INNOVARE NELLA TRADIZIONECerto, il quadro economico che abbiamo davanti è davvero sconfortante. Un...
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INNOVARE
NELLA TRADIZIONE
Relazione del Presidente Gian Angelo Mainini
Assemblea Generale 2014
Assemblea Generale 2014
Relazione del Presidente
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Autorità, signore e signori, cari colleghi,
a Voi tutti un ringraziamento vivissimo.
Quest’anno parliamo di innovazione nella tradizione, perché è possibile
perseguire il cambiamento in modi diversi, pur restando fedeli alle proprie
radici.
Avremo modo di capire meglio questo concetto anche grazie a Luca
Tremolada, giornalista de Il Sole 24 Ore, che più tardi animerà la nostra
tavola rotonda e farà emergere tutto il valore dell’innovazione attraverso le
testimonianze dei nostri ospiti.
Innovare per uscire dalle secche di una crisi drammatica. L’Italia ha
smarrito la via dello sviluppo economico da molto tempo: lo confermano i
dati e ancor prima lo dice il senso comune. Veniamo da 20 anni di
stagnazione.
In un mondo che cambia a velocità esponenziale, restare fermi significa
perdere le tante opportunità di sviluppo e, peggio ancora, rischiare di
essere marginalizzati.
Oggi non è più il pesce grande che mangia il pesce piccolo, ma il pesce
veloce che mangia quello lento.
Ricordando le parole del Presidente della Repubblica di un mese fa,
dobbiamo metterci al passo con i tempi e con le sfide della
competizione mondiale. Il rinnovamento deve riguardare le nostre
istituzioni, le strutture sociali, i comportamenti collettivi. Dobbiamo
cambiare un po’ tutti noi.
Per le aziende, innovazione è crescita, aumento di produttività e
competitività. Lo sappiamo bene noi imprenditori, da tempo avvezzi al
cambiamento: innoviamo sul prodotto, sul processo, sull’organizzazione,
ci spostiamo sulle nuove tecnologie per servire meglio i clienti ed
intercettare nuovi consumatori.
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Nella tradizione, perché se l’esigenza di innovare è forte, non possiamo
neppure dimenticare chi siamo e quello che sappiamo fare.
La tradizione è ancora un valore. Tradizione non è fare le cose come si
sono sempre fatte, ma farle sempre bene, in un contesto che è cambiato,
adattando i processi ed i prodotti.
Tradizione ed innovazione quindi come alleate, non nemiche.
Il “sapere fare bene” le cose, e farle anche belle, è molto radicato nell’Alto
Milanese. Qui c’è quel capitalismo familiare che non ha mai smesso di
essere protagonista nel mondo globalizzato, e che difende, in questi anni
complessi, con tutta la propria forza la manifattura Made in Italy.
Con l’apertura al mondo non solo abbiamo reagito, ma altresì siamo stati
capaci di portare nelle nostre imprese nuovi modelli e nuovi approcci al
business.
Consolidata è anche la nostra maniacale cultura del prodotto. Facciamo
cose tangibili che riusciamo a vendere in tutti i 5 continenti.
Certo, il quadro economico che abbiamo davanti è davvero sconfortante.
Un Paese che arretra, con il PIL “zavorrato” dal crollo della domanda
interna.
Sette milioni di italiani, il doppio rispetto a 6 anni fa, sono senza lavoro e la
disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli drammatici, tant’è che molti
giovani talenti migrano all’estero.
Questo ci preoccupa. Stiamo depauperando il nostro capitale umano, la
vera ricchezza di cui dispongono le imprese per competere nel mercato
globale fondato sulla conoscenza.
Quadro economico
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La tecnologia da sola non crea il vantaggio competitivo. Oggi sono le
macchine al servizio dell’uomo e non viceversa. Quindi sono le persone, il
capitale umano, a creare questo vantaggio.
Se consideriamo la situazione dell’Alto Milanese, anche questo territorio
non è sfuggito alle difficoltà.
Tuttavia, come dimostrano i dati delle ultime indagini congiunturali, il
nostro tessuto economico ha avuto performance migliori della media
italiana, grazie al traino delle esportazioni e alla presenza di
specializzazioni produttive consolidate.
Nel 2013 le sole imprese iscritte a Confindustria Alto Milanese hanno
fatturato oltre 4,6 miliardi di euro, di cui il 44%, circa 2 miliardi, generato
sui mercati esteri.
C’è quindi una parte della nostra manifattura che dimostra eccezionali doti
di tenuta e di capacità competitiva, e che ha risentito meno della crisi.
Sono le aziende del medium tech, la manifattura d’alta qualità, che
comprende la meccanica, la chimica, le macchine utensili, gli apparecchi
medicali, l’avionica e l’aerospaziale.
Descritte molto bene da Gianfelice Rocca, Presidente di Assolombarda,
nel suo libro ‘Riaccendere i motori’, si tratta di imprese che crescono
grazie a quell’innovazione incrementale e combinatoria che si costruisce
giorno per giorno con l’esperienza di tutti i lavoratori, e grazie anche al
rapporto con i clienti e i fornitori.
Di questo segmento particolare fanno parte una buona fetta delle nostre
associate, ma non basta.
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Dal 2008 è in atto una selezione che ha colpito duramente non solo le
piccole e medie imprese, ma anche grandi aziende che si pensavano
esenti, perché la produzione a bassa tecnologia non è vincente.
L’esperienza dunque dice che di bassa propensione all’utilizzo di nuove
tecnologie, di bassa capacità di crescere sui mercati e di bassa
capitalizzazione, oggi si muore.
Lo ha ben presente Obama, quando già l’anno scorso affermava che il
ritorno della manifattura negli Stati Uniti potrebbe passare proprio dalla
nuova ondata tecnologica.
Noi siamo bravi nel costruire macchine che costruiscono cose, siamo
quindi bravi nel manufacturing. Il passo in più è aggiungere quel tanto di
valore, che fa di un prodotto buono un prodotto eccellente.
Le opportunità offerte dalle tecnologie digitali, già si parla di ”industria 4.0”
e di “industrial internet”, danno una risposta a chi pone la domanda se sia
possibile innovare nel rispetto della tradizione.
Questa manifattura d’avanguardia va quindi sostenuta e fatta crescere
perché può trascinare anche le imprese più piccole. Occorrono politiche
industriali orientate all’innovazione ed alla promozione delle reti, come i
cluster tecnologici, luogo naturale dove imprese, centri di ricerca ed
università collaborano in modo virtuoso.
Nel 2014 è stato celebrato il 25° anniversario di internet ed è stata elogiata
l’importanza dei sistemi a rete. Peccato che nessuno si ricordi che in Italia
è da 50 anni che i sistemi produttivi come il nostro sono fondati su
un’architettura a rete.
Modelli che nel tempo si sono evoluti passando da una logica di supply
chain ad una di value chain, come ben sa Alberto Ribolla.
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Ma chi cresce?
Oggi cresce l’impresa che fa qualità e innovazione, che partecipa alle
filiere produttive e si inserisce sui mercati esteri più dinamici.
Come sistema produttivo siamo infatti di fronte ad un bivio. O facciamo
cose che costano poco e che costeranno sempre meno, oppure cose che
costano molto e costeranno sempre di più. Per fare le prime occorrono
economie di scala e produzioni a basso costo. Elementi questi che non ci
sono in Italia, quindi la scelta pare proprio obbligata.
Dobbiamo fare prodotti a maggior valore aggiunto, utilizzando tre
ingredienti:
1) innovazione, ovvero fare cose che altri non fanno
2) marketing, perché non basta innovare se poi non siamo in grado di fare
sapere agli altri quello che facciamo di diverso
3) brand, che non è altro che la normale conseguenza dei due precedenti
fattori e che fa aumentare la domanda dei nostri prodotti.
Cresce poi il Paese che fa dell’industria la colonna portante del proprio
sistema economico.
Non lo dico per semplice orgoglio di categoria, ma perché sono
consapevole che senza industria non c’è lavoro e non c’è ricchezza da
distribuire. In Europa l’’80% dell’innovazione e dell’export dipendono
dall’industria.
Che il manifatturiero sia centrale, come da tempo sostiene il Presidente
Squinzi, lo ha capito anche l’Unione Europea che ha realizzato una vera e
propria inversione di rotta verso economia reale, PMI e lavoro, “in un
sistema dove servizi, finanza e manifattura sono indissolubilmente legati”.
Innovare nell’industria
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L’Italia può tornare a crescere perché ha ambizioni e risorse per farcela. A
condizione che tutto il Paese cambi.
A cominciare dallo Stato.
Serve uno Stato più leggero e meglio organizzato, perché le imprese non
possono sopravvivere in un ecosistema avverso. Non si può accettare un
Paese in cui la burocrazia imposta da una piccola minoranza domina su
una maggioranza di cittadini, fatta di lavoratori, imprenditori, investitori,
ovvero quel mondo privato che genera lavoro e ricchezza.
Abbiamo un bisogno disperato di leggi semplici, chiare e stabili.
Abbiamo bisogno di un fisco che non generi sfiducia, incertezza e paura.
Negli ultimi 6 anni è stata emanata una norma fiscale alla settimana: è un
incubo!!
Sul fisco non deve muoversi solo Roma.
Abbiamo una tassazione locale sulle imprese che non ci aiuta. In provincia
di Milano, nell’ultimo anno, l’imposizione sui capannoni industriali è
aumentata in media del 7%. In alcuni Comuni del nostro territorio, tra IMU,
TARES, TASI, ecc. si è pagato il 12% in più per i capannoni ed il 14% in
più per gli uffici.
Mi chiedo se nelle pieghe dei bilanci comunali, senza toccare i fondi per i
“servizi sociali”, non si riescano a trovare sprechi da eliminare, così da
poter tagliare queste addizionali.
Cari Sindaci, adottate anche voi un approccio “lean” alla gestione
municipale. Aprite la caccia agli sprechi!!
Innovare nelle Istituzioni
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Per fare innovazione servono adeguate risorse finanziarie. Innovare rende
alle imprese, ma costa parecchio.
Il sistema finanziario può essere motivo di sviluppo oppure causa di
regresso.
La storia contiene esempi dell’uno e dell’altro caso.
Ma a quale sistema finanziario ci riferiamo? Perché un anglosassone
pensa ai mercati dei capitali, mentre un italiano pensa subito alle banche.
A dire il vero non siamo l’unico Paese “bancocentrico”. Anche la Germania
vede un ruolo di primo piano delle banche al fianco delle aziende, ma là
c’è una struttura finanziaria delle imprese mediamente più solida, che
deriva anche da tempi di pagamento diversi, molto diversi dai nostri.
In Italia c’è qualcosa nel rapporto banca-impresa che si è “inceppato”.
Le imprese continuano a lamentare difficoltà di accesso al credito ed un
non facile dialogo con i “bancari”, non capiscono come vengono valutate e
hanno sfiducia nei rating.
Non è solo una questione di soldi, è anche la mancanza di un sostegno
finanziario a tutto tondo, che riguarda flessibilità, tempi di istruttoria,
garanzie richieste, ecc.
E’ vero che le banche rispetto al passato hanno molti più vincoli
regolamentari e sono continuamente sottoposte a controlli di adeguatezza
patrimoniale. Però è anche vero che concedere credito basandosi quasi
esclusivamente su sistemi di rating è fuorviante.
Il credito dovrebbe essere un misto di arte e di scienza. L’arte che deriva
dalla conoscenza approfondita delle imprese, da riscoprire. La scienza
che deriva dall’applicazione di modelli quantitativi e dalla lettura dei
bilanci, che le imprese devono rendere più leggibili.
Innovare il rapporto tra banca e impresa
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Io credo che il rapporto banca-impresa vada profondamente rinnovato
recuperando quello che di buono c’era fino ad un passato recente.
Qui mi rivolgo all’amico Mazzotta, Presidente del Mediocredito Italiano,
che molti di noi ricordano con il vecchio nome di Mediocredito Lombardo,
che tanto ha contribuito allo sviluppo industriale della nostra Regione.
Consentitemi una battuta: ridateci il “ragiunatt” della Cariplo, un po’
rinnovato, con conoscenze tecniche sui prodotti, sui metodi produttivi, sui
mercati delle imprese.
Più che di banche territoriali, anche perché tutte si definiscono così,
abbiamo bisogno di banche che operino per il territorio e di banchieri che
per affidarci non guardino solo il rating, ma capiscano quello che stiamo
facendo, sappiano “leggere” le filiere in cui operiamo, vengano a trovarci
in azienda e ci guardino in faccia.
Poi, se vogliono usare termini in inglese lo facciano pure. Siamo abituati.
E’ da una vita che il nostro mercato è il mondo.
Sull’innovazione della struttura finanziaria dobbiamo fare di più anche noi
imprenditori.
Innanzitutto dobbiamo irrobustirla con le nostre risorse, oppure aprendoci
ai capitali e capitani esterni.
Ci avviamo verso un sistema finanziario più articolato e diverso da quello
a cui siamo abituati, dove la carenza di credito, temo, è destinata a
proseguire.
Si ridurrà il peso dell’indebitamento bancario, mentre aumenterà quello di
altre fonti di finanziamento.
Per questo le nostre imprese, in particolare quelle medio piccole,
dovranno procedere con decisione verso una maggiore pubblicità delle
informazioni che le riguardano.
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Molti passi in avanti sono stati compiuti per creare canali di finanziamento
alternativi al credito bancario e per favorire la patrimonializzazione delle
imprese.
Pensiamo ai mini bond che hanno portato alle prime emissioni. Sono
strumenti validi, ma a lato pratico, sono prodotti ancora troppo cari e poco
accessibili.
Una riflessione merita la questione “lavoro”, che è forse la sfida più
importante che abbiamo davanti, perché se non riparte l’occupazione,
quella di buona qualità, il mercato interno continuerà a soffrire e,
francamente, le imprese non possono vivere solo di esportazioni.
Anche qui c’è bisogno di un cambiamento, sapendo benissimo che non
sono le leggi a creare posti di lavoro, ma regole sbagliate sono capaci di
distruggerlo.
Viviamo in un sistema che non è più sostenibile, con tutele rigorose per
alcuni lavoratori e la quasi totale assenza di garanzie per i più giovani.
Abbiamo un contratto a tempo indeterminato costoso e rigido, che stride
con le necessità delle imprese di poter operare modifiche organizzative in
tempi rapidi.
Il problema va affrontato nella sua complessità.
Non è solo questione di articolo 18, che per noi è già superata. E’ ovvio
che l’articolo 18 va profondamente modificato. Non assumiamo le
persone, le formiamo, gli insegniamo un lavoro e poi ce ne sbarazziamo
alla prima occasione.
La riforma del mercato del lavoro deve pensare innanzitutto
all’occupabilità, a creare opportunità per chi vuole entrare o rientrare nel
mondo del lavoro, e non può prescindere dall’adozione di politiche attive
per chi perde il lavoro.
Mercato del lavoro e relazioni industriali
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Anche le relazioni industriali devono innovarsi e diventare capaci di
leggere il cambiamento, aprendosi al confronto con le best practices
internazionali.
Faccio mie le considerazioni del Presidente di Federmeccanica Storchi,
quando dice che servono ampi spazi alla contrattazione aziendale perché
le nuove forme di organizzazione delle imprese hanno cambiato in
profondità il modo di produrre.
Nel mondo siamo ancora l’unico Paese con una dinamica del costo del
lavoro slegata dall’economia e dalla produttività. Anche questa anomalia
non regge più.
Il salario di produttività deve perciò essere totalmente detassato e
decontribuito, anche quando non è frutto della negoziazione.
Infine voglio parlare della nostra scuola.
Parto dalla considerazione che le “persone” sono e saranno sempre più il
baricentro delle imprese che competono.
Abbiamo un bisogno disperato di risorse umane di valore. Non solo bravi
tecnici, ma soprattutto persone con una visione d’insieme dei processi e
delle dinamiche aziendali.
Collaboratori in grado di prendere decisioni, di organizzare il proprio
lavoro, di saper gestire le relazioni.
La nostra responsabilità, come imprenditori, è quella di avvicinarci di più al
mondo della scuola.
Nell’Alto Milanese molte imprese sono già impegnate nell’aiutare studenti,
docenti, dirigenti scolastici a realizzare una formazione più innovativa,
aperta, e costruita sulle competenze. L’unica formazione che può aiutare
realmente un giovane a trovare lavoro.
Innovare la scuola
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Penso ad aziende che adottano i laboratori delle scuole. Qui mi fa piacere
ricordare che l’Associazione, insieme ad una ventina di imprese
meccaniche ed alla Fondazione Ticino Olona, ha donato al “Bernocchi” un
laboratorio di meccanica, con un centro lavoro e un’aula di informatica.
Penso ai tecnici delle nostre aziende che entrano nelle scuole e
collaborano con i docenti per rendere i profili professionali dei ragazzi più
coerenti con le nostre esigenze.
Alcune nostre associate lo stanno già facendo, altre non riescono per la
burocrazia e la rigidità di qualche Istituto scolastico.
Sulla collaborazione tra scuola e impresa sono già stati compiuti alcuni
importanti passi in avanti, come la riforma dell’istruzione tecnica e
l’introduzione degli ITS. Ma c’è ancora tanto da fare.
Concludo, con poche riflessioni.
E’ arrivato il momento di ricostruire un’Italia diversa, consapevoli che
siamo un Paese migliore di come ci dipinge la stampa internazionale e di
come noi stessi ci consideriamo.
Sul fronte della competitività delle imprese dobbiamo certamente
migliorare, e lo stiamo facendo, ma come evidenzia da anni la Fondazione
Edison, non abbiamo molto da temere se guardiamo alla dinamica della
bilancia commerciale ed al nostro fatturato export, che è migliore di quello
tedesco.
Oggi viviamo in un contesto in cui velocità e incertezza aumentano
insieme. La combinazione di questi due fattori si chiama caos.
La cosa non ci deve affatto spaventare, perché noi italiani siamo bravi nel
gestire il caos, perché viviamo in un Paese che è un caos! Il nostro valore
come imprenditori e uomini d’azienda viene fuori proprio in questo
contesto.
Conclusioni
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Infine consentitemi un cenno storico, che richiama la nostra tradizione,
mai sopita, di naviganti e di inventori.
Uno dei più grandi innovatori della storia è stato Cristoforo Colombo,
perché per realizzare la sua impresa
è partito da un’idea nuova, andare in India percorrendo altre strade;
ha raccolto i fondi da un venture capital, la Regina di Spagna;
ha creato e motivato una squadra formidabile, il suo equipaggio;
è arrivato prima di altri
e, come molti imprenditori, il suo successo è nato da un errore, pensava di
andare in India ed è finito in America.
Se abbiamo idee, non ci devono spaventare gli errori. Dobbiamo osare.
Grazie.
Legnano, 21 ottobre 2014