando perciò in rotta di collisione con le ten-denze dominanti dell’immaginario contemporaneo, polarizzato dal primato dell’economico e dalla sua presunta razionalità inderogabile. La questione morale non è che la manifestazione estrema della corruzione dell’idea di democrazia. Questo è il vero ed unico problema, culturale e politico, del Partito Democratico, quello della sua compiuta identità demo-cratica. Solo su questo si potrà misurare l’identità del Partito Democratico e, solo in un passaggio successivo, la costruzione delle alleanze politiche. E’

un falso problema, quello della svolta centrista in alternativa ad una linea politica che tenti di recuperare un rapporto con la sinistra estrema. Non si è rifl ettuto a suffi cienza sulle ragioni della parallela e speculare crisi della sini-stra riformista e massimalista; in precedenza, la crisi della prima provocava come automatismo naturale la crescita della seconda, oggi, invece, perdono entrambe. Ci si è chiesti fi no in fondo il perché di questa duplice sconfi tta? Bisogna cambiare rotta, ma cambiare rotta non deve signifi care per il Partito Demo-cratico la creazione di un nuovo neologismo, ‘dalemiano’, ‘veltroniano’, op-pure … Non è questo il percorso da compiere. L’aggettivo giusto il Partito lo ha già trovato, è ‘democratico’, ha tradizioni e radici antiche che non vanno occultate ma semmai riconquistate.Bisogna tornare alla centralità dell’autonomia che non è un dato naturale, sottratto all’intervento della politica; essa è, invece, incessantemente istitu-zione della libertà, perché non sarà mai tale se non viene tenuta in vita da istituzioni politiche. La forma più conseguente dell’autonomia è la ‘fi losofi a’ in quanto il suo fi ne è quello di argomentare e diffondere l’eccellenza e la razionalità dell’autono-mia come forma di vita. Autonomia e fi losofi a sono, in ultima analisi, i momenti costitutivi della ri-voluzione democratica.

Barak Obama: ol-tre l’orizzonte della guerra infi nita

di Umberto Curi

1. “Per quanto riguarda la difesa, respingiamo come falsa la scelta tra la no-stra sicurezza e i nostri ideali”. In questi termini, nel discorso di insediamen-to alla Casa Bianca il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha voluto sintetiz-zare quali dovrebbero essere le nuove linee strategiche, alle quali l’America si atterrà nel prossimo futuro. Pur trattandosi di un semplice accenno, nel contesto di un ragionamento inevitabilmente appena abbozzato, lo spun-to ora citato può consentire di individuare la principale discriminante fra l’amministrazione entrante e quella uscente, fra Barack Obama e George W. Bush . Difatti, dopo il giuramento di Obama, il problema principale sarà quello di stabilire quali saranno i temi concreti – al di là della avvincente retorica dei suoi discorsi – sui quali si potrà misurare la discontinuità della nuova amministrazione rispetto a quella precedente. Per lo più, le previsio-ni formulate da analisti e commentatori in questi giorni si concentrano sui provvedimenti di politica economica e sociale, rivolti soprattutto a fronteg-giare la crisi, e sul preannuncio di alcuni cambiamenti relativi alla politica

energetica. Ma il banco di prova di gran lunga più signifi cativo, quello che potrà indicare se è vi è stata realmente una svolta, se davvero è iniziata una nuova epoca per la storia del mondo, è quello costituito dalla politica estera. Dove la verifi ca dovrà riguardare non solo – si badi bene – aspetti appari-scenti, ma anche in fondo limitati, quali sono la promessa chiusura del lager di Guantanamo o il ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Ma soprattutto l’impostazione complessiva delle relazioni internazionali, sul piano politico-economico, prima ancora che sul piano militare. E, all’interno di questo quadro, la funzione attribuita alla guerra. Come si vedrà, infatti, l’elemento di gran lunga più caratterizzante dell’amministrazione Bush, ciò per cui essa è destinata a restare come una tappa decisiva nella storia del pianeta, oltre che nello sviluppo delle idee, è certamente la nuovaconcezione della guerra, teorizzata dagli intellettuali di ispirazione neocon-servatrice, e concretamente attuata dal Presidente negli otto anni del suo mandato. Una concezione – e una pratica - della guerra, capace di rovescia-re i presupposti sui quali, per millenni, essa è stata defi nita e realizzata.

2. “Che cos’è la guerra, se non quel periodo di tempo in cui la volontà di contrastarsi con la violenza si manifesta suffi cientemente con le parole e con i fatti? Il tempo restante si chiama pace” (De cive, I, § 12; tr. it. Torino 1948, pp. 90-91). In questi termini, all’alba della modernità, per defi nire la guerra, e la sua differenza rispetto alla pace, Thomas Hobbes si serviva es-senzialmente della nozione di tempo. La non casualità di questo riferimento è confermata da ciò che lo stesso autore scrive nel Leviathan, contaminando deliberatamente la nozione cronologica con quella meteorologica di tempo. Come la natura di una tempesta “non consiste solo in un rovescio o due di grandine, ma nella disposizione dell’atmosfera ad essere cattiva per molti giorni insieme, così la natura della guerra non consiste in questo o quel com-battimento, ma nella disposizione manifestamente ostile, durante la quale non v’è sicurezza per l’avversario. Ogni altro tempo è pace”(tr.it. Bari 1974, I, p. 109). .Non si possono confondere, dunque, le “poche gocce” di alcuni combat-timenti isolati con “la tempesta della guerra”. La differenza non sta tanto nella quantità complessiva della pioggia, quanto piuttosto nella durata del fenomeno. Perché si possa parlare di guerra, è necessario che l’ostilità fra i contendenti, le operazioni militari, la “volontà di contrastarsi con la violen-za”, abbiano rilevanza in rapporto al tempo. La guerra e pace, si defi niscono e si contrappongono insomma come tempi. Più agevolmente riconoscibile la prima, in quanto coincide con una “manifestazione” ben visibile di “parole e fatti”, più indeterminata la seconda, perché caratterizzata solo dalla assenza di quelle parole e di quei fatti, entrambe sono tuttavia accomunate dal non essere episodi isolati, ma tempi aventi una “suffi ciente” durata.D’altra parte, in perfetta coerenza, e non in contraddizione, con queste af-fermazioni lo stesso fi losofo sottolinea che una guerra così intesa – come stato, dunque, anziché come evento, come condizione universale di bellige-ranza permanente, e non solo come sporadico combattimento – è in realtà una pura astrazione, una sorta di idea-limite, che tuttavia non corrisponde ad alcuna realtà storica determinata. Difatti, ove davvero si desse “uno stato continuo di guerra”, esso renderebbe impossibile “la conservazione, così della specie umana, come di ciascun individuo particolare” (De cive I, §13; tr.it. p. 91), sicchè “non può esservi qualcuno che stimi come proprio bene la guerra di tutti contro tutti” (ivi, p. 92), che sarebbe per l’appunto la carat-teristica naturale di un tale stato. O meglio. Hobbes accenna a qualche raro

caso storico, nel quale la condizione puramente ipotetica di una belligeranza di tutti contro tutti si è effettivamente realizzata. Nelle epoche passate, ciò è accaduto presso altre razze che erano allora composte relativamente di “pochi uomini feroci, di vita breve, poveri, sporchi”. Quanto all’età presen-te – vale a dire al secolo XVII, nel quale vive il fi losofo britannico – l’unico esempio che in qualche modo possa essere considerato simile ad uno stato continuo di guerra “ ce lo offrono gli Americani” (ivi, p. 91).Ma l’esiguità e la marginalità dei riferimenti storici, e insieme la constata-zione dell’evidente contraddizione, nella quale incorrerebbe chiunque sce-gliesse di rimanere in quello stato, poiché perseguirebbe consapevolmente il proprio autoannientamento, inducono ad affermare che è comunque ne-cessario “uscire da una simile situazione. Se ne può concludere che, “se si deve avere guerra, non sia contro tutti” (ivi, p. 92). Se guerra vi dovrà essere, essa non sarà dunque permanente, ma transitoria. Non sarà un tempo, ma un evento, in qualche modo circoscritto. Non sarà contro tutti, ma limitata ad alcuni.

3. Anche indipendentemente dalle defi nizioni hobbesiane, dal punto di vista storico e concettuale la guerra è sempre stata concepita non come uno stato, ma come un evento. Per certi aspetti, anzi, essa è stata considerata l’evento per antonomasia, vale a dire la rottura dell’equilibrio nel succedersi “ordi-nato” degli avvenimenti, l’attivazione o l’accelerazione di processi, in luogo della quiete preesistente. L’abituale scansione delle diverse fasi storiche in periodi distinti, assume spesso quale punto di riferimento una guerra, pro-prio perché essa si propone come irruzione di una marcata discontinuità, come spartiacque fra un “prima” e un “dopo” caratterizzati precisamente dal precedere o dal seguire l’evento bellico. In termini di teoria delle cata-strofi , la guerra si costituisce essenzialmente come fattore morfogenetico, e cioè come quel mutamento di forma che conduce ad una transizione fra due diversi stati di stabilità strutturale. Proprio perché è diretta antitesi di ogni stato, perché sanziona il sopravvento del mutamento rispetto alla continuità, e del processo rispetto alla quiete, la guerra si iscrive in un orizzonte concet-tuale specifi camente segnato dalla sua appartenenza alla sfera dell’evento, e dunque all’ambito del contingente e del particolare. Come espressione di ciò che accade hic et nunc, sua più compiuta manifesta-zione, per essere descritta la guerra esige un lessico adeguato alla sua morfo-logia, e dunque implica in particolare l’uso di categorie temporali idonee ad esprimerne le caratteristiche peculiari. Di qui l’impossibilità di riferirsi ad essa, se non con termini che ne sottolineino il carattere in ogni senso extra-ordinario, la sua irriducibilità a qualunque stato. Di qui anche la necessità di servirsi di connotazioni cronologiche capaci di situare con precisione nel tempo ogni specifi co accadimento bellico. Da questo punto di vista, un segno esteriore, ma non per questo meno signifi cativo, della stretta inerenza della guerra all’orizzonte temporale dell’evento può essere ravvisato nella consuetudine linguistica di identifi care una guerra attraverso l’indicazione degli anni in cui essa si è svolta. Nessun altro principio di individuazione è richiesto, salvo quello consistente nel segnalare la “data” in cui il confl itto è cominciato e quello nella quale è terminato. Per defi nizione, dunque, la guerra ha sempre e comunque un inizio, e altrettanto inderogabilmente una conclusione. Una guerra che fosse sottratta a determinazioni cronologiche, o che fosse descritta senza riferimento a categorie temporali, si porrebbe in contraddizione col suo specifi co statuto – quello di essere un processo, non uno stato, un evento, non una forma, una emergenza transitoria, non una

condizione permanente.

4. “Per la maggior parte del XX secolo, il mondo è stato diviso da una straordinaria lotta per gli ideali: visioni totalitarie e distruttive contro li-bertà e uguaglianza. La grande lotta è fi nita. Le visioni militanti di classe, nazione e razza che promettevano l’utopia, ma davano miseria, sono state sconfi tte e screditate”. Con l’affermazione di una netta soluzione di conti-nuità, fra un passato durato quasi un secolo, e la nuova situazione inaugu-ratasi con l’inizio del terzo millennio, si apre il documento sulla National Security Strategy(d’ora innanzi: NSS), reso noto al Congresso il 20 settembre del 2002. Articolato in alcuni densi capitoletti, riguardanti non solo le ne-cessarie trasformazioni nella strategia e nel funzionamento delle istituzioni preposte alla sicurezza nazionale, ma anche le linee di una rinnovata politica economica, e preceduto da una Introduzione dello stesso G.W.Bush, il testo nel suo complesso non dissimula le sue ambizioni. L’obiettivo al quale esso tende è infatti quello di disegnare un nuovo quadro teorico-politico, al cui interno si collocano le opzioni di carattere più strettamente militare, e le stesse linee guida della politica economica statunitense, “per far fronte alle sfi de e alle opportunità del XXI secolo”. Atto conclusivo di un processo di elaborazione avviato all’indomani dell’11 settembre, il NSS si propone esplicitamente come documento fondativo di una politica estera totalmente diversa, rispetto a quella a cui gli Stati Uniti si erano attenuti per oltre mezzo secolo, dalla fi ne della seconda guerra mondiale fi no al crollo del muro di Berlino.Le premesse per questo mutamento strategico erano già state poste nel testo intitolato Nuclear Posture Review(d’ora innanzi: NPR), sottoposto al Con-gresso il 31 dicembre del 2001. In esso, infatti, si offriva una prima dimo-strazione concreta di ciò che lo stesso Presidente Bush intendeva, quando aveva affermato (novembre 2001) che “nella politica di sicurezza, gli USA dovevano procedere oltre il paradigma della guerra fredda”. Muovendo dal presupposto (già dichiarato nel rapporto del National Institute for Public Policy di alcuni mesi prima) che “non è possibile prevedere oggi quale sarà lo scenario strategico del 2005, e meno ancora del 2010 o del 2020”, il NPR sostituiva all’idea del graduale smantellamento degli arsenali nucleari, che pure rientrava negli impegni precedentemente assunti dall’Amministrazio-ne, il criterio di una revisione, ispirata ad alcuni fondamentali criteri guida. In sintesi, il documento asseriva la necessità di lasciarsi defi nitivamente alle spalle i piani strategici assunti durante la guerra fredda, per adottare invece una “nuova triade”, articolata lungo tre direttive: “a) sistemi di attacco (sia nucleari che non nucleari); b) sistemi di difesa (sia attiva che passiva); c) una rivititalizzazione delle infrastrutture di difesa che consenta di acquisire nuo-ve capacità di affrontare situazioni di emergenza con grande tempestività”. Oltre ad un completo ribaltamento, rispetto alla prospettiva più volte an-nunciata di una progressiva denuclearizzazione degli armamenti (“le armi nucleari giocano un ruolo decisivo nelle capacità di difesa degli Stati Uniti, dei loro alleati e dei loro amici”), il NPR prefi gura già in maniera abbastan-za esplicita quello che sarà il baricentro concettuale del NSS, vale a dire la nozione di guerra preventiva. Alla base delle “tre gambe” della “nuova tria-de”, vi è infatti la convinzione più volte ribadita che il compito principale della strategia americana nel XXI secolo dovrà consistere nel prevenire gli attacchi, più ancora che nel rispondere tempestivamente ad essi. Di fronte al presentarsi anche solo di una semplice minaccia – si legge nel NPR – è dove-re primario degli USA impedire anticipatamente con tutti i mezzi, ivi inclusi

anche gli armamenti nucleari, la realizzazione di attacchi contro l’America o i suoi alleati.

5. Fra i documenti che preparano la svolta contenuta nel NSS, un’importan-za particolare va riconosciuta al Defense Planning Guidance (DPG), scritto per il Pentagono nel 1990 da tre esponenti della destra radicale, Paul Wol-fowitz , I. Lewis Libby, e Eric Edelman, destinati poi ad assumere ruoli chiave nell’amministrazione di George W. Bush. Tenuto a lungo segreto, e poi accantonato da Bush senior (perché giudicato troppo radicale), il DPG proponeva una nuova grande strategia americana: “impedire ad ogni poten-za ostile di dominare regioni le cui risorse potrebbero consentire agli Stati Uniti di aumentare il loro status di potenza….Scoraggiare i tentativi da par-te di nazioni industrializzate di sfi dare la leadership americana…Precludere l’emergere di ogni futuro concorrente globale”. Sebbene inizialmente scon-fessati dalla stessa maggioranza repubblicana, questi princìpi sarebbero stati rilanciati di lì a poco da Zalmay Khalilzad, attualmente funzionario delegato dal Dipartimento di Stato per l’Afghanistan e l’Iraq, il quale scriveva nel 1995 che “il miglior criterio guida per gli Stati Uniti dovrebbe consistere nel mantenere la leadership globale ed evitare l’emergere di un rivale globale o un ritorno del multilateralismo”.Per quanto indubbiamente signifi cativi, i preannunci contenuti in docu-menti precedenti non sono tali da cancellare e neppure da ridimensionare le straordinarie novità espresse nel NSS, in maniera particolare relativamen-te alla concezione della guerra. Queste possono essere compendiate in un mutamento profondo dell’orizzonte concettuale, all’interno del quale si è tradizionalmente “pensata la guerra”, mediante l’eliminazione di categorie temporalmente defi nite e la loro sostituzione con espressioni che alludono alla permanenza stabile della condizione bellica. Già la nozione stessa di pre-ventive war attribuisce alla guerra una connotazione temporale che rende logicamente insostenibile la formula nel suo complesso. E’ evidente, infat-ti, che si potrebbe considerare realmente preventiva solo una iniziativa che scongiurasse la possibilità della guerra, mentre ciò a cui si allude con quella espressione è la necessità di anticipare la guerra possibile (quella contro gli USA) con una guerra effettiva (quella intentata dagli USA). In altre parole, il termine “preventivo” risulta palesemente inapplicabile, poiché lo strumen-to mediante il quale la prevenzione dovrebbe essere attuata coincide con ciò che la prevenzione stessa dovrebbe impedire, sicchè si giungerebbe al paradosso che lo strumento potrebbe funzionare solo a condizione che esso resti disattivato.Ad esiti non meno paradossali, ma non per questo meno signifi cativi, con-ducono anche le altre locuzioni impiegate nel NSS, oltre che in numerosi altri discorsi pronunciati dal Presidente Bush prima e dopo il 20 settembre 2002. Designare una operazione strategica militare, quale è quella avviata prima contro l’Afghanistan e poi contro l’Iraq, con l’espressione Enduring Freedom, vuol dire ancora una volta adoperare una categoria che implica la permanenza o la perennità per descrivere qualcosa che, viceversa, dovrebbe essere per defi nizione circoscritto nel tempo, quale è appunto una guerra. Questa diventa dunque non già un evento, ma uno stato, principalmente caratterizzato dalla durata, e comunque tale da sfuggire alle determinazioni temporali con le quali abitualmente si designano le guerre. Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte anche a proposito di molte altre espressioni ricorrenti nei documenti e nelle dichiarazioni dell’Ammi-nistrazione americana: da Infi nite Justice (con la quale era originariamente

designata l’operazione poi defi nita Enduring Freedom) fi no a Infi nite War, vero e proprio ossimoro, mediante il quale quella che dovrebbe essere per eccellenza un’occorrenza straordinaria e transitoria, massimamente de-fi nita, assume le caratteristiche improprie di una condizione in-fi nita - senza fi nes, dunque, né in senso spaziale, né in senso temporale. Il tutto, accompagna-to dall’esortazione ad accettare (come ha raccomandato Bush all’indomani della strage compiuta a Riad il 13 maggio 2003) un dato di fatto, vale a dire che “non conosceremo la pace nel nostro tempo”.

6. Non dovrebbe essere necessario sottolineare che non si tratta di sotti-gliezze linguistiche. E’ evidente, piuttosto, che l’insistenza con la quale lo-cuzioni come quelle citate compaiono nei documenti uffi ciali e nei discorsi di esponenti autorevoli dell’Amministrazione Bush dimostra che esse iden-tifi cano l’asse principale della strategia americana fra il 2000 e il 2008: una concezione della guerra come stato, anziché come evento isolato, come pro-spettiva durevole, anziché circoscritta nel tempo, come modalità permanente di rapporto non solo con gli “Stati canaglia”, ma con chiunque minacci la leadership a stelle e striscie sul mondo intero. Eliminando ogni rapporto della guerra col tempo, cancellandone il carattere intrinsecamente transi-torio, quale passaggio fra stati diversi di stabilità strutturale, attribuendo ad essa il connotato della infi nità, ciò che viene attuato non è un mero “ag-giustamento” della strategia di sicurezza e di difesa, ma un vero e proprio riorientamento complessivo della politica estera americana, nella quale la guerra assume valore sostantivo e non più meramente strumentale.Gli atti, i documenti, le dichiarazioni dell’establishment statunitense confer-mano che, almeno a partire dall’inizio del 2002, la guerra (inclusa quella con armamenti nucleari) non è più un’opzione estrema, concepita come risposta ad un attacco, e comunque sempre limitata nel tempo e nello spazio, ma è piuttosto una prospettiva stabile, destinata a durare almeno quanto una in-tera generazione, non già quale supporto di una più ampia iniziativa di poli-tica estera, ma come principio con cui coincide e in cui infi ne integralmente si risolve la politica estera in quanto tale.

7. “Il tenore di vita dei cittadini americani non è negoziabile” – questo uno dei passaggi salienti di un discorso tenuto da G.W. Bush nel giugno 2002, sovente riproposto, con trascurabili variazioni, nei mesi successivi. Apparen-temente classifi cabile come concessione puramente demagogica, questa af-fermazione offre in realtà la chiave di volta per comprendere l’orientamento complessivo della politica estera statunitense e, al suo interno, la concezione della guerra come condizione permanente. In uno scenario generale ormai ben conosciuto, quale è quello di un mondo nel quale 1/5 della popolazione (coincidente appunto con i cittadini del mondo occidentale) dispone dei 4/5 delle risorse dell’intero pianeta, la posizione secondo la quale il tenore di vita degli abitanti più privilegiati non è negoziabile, costituisce di per sé la prima e più importante dichiarazione di guerra nei confronti del resto della popolazione mondiale. Se in presenza dei colossali problemi indotti dai macroscopici squilibri esistenti, lo status di alcuni cittadini è posto come variabile indipendente, è evidente che questo elemento di assoluta rigidità implica di per se stesso il ricorso alla guerra, non già come mezzo per affron-tare una singola e circoscritta minaccia, ma come tramite per scongiurare ogni e qualunque mutamento, come strumento per imporre la permanenza, rispetto all’ipotesi di una qualsiasi modifi cazione dello stato esistente.Si comprende allora, da questo punto di vista, la necessità di sostituire alla

tradizionale accezione della guerra come evento straordinario e transitorio una concezione in cui la guerra coincide con uno stato durevole, destina-to non a sconfi ggere un determinato nemico, ma a impedire che possano essere lesi o limitati i diritti considerati acquisiti e intangibili di coloro che vivono nel mondo occidentale. Di qui, in perfetta coerenza, la mobilitazione di locuzioni e metafore accomunate dall’eliminazione di ogni specifi co rife-rimento temporale. Di qui l’evocazione di una prospettiva che abbraccia la vita di un’intera generazione, e in cui l’obiettivo indicato non consiste in una singola “vittoria” militare, ma nel perseguimento di una giustizia infi nita o di una libertà duratura. 8. Alla luce del percorso fi n qui compiuto, si può dunque motivatamente affermare che la vera scommessa a cui Obama è chiamato può allora essere individuata nella capacità che gli Stati Uniti dovranno dimostrare di assol-vere al compito di “tenere in forma” le macroscopiche contraddizioni del pianeta, rinunciando allo strumento della “guerra infi nita”. Una sfi da estre-mamente impegnativa, dal momento che, pur trattandosi di una scorciatoia, pagata con un tributo altissimo in termini di vite umane, e più ancora di per-petuazione di iniquità e storture, la linea perseguita dall’Amministrazione Bush ha raggiunto l’obbiettivo di ribadire l’egemonia statunitense nel mon-do, senza mettere in discussione il livello di vita del cittadino americano. Certamente, il fatto che la crisi economica abbia così brutalmente obbligato a rivedere quel tenore di vita, che si era dichiarato di principio “non nego-ziabile”, potrà aprire la strada ad una revisione profonda della politica este-ra fi n qui perseguita. Su questo piano, la nuova Amministrazione americana è chiamata ad una verifi ca decisiva. Tenere insieme, anziché contrapporre, sicurezza e ideali. Sviluppare la cooperazione internazionale, invece che la diffusione della guerra preventiva. “Tendere la mano” (come ha testualmen-te affermato Obama) ai popoli del mondo, anziché soffocarne le sacrosante esigenze di sopravvivenza e di sviluppo economico. Se le parole pronuncia-te nel discorso di insediamento, e nei molti discorsi della lunga campagna elettorale, troveranno una conferma nei fatti, potremo ritenere che sia sta-ta defi nitivamente chiusa una fase storica drammatica, durante la quale la guerra è stata il soggetto, e non semplicemente un possibile strumento, nelle relazioni fra i popoli della terra.

Nota. Per un approfondimento di alcuni passaggi, solo abbozzati nel presente saggio, mi permetto di rinviare ad alcuni miei lavori: Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari 1999; Polemos. Filosofi a come guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Introduzione in R. CAILLOIS, La vertigine della guerra, tr. it. Citta Aperta Edizioni, Troina (Enna.) 2002, pp. 7-53; Perché la guerra, “Filosofi a politica”, 2002, n. 3, pp. 423-434; Terrorismo e guerra infi nita, Città Aperta, Troina (Enna) 2007.

Religione ed ethos democratico

di Marco Ivaldo

Vorrei avanzare una rifl essione sulla questione, oggi molto dibattuta, di un possibile contributo delle religioni alla costruzione di un ethos democratico muovendo da due considerazioni.

La prima riguarda il ruolo che le religioni, in particolare le tre religioni di origine abramitica, vengono esercitando con crescente incidenza, da alcuni decenni oramai, nella sfera pubblica. Per un verso si è rivelata fattualmente sbagliata la fede ‘positivistica’ che lo sviluppo scientifi co, unito ai progressi della tecnologia e della tecnica, avrebbe gradualmente sostituito l’interpretazione religiosa del mondo. Le religioni, come fonti di motivazioni e di scopi del vivere, non sono affatto scomparse dalla vita delle persone; anzi nelle società di massa contemporanee tende a manifestarsi, come reazione ai fenomeni di frammentazione sociale e di anomia, una domanda di senso, che trova nelle religioni uno dei più potenti sistemi di signifi cato in grado di accoglierla e di interpretarla. E’ il fenomeno, suscettibile per altro di ermeneutiche differenziate, del ‘ritorno’, ma forse si dovrebbe dire: della ‘permanenza del religioso’. Per altro verso la riduzione della religiosità a cosa privata – che trova le sue premesse nell’epoca delle guerre di religione, ma che veniva ritenuta da alcuni teorici come una implicazione necessaria dei processi di secolarizzazione - è entrata in crisi nei fatti: l’esperienza

religiosa si propone non soltanto come rilevante sul piano della vita di moltissimi individui, ma elabora esigenze etiche e istanze civili che vuole vedere rispecchiate o corrisposte anche nella vita pubblica e nella sfera politica. Ciò accade non soltanto nell’islam e nell’ebraismo religioso. La chiesa cattolica ad esempio – che pure si ispira alla distinzione evangelica fra ciò che è dovuto a Dio e ciò che è dovuto a Cesare e che ha elaborato un complesso confronto rifl essivo con la modernità, sfociato nel Concilio Ecumenico Vaticano II – accentua oggi con particolare enfasi il ruolo storico e pubblico della fede cristiana (da lei per altro sempre rivendicato), e declina questo ruolo volendosi come interprete di alcuni ‘valori non negoziabili’, che le legislazioni civili dovrebbero tutelare o almeno non contraddire.

La seconda considerazione mi è sollecitata dalla notissima affermazione del giuspubblicista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo cui “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire”1. In tale affermazione si esprime il dubbio che lo Stato democratico costituzionale sia in grado rinnovare in maniera autonoma le condizioni normative della propria esistenza, e si manifesta l’idea che questa forma statuale dipenda in defi nitiva da specifi che tradizioni metafi siche e religiose oppure da determinate forme dell’ethos vincolanti per la comunità. Habermas - il quale pure manifesta la fi ducia che una “ragione non disfattista” possa elaborare una strategia di giustifi cazione autonoma dei principi costituzionali con la pretesa di riuscire accettabile da tutti i cittadini – ammette in pari tempo che, riguardo alla effi cacia di questa strategia argomentativa indipendente da tradizioni metafi siche e religiose, resta “un dubbio di carattere motivazionale”2. In particolare le risorse e le strategie argomentative della ragione pubblica patirebbero un defi cit motivazionale quanto alla promozione di quegli atteggiamenti morali che ci si deve attendere da cittadini che devono partecipare in maniera attiva alla res-publica non solo nell’ottica di un illuminato auto-interesse, ma in quella del bene comune. Questo a causa di una “modernizzazione aberrante” della società nel suo complesso, che avrebbe reso storicamente sempre più fragile, nelle attuali società democratiche, il legame sociale e che può esaurire quella forma di solidarietà da cui lo Stato democratico dipende, pur senza poterla imporre per via giuridica. Questa circostanza ha sollecitato Habermas, come è noto, a ripensare le potenzialità contenute nelle tradizioni religiose, in particolare nella tradizione cristiana: “Nella vita delle comunità religiose – egli ha detto - , nella misura in cui evitino dogmatismo e costrizione delle coscienza individuale, può rimanere intatto qualcosa che altrove è andato perduto”, e che nessun sapere empirico e strumentale può riattivare, cioè: “possibilità di espressione suffi cientemente differenziate, sensibilità per vite andate male, per le patologie sociali, per l’insuccesso di progetti di vita individuali e per le deformazioni di contesti di vita sfi gurati” 3. Anche Böckenförde sottolinea per parte sua l’esigenza di un ruolo non ideologico e politico, ma spirituale delle religioni nella costruzione del legame sociale e della unità politica nelle condizioni di pluralità che sono proprie delle società democratiche, legame e unità che non potrebbero affatto venire prodotti e garantiti su presupposti puramente funzionalistici e eudemonistici.

Ora, la permanenza del religioso e il suo proporsi come esigenza etica e istanza civile sul piano pubblico, per un verso, e il riconoscimento delle potenzialità delle tradizioni religiose per alimentare i presupposti etici e gli atteggiamenti morali necessari alla convivenza democratica per l’altro verso, sono due fenomeni che suggeriscono e sollecitano una richiesta complessiva, richiesta la crisi del mondo attuale acutizza. Si tratta di questo: i cittadini

appartenenti a una specifi ca religione di chiesa e i cittadini non appartenenti a una chiesa o comunità religiosa sono oggi convocati insieme a ripensare il rapporto fra le religioni e lo spazio politico con i suoi presupposti morali secondo forme nuove, che non possono più semplicemente ripetere o reiterare quelle elaborate negli ultimi tre secoli, e ciò anche se la cultura moderno-liberale ha messo a tema un complesso di autonomie e di vincoli che non debbono affatto venire cancellati o ignorati. Penso che abbia consumato il suo tempo l’idea di una neutralizzazione politica della religione, che intenda la religione stessa come semplice affare privato, a cui va sottratta ogni incidenza costruttiva nella sfera pubblica. Ma giudico anche non accettabile l’idea, oggi abbastanza in voga, di fare (o di rifare) un uso strumentale della religione, in particolare della religione di chiesa: l’idea ad esempio di fare del cattolicesimo quasi una nuova religione civile che funzioni come fattore di auto-identifi cazione sociale di fronte all’impatto di altre culture e religioni e fornisca un antidoto conservatore contro derive relativistiche sul piano dei costumi morali (con l’aggiunta, in questa impostazione, di fare del magistero della chiesa in ambito morale – ma si dovrebbe precisare: nell’ambito di ciò che viene designata ‘morale naturale’ - l’interprete ipso facto privilegiato degli atteggiamenti etici necessari a promuovere e garantire la convivenza). Qui deve essere chiaramente affermato: la fede cristiana non è cosa privata, ma – ciò che è assai diverso – è realtà ed esperienza personale, o meglio interpersonale; e ancora: la fede cristiana non è affatto una religione civile, comunque si voglia intendere questa espressione e come già sapevano le prime comunità cristiane che si trovavano messe a confronto con la religio romana, ma è piuttosto – per riprendere una espressione molto bella di Aldo Moro – “principio di non appagamento e di mutamento dell’esistente nel suo signifi cato spirituale e nella sua struttura sociale”4.

Ora, quanto alla esigenza di pensare in forme nuove il rapporto fra le religioni e le basi morali della democrazia ancora Habermas elabora, mi sembra, una interessante proposta. Egli invita i “cittadini credenti” (va inteso: credenti nelle religioni fondate su una rivelazione) e i cittadini non appartenenti a chiese (che egli chiama “cittadini secolarizzati”5) a intendere di comune accordo la secolarizzazione “come un processo di apprendimento complementare”, nel quale entrambi possano prendere reciprocamente sul serio, anche per motivi cognitivi, i rispettivi contributi sui temi dibattuti nella sfera pubblica. In questo quadro il fi losofo tedesco osserva che i cittadini secolarizzati non hanno in linea di principio la facoltà di negare un potenziale di verità alle immagini religiose del mondo, né di contestare ai cittadini credenti il diritto di contribuire a pubbliche discussioni in linguaggio religioso. Pertanto le rappresentazioni religiose non devono venire squalifi cate a priori come semplicemente irragionevoli e pubblicamente irrilevanti, anzi rappresentano una sfi da cognitiva per tutti.

Rispetto a questa interessante posizione di Habermas – che condivido nel suo orientamento di fondo - vorrei però far valere che non solo ai cittadini secolarizzati, ma anche ai cittadini credenti dovrebbe venire riconosciuta la capacità di “traduzione”, ovvero la competenza di trasferire il potenziale di verità delle immagini religiose del mondo dal linguaggio religioso a quella che il fi losofo chiama “una lingua accessibile a tutti”6. Penso in altri termini che il cittadino credente debba vedersi riconosciuta, o comunque debba assumersi in prima persona, la responsabilità della ‘mediazione culturale’ (riconoscimento in verità abbastanza inusuale oggi non solo in quella che si chiama ‘cultura laica’, ma anche nella chiesa). La mediazione culturale, come qui la intendo, è precisamente la “traduzione” di una immagine della realtà

da un linguaggio a un altro linguaggio, e - per riferirmi adesso alla tradizione religiosa cristiana - dal linguaggio che manifesta i contenuti immediati della rivelazione, a cui risponde l’atto peculiare della fede, al linguaggio che viene parlato dalla ragione a tutti comune e che articola l’agire della ragione stessa. Si tratta di una prospettiva che non intende affatto la “traduzione” secondo il programma di una ermeneutica demitizzante, ma secondo quello di una interpretazione universalizzante (Pareyson), cioè mirante a mettere in valore l’universale partecipabilità e comunicabilità dei contenuti di una rivelazione, la loro capacità di interessare la persona al di là di una sua appartenenza a una chiesa o gruppo religioso, di appellare la sua libera rifl essione

La possibilità per cittadino credente di vivere la sua identità cristiana nella sfera pubblica dipende in ampia misura dalla sua capacità di realizzare questo tipo di mediazione culturale, ovvero – per riprendere e riformulare a mio modo una posizione di Habermas, poco prima evocata – dalla sua capacità di contribuire alle pubbliche discussioni non solo in linguaggio religioso (che ha un suo proprio inalienabile diritto nella esplicita testimonianza), ma, muovendo dalla coscienza religiosa e ispirandosi a questa, anche in un linguaggio capace di attirare l’ascolto e l’interesse dei membri della ‘città’ al di là della loro personale appartenenza (o non appartenenza) a una religione di chiesa. E’ la lingua della comune ragionevolezza, a condizione di non ridurre questa ragionevolezza alle sue declinazioni formalistiche oppure empiristiche, e di assumerla invece quale ci viene tramandata dal ‘socratismo perenne’ del logon didonai, la ragionevolezza come pratica di giustifi cazione dei pensieri e delle azioni.

1 Ernst-Wolfgang Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di Geminello Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 53.2 In: Jürgen Habermas/Joseph Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a cura di Giancarlo Bosetti, Marsilio Venezia 2005, p. 47. 3 Ibidem, p. 57. 4 Discorso al XII Congresso della Democrazia cristiana, Roma, 9 giugno 1973 5 In: Jürgen Habermas/Joseph Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, cit. p. 59.6 Ibidem, p. 63.

Le diffi cili vie del progresso nell’Italia odierna

di Mauro Visentin

In Italia sta per caso accadendo qualcosa di cui preoccuparci? Di fronte ad una serie abbastanza impressionante e considerevole di indizi, siamo forse già in molti a chiedercelo, anche se non tutti coloro che si pongono questo interrogativo hanno, al riguardo, le stesse apprensioni. Naturalmente, for-mulando una simile domanda, intendo alludere a qualcosa di particolare, di specifi co, qualcosa che induca a rifl ettere e a pensare, qualcosa che denunci rischi e pericoli non generici e abituali (quelli cui ogni società va normal-mente o periodicamente soggetta) ma inconsueti e soprattutto, fi no a non molto tempo fa, imprevedibili. Per la vita civile, in primo luogo, ma anche per quella politica e culturale. Comunque, un mutamento che, anche senza ricorrere a defi nizioni rese inutili se non addirittura fastidiose dal loro abuso (“storico”, “epocale”, ecc.), possa essere intravisto come indizio di uno di quei “passaggi” che segnano un nuovo orientamento collettivo (nel quale, magari, non facciano che riemergere fl ussi profondi – “carsici”, come si usa dire – della vita civile, della cultura e della storia di un Paese). Proviamo a ragionarci sopra, mettendo in fi la, intanto, alcuni episodi della cronaca re-cente, politica e sociale.

1. Il Partito democratico appare sempre più in balia di un “multicultura-

lismo” interno, senza regole e senza minimo comun denominatore. Un mul-ticulturalismo che lo ha portato, di recente, a non avere una voce sola (sia pure contraddistinta da sfumature e tonalità diverse) nella crisi di Gaza. Che ha, ieri o l’altro ieri (rispetto al momento in cui scrivo), imposto un rinvio nella votazione di un documento unitario (viatico ad una posizione parla-mentare univoca nella discussione sul relativo progetto di legge) riguardo al tema del “testamento biologico”. Che vede una parte consistente del partito rincorrere, al Nord, le sirene leghiste, agitando il vessillo di un federalismo sgangherato, di fronte al quale i vertici nazionali sembrano non avere altra politica oltre a quella di subirne l’onda senza convinzione, ma anche senza la forza di contrapporsi ad essa con idee chiare ed argomenti persuasivi (e ce ne sarebbero, a cominciare dal tema dei costi). E tutto questo, lasciando da parte il disastro delle amministrazioni locali di centrosinistra, investite, in molti e ragguardevoli casi, da inchieste che mettono una volta per tutte in discussione il vecchio stendardo dell’onestà e della correttezza delle giunte “rosse” (il loro “diverso modo di fare politica”), e molto, troppo timide in altri, non meno ragguardevoli casi (con le dovute e apprezzabili eccezioni di Piemonte, Liguria e, forse, non so bene, anche Emilia Romagna), di fron-te all’illegalità di un ministro che emana una circolare intimidatoria, per impedire che le strutture del servizio sanitario nazionale (comprese quelle convenzionate con le regioni), la cui competenza amministrativa è a carico dei poteri locali, si prestino a dare appoggio logistico all’esecuzione di una sentenza emessa in via definitiva dalla Corte di Cassazione. 2. Dalle posizioni irrazionali ed emotive di gran parte dell’opinione pubblica italiana (non solo di sinistra) riguardo all’ennesima crisi isaelo-palestinese e dalle posizioni espresse dai vertici della Chiesa in proposito traspare un’inquietante sintonia, che fa riemergere fantasmi del passato, quando il popolo ebraico, considerato come popolo deicida dal cattolice-simo ufficiale, era fatto oggetto delle imputazioni più infami e fantasiose da una porzione cospicua del perbenismo borghese, oggi allargata a settori del proletariato e sottoproletariato urbano e suburbano di destra e sinistra (sia quelli armati di un’ideologia schematica e ottusa, che ha riscontri anche in alcuni esponenti di primo piano della sinistra ufficiale, sia quelli guidati dal semplice istinto della loro sete di rivalsa, che cerca solo un nemico da colpire, indipendentemente dal fatto che questo possa, volta per volta, es-sere individuato nell’ebreo, nell’omosessuale, nell’opposta tifoseria calcisti-ca o nell’avversario politico). In questo “incontro” funesto non si può non vedere anche un effetto dell’opera indefessa di demolizione del dialogo interreligioso, soprattutto ebraico-cristiano, portata avanti convintamente dall’attuale pontefice, pronto – è notizia di oggi – a revocare la scomunica ai vescovi della comunità cattolica ipertradizionalista creata quasi quarant’an-ni fa in Svizzera da monsignor Lefebvre, che annovera, tra i suoi prelati numerosi fautori del negazionismo storico (in altre parole, della tesi aber-rante di alcuni storici, che la comunità scientifica ha da tempo ostracizzato, secondo la quale lo sterminio degli ebrei da parte della Germania hitleriana nel corso dell’ultimo conflitto non ci sarebbe, in realtà, mai veramente stato o non sarebbe stato delle dimensioni dichiarate, ma incommensurabilmente più esiguo). 3. Con i referendum storici (questi sì) sul divorzio prima e l’aborto dopo, sembrava ai laici italiani che la battaglia per il rinnovamento morale e cultu-rale del Paese fosse stata vinta una volta per tutte. Sono bastati i tre anni dal-l’elezione dell’ultimo pontefice e il radicalizzarsi della svolta “clericale” del centrodestra per rimettere in discussione questo forse troppo ingenuo con-

vincimento. Oggi appare come sempre più probabile una svolta legislativa che tenda ad imporre a tutti, credenti e non credenti, non certo (perlomeno non ancora) l’obbligo di credere, ma almeno quello di sottostare, anche in questioni che riguardano solo il singolo (e in una democrazia liberale ce ne sono, devono essercene e devono essere riconosciute come tali, pena la sua degradazione ad una forma di sistema politico-istituzionale di tipo olistico), alle disposizioni di una morale religiosa. Spicca tra tutte quella relativa al rifi uto di riconoscere la vita del soggetto individuale come un bene che sia (alla condizione che egli, com’è ovvio, si trovi in uno stato di capacità e au-tonomia psichica ragionevolmente incontestabili) nella sua disponibilità. Si intuiscono, dietro questa tendenza, le posizioni più diverse, che vanno dalla scelta opportunistica di condividere per pure ragioni di comodo od eletto-rali gli indirizzi della Chiesa, all’adesione ad un radicalismo tradizionalista di tipo ideologico, tutte però potenzialmente convergenti verso un esito in cui sono riconoscibili i tratti di uno Stato che intende educare (o rieducare) i propri cittadini, inculcando loro i valori della maggioranza (interpretati, in una visione più o meno consapevolmente organicistica della società, come valori che devono essere di tutti). 4. Accanto a questo e in apparente confl itto con questo, il dilagare di un localismo, di un egoismo territoriale e sociale, sempre più accentuati, proter-vi e rissosi. Perché parlo, in proposito, di “apparente confl itto”? Forse che su tante proposte leghiste degli ultimi mesi (da quella di tassare i permessi di soggiorno a quella di introdurre classi separate per i fi gli degli immigrati, da quella di imporre vincoli all’esercizio di certi culti religiosi a quella di introdurre il reato di immigrazione clandestina) la Chiesa non ha espresso le censure più severe? Senza dubbio. Ma, per ragioni sulle quali sarà ora il caso di soffermarsi in modo specifi co, questo confl itto assomiglia molto ad un involontario (o inconsapevole) gioco delle parti (e proprio in questo senso, appare chiaro che esso sta svolgendo oggi una precisa funzione).

L’universalismo della Chiesa cattolica e la piccola patria regionale (o, magari, addirittura comunale) sono davvero necessariamente antitetici? Su alcune singole scelte sì, è evidente. Ma vediamo di scendere un po’ più in profondità nella valutazione di questo confronto. E vediamo, innanzitutto, se c’è qualcosa che, al di là dell’antitesi (e più a monte di questa), non uni-fi chi o avvicini le due prospettive. Un aspetto di questo genere c’è e non è neppure diffi cile individuarlo, se solo non ci si limita ad una considerazione superfi ciale e si solleva appena il velo dell’impressione più immediata ed epidermica: è quello rappresentato dall’ostilità nei confronti dell’istituzione statuale. Questa ostilità accomuna la Chiesa e il regionalismo o il localismo più spinto per ragioni diverse ma convergenti: nel caso della prima per-ché essa pretende di collocarsi al di sopra dello Stato e, in Italia, anche per l’ulteriore e specifi ca ragione che l’unità nazionale è sta ottenuta a prezzo dell’esautoramento del potere temporale dei papi; nel caso del secondo per motivi che non è necessario illustrare perché coincidono con la stessa ragion d’essere del localismo identitario. Ora, l’identità garantita da quest’ultimo è un’identità culturalmente forte (in senso antropologico), ma povera di va-lori (e tanto più povera assiologicamente, quanto più ristretto è l’ambito territoriale in cui essa esercita, nei riguardi dei singoli, il proprio ruolo di rassicurazione e conferma delle radici della loro esistenza). Di fronte a ciò, i valori della Chiesa si presentano come forti sul piano assiologico ma oggi sempre più deboli su quello della soddisfazione delle esigenze esistenziali, contrastati come sono, nella pratica delle condotte di vita, dal desiderio di

benessere, dalla scarsa disponibilità al sacrifi cio, dall’edonismo dilagante e dalla fede nell’effi cacia della tecnica (che ha surrogato quella nell’effi cacia dei miracoli). Questi valori non appaiono, ad un esame attento, in contrasto con quelli espressi dal particolarismo territoriale, se non per ciò che riguar-da la loro applicazione ad alcuni casi specifi ci, anche in riferimento ai quali, del resto, il contrasto può facilmente mutarsi in convergenza non appena si trascorra dall’apertura e dal soccorso caritativo nei confronti degli immigrati alla denuncia dei rischi insiti nel multiculturalismo religioso e nella crescen-te penetrazione musulmana conseguente all’intensifi carsi dei fl ussi migratori provenienti dai paesi arabi e dal nord-africa. Considerazione che si applica con particolare aderenza alla presente realtà della Chiesa, i cui orientamenti, sulla spinta dell’impulso anticoncilare ad essa impresso dal pontifi cato rat-zingeriano, sembrano volti più all’imposizione che al dialogo, più al prose-litismo concorrenziale che all’evangelizzazione. Guardando allora alle cose sotto la particolare angolatura sotto la quale le abbiamo poste adesso, appa-re chiaro che, lungi dall’essere incompatibili, queste due realtà possono util-mente fornire l’una all’altra la necessaria integrazione degli aspetti riguardo ai quali ciascuna di esse risulta carente. A legarle è soprattutto il comune attaccamento alla tradizione, una visione culturalmente conservatrice della società e dei ruoli in essa rivestiti dai singoli, un atteggiamento critico e difensivo nei confronti degli aspetti eticamente progressivi (sul terreno del-la morale e del costume) della modernità, la diffi denza nei confronti delle istituzioni politiche e del potere centrale. Il fatto che queste forze risultino, ad una lettura più attenta, assai meno incompatibili di quanto le apparenze estrinseche non indurrebbero a supporre ed anzi decisamente integrabili, non signifi ca però che la loro sintesi possa avvenire spontaneamente: essa è assicurata dalla compagine politica che rappresenta oggi, in Italia, il partito di maggioranza relativa, ruolo un tempo (e a lungo) assolto dalla Democra-zia Cristiana.

Al presente, l’elemento di più grossa inquietudine non è costituito dal fatto che abbia preso corpo da noi una destra elettoralmente forte (anche perché capace di parlare all’anima profonda, più antica ed oscura del Pae-se), connotata da un orientamento culturale decisamente antimoderno, al quale non si oppone il rapporto privilegiato con i ceti imprenditoriali (il cui tratto caratteristico, del resto, in Italia, è sempre stato quello di distinguersi per una prevalenza di imprenditoria piccola e media, con una capacità inno-vativa fortemente condizionata sia dai limiti di bilancio, che non consentono grandi investimenti in ricerca, sia dalla natura stessa del prodotto, raramen-te contraddistinto da alti contenuti tecnologici). L’inquietudine maggiore, per un moderno liberalismo laico e progressista è quella che ispira lo stato in cui versa il PD. E questo stato continuerà ad affl iggere tale forza politica fi nché questa non avrà compreso la differenza che corre tra i programmi e l’identità: i primi non servono a defi nire la seconda. Al contrario, questa può, all’occorrenza, aiutare a defi nire quelli (che del resto devono essere redatti in primo luogo sulla base delle circostanza specifi che del momento in cui vengono elaborati e delle esigenze sociali e politiche che tali circostanze fanno emergere; cosa per cui, in determinate situazioni, può darsi benissi-mo – e si è di fatto dato – il caso che i programmi del centrodestra e quelli del centrosinistra presentino aspetti comuni o che, anche, aspetti qualifi -canti di un programma di centrodestra, divengano, mutando le situazioni, aspetti qualifi canti di un programma di centrosinistra, e viceversa). Ma un programma esprime contenuti tecnici, che solo in parte possono registrare

e tradurre istanze valoriali identitarie. Proprio nel momento in cui l’idea di “progresso” ha perso, fi losofi camente, tutti i caratteri che ne facevano, nelle pretese dei pensatori illuminati e rivoluzionari che l’Europa ha prodotto tra Sette e Ottocento, la manifestazione di un corso oggettivo della storia del mondo, essa è diventata l’espressione di un valore, di un progetto etico-po-litico da attuare e rendere operativo con la tenacia, l’iniziativa e la volontà di una forza organizzata a tal fi ne. Ma, appunto per questo, il progresso non può essere più identifi cato con i destini storici della classe lavoratrice, i cui interessi devo essere tutelati, alla stregua di ogni altro, nella misura in cui contribuiscono all’avanzamento civile e sociale del Paese. Senza la pre-sunzione di essere gli unici a svolgere questa funzione e nel convincimento che molto è stato realizzato sul terreno della conquista di diritti, tutele e garanzie per il lavoro dipendente. Come pure nella precisa consapevolezza che, per quanto resti ancora da fare, alcuni di quei diritti e di quelle tutele sono oggi a rischio proprio per il fatto che hanno fi nito, nel tempo, per la forma che hanno progressivamente assunto, con il convertirsi in freni alla loro diffusione e alla loro estensione ad una platea più ampia di sogget-ti, ossia esattamente a quell’avanzamento e progresso sociale e civile di cui abbiamo appena parlato. A meno di non ritenere ancora che attraverso il riscatto della classe operaia possa costruirsi una società nuova, di uomini antropologicamente diversi dagli attuali e tutti convintamente partecipi di un ideale di uguaglianza, il tema del lavoro non può più rappresentare un motivo unifi cante e identitario capace di tenere insieme, sotto il vessillo del progresso sociale, valori etici, storici e politici. Ma l’identità di un partito è fatta di questo: è fatta di ideologia, di istanze morali, di posizioni stabili e consapevolmente assunte intorno ai grandi temi dell’esistenza individuale e collettiva. Si guardi, se si vuole averne una prova, al discorso di insediamen-to del nuovo presidente degli Stati Uniti e alle sue prime mosse di governo. Ebbene, è proprio rispetto a questi grandi temi (e in particolare ad alcuni di essi, oggi molto più signifi cativi e importanti che in passato, non solo perché resi drammaticamente attuali da recenti vicende di cronaca, ma perché, nel crollo di molte convinzioni tradizionalmente indiscusse e nel mutare del co-stume e dei tempi, è accaduto che intorno ad essi l’individuo abbia iniziato ad interrogarsi con insistenza ed angoscia), è proprio in rapporto a questi problemi di fondo che il PD parla con voce balbuziente o si mostra addirit-tura afasico: le sue troppe anime non sono riuscite ad amalgamarsi, o hanno dato luogo ad una “fusione fredda” che, ameno per ora, si direbbe fallita. Una grossa responsabilità, in questo, spetta senza dubbio a quella parte più oltranzista della componente cattolica confl uita in esso che sembra voler fare, del Partito Democratico, una “cinghia di trasmissione” dei diktat vati-cani (ruolo, tra l’altro, già occupato da consistenti settori del centrodestra), mentre non è senza signifi cato che tra questi cattolici radicali spicchi anche qualche “pasionaria” molto esposta sul fronte di un impegno sociale stile “vecchia sinistra”. Prima di tentare di dare corpo alle ambizioni con le quali è nato e per poterlo fare, il nuovo partito deve decidere che cosa è o vuole essere. Senza l’assurda pretesa di rivolgersi a tutti e di poterli attrarre: il ba-cino elettorale del PD è potenzialmente maggioritario (questa, almeno, deve essere la convinzione e la scommessa politica che sta a monte della decisione di dagli vita), ma non può comprendere chiunque. Può destare l’interesse e la curiosità solo di quelli che desiderano, magari in modo ancora confuso ed informe, un Paese diverso, più rispettoso dei diritti, più imparziale, più tollerante ma anche più infl essibile nella difesa dei principi in cui crede. Ma può farlo solo ad una condizione, che per ora, purtroppo, è assente: quella

di essere esso stesso, in primo luogo, persuaso fi no in fondo e concorde sulla direzione da imboccare e sulla via da percorrere. Altre strade non ce ne sono, quelle intraprese sin qui (a parte l’idea con la quale ha esordito di presentarsi responsabilmente da solo di fronte al corpo elettorale, idea che richiedeva, però, quell’armonia e unità di intenti che poi non c’è stata) non conducono, come ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, da nessuna parte.

La crisi avanza. Il PD ancora nella nebbia

di Andrea Margheri

Per chi considera ancora la politica una «scelta di vita» e l’iscrizione al Par-tito democratico un’adesione pragmatica e razionale a valori civili ed etici di libertà e di giustizia sociale, il panorama italiano di questi giorni provoca un senso penoso di soffocamento.

Mentre il confronto politico nazionale sembra fortemente condizionato dal-la vicenda torbida e bizantina della Commissione di Vigilanza sulla Rai, il Pd disperde le sue forze in una frammentazione di recriminazioni, polemi-che, accuse che riducono fortemente lo spazio e l’effi cacia dell’analisi e delle scelte sui grandi temi. Di fronte a una realtà mondiale, europea e nazionale che sta cambiando turbinosamente e ci propone rischi e opportunità inediti, la strategia del Pd resta ancora indefi nita.

Eppure la crisi globale che dai centri di potere della fi nanza Usa si è propa-gata al mondo intero si mostra sempre di più come un passaggio epocale. Essa mette alla prova tutte le nostre scelte. Sempre di più, infatti, essa appare come la conseguenza di un logoramento e di una rottura del modello di svi-luppo imposto al mondo come «pensiero unico» dall’egemonia neoliberista e della forza militare, tecnologica ed economica degli Usa. Non già, dunque,

l’esplosione di una ennesima «bolla» speculativa che costringe a un passo indietro momentaneo nello sviluppo e a qualche aggiustamento delle regole: è sempre più evidente nelle parole di Obama come dei dirigenti cinesi, euro-pei, latino-americani che non si tratta solo di questo. Sono in gioco, infatti, l’assetto e la governance del mondo, l’equilibrio geopolitico multilaterale, le regole degli scambi internazionali, il rapporto tra economia e potere politi-co, i limiti della sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo. Il modello è da ricostruire, come la riunione del G20 e la pratica eutanasia del G8 hanno indicato. È da ricostruire con il concorso di tutti i principali soggetti, di tutti i «poli» che già operano nel mondo e che dovranno necessariamente costruire nuove relazioni tra loro.

Potranno essere relazioni cooperative e non confl ittuali? Già rileggere que-ste parole fa tremare le vene ai polsi: sono un richiamo al carattere cruciale, decisivo, del momento storico che abbiamo davanti, del bivio tra i grandi rischi e le grandi opportunità che il processo di civilizzazione ripropone bruscamente.

Non potranno essere i singoli Stati europei ad affrontare con effi cacia questa fase storica, e di questo l’Europa, per la verità, è apparsa consapevole. Che ci sia bisogno di un salto di qualità nel coordinamento della politica econo-mica contro la crisi e nella costruzione di una nuova governance mondiale, basata su un equilibrio multilaterale, è stata la premessa esplicita dell’attuale Presidenza francese.

Riconosciamo a Sarkozy e ai governanti che lo hanno sostenuto, la lucidi-tà dell’analisi. Ma, contemporaneamente, devono spaventare certi rigurgiti che attraversano la destra europea. Innanzitutto riemerge la tesi, di puro stampo neoliberista, che gli Stati debbano solo tirar fuori i soldi per i salva-taggi, restare imprigionati in un ruolo meramente emergenziale e del tutto subalterno. Persino un moderato come Samuelson trova «cinica», oltre che sbagliata, questa tesi. Anche in Italia l’abbiamo sentita ripetere. Si è gonfi ata con le penne di pavone dei solenni editoriali di Alesina e di Giavazzi.

Si affi anca a questa una tesi apparentemente opposta, egualmente pernicio-sa: il localismo populista sventola la bandiera protezionistica come la cura necessaria della crisi. Sembra immune alla considerazione di semplice reali-smo che chiudersi nella nostra minuscola fortezza sarebbe solo un suicidio e farebbe arretrare in modo irreparabile la stessa idea dell’unità europea. Se vincesse il protezionismo la Ue sparirebbe dal gruppo dei possibili protago-nisti, dei soggetti attivi nel processo di riorganizzazione del mondo.

Di fronte a queste risposte della destra, ancor più pericolose perché dema-gogicamente effi caci, appaiono più gravi le divisioni delle forze progressiste, socialiste e liberaldemocratiche. Una parte si trincera in schemi e analisi validi nel passato, ma oggi messi fuori gioco dalle trasformazioni mondiali. Molti restano i sostenitori dell’antica trincea socialdemocratica eretta con-tro gli assalti di quanti nella storia si sono schierati sotto la bandiera dell’on-nipotenza benefi ca del mercato. A essi sembrerebbe un cedimento la ricerca di fondare un nuovo patto tra le forze sociali sulla prospettiva program-matica del «più Stato e più mercato». Eppure, è proprio questa scelta che appare il necessario fondamento non solo della risposta alla crisi, ma anche della costruzione di un nuovo e più solido modello di sviluppo, sostenibile socialmente e ambientalmente nel futuro. Sono in molti gli esponenti che riprendendo l’ispirazione fondamentale del Piano Delors ripropongono il superamento della vecchia antinomia. Tra questi annovero anche il gruppo

di «Argomenti umani», soprattutto con gli interventi di Ruffolo e Andriani. Ma è noto che lo stesso dibattito si svolge negli Usa (Stiglitz, Krugman ecc.) e domina il confronto tra i governi dell’America latina.

Ora, se si passa bruscamente alle cose di casa nostra, si rischia la vertigine. Non perché la crisi italiana appaia come altra cosa rispetto alla crisi mon-diale: ogni giorno possiamo constatare che come tutti gli altri Paesi siamo immersi in quella dimensione e in quella problematica. Anche per noi si è aperta una nuova fase storica contrassegnata da maggiore competitività: maggiore perché basata molto più che nel passato su un confronto qualitati-vo, e non più solo quantitativo, sui diversi terreni (tecnologia, produzione, logistica ecc.). Saranno in gioco l’effi cacia e l’effi cienza del «sistema Italia» di fronte ai decisivi problemi sociali, ambientali, energetici, alimentari, che impongono la riorganizzazione del mondo su nuove basi e con nuove capa-cità di scambio.

È questa caratteristica sistemica delle nuove esigenze geopolitiche e geoeco-nomiche che fa risaltare la gravità delle condizioni del Paese su molti terreni: il funzionamento a singhiozzo delle istituzioni democratiche; il rapporto tra Nord e Sud, che si presentano come due realtà nazionali diverse; la perma-nenza di privilegi corporativi e di rendite di posizione che da anni richiede-rebbero una ventata di impegno liberale; le disuguaglianze intollerabili, pari a quelle abissali degli Usa, alle quali si aggiunge però anche una intollerabile rigidità sociale; un ritardo irragionevole della ricchezza collettiva e in primo luogo delle infrastrutture. Un ritratto del Paese ben conosciuto, ma che ora dovrà essere confrontato a una nuova qualità dello sviluppo che la crisi im-porrà nel mondo e in Europa, dislocando su terreni nuovi la competizione per i sistemi e per le imprese.

Da questa breve rassegna dei dati emergenti dalla crisi mondiale si possono trarre interrogativi inquietanti sullo stato dei gruppi dirigenti della politica italiana. Anche del gruppo dirigente del Pd.

Per la verità non mancano dichiarazioni, proposte, indicazioni programma-tiche su singoli aspetti. Il Pd insiste giustamente sulla necessità di difendere i redditi dei ceti medi e bassi, più esposti al rincaro dei prezzi e delle tariffe, e sulla necessità di proteggere le piccole imprese da una ormai evidente restrizione del credito da parte delle banche. Il vuoto maggiore non è nel confronto parlamentare. La nebbia si addensa là dove è più necessaria la chiarezza: qual è l’analisi generale della crisi e delle sue cause profonde che il Partito fa sua? E quale modello di comportamento e di strategie propone alle forze sociali e alle istituzioni, guardando soprattutto alla dimensione internazionale della nuova fase e respingendo le nostalgie neoliberiste come i trinceramenti corporativi? È in gioco oggi la capacità del Partito di dare una risposta globale autonoma agli interrogativi, ai rischi e alle opportunità che la crisi ha aperto, misurando così la sua cultura riformista e innovatrice in una nuova idea dell’Italia e del suo ruolo in Europa.

È proprio da questo punto di vista, che si ripropone il problema tanto assil-lante della «forma partito». Dal punto di vista, cioè, della cultura politica e del progetto fondamentale. È su questo terreno che sorge un interrogativo di fondo: può essere realmente riformista, ossia capace di promuovere in tutti i campi innovazione, un partito che non garantisca concretamente, nella sua dimensione comunitaria e partecipativa come nei suoi riferimenti sociali, la sua autonomia dal pensiero dominante, dagli indirizzi politici che già si sono radicati nella società? Un partito che si limita a mediare e a rappresentare

l’esistente, che non promuove la sua autonomia nell’elaborazione e nei le-gami con le diverse forze sociali, si condanna a una condizione subalterna. Altro che vocazione maggioritaria, altro che partito di governo!

Il Pd è chiamato non a un astratto rinnovamento anagrafi co, ma a un cam-biamento di rotta nel modo di organizzare le sue intelligenze, le sue forze intellettuali e operative. E a un cambiamento di rotta, ancora più urgente, nella percezione dei suoi rapporti decisivi tra le persone e i lavori che esse svolgono. Sono questi lavori a defi nire anche nella società «liquida», anche nella fase postideologica e postfordista, e anzi, ancor più di ieri per il ruo-lo inedito dei saperi, della creatività, dell’informazione nella produzione e nella società, la funzione che ogni individuo e gruppo sociale può assolvere nelle trasformazioni sociali, sia nella distribuzione del reddito, sia dal punto di vista del suo peso sociale. Si pone ancora, cioè, e ogni giorno ne abbiamo testimonianza, un problema di rappresentanza politica del «lavoro», come elemento determinante della funzione e della libertà degli individui. Così come si pone di conseguenza il problema della partecipazione dei ceti pro-duttivi alla democrazia nell’impresa, nella società, nello Stato. Sottovalutare la naturale vocazione del Pd («prima di tutto il lavoro») può indebolire il suo progetto complessivo: esattamente quello che oggi succede.

Il pensiero di Emmanuel Levinas tra ispirazione profetica e fi losofi a

Intervista a Irene Kajona cura di Bachisio Meloni

In margine al Convegno internazionale di studi dedicato a “Visage et Infi -ni. Analisi fenomenologiche e fonti ebraiche in Emmanuel Levinas” inserito all’interno delle celebrazioni del 2006 per il Centenario della nascita del fi losofo e alla relativa pubblicazione degli Atti dal titolo Emmanuel Levinas. Prophetic Inspiration and Philosophy, a cura di I. Kajon, E. Baccarini, F. Brezzi, J. Hansel, Ed. La Giuntina, Firenze 2008.

Jacques Derrida nel suo intervento commemorativo e celebrativo di Adieu à Emmanuel Lévinas dichiara che “il risuonare di questo pensiero ha cam-biato il corso della rifl essione fi losofi ca del nostro tempo, e della rifl es-sione sulla fi losofi a”. Le chiedo: dove risiedono, secondo Lei, le ragioni più profonde della grandezza di questo pensiero, e in che cosa consiste il carattere straordinario dell’opera levinasiana?

Sono assolutamente d’accordo con il giudizio che Derrida esprime sul pen-siero di Levinas. È vero che questo pensiero, seguito dal suo risuonare in varie lingue (in inglese, tedesco, italiano, spagnolo, ebraico, oltre che in francese) e in vari ambienti intellettuali, ha cambiato il corso della rifl es-sione fi losofi ca contemporanea e ha infl uito sulla rifl essione intorno al con-cetto stesso della fi losofi a. Mi sembra che la novità del pensiero levinasiano consista nella radicalità con la quale esso pone il tema di un “altrimenti” rispetto all’“essere” come la dimensione nella quale soltanto l’uomo diven-ta veramente uomo, acquista la sua umanità. “Essere” per Levinas è non soltanto il regno dei fenomeni, siano essi fatti della natura o eventi storici, i quali si manifestano ai sensi e vengono conosciuti dalla ragione rivolta alla determinazione di oggetti, o di contenuti, ma anche la sfera del sovra-sensibile, quando questo assume l’aspetto di Dio come Ente sommo o di un al di là delle anime contrapposto al tempo. Levinas è un critico tanto dell’empirismo o materialismo fi losofi co, poiché esso rende l’uomo dipen-dente dalle cose, dalla storia, dalla natura, quanto della teologia naturale, poiché essa richiede che l’uomo, comprendendo o intuendo l’Assoluto o l’Incondizionato, si subordini poi a questo. Filosofi e dell’“essere” sono per lui sia le fi losofi e che inchiodano l’uomo alla nascita, al destino, alle incli-nazioni naturali, alla situazione storica o esistenziale – da Epicuro a Hume a Sartre – sia le fi losofi e che lo pongono al servizio di un Dio ben defi nito o evocato nella mistica o nella poesia – da Tommaso d’Aquino a Heidegger. Per Levinas tutte le fi losofi e dell’“essere” sono fi losofi e dell’“identità”: al fondo del soggetto che si radica nella natura o nella storia o che trova la sua quiete in un Dio concepito come fondamento assoluto o avvertito nel sen-timento come sacro, vi è a ben vedere il terrore del rischio, dell’avventura, del nomadismo, di tutto ciò che sconvolge il consueto e rassicurante. Quella di Levinas è una fi losofi a della libertà: ma libertà è per lui non innanzi tutto la capacità di autodeterminarsi, di scegliere, la spontaneità nell’agire, ma la responsabilità che ciascun “io” ha nei confronti dell’“altro uomo”, l’altro uomo che è di fronte a lui, che gli appare, e che tuttavia non è rinchiuso nel mondo fenomenico. L’“altrimenti che essere” è l’etica: qui l’“io” non è il soggetto soddisfatto, dotato di buona coscienza, che rivendica i suoi meriti, o che approfi tta degli eventi per affermare ogni volta se stesso, oppure che trova dentro di sé il divino, caro alla tradizione fi losofi ca e teologica, ma il soggetto che ha doveri, prima che diritti, consapevole delle sue colpe, abita-to in certo modo dall’“altro”, intimamente animato, non stabile, mai privo di rimorsi. La religione per Levinas si identifi ca con l’etica: Dio si delinea nell’incontro con l’“altro uomo” come lontana e mai afferrabile origine di comandamenti incondizionati – dal non esercitare violenza al soccorso nel nutrire, ospitare o curare. La sfera dell’“essere” – la quale implica il con-fronto mediante la ragione, dunque la giustizia, lo Stato, le nazioni, i rap-porti tra le nazioni e tra gli Stati, la politica come campo delle mediazioni – si apre solo a partire da quella dell’“altro” da “essere”, la quale riguarda la dimensione “io”-“altro”. La fi losofi a levinasiana radicalizza l’idea della ragione pratica e il primato della ragione pratica affermati dalla fi losofi a

kantiana: Levinas esprime in modo più evidente di Kant, il quale specie nella Critica del Giudizio rimane legato alla tradizione metafi sica, l’anterio-rità dell’etica rispetto alla conoscenza, il “tu devi” come unico modo che l’uomo ha di entrare in contatto con la sfera dell’eterno o intelligibile (il noumenico), la critica del naturalismo e sentimentalismo nella vita morale. Come Kant, Levinas è rigoroso e in modo sobrio – contro ogni romantici-smo – si appella alla ragione in etica. La ragione pratica, affermata da Kant, coincide con quella capacità dell’uomo di formare il suo “io” soltanto a contatto con l’“altro uomo” che Levinas accentua, facendo uso di iperboli. Ma egli si richiama, oltre che a Kant, anche ad altri pensatori, in particolare il Platone del bene “al di là dell’essenza” e il Descartes che scopre in Dio ciò che è oltre l’“ego cogito”. Tuttavia, Levinas vede la storia della fi losofi a – da Parmenide a Hegel alla crisi dello hegelismo, dai primordi in Grecia fi no al Novecento – segnata dalla ricerca rivolta all’“essere” più che all’“altrimenti che essere”. Perciò egli indica anche alla fi losofi a la necessità di pensare di nuovo se stessa, come Derrida dice nella sua commemorazione.

Il Convegno di Roma dedicato a Levinas ha inteso soffermarsi sulla moda-lità di un pensiero in grado di contenere al suo interno, in stretto paralle-lismo così come in forte tensione dialogica, l’eredità del pensiero ebraico accanto alla più illustre tradizione del pensiero greco e occidentale. Che cosa ritiene sia maggiormente emerso, qual è lo spirito di fondo presente in questi saggi raccolti ora nel volume?

Il Convegno romano su Levinas, tenutosi nel 2006 per celebrare il centena-rio della nascita – parte delle iniziative che si sono tenute in varie parti del mondo, non solo in Europa e negli Stati Uniti, ma anche in America Latina, in Israele, in India – ha inteso innanzi tutto presentare Levinas come un fi losofo che risale a una dimensione anteriore alla fi losofi a stessa, se con la parola fi losofi a si indica quella disciplina che rifl ette sull’essere del mon-do come serie di eventi naturali o storici o sull’essere di Dio, del mondo come totalità, o dell’anima. Questa dimensione è quella dell’etica. Colui che fi losofa presupponendo l’etica è, prima di essere un fi losofo, un uomo in contatto con i suoi simili. Ricordo che Levinas – prima di impegnarsi nell’at-tività accademica nelle Università francesi, dopo la pubblicazione di Totalità e Infi nito, avvenuta nel 1961 – fu insegnante, poi direttore in una scuola per maestri facente capo all’“Alliance Israélite Universelle”. Da bambino, in Lituania, egli aveva vissuto i diffi cili rapporti esistenti tra la comunità ebraica e l’ambiente circostante e poi gli anni della Rivoluzione russa; da giovane a Parigi visse gli anni dell’ascesa del nazismo e da uomo maturo la prigionia in un campo per militari francesi, ma isolato da questi in quanto ebreo. La sua famiglia di origine, che era rimasta in Lituania, fu sterminata dai lituani, alleati dei nazisti in funzione anti-russa. La sua propria famiglia – la moglie Raissa e una fi glia – si salvò grazie all’aiuto di conoscenti e amici nella Parigi sotto occupazione tedesca. La fi losofi a levinasiana ha origine da un’esperienza esistenziale drammatica: essa si presenta come una fi losofi a universale, ma avente la sua fonte in un’esperienza umana più profonda del sapere. Certo, questa fi losofi a è anche il frutto di una raffi nata elaborazio-ne intellettuale: come fi losofi a dell’etica, dalla quale prende le mosse, essa rimane segnata – come lo stesso Levinas mette in luce – dalla tensione tra il Dire (l’“io” appartenente all’“altrimenti che essere”) e il Detto (l’“io” che rifl ette, che articola il suo discorso, che conosce, appartenente all’“essere”), una tensione ineliminabile. L’uomo che vive e pensa, secondo Levinas, si trova necessariamente in tale tensione. Ora, le fonti ebraiche – come Le-

vinas ha spesso affermato – esprimono la dimensione dell’etica con parole più limpide, più incisive, più fresche, perché più originarie, di quanto non sia in grado di fare quella tradizione fi losofi ca che ebbe il suo avvio in Gre-cia con i presocratici. Chi intenda fi losofare risalendo all’etica trova in tali fonti espressioni e termini che è necessario siano introdotti nella fi losofi a, se questa deve sfuggire al dominio di quell’“essere” che essa prevalentemente ha assunto nel corso della sua storia come suo oggetto principale. Questo particolare lessico, che Levinas utilizza nei suoi scritti particolarmente a partire dalla fi ne degli anni Sessanta (“eccomi”, “umiltà”, “sostituzione”, “espiazione”, “colpa”, “traccia”, “Nome”…), è anteriore, ma non esclusivo, rispetto a quello prevalentemente utilizzato dalla tradizione fi losofi ca, che egli anche continua a utilizzare (“idea”, “io”, “essere”, “pensiero”…). Ri-cordo che quando si parla di fonti ebraiche si intende sia il Pentateuco (che gli ebrei chiamano propriamente Torah, ovvero insegnamento, indicazione, istruzione), i Profeti (Neviim) e gli scritti riuniti sotto il nome di Agiografi (Chetuvim), i quali compongono la Bibbia ebraica, sia la lunga tradizione di commenti, discussioni, rifl essioni che si è sviluppata a partire dalla Bibbia ebraica (Talmud, liturgia, poesia, Midrash, Kabbalah). Il pensiero ebraico – se con esso si indica il pensiero contenuto nella Bibbia ebraica – prende forma in epoche più antiche rispetto all’età che vede il sorgere della fi losofi a greca; se con esso si indica invece quel pensiero che ha origine dall’intreccio tra la civiltà greca e la civiltà ebraica, del quale Filone d’Alessandria è il primo esponente, allora esso è naturalmente più recente rispetto alla fi losofi a greca e meno importante e infl uente nell’ambito della tradizione che ha origine sia soltanto da tale fi losofi a, sia da tale fi losofi a connessa al cristianesimo. Levi-nas è un fi losofo ebreo nel senso che usa per la sua fi losofi a, rivolta a tutti, un linguaggio tratto dalle fonti ebraiche e dal pensiero ebraico, compreso sia nel primo che nel secondo senso: egli esprime ciò che considera il mo-mento peculiare dell’umano, che è l’etica appunto, attraverso il riferimento alla letteratura religiosa ebraica in senso lato. Ma il suo obiettivo è quello di costruire una fi losofi a per l’uomo che parta dall’uomo e dal suo vivere sì nel mondo, eppure anteriormente oltre il mondo. Mi sembrano queste le idee principali che emergono dal volume che raccoglie gli Atti del Convegno.

Parliamo di “ispirazione profetica”, ispirazione che nutre nel profondo la rifl essione fi losofi ca levinasiana, ispirazione – Lei lo ha ricordato – come tensione verso il messaggio implicito nelle Sacre Scritture (la fonte biblica, la lettura della Torah, il riferimento alla letteratura talmudica come rispo-sta all’annuncio per un nuovo ordine di moralità e di Giustizia, come invi-to al senso della “prossimità”, del “sacrifi cio” fi no alla “sostituzione” per altri …), ispirazione a tale fondamentale messaggio che, come ha tenuto più volte a ribadire Levinas, emerge non a partire dal modello della tradi-zione teologica o mistica, bensì secondo un punto di vista strettamente ed esclusivamente etico-fi losofi co (o quanto meno vicino alla tradizione del pensiero teologico negativo, penso ovviamente all’etsi Deus non daretur): un pensiero dunque, è il caso di sottolinearlo, fi losofi camente (laicamente) ispirato.

In effetti, alla luce di quanto sopra detto, dovrebbe apparire chiara la ra-gione per la quale Levinas introduce il termine di “ispirazione” o di “pro-fetismo” – dunque un’ispirazione profetica – quando descrive il modo in cui l’“io”, attraverso la vista dell’“altro” che gli permette di elevarsi al nou-menico, al puramente pensato sul piano dell’etica, si forma nel senso del

“rispondere” per l’“altro”, rispondere anche delle azioni che quest’ultimo commette liberamente. Ricordo che “profeta” nella tradizione ebraica è non solo Isaia, o Geremia, o Ezechiele, ma anche Adamo, anche i Patriarchi, an-che Mosé: “profeta” è chiunque entri in contatto con l’eterno, colui al quale Dio si rivolge attraverso fenomeni o eventi che gli lasciano intravvedere una dimensione altra rispetto a quella dei fatti naturali o storici, pur senza che egli abbandoni la sua propria fi nitezza, il suo essere nel tempo. Il “profeta” è chi vive nel mondo e opera in esso rivolgendo lo sguardo verso l’eternità dell’etica, che non è un insieme astratto di principi e di regole, ma un punto di riferimento o di orientamento che obbliga ogni volta e sempre di nuovo a una libera scelta entro un contesto determinato. Il linguaggio di cui Levinas si serve per esprimere il momento etico del vivere umano, tratto dalla Bibbia ebraica, non nega affatto la fi losofi a; anzi, come sopra ho accennato, la con-ferma, la rende più forte, la rinnova, per il fatto stesso che offre alla fi losofi a il suo necessario presupposto, senza il quale essa diverrebbe o pensiero del-l’evasione dell’“io” nell’al di là di un puro mondo di idee, astratto e rigido, oppure pensiero dell’immersione dell’“io” nell’al di qua, nei suoi continui cambiamenti e trasformazioni. Di qui l’interesse che il pensiero levinasiano suscita tanto presso gli ambienti religiosi quanto presso gli ambienti laici: se chi si richiama a una tradizione religiosa vede in questo pensiero lo strumen-to per riportare tale tradizione al suo unico signifi cativo momento iniziale – l’“uno-per-l’altro”, il “Dio che viene all’idea” come “an-arché”, l’“io” in quanto privato della sua propria consistenza e divenuto “vicario” o “rappre-sentante” dell’“altro” – chi si attiene soltanto all’uomo come essere naturale e storico vede in questo pensiero lo strumento per impedire che l’umano si annulli nel tempo, perda il suo senso e il suo valore. Levinas, come già sopra ricordato, non è né un teologo né un fi losofo il quale ritiene impossibile per l’uomo raggiungere innanzi tutto sul terreno etico ciò che sfugge a ogni im-magine, il puramente intelligibile. Egli non propone dunque nei suoi scritti una teologia negativa, la quale, come giustamente è stato notato, confi na con l’ateismo, poiché un Dio di cui si predica solo ciò che non è, è un Dio che rimane in fondo indeterminato, inconoscibile. Egli propone piuttosto un richiamo a un Dio che si confi gura come il punto, non defi nibile e non nominabile, di provenienza di ciò che egli chiama “traccia” a partire dal “volto” (visage) dell’“altro”: Dio come non-origine delle indicazioni di una condotta buona, non violenta, accogliente. Mi sembra che su questa nozione di Dio potrebbero convenire sia degli uomini di fede che vedono l’essenziale della loro religione nell’etica, sia dei laici che sottraggono l’etica al soggetti-vo e arbitrario: l’etica, naturalmente, vista nei suoi elementi principali, quali l’onestà, la mitezza, la difesa del debole, la mancanza di doppiezza e di ipo-crisia, non come un insieme di prescrizioni che toccano particolarmente la vita privata, come la sfera della sessualità o della morte e della vita (ricordo, per inciso, che Levinas ha scritto delle belle pagine sul “femminile” e sulla “fi lialità”, in quanto parte non dell’etico, ma dell’eros). La formula dell’“etsi deus non daretur”, usata da Grozio per caratterizzare la validità del diritto, al di là di ogni riferimento a Dio, sarebbe stata accettata da Levinas, credo, per caratterizzare la validità dell’etica di per sé: purché l’esclusione del Dio della teologia o della mistica non avesse signifi cato anche l’esclusione di un Dio come “an-arché”, non tematizzabile in quanto tale, eppure non indefi -nibile dal punto di vista del Suo manifestarsi come “traccia”. Ricordo che, secondo Ernst Cassirer (cfr. il suo libro La fi losofi a dell’illuminismo, apparso in Germania nel 1932), Grozio sostituisce al Dio della tradizione metafi sica scolastica il bene di cui parla Platone nella Repubblica, posto oltre le idee ed

entro il cui orizzonte soltanto le idee acquistano signifi cato. Ricordo anche che nella tradizione ebraica, dal libro dell’Esodo al Talmud alla Guida dei perplessi, la “traccia” sta a indicare gli attributi di azione (misericordia e giustizia) che sono i soli che possono essere riferiti a Dio e che fungono da modelli per l’agire umano.

Levinas in continuità con il pensiero di Cohen, Rosenzweig, Buber (autori che puntualmente ritroviamo citati fra le pagine dei numerosi interventi) fornisce forse in maniera più esplicita – o a partire da una rifl essione più espressamente elaborata ed esaustiva nei suoi molteplici aspetti, specie se considerata alla luce dell’esperienza della Shoah –, l’idea di quanto il rife-rimento alla centralità o al primato della politica, della fi losofi a, dell’arte, della religione stessa, non possa in alcun modo prescindere da un altro es-senziale primato, quello dell’etica. Levinas dimostra quanto l’etica, profon-damente vissuta nei modi di un’autentica “fi losofi a prima”, apra in modo più radicale, meno equivoco, di quelle discipline un sentiero in direzione dell’umano (ciò che determina per lui una più persuasiva idea di trascen-denza). Eppure, la dimensione etica dimostra di trovare di volta in volta sempre meno spazio e maggiori diffi coltà nel mondo attuale, tali resistenze non pensa possano in qualche modo infl uire in senso ancor più negativo nel pensiero fi losofi co contemporaneo sempre più caratterizzato – come del resto Levinas stesso ha inteso dimostrare – per la sua inadeguatezza e per il suo ritardo?

Certamente Levinas – come Lei osserva – ha molto appreso da Franz Ro-senzweig e Martin Buber, autori che spesso cita, per quanto abbia elabora-to in maniera originale i loro insegnamenti. Dal primo ha ripreso la critica del concetto di “totalità”, cui approda, Levinas ritiene, ogni fi losofi a del-l’“essere” o della “identità”; dal secondo il tema dell’“inter-umano” o del “tra”. Hermann Cohen è citato molto più raramente e solo di sfuggita in alcuni scritti dedicati ad autori ebrei dell’epoca moderna come importante rappresentante del pensiero ebraico in Germania agli inizi del Novecento. Forse Levinas vedeva in Cohen soprattutto il rappresentante di un ebrai-smo che aspirava a mostrare l’affi nità e le somiglianze tra cultura ebraica e cultura tedesca – ciò che dopo l’ascesa di Hitler gli sembrava il segno di un ingenuo ottimismo – oppure soprattutto il fondatore a Marburgo, nell’età di Bismarck, di una scuola neokantiana, destinata a essere presto sostitui-ta dalla più profonda fi losofi a di Husserl e Heidegger. Eppure il progetto di Cohen di una “religione della ragione”, cioè di un razionalismo etico rinviante al Dio unico in quanto caratterizzato, sulle orme di Maimonide, soltanto da attributi morali, può essere visto – come mostrano alcuni saggi contenuti nel volume degli Atti del Convegno – come un antecedente del progetto levinasiano: il progetto di un pensiero fi losofi co che vede l’uomo in contatto con un Dio che certo attraverso l’etica si confi gura come “non-condizione”, “non fondamento”, ma che tuttavia non scompare, non viene del tutto cancellato, persiste anzi nel richiamare in modo esigente l’uomo alla sua responsabilità, ai suoi importanti compiti, in una prospettiva che – per riprendere ancora una volta il linguaggio biblico, ma entro la fi losofi a – è messianica. In questa prospettiva si inseriscono le rifl essioni di Levinas sulla politica, sul diritto, sulla storia, anche sulla scienza e la tecnica, sull’ar-te: tutte queste sfere richiedono sì una rifl essione non solo sull’“inter-uma-no”, ma sull’“essere”; esse però hanno nell’etica la loro ragion d’essere, il loro senso, la loro giustifi cazione. Negli ultimi anni la letteratura critica su

Levinas, specialmente in ambiente francese, ha particolarmente indagato il legame tra etica e ontologia in Levinas, proponendo nuove idee alla teoria della politica o del diritto o all’estetica. È vero che l’etica viene oggi con-traddetta in molti casi. Ma contraddetta lo fu anche nel passato, anzi da sempre: l’etica – come è stato notato – nasce proprio per impedire ciò che si può fare, ciò che rimane una possibilità sempre aperta, come l’uccidere o il rubare o il dire menzogne. Forse proprio la Shoah, che Levinas ha sempre considerato come lo sfondo storico della sua meditazione, dagli anni in cui essa si preparava fi no al tragico epilogo, ha mostrato all’umanità i terribili approdi della negazione dell’etica e dunque la necessità di un’affermazione dell’etica da parte di una fi losofi a maggiormente attenta alla sua specifi cità, ai suoi aspetti peculiari, ai suoi presupposti e ai suoi modi di presentarsi. Mi sembra che la lotta contro Machiavelli e il machiavellismo e una forte ispi-razione platonica, che invita a riprendere il tema degli ideali di libertà, giu-stizia e pace nell’antropologia fi losofi ca e nella fi losofi a politica, siano una caratteristica della seconda metà del Novecento e di questi primi anni del nuovo millennio. Mi sembra che il pensiero di Levinas – contro tutte le fi lo-sofi e che celebrano la volontà di potenza dell’uomo fi ne a se stessa, oppure la sua assoluta libertà senza responsabilità, o anche la fi ne dell’umanesimo in nome del gioco delle apparenze o del determinismo di ferrei meccanismi economici o sociali – si inserisca pienamente entro questo contesto storico. Abbiamo ritenuto perciò importante – noi tutti che abbiamo organizzato e partecipato al Convegno – attrarre oggi l’attenzione su Levinas, introducen-do anche il mondo fi losofi co italiano nell’ambito internazionale del ricordo della sua fi gura e dell’analisi e valutazione della sua proposta fi losofi ca.

* Ordinario all’Università di Roma 1 “La Sapienza”. Insegna Antropologia fi losofi ca come disciplina riguardante i problemi dell’uomo e dell’umanesimo, alla luce di una rifl essione sia sulle fonti religiose ebraiche e cristiane sia sulla storia della fi losofi a.

Alcune rifl essioni di J-L. Nancy

di Carmelo Meazza

In un libro che ha come titolo La dischiusura, Jean-Luc Nancy precisa meg-lio, forse con più cura rispetto ad altri suoi contributi, la sua posizione nei confronti del nichilismo.Il nichilismo qui appare non solo l’epoca della fi ne del senso o della morte di Dio ma anche il tempo lungo nel quale il Verstand prende il sopravven-to. Il Verstand secondo la celebre defi nizione hegeliana indica il dominio dell’intelletto astratto. Esso è il semplice pensiero raziocinante del calcolo che sovrasta la sfera della comunità imponendo la medesima logica che le burocrazie esercitano nei confronti del principio della statualità quando esso ha perso la sua forza iniziale. Il Verstand come la burocrazie sono in Hegel il sintomo più evi-dente del venire meno dalla forza del Vernunft e si affermano sempre come effetto e causa insieme in un’epoca di declino.Nel momento in cui Nancy chiama in causa questa coppia speculativa della fi losofi a hegeliana invita a guardare all’epoca del nichilismo con un doppio sguardo: il fi nire del senso porta con sè un doppio movimento: l’uno va verso la razionalizzazione astratta e al contempo, l’altro, come per contrac-colpo della medesima economia, porta in dote un’attesa che “si dirige verso la possibilità di infi ammarsi”. Sulla natura di quest’attesa o meglio sul pensiero di quest’attesa si potreb-

bero enumerare, egli ritiene, le più gravi sconfi tte della fi losofi a. Non che non vi siano straordinarie disamine e diagnosi su di essa, ma per varie ra-gioni, su cui sarebbe urgentissimo rifl ettere, l’intera epoca dell’umanesimo o l’eredità dell’illuminismo o del post illuminismo resterebbero su questo senza le parole appropriate.Sembra di capire, sviluppando queste coerenze, che l’esperienza della morte di Dio, limitata ad esaltare l’effetto liberante del declino del senso, non sa-prebbe cogliere la natura di quest’attesa e alla fi ne non saprebbe difenderla dal ritorno sempre in agguato delle religioni o dei fondamentalismi di varia natura, pronti a diventare l’incendio di questa disponibilità ad infi ammarsi.In qualche modo, nel tempo del nichilismo per evitare che una spada tagli in due il mondo distribuendo razionalità astratta da un lato e ritorni fon-damentalisti dall’altro occorrerebbe riprendere in modo completamente nuovo un’eredità appena accennata e del tutto incompiuta lasciata in dote proprio da Kant. Quest’eredità consiste per Jean-Luc Nancy nell’orientamento di una fede della ragione. Le fi losofi e di Hegel, di Schelling e di Hoelderlin avrebbero raccolto quest’eredità nella ricerca di un assoluto della ragione o di un pen-siero più alto nella ragione assoluta. L’esito speculativo e pratico avrebbe però dilapidato l’eredità contenuta in quell’urgenza diventando il compi-mento di un intero ciclo del pensiero moderno piuttosto che l’inizio di un nuovo avvenire del pensiero. Per Nancy questo compito resta ancora da-vanti a noi e non è un caso che proprio la politica sia il terreno in cui questo vuoto si avverte in modo speciale. “(...)Non è un caso che la politica manchi di ciò che l’espressione “religione civile” signifi ca in Rousseau, manchi cioè, di quell’elemento nel quale dovrebbe potersi esercitare non solo la razional-ità del governare, ma quella, infi nitamente più alta e più ampia, di un senti-mento o addirittura di una passione dell’essere-insieme(...)” .

Naturalmente nessuna religione civile si può oggi riabilitare e nessun ritorno del religioso in quanto tale può colmare quel vuoto. Anzi entrambe quan-do si presentano sulla scena con una certa volontà di affermazione contri-buiscono ad alimentarlo e amplifi carlo. Evidentemente per Nancy una fede della ragione è tutt’altro che un richiamo alla religione in quanto tale né a quella naturale né a quella civile. E tuttavia, ripetiamo, egli ritiene che senza fede una ragione fi nisce nella fredda razionalizzazione dell’esistente e perde quanto la apre ogni volta nella passione dello stare insieme. Questa passione implica per il pensiero avventurarsi in una dimensione che lo oltrepassa in una condizione tuttavia in cui si deve prendere defi nitivamente atto che si sono asciugati tutti i retromondi e tutti i cieli si sono svuotati. L’oltre non è quindi né più in fondo né al di là. Il senso, che Nancy invoca contro la logica dei meri signifi cati o dei meri valori, incomincia a nascere solo quando si riesce a far meno sia del troppo profondo sia del troppo alto. Sia del sacro che del santo. La fede della ragione di cui qui si parla evi-dentemente non si fa avanti se non si abbandonano del tutto le altezze e le profondità. Per questo Nancy propone una mutua dischiusura dell’eredità della religione e della fi losofi a. Come se entrambi potessero trovare il loro oltre in una reciproca dischiusura e qui verifi carlo come un senso che evita al religioso di sollevare gli occhi verso il cielo e alla ragione di racchiudersi in un fondo rassicurante, anche quando è dichiarato infondato o abissale. Nancy tuttavia non parla in questo saggio della religione o del fenomeno religioso in quanto tale. L’invito che egli rivolge alla fi losofi a è piuttosto di guardare verso il cristianesimo con la convinzione che esso abbia in sè, nel

suo dinamismo più segreto, qualcosa che lo sottrae permanentemente alla dimensione del religioso in quanto tale. “La sempre rinnovata condanna del cristianesimo da parte dei fi losofi – e particolarmente da parte di quelli dell’Illuminismo – non può che lasciare perplessi, scrive Nancy, una volta che ne siano stati compresi e riconosciuti senza riserve tutti i buoni motivi” .L’Illuminismo ha prodotto dunque dei buoni motivi per sospettare e diffi -dare del cristianesimo e tuttavia quando si conclude con un suo ripudio o una condanna solenne rinuncia a qualcosa di cui proprio la ragione ha bisogno nel momento in cui si riconosce come passione di una certa convivenza. La fi losofi a è quindi invitata da Nancy a compiere, nei confronti dell’esperienza cristiana in Occidente, il medesimo ripensamento che l’etnologia, da molto tempo, ha compiuto nei confronti dei popoli primitivi superando la pre-sunzione etnocentrica. La presunzione che la Riforma e l’Illuminismo (mal-grado tutta la loro nobiltà e vigore) hanno sedimentato nei confronti del passato premoderno dell’Europa è un ostacolo formidabile per il compito di quella fede della ragione lasciato in eredità dalla fi losofi a kantiana. Questa presunzione in vario modo continua ancora oggi e impedisce alla ragione di cogliere una certa forza decostruttiva presente nell’evento cristiano. De-costruttiva verso se stesso innanzi tutto, poiché esso è sempre anche caduta nel semplice legame religioso, e decostruttiva verso le pretese totalizzanti di una ragione incapace di dischiusura verso le sue stesse esigenze più radicali. A partire da quelle oggi giustamente più praticate: dare vita a un pensiero senza fi ni, ateo o forse si potrebbe anche dire teoanarchico. Tra le coerenze interne di quest’attenzione di Nancy all’evento cristiano c’è questo esito: poiché il cristianesimo va pensato come la radice che spinge il monoteismo verso un certo ateismo (proprio nel momento in cui ne de-costruisce la dimensione semplicemente religiosa) coloro i quali avvertissero nel mondo moderno e nel suo spettacolo un elemento solo ed esclusiva-mente estraneo e nemico e fossero impegnati a guardare indietro con nostal-gia verso un passato di fede e di valori, sarebbero estranei e lontani proprio da questa radice cristiana. Almeno nel senso che l’assenza di Dio di cui sa vivere il mondo moderno è un esito cristiano molto di più di quanto lo sia della ragione moderna.

Quale Cristianesi-mo per i liberali?Discussione del libro di M. Pera, Perché dobbiamo dir-ci cristiani, Milano, 2008.

di Stefano Maschietti

Con questo intervento mi propongo, da liberale perplesso, di evidenziare la contraddizione di fondo intorno alla quale ruota l’ultimo libro di M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Si tratta di un libro polemico, nel quale un liberale rinato critica il tradimento che, dell’autentico credo liberale (quello dei Padri Locke, Jefferson e Kant), avrebbero operato, tanto la curvatura immanentista impressa alla dottrina liberale da fi losofi e trascendentali come quella di Croce e di Habermas, quanto il relativismo culturale oggi imperan-te, che Pera sembra giudicare come la conseguenza dell’inesorabile autodis-soluzione dello stesso liberalismo immanentista.

Il punto su cui farò leva è quello relativo al Dio personale cristiano, da Pera richiamato per temperare i rischi intrinseci alla principale vocazione liberale, la vocazione per l’autonomia e per l’autodeterminazione culturale e politica. Pera infatti non inscrive la propria idea del Dio Persona in alcuna corrente teologica. Semplicemente l’assume come un’evidenza univoca e as-

siomatica, e dopo averla posta sotto l’egida della Chiesa cattolica (p. 37), ne fa l’argomento per sostenere la tesi, cara all’attuale Pontefi ce, del carattere razionale e veritativo, epistemico, della rivelazione cristiana, tale da legitti-marne la supremazia ideale e morale rispetto ad altre rivelazioni monoteiste, in particolar modo quella maomettana.

Qual è quindi il punto? Il punto è che Pera, facendo della persona in quanto creata ad immagine e somiglianza di Dio il fondamento dell’etica cristiano-liberale, e prescindendo da qualsiasi altro elemento dell’esperienza cristiana del mondo e della storia (in primis la tensione escatologica-oltra-mondana), fi nisce per subordinare il cristianesimo alle esigenze strategiche del liberalismo, fi nisce quindi per immanentizzare il cristianesimo e dissol-verne l’autentica vocazione profetica. Vorrebbe quindi aprire il liberalismo alle ragioni di una verità trascendente l’orizzonte di comprensione umana delle vicende politiche, fi nisce invece per razionalizzare l’umanesimo cristia-no, farne un principio di stabilizzazione etica e ridurlo nello spazio mondano in cui si sviluppa e si esaurisce la missione liberale come di qualsiasi altra dottrina politica e storica.

Il Dio di Pera, che non a caso si richiama in primo luogo a Kant e alla sua fondazione morale della speranza, si rivelerà essere come il Dio di Fi-chte, il Governo morale del mondo, e in certa misura il Dio di Feuerbach, concepito ad immagine e somiglianza dell’uomo, espressione ideale della sua possibile perfezione pratica e teorica. Il suo è un Dio dei rivoluzionari, ed infatti la sua proposta provocatoria è, e non può che essere, quella di una nuova rivoluzione liberale, ecumenica e mondiale. «La società liberale non è un aggregato qualsiasi […] È un’unità morale e spirituale […] Senza l’idea cristiana che noi siamo un popolo di Dio», che «non ha confi ni storici» per compiere la propria missione, «la dottrina liberale sarebbe nient’altro che un’aspirazione senza speranza» (p. 46).

In conclusione di saggio, con riferimento alle prime comunità cristiane, Pera parlerà persino di «liberalismo cristiano delle origini» (p. 152), mentre, con riferimento all’attuale crisi della dottrina liberale, parlerà di un’Europa dimentica di sé ed incapace di capire che il motivo per cui essa tanto ame-rebbe l’Islam, l’aver cioè elaborato un relativismo culturale, è lo stesso moti-vo per il quale l’Islam la odia e ne disprezza l’indifferenza valoriale (p. 134). E non è un caso che, rispetto a tale paradossale situazione, non prenderà in considerazione il dato storico che uno dei pilastri del relativismo culturale europeo è proprio quel cristianesimo che, in nome di un’altra e più autentica giustizia, insegna a non appagarsi delle forme umane di giustizia, che hanno sempre il segno del potere e dell’imposizione (si pensi al giansenismo di Pascal), ed insegna quindi ad amare il proprio nemico (Mt. 5, 44), ovvero a compiere un gesto di così radicale relativizzazione dei valori, da rendere la tensione cristiana inconciliabile con le logiche di questo mondo.

Affi nché questo schema interpretativo trovi riscontro nelle pieghe del testo, è opportuno individuare i momenti essenziali della sua argomentazio-ne critica. Pera assume che il limite esiziale dell’odierna autocomprensione del liberalismo quale dottrina fi losofi co-politica sia nel suo fondarsi sulla doppia equazione per la quale liberale è solo il laico, e laico è quel sogget-to che si autodetermina prescindendo da presupposti di tipo pre-politico e pre-fi losofi co, ovvero di tipo religioso e/o metafi sico (p. 25 e sgg.).

Ammesso e non concesso che le cose, nell’autocomprensione liberale, debbano star così, vediamo quali conseguenze ne trae Pera. Egli denuncia che la comunità liberale, intendendosi senza limitazioni di carattere giusna-turalistico e senza, ancor più specifi catamente, delimitazioni di carattere cristiano dello spazio giuridico delle libertà individuali (che per Pera, sulla scorta di Locke e di Jefferson, devono essere intese come «dono» inviolabile

di Dio e non come elaborazione storica degli uomini associati), senza questi limiti la comunità liberale è esposta al rischio dell’anomia, e dell’autodisso-luzione anarchica di ogni principio di coesistenza e di rispetto della dignità altrui e della vita umana.

Ciò sarebbe stato colto già nella critica di Platone alla democrazia, e oggi troverebbe un riscontro sintomatico nell’assenza di inibizioni che caratte-rizza la promozione dei diritti di diversità (sessuale ad es.), nell’approccio senza prevenzioni etiche del problema dei limiti biologici della vita (aborto, clonazione, eutanasia), nell’accoglienza sempre meno fi ltrata da richieste di reciproco riconoscimento, di immigrati non disponibili a lasciarsi integrare nel nostro tessuto di valori e solidarietà. Il suggello politico di questa spirale autodissolutoria, fondata su un pubblico atto di apostasia della nostra iden-tità cristiana, è per Pera rappresentato dal processo di integrazione europea, dalla sua neutralità assiologica, dall’ipertrofi a burocratica, dalla paralisi de-cisionale che ha messo capo solo ad un astratto e autoreferenziale processo di elaborazione costituzionale, incapace di dare identità morale e dignità nazionale alla comunità europea.

Ecco il risultato dell’ideologia oggi dominante, un misto di liberalismo apostata e di conseguente, misero e sterile relativismo culturale, alieno dal-l’assumere una «decisione religiosa di fondo» (p. 2, l’espressione è di Be-nedetto XVI). Questa ideologia è il risultato culturale della fi losofi a oggi dominante, quel patriottismo costituzionale che trova in Habermas il suo pontefi ce laico e principale ispiratore. Qual è il difetto intrinseco al patriot-tismo costituzionale? Di negare preventivamente, pur in modo implicito, qualsiasi valore patrio in grado di dare fondazione pre-politica a quel me-todo repubblicano basato sul solo principio della pretesa argomentabilità e condivisibilità di qualsiasi ragione portata a sostegno del processo di costru-zione di un’identità politica europea immune da impronte di natura etnico-nazionale, storico-religioso, epistemico-metafi sica (pp. 79-80).

In Habermas questo difetto costitutivo si darebbe a vedere nel momen-to in cui il fi losofo francofortese indica negli attori linguistico-pragmatici i protagonisti della costruzione repubblicana, e non già nelle persone, in quei compiuti e presupposti soggetti, il cui valore si rivela per Pera solo nell’ac-cezione offerta dal cristianesimo alla dignità umana, l’essere cioè la persona creata ad immagine e somiglianza di Dio, come del resto assunto nel giusna-turalismo, sia esso deista o teista, dei Padri liberali (pp. 88-9 e n.75).

Habermas avrebbe quindi rimosso il passaggio decisivo della fi losofi a che è sottesa nella propria teoria dell’agire comunicativo, ovvero il Kant religioso, quel Kant che, sulle basi delle acquisizioni cognitive desunte in sede di legittimazione della ragion pratica, postula l’esistenza di Dio, garan-te della fede razionale e della speranza di intendere il fi ne ultimo dell’agire intersoggettivo, ovvero la promozione di una repubblica universale, unica garanzia della piena e compiuta espressione del suo fondamento, la persona intesa come fi ne in sé (p. 42).

Ciò che è interessante notare, in questa serie di passaggi argomentativi di cui Pera esplicita non molte stazioni (la fi losofi a pratica di Kant è infatti assunta come universalmente vera, dallo studioso di Hume e dell’empiri-smo anglosassone, indipendentemente da qualsiasi sua analisi sistematica), è che al liberale rinato è suffi ciente una correzione di principio, la rilettura in termini religiosi della fi losofi a pratica kantiana e, di conseguenza, della teoria comunicativa di Habermas, per assumere che su queste basi l’Europa potrebbe divenire una nazione caratterizzata da un’identità non solo storico-politica, bensì morale e perciò stesso metastorica, veicolo quindi della stes-sa rivalazione cristiana e del suo carattere inverante la contingenza storica. Questo è infatti il punto decisivo dell’intero libro, ed è il punto che permette

di comprendere perché il cristianesimo di Pera sia concepito ad immagine e somiglianza di un liberalismo inteso come dottrina politica ideale e mono-litica, tale da richiedere, per la propria piena realizzazione, l’intesa con una Chiesa organizzata in forma altrettanto monarchica ed ecumenica.

Poiché infatti per Pera il Cristianesimo esprime un’esigenza di verità uni-voca e integrale, e poiché la fi losofi a critico-liberale (di Kant) è univocamen-te defi nibile in termini di verità morale cristiana, ecco che qualsiasi forma di autentico cristianesimo non potrà che incarnare la realizzazione storica del nesso essenziale di verità e libertà, guadagnarsi quindi il titolo di faro morale dell’intera umanità. Per Pera infatti – e qui proviamo a cogliere l’aspetto positivo di certo carattere alquanto semplifi catorio (e talvolta imbarazzante) delle sue analisi storiche - non sembra darsi soluzione di continuità tra l’at-tuale pontifi cato e la fi losofi a della religione di Kant.

Poniamo a Pera una semplice domanda: veramente il vertice della com-ponente maggioritaria della cristianità storica accetterebbe di porre a fonda-mento del proprio magistero e della connessa organizzazione gerarchica, nel nome di una Verità univocamente intesa e della Renovatio Europae, la fi lo-sofi a del più implacabile teorico della chiesa invisibile e dell’impossibilità di subordinare la legittimità della morale alla volontà di Dio o di una qualsiasi dottrina religiosa (valida per Kant solo soggettivamente) fondata sul primato e sull’autorità del sacerdozio?

Certo, noi laici perplessi non vedremmo l’ora che la si smettesse con quella caricatura dell’azione parallela immaginata dal genio di Musil nella sua letteraria Cacania, vale a dire la montata di schiuma burocratica dell’in-tegrazione europea, e che si passasse velocemente alla provvidenziale convo-cazione, non, diciamo, dell’Heptaplomeres di Bodin (che ancora si illudeva di poter far sedere al tavolo del giusnaturalismo anche pagani e musulmani), ma di un più sobrio convegno di teologi cristiani. A loro lasceremmo carta bianca, affi nché si provino a scrivere, sulla base però del liberalismo religio-so di Kant, il preambolo della Costituzione spirituale europea. Veramente Pera crede che questo testo uscirebbe vergato nel cristallo della chiarezza? Veramente non sarebbe presentato alcun emendamento, non si ricorrerebbe ad alcuna formula dilatoria e ipocrita? Veramente non si parlerebbe solo di radici, ma si indicherebbe la via, il metodo per salvare l’Europa dal paraliz-zante ciclo di convulsioni in cui la storia, e in primo luogo quella post-caro-lingia dell’Impero e delle chiese cristiane, l’hanno spietatamente precipitato? Veramente il suo popolo l’approverebbe a grande maggioranza, o addirittura all’unanimità, in un eventuale referendum?

Non si tratta solo di domande retoriche o di considerazioni ironiche. È interessante invece notare come la ricerca di un senso trascendente della ve-rità, che ne tenga fermo ed esalti il carattere di univocità e assolutezza, porti Pera ad individuare nel modello della Chiesa cattolica il criterio per saldare la contingenza errante della storia, il crisma essenziale della stessa verità ed il suo fondante nesso con la libertà morale kantiana. Per Pera, che sembra cedere all’idea che il cristianesimo legittimo sia uno ed uno solo, la Chiesa cattolica «non è solo un’istituzione» storica, perché le istituzioni, siano esse partiti, sistemi economici o fi losofi ci, quando sbagliano, «cedono e scom-paiono». Quando invece è la Chiesa cattolica ad errare, lo sbaglio esalta «la grandezza del suo messaggio e il valore non contingente della sua parola» (p. 37). In sintesi, alla storia immanente i piccoli errori che conducono alla perdizione, alla Chiesa cattolica i grandi errori che aprono però il cammino dialettico della verità.

Per cogliere questo punto ed il suo carico di conseguenze ideologiche, è però necessario esaminare la critica cui Pera sottopone la posizione di Cro-ce (l’altro maestro venerabile dell’autodissolutorio immanentismo liberale), rispetto al cristianesimo (p. 50 sgg.). Pera non entra nel merito del sistema

crociano e della dialettica dei distinti che ne costituisce il criterio. Ma ciò è coerente con il suo punto di vista, quello di una verità necessariamente tra-scendente e non trascendentale, il che lo fa sentire legittimato ad operare con il martello dell’astrazione rispetto alle fi losofi e dell’immanenza. Non sente quindi il bisogno di rilevare come, rispetto alla struttura logico dei distinti e, quindi, dell’intero sistema crociano, tanto il cristianesimo quanto, si badi, il liberalismo come dottrina politica, rappresentino un rifl esso culturale, non un fondamento del sistema stesso, nei cui momenti essenziali, cioè nei distin-ti, non vi è menzione né del liberalismo, né, tantomeno, del cristianesimo. A Pera basta rilevare i rischi cui va incontro una determinazione così radicale dell’orizzonte fi losofi co, ovvero il rischio del panteismo da una parte, e quel-lo della giustifi cazione dell’esistente dall’altra.

La prima critica che dovrebbe essere sollevata contro questo tipo di ana-lisi non riguarda però la qualità degli argomenti. Il principio cui Pera non resta fedele, infatti, non è tanto quello della coerenza fi losofi ca, cui egli ri-nuncia perché ne ha denunciato la naturale inclinazione autodissolutoria, quanto il principio della carità ermeneutica cristiana, il quale lo obblighereb-be a considerare una posizione interpretativa nella sua dignità testuale indi-viduale, quindi meritevole di analisi nel suo principio di interna costituzione. Perché Pera non compie questa operazione? Non lo fa né nei confronti di Habermas, né in quelli di Croce, né in quelli di Kant. E non lo fa perché, pur non volendolo, il suo fi nisce per essere un liberalismo cristiano che rinasce all’insegna di un implicito bisogno di spirito dogmatico fondato su argomen-tazioni tecnicamente metastoriche. Vediamo perché.

A Croce egli imputa di aver considerato il cristianesimo, rispetto al li-beralismo, semplicemente un «fratello minore» (p. 53), quindi un antece-dente storico dell’altrettanto storico liberalismo politico. Cosa quindi manca al fi losofo napoletano, affi nché la sua posizione possa uscire dallo stato di minorità fi losofi ca in cui si è cacciata ed entrare nella sfera dell’autentico spirito liberale? Gli manca di rinunciare alla «negazione del trascendente», propria di ogni prospettiva trascendentale, e quindi di «riconoscere la speci-fi cità della rivoluzione cristiana, perché una rivoluzione signifi ca rottura sto-rica, inizio primo» (p. 52). La richiesta non è di poco conto, visto che quello dell’«inizio» si presenta, nel quadro di un sistema coerente di pensiero, come un problema aporetico e di aspra soluzione. Pera sembra rammentarlo nel momento in cui sottolinea che la fi losofi a dello spirito non può in effetti costituirsi a partire da un fondamento trascendente il proprio orizzonte di comprensione, specie se esso presenta poi i caratteri della contingenza sto-rico-fattuale. Ma questo, il carattere metastorico della rivelazione cristiana, è proprio il punto che Pera non considera solo oggetto di fede, bensì come una verità naturale, risplendente di tale evidenza che, il negarla comporta l’inevitabile dissoluzione della propria posizione di pensiero.

Quando quindi Pera rimprovera ai liberali laici di non saper aprire il loro pensiero ai fondamenti prepolitici di un processo costituzionale, non indica il «prepolitico» come una serie di eventi storici e di valori tradizionali, fon-dati sull’ambiguo principio della lunga durata dei poteri tradizionali. Consa-pevole che una durata, per quanto lunga, è comunque una durata variabile e soggetta agli imprevisti e alle imperfezioni del tempo storico, Pera indica nel «prepolitico» l’evento di una verità trascedente e delegittimante qualsiasi sua possibile messa in discussione.

Per comprendere questo punto cruciale è opportuno da ultimo osservare come Pera faccia culminare nel razionalismo morale di Kant il proprio per-corso di ricerca di un nesso metastorico tra il senso della verità e il principio della libertà. La premessa del ragionamento è sempre da ricercare nei Padri, in particolare Locke, il quale, rispetto ai principi inviolabili della persona e rispetto al metodo liberale di loro tutela, afferma che questo metodo «è stato

“impiantato” da Dio nella mente degli uomini» (p. 110). L’evidenza di ciò sarebbe rifl essa nel modo in cui Jefferson riprende tale assunto nel testo del-la Dichiarazione d’indipendenza americana, e dal modo in cui Kant ne fareb-be il principio di un possibile «Stato etico [sic!]» e il criterio di «valutazione delle massime morali personali e delle istituzioni politiche».

Cosa ha quindi messo in crisi il valore di questa evidenza ed inaugarato la lunga e dissolutiva stagione di pensiero, passata per l’immanentismo e culminata nel relativismo culturale? Il peccato originale è da individuare nella «reazione romantica e idealistica alla tesi di Kant», ovvero nell’affer-mazione del carattere solo storico del linguaggio, delle culture e dei relativi valori. Non entriamo ora nel merito della sorprendente e discutibile visione della storia della fi losofi a che emerge in questa pagina del libro. Notiamo solo, ed è il punto principale, che l’attacco dissolutorio del pensiero di Kant si darebbe a vedere in forma compiuta, per Pera, nella critica formulata da Hegel alla morale kantiana, la critica relativa al carattere astratto del suo principio intenzionale e alla sua incapacità costitutiva di darsi un contenuto determinante.

Perché è soprendente tutto ciò? Perché, a ben vedere, quale che sia la pertinenza o la legittimità del rilievo di Hegel, la sua matrice è analoga, anzi identica, a quella sottesa nel rilievo sollevato da Pera al metodo liberale, vale a dire al suo supposto prescindere da contenuti prepolitici e dal suo con-seguente non poter non risultare in astrattezze autoreferenziali. E perché, ci chiediamo, ciò che è valido contro il metodo liberale laico non sarebbe valido contro il metodo liberale di uno dei suoi Padri? Perché per Pera, lo voglia o meno il suo argomentare, la ragione kantiana non è solo «univer-sale», ma rappresenta un inconfutabile rifl esso della volontà di «Dio nella mente degli uomini».

Pera gioca sull’ambiguità per cui il Dio persona non sarebbe che l’altro volto della ragione universale, quindi richiama la ragione per immanentizza-re il messaggio cristiano, e richiama il Dio cristiano per dare un contenuto personalistico all’etica della ragion pura pratica, non tenendo più conto che per Kant, come ricordato in altro luogo del testo, solo dal punto di vista sog-gettivo i nostri obblighi morali possono essere intesi quali comandamenti di Dio. Questo è allora il punto: come dare oggettività alle massime del nostro agire morale (pp.41-2). Rispetto ad esso, Pera salta dal problema a soluzioni fondate sul principio di autorità, incompatibile però con il metodo kantiano da lui stesso richiamato.

Pera non discute il problema della fondazione, ritiene immediatamente legittimo il catalogo di divieti che Kant deduce in sede di «metafi sica dei costumi», insistendo sul loro valore metastorico e rinunciando a porre il problema della loro traducibilità in norme giuridiche. Kant, ad esempio, dalla sua morale fi nalizzata alla promozione della personalità libera, ricava il divieto dell’infanticidio (p. 143). E Pera richiama tale punto per ripropor-re, implicitamente, la tesi della natura moralmente deplorevole della pratica oggi diffusa dell’aborto. Egli sembra addirittura mettere in dubbio che su questioni così cruciali e delicate possano essere i parlamenti ed il criterio della maggioranza a doversi pronunciare. E denuncia che, il primato indi-scusso del principio della maggioranza, fi nisce per costringere ai margini del discorso pubblico l’opinione delle autorità morali e religiose come la Chiesa cattolica (pp. 29-31 e pp. 134-38).

Su questo piano è veramente diffi cile seguire il suo discorso: chi impe-disce a chi, in una società liberale che garantisca accesso ai mass media, di formulare la propria opinione ed indirizzarla a tutti i soggetti interessati? E chi impedisce ad alcuno di questi soggetti, se ritiene in coscienza di doverlo fare, di pronunciarsi di conseguenza e di esercitare il proprio diritto di voto

in un libero parlamento? L’alternativa a tali massime di senso comune sa-rebbe quella di imporre, a chi non si senta di riconoscerne il vincolo morale e la verità metastorica, il primato di una volontà conforme ad una ragione universale ed intesa come il comando stesso di Dio, e dichiarare che su que-stioni di principio non è possibile il dissenso, perché il dissenso introduce il primato dell’anarchia e dissolve sani e naturali costumi. E a chi affi dare il compito di interpretare tale volontà universale? A chi assegnare la pesante responsabilità di censurare gli apostati e di costringerli a consentire con le universali evidenze del Dio persona?

Non crede piuttosto Pera che l’autenticità morale di un liberalismo cri-stiano dovrebbe potersi rivelare nel comportamento di chi, proprio vigendo una legge per la regolamentazione dell’aborto (dura realtà sociale), deci-de personalmente di non avvalersene e di seguire una regola di coscienza intimamante vissuta e pubblicamente professata? E che ne sarebbe invece di questa libertà di coscienza in un regime in cui ad un’autorità non politi-camente legittimata, sia essa un concistoro o una commissione episcopale, fosse dato di defi nire le linee guida della moralità comune prescindendo dal problema di tradurre in norme positive e di garanzia tali indirizzi?

La storia è piena degli episodi di violenza che si sono più o meno sor-didamente consumati quando alle società borghesi si è cercato di imporre forme di organizzazione etica vincolante, e non è qui il caso di ripercorrerli, anche per evitare di incorrere nel facile gioco di questo pur interessante libro, defi nire cioè le proprie tesi per contrapposizione polemica, cedendo troppo spesso alla tentazione del corrivo soccorso delle pretese vittime del-l’imperante conformismo. A Pera ci permettiamo di suggerire un’ipotesi che oggi è poco di moda formulare, e cioè che se un nuovo liberalismo cristiano fatica a levarsi in volo, il problema non è tanto nel relativismo in cui si sta avvitando l’imperfetto metodo liberale, bensì nella quasi completa assenza, nel dibattito pubblico, di un autentico spirito cristiano, che abbia il coraggio di rompere la logica di ipocrita opportunismo che paralizza tante autorità morali, a partire da quella Chiesa cattolica cui Pera sembra voler affi dare il ruole di guida del processo di rinascita europea. Una Chiesa che oggi salu-ta il carattere liberale e cristallino della sua decifrazione della crisi morale, ma che diffi cilmente domani accetterebbe di condividere un percorso di fuoriuscita da essa prendendo come unico testo guida quello del principale autore dell’illuminismo europeo. Perché ne uscirebbe non rafforzata, bensì spiritualmente demolita.