Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

15

Transcript of Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

Page 1: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente
Page 2: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

INEDITI D’AUTORE

Marco Malvaldi

Sol levante e pioggia battente

Page 3: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

Io non sono esattamente quel che si dice un viaggiatore nato. Per me, il concetto di relax si abbina con una casa vuota, un divano comodo (non troppo lontano dal frigorifero), un bel libro e una carabina di precisione con cui stecchire gli eventuali rompiscatole di passaggio. Ciò nonostante, la ragazza che qualche tempo fa commise il grossolano errore di sposarmi è una persona inquieta di natura e amante dell’imprevisto e dello sconosciuto (purché lontano da casa); per cui, quando la suddetta ragazza comincia a fantasticare di mete lontane e a fermarsi uggiolando davanti a tutte le vetrine di agenzie di viaggi che incontra, spesso sono costretto a capitolare. Questo non significa che una volta in viaggio non mi diverta. Al contrario, una volta fuori casa non tornerei più (talvolta, se sono partito con mia moglie, tornerei volentieri da solo). Dei non molti paesi in cui sono stato, sono due quelli che mi ricordo in modo particolare: l’Olanda e il Giappone. Sono due nazioni in cui vale la pena andare, e in entrambe mi sono trovato veramente a mio agio. Cosa rara, questa di trovarmi a mio agio, dato che sono schizzinoso, amante delle comodità e abitudinario come un prete in pensione. È strano, nella fattispecie, che mi sia trovato bene in entrambi, perché questi due paesi sono letteralmente l’uno il contrario dell’altro. La prima, enorme differenza che il viaggiatore coglie tra Olanda e Giappone sta nel modo di comportarsi degli abitanti. I sudditi della regina Beatrice, infatti, sono spontanei in modo imbarazzante.

Se non sapete cosa fare la sera, potete tranquillamente andare in un pub da soli, ordinare una birra (een beertje, alstublift) e sedervi al bancone. Non passeranno trenta secondi che uno dei vostri vicini di sgabello, incuriosito dal semplice fatto di non avervi mai visto, attaccherà bottone con voi incurante di qualsiasi differenza di età, sesso, ceto sociale (peraltro difficile da distinguere, come vedremo in seguito) o grado di alcolemia. Se nessuno siede accanto a voi, ci penserà il personale dietro al bancone a cominciare a farsi gli affari vostri. Potrebbe anche capitarvi, come è successo a me in un bar, che il barista noti la fede che portate al dito e vi chieda: «Sei sposato?», e ottenuta risposta affermativa vi informi in tono neutro: «Peccato. Mi piacevi proprio».

Questa spontaneità di comportamento ha anche degli aspetti negativi, bisogna riconoscerlo. Se andate al cinema in Olanda, apprezzerete moltissimo l’aspetto della sala (di solito sono dei bar o delle sale da tè molto spaziose, con tre o quattro salette di proiezione), apprezzerete il fatto che diano film in lingua originale e apprezzerete l’ottima e ampia scelta della programmazione. Il film in quanto tale, no. Non vi sarà possibile, perché le persone in sala arriveranno tranquillamente a film iniziato da venti minuti, e gli spettatori già seduti smetteranno di commentare il film con i loro cugini (seduti solitamente dieci file avanti) e si alzeranno per salutarli e scambiare due chiacchiere a voce non troppo bassa, sennò gli altri spettatori non sentirebbero e, soprattutto, il fastidioso brusio delle voci degli attori coprirebbe il tutto.

I film, va detto, sono in lingua originale e quindi hanno i sottotitoli. Ma non è stato l’amore per la filologia a dettarne l’uso; piuttosto, dato il modo di comportarsi

Page 4: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

della gente, ritengo siano stati suggeriti da motivi pratici, come permettere di seguire il film a quei tre o quattro olandesi che ancora vanno al cinema per questo.

D’altro canto, i fedeli dell’imperatore Akihito sono tutto tranne che spontanei. Il galateo giapponese è inviluppato e contorto come un vecchio ulivo, e l’attenzione che il nipponico vi ripone è maniacale. Tanto per darvi un’idea, supponiamo che voglia usare, nella vostra conversazione con un giapponese, il verbo «andare». Se state parlando con un vostro amico di lunga data, non c’è problema: potete usare il verbo andare nella forma piana, e dire iku. Se però state parlando, in un discorso informale, con una persona che conoscete pur senza avere eccessiva confidenza, regola vuole che usiate la forma gentile, ovvero ikimasu. Se, invece, in un momento di puro masochismo, state parlando con un giapponese in ambito lavorativo, e questa persone è più importante di voi o vostro pari grado, dovrete far attenzione: sarà infatti necessario che vi riferiate al fatto che il vostro splendido interlocutore vada da qualche parte usando la forma onorifica (irasshaimasu), mentre se dovete fare riferimento alla vostra insignificante persona sarà il caso di usare la forma umile (marimasu).

Detto questo, comincia ad apparire chiaro per quale motivo i giapponesi, una volta usciti dal lavoro, spesso si danno all’alcol.

Inoltre, essendo un mondo lontano dal nostro, le regole sono molto diverse, e questo espone il malcapitato straniero (gaijin) a una vasta pletora di possibili quanto inimmaginabili figuracce. Un esempio? Mangiare i tagliolini facendo rumore di turbina non è maleducato, ma soffiarsi il naso in pubblico sì. Un altro? Se andate a cena tutti insieme in un ristorante dopo il lavoro (cioè tardi), dovrete togliervi le scarpe per non rovinare il tatami. Nessuno noterà se i vostri piedi dopo dieci-dodici appaganti ore di lavoro puzzano di sgombro, ma guai se non vi uniformate a quello che i vostro compagni decidono di ordinare e volete fare di testa vostra (magari perché il pesce e il cuore di bovino crudo vi fanno comprensibilmente senso).

Ma ogni medaglia ha il suo rovescio, come scopre ogni persona a cui muore la suocera quando si rivolgono a lui per le spese del funerale. Allo stesso modo, il complesso intersecarsi delle regole di comportamento nipponiche ha come conseguenza che i giapponesi, in media e singolarmente, sfoggiano una cortesia che sfiora l’inumano, e per un turista questo ha la sua importanza.

Anche qui, un esempio sarà d’aiuto. Una delle esperienze più comuni che vi capiteranno se vi avventurerete in una

città del Sol Levante è quella di chiedere a un passante se conosce la strada per arrivare in un dato posto che vi interessa. L’inoffensivo nipponico al quale vi rivolgerete, una volta capito che vi state rivolgendo proprio a lui per una informazione, si mostrerà visibilmente emozionato. L’emozione può avere le seguenti ragioni:

a) L’indigeno è entusiasta di potervi dare una mano e onorato che degli stranieri si siano rivolti a una persona così comune come lui per avere una informazione vitale, e arde dal desiderio di aiutarvi. Il nostro si prodigherà quindi in spiegazioni dettagliatissime su come giungere alla meta agognata e si adopererà affinché dobbiate fare la minor fatica possibile per arrivarci; se è

Page 5: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

necessario che prendiate la metro, oltre che spiegarvi dove prenderla e a quale linea scendere, non è raro che vi dia personalmente il biglietto, se ne ha uno in tasca, e senza ovviamente volere niente in cambio.

b) Il nativo parla solo il giapponese e le uniche parole inglesi che è in grado di articolare, seppure distorcendole oltre i limiti del comprensibile, sono «computer» e «Beckham». Pur essendo ansioso di aiutarvi, non è purtroppo in grado di capire una mazza di quanto state dicendo, né di fornirvi informazioni a voce. A questo punto, nell’impossibilità di comunicare con voi per via linguistica, al vostro interlocutore sembrerà naturale accompagnarvi personalmente nel posto in cui desiderate andare. Se questo dovesse comportare il fatto di prendere treni o autobus per raggiungere la meta, la cosa non lo distoglierà minimamente dal suo compito. So che può risultare difficile da credere, ma vi assicuro che non sto scherzando.

c) L’autoctono, pur essendo nato nella città in cui vi trovate e nella quale vive da quarant’anni, non ha capito a che luogo vi state riferendo o, se lo ha capito, non ha più pallida idea di dove cacchio sia. (Anche questa eventualità non è affatto rara, credetemi. Al mio arrivo a Kyoto mi sono ritrovato dentro un taxi il cui conducente ignorava dove fossero sia il mio albergo, sia la strada in cui era situato. Ci abbiamo messo quasi mezz’ora per trovarlo, e sospetto che il tassista si sia licenziato subito dopo per il disonore.) Questo non lo scoraggia, in quanto vi siete rivolti a lui per essere aiutati e per questo è suo preciso dovere farsi carico del vostro destino; quindi incomincerà a fermare sistematicamente i passanti da lui ritenuti dall’aspetto degno di fiducia e a chiedere lumi a sua volta. Tale tecnica può dare luogo a curiosi capannelli animati che, in altri tempi e in altri paesi, sarebbero stati riconosciuti come adunata sediziosa e sciolti con la forza; ciò nondimeno, prima o poi troverete qualcuno che sa dove dovete andare e che in grado di spiegarvelo, o di accompagnarvi.

A proposito: poco sopra ho accennato al fatto che trovare un giapponese che

parla inglese è raro. Questo evidenzia un’altra sostanziale differenza tra gli abitanti del paese dei tulipani e i simpatici ragazzi con gli occhi a mandorla: la confidenza con una lingua straniera. Sarà l’abitudine a vedere film in lingua originale, ma in Olanda anche la vecchietta del negozio di verdura è in grado di parlare un buon inglese, e quasi chiunque sotto i quarant’anni lo parla correntemente.

A ben vedere, c’è forse un altro motivo all’origine della facilità degli oranje di apprendere altre lingue, ed è nient’altro che la lingua nederlandese medesima. Questo idioma, che sembra un misto tra l’inglese e il tedesco con l’obbligo di raddoppiare tutte le vocali, è talmente incasinato che per parlarlo è necessario sviluppare capacità linguistiche superiori. In primo luogo, i suoni; ce ne sono alcuni che, seppur strani, con qualche sforzo sono alla portata di tutti, come la sillaba ui. Impossibile da rappresentare con l’alfabeto fonetico, questa sillaba, presente ad esempio in parole come ui (cipolla), huis (casa) e Cruijff (Cruijff), ha un suono che ricorda vagamente il rumore che faceva Pac Man quando ingurgitava un punto, ma con un po’ d’esercizio

Page 6: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

si arriva a padroneggiarla. Altri suoni, come la g di gratis (gratis, parola molto cara agli olandesi), sembrano più la conseguenza di una tracheotomia che un suono volontario, e non sono alla portata di un mediterraneo senza rischiare serie conseguenze fisiche all’apparato fonatorio.

Le regole grammaticali non sono da meno. Ci sono, ad esempio, verbi costituiti da due parti che si comportano come parentesi: una delle due va all’inizio della frase e l’altra in fondo, in modo da racchiudere l’azione a cui si fa riferimento. Ma soprattutto, dette regole grammaticali non sono costanti nel tempo. Normale, direte voi: qualsiasi lingua si evolve e cambia in modo naturale, a seguito dell’inserimento di vocaboli nuovi, della sostantivizzazione dei nomi propri e del trasformarsi di sostantivi in verbi. Questa evoluzione sarebbe normale: quindi, per la cultura olandese, banale per non dire sospetta. Siccome i cari pennelloni d’Orange amano distinguersi, e in particolare amano che la loro lingua sia il più possibile diversa dalle altre lingue europee (ivi compreso il tedesco, che ha la somiglianza più marcata), le regole della lingua olandese vengono esaminate e cambiate da una specifica commissione che si riunisce ogni cinque anni. Tutto è passibile di una rinfrescata, persino l’ortografia: un esempio è la cara vecchia padella, che veniva individuata dalla parola pannenkoeken fino al 2000, quando per fortuna è stata depauperata di una pericolosissima lettera «n» e trasformata dagli attenti censori in pannekoeken. Un bel risparmio, non c’è che dire. In confronto, la lingua giapponese è rassicurante. Le parole sono suddivise in sillabe, la cui pronuncia è fissa (con pochissime eccezioni) e non richiede per un italiano nessuno sforzo fonetico, a eccezione della sillaba fu, quella per intenderci di futon (materasso) e fugu (pesce palla, le cui carni disgustose e talvolta tossiche sono amate dai giapponesi per motivi poco chiari), che viene pronunciata con un suono a metà tra fu e hu. Non starò qui a tediarvi con i vari metodi di scrittura del giapponese, quello sillabico (hiragana/katagana) e quello per ideogrammi (kanji), limitandomi a rendervi edotti che il sistema per ideogrammi è talmente complicato che gli stessi giapponesi ci si orientano male. Per dare un’idea, ho dei fumetti in cui, accanto a quasi ogni carattere kanji, compare la traduzione sillabica in hiragana, segno evidente che senza l’aiutino anche il nipponico originale ci si perderebbe. La costruzione della frase è estremamente logica, e costa sforzo solo se si vogliono usare frasi molto lunghe. Dico «se si vogliono» perché i giapponesi medesimi le evitano e preferiscono spezzettare una frase lunga in tante brevi. Inoltre, vige la regola che se una parola è inutile ai sensi della comprensione del discorso, questa deve essere eliminata. Dall’applicazione di queste regole, purtroppo, viene fuori che i giapponesi parlano velocissimamente, il che rappresenta uno dei problemi nel padroneggiare questa lingua: quando dicono qualcosa mediamente non si capisce nulla. Un altro possibile problema è rappresentato dalla cadenza: il giapponese parlato ha un ritmo serrato, preciso, e la conclusione di ogni frase è pronunciata aumentando lievemente il tono della voce e scandendo con maggior forza le sillabe. Per cui, quando qualcuno vi parla, che sia una gentile commessa dei grandi magazzini o un tassista che vi

Page 7: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

chiede dove volete andare, avrete sempre la vaga sensazione di trovarvi di fronte a un sergente. Questa lingua, comunque, ha una notevole fantasia nel coniare parole che definiscono determinate situazioni, contrariamente al nederlandese, nel quale la spiccata musicalità del popolo si limita a favorire la creazione di graziose onomatopee, come plimplemplotteln (il gioco che consiste nel tirare sassi piatti su uno stagno, o più probabilmente un canale, per farli rimbalzare). La fantasia giapponese invece è in grado di riconoscere e classificare, con parole corte e immediate sensazioni, stati d’animo e situazioni di ogni genere, come spiga l’esistenza di parole come aware (apprezzare qualcosa di effimero), yoin (il ricordo di qualcosa di bello che continua anche dopo che lo stimolo è svanito, yugen (consapevolezza dell’universo indescrivibile a parole) e ichigo-ichi (letteralmente «a uno a uno», significa essere in grado di far tesoro di ogni momento apprezzandolo pienamente senza far caso al fatto che sia bello o brutto). Inoltre, da fumettari incalliti, i giapponesi hanno le onomatopee non solo per i rumori, ma anche per le sensazioni (harahara è il «rumorino» di chi viene colto sul fatto mentre fa qualcosa di sbagliato). Non tutti i vocaboli però sono così poetici: ce ne sono parecchi ispirati, più che da sensazioni, da situazioni che si immaginano ripetersi frequentemente, e dei quali si sentiva evidentemente il bisogno, come karoshi (morte da superlavoro), kakekomijosha (l’affrettarsi per montare sulla metropolitana mentre le porte si stanno chiudendo), bakkushan (una donna che sembra bella vista da dietro, ma che quando si volta sembra Gattuso), per finire con l’inquietante truji-giri (provare la spada nuova su un passante). Tuttavia, la fantasia che i batavi non usano nelle parole di uso comune viene riversata in massa nei cognomi; l’uso di nomi di famiglia, infatti, in Olanda è piuttosto recente, e fino alla fine del Settecento le persone erano individuate da patronimici (Jan van Peeter; Jan figlio di Peeter), da toponimi (Jan van Dijk; Jan della diga, uno dei cognomi più comuni), o da entrambi (Rembrandt Harmenszoon van Rijn: Rembrandt figlio di Harmen che vive vicino al Reno). La registrazione obbligatoria del cognome è stata introdotta solo nel 1811 per volontà dell’empereur Napoleone Bonaparte, giustamente preoccupato che il sistema patronimico in voga fino a quel momento potesse creare confusione fra i sudditi, o meglio, fra i contribuenti. A questa costrizione, gli olandesi risposero con insolente allegria, assegnandosi spesso nomi veramente improponibili, come Nachtgebooren (Nato nudo), Gehilvoet (Piede selvaggio), Slettenhaar (Capelli di troia) o Klootzak (Borsa dei coglioni). Anche in Giappone l’imposizione del cognome è avvenuta in pieno Ottocento e aveva ragioni puramente pratiche: fino a tutto il diciannovesimo secolo era usuale, per un giapponese, avere più nomi da usare nelle differenti occasioni (tra amici, in veste ufficiale, come poeta, quando viene la suocera, ecc.), e c’era addirittura l’usanza di chiamare una persona con due nomi diversi a seconda che fosse viva o

Page 8: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

morta. Un po’ come da noi, quando si vedono i manifesti a morto di un compaesano con tanto di soprannome scritto sotto, e si scopre che il vero nome di Dieci alle Due (così detto per i piedi a papera) era in realtà Agenore. I cognomi giapponesi, in confronto, sono ben più poetici di quelli olandesi, e sovente ricordano elementi della natura, come Yamamoto (pendici del vulcano), o Inoue (ai bordi del pozzo); ma, anche qui, a fantasia non si scherza. I diversi nomi di famiglia sono più di centomila, il che fa impressione se paragonati ai duecentocinquanta in uso in Corea o ai quattrocento cinesi. Questo gran numero viene dal fatto che, come si diceva, i cognomi in Giappone sono stati introdotti solo nel corso della restaurazione Meji, ovvero intorno al 1870, e fino a quel momento la plebe non aveva un cognome: molti, obbligati, se ne sceglievano uno a caso, oppure se lo facevano scegliere da un monaco di fiducia, oppure combinavano due ideogrammi a caso. Purtroppo, dato che i kanji non hanno pronuncia e significato univoco, capita piuttosto spesso che il nome della persona, specie se poco comune, venga letto male e generi pesanti malintesi. Un episodio piuttosto noto è quello che riguarda il matematico Yutaka Taniyama, l’autore della congettura di Taniyama-Shimura, che per chi non lo sapesse (la maggioranza, credo) è il punto nodale della dimostrazione del teorema di Fermat elaborato da Andrei Wiles nel 1995. il buon Taniyama scelse di cambiare il proprio nome Yutaka perché la maggior parte della gente, sbagliando, lo leggeva così: lui, in realtà, di nome si chiamava Toyo. Che fosse l’originale o quello mutato, l’importante era scegliere: oggi, infatti, le uniche persone che vengono individuate dal solo nome di battesimo, e non possiedono cognome, sono i membri della famiglia imperiale. L’imperatore Ahikito è Akihito, e tanto basta. Abbiamo accennato al fatto che i giapponesi, appena usciti dal lavoro, si danno all’alcol. Entrambi i popoli di cui stiamo parlando, infatti, pur avendo diverse concezioni religiose, ritengono opportuno adorare il dio Bacco in modo coscienzioso, assiduo e soprattutto sincero. Entrambi, poi, hanno adottato da tempo la birra come principale ingrediente del rito. Tuttavia, anche in questo caso, le innate differenze tra i due popoli si manifestano; non nei momenti in cui è lecito bere (Mai durante la giornata lavorativa, spesso quando il lavoro è finito, e nei weekend si esce di casa con l’imbuto), ma per le conseguenze sociali che può comportare. In Olanda si può bere sul luogo di lavoro, a patto che non si lavori: i simpatici compatrioti di Van Basten amano sottolineare ogni evento degno di nota con improvvisati festini (borrel), nei quali si trinca liberamente finché ce n’è. Il sottoscritto conserva ancora una vivida memoria delle gare di rutti promosse dal circolo studentesco Bernoulli (alquanto appropriatamente prendeva il nome dal padre dell’aerodinamica), che animavano il dipartimento di Ingegneria chimica dell’università di Groningen in seguito alle lauree per tutto il pomeriggio, dalle quattro in poi.

Page 9: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

In Giappone, invece, non appena usciti dall’ufficio ci si fionda in uno dei bar da impiegati (tachinomiya) e si incomincia a tracannare parlando del più (lavoro) e del meno (tempo libero): questo, sempre che non si faccia parte di quella sfortunata percentuale di persone, circa il quaranta per cento, che non è in grado di metabolizzare l’alcol a causa della mancanza di un particolare enzima, l’alcoldeidrogenasi. Va detto che il restante sessanta per cento accetta volentieri la responsabilità di tenere alto il fatturato delle fabbriche nazionali di birra, e con impegno e dedizione tutti nipponici si fa carico più che onorevolmente della situazione. Di fronte a una bella birrozza (nama biiru, onegai shimasu), le cravatte si allentano, i freni inibitori scompaiono, le convenzioni sociali vengono ridimensionate e il diurno e rispettoso riferimento «l’onorevole signor caporeparto Tanaka» lascia il posto a un serale e genuino «quello stronzo del caporeparto». E se uno si ubriaca (o, meglio, quando uno si ubriaca), cosa succede? L’amore giapponese per la logica non viene meno neppure in questo caso. Quando uno è ubriaco, dice la logica, non è totalmente responsabile delle sue azioni: per questo, se siete ubriachi, potete fare impunemente e senza incorrere in disapprovazione cose che, se fatte da sobri, vi costerebbero la reputazione, il posto e talvolta la libertà. Non potete assolutamente mettervi a pisciare contro un muro per strada, o addormentarvi sul marciapiede se siete sobri, ad esempio; ma se siete ubriachi, la cosa cambia. Attenzione, però: una cosa che non potete fare assolutamente da ubriachi, da qualche anno a questa parte, è guidare. In passato, ci sono stati molti incidenti fatali causati da guidatori ubriachi, tanto che a un certo punto il governo ha deciso per un vero e proprio giro di vite. In Giappone è pertanto considerato reato non solo guidare ubriachi, ma anche farsi trovare a bordo di un’auto condotta da un guidatore alticcio. In quel momento, per la legge, siete responsabili sia che guidiate con qualche birra in corpo, sia che permettiate a qualcun altro di farlo in vostra presenza. Poiché il bere è spesso accompagnato al cibo, non si può ignorare la buona tavola dei due paesi. E qui, per un italiano cresciuto a varietà di sapori mediterranei, la differenza si fa eclatante e – se uno si trova in Olanda – dolorosa. Perché se fino a adesso, diciamoci la verità, nel confronto i tulipani prevalgono sui crisantemi, qui il discorso cambia di brutto. Perché la cucina giapponese, per il turista che ha il coraggio di lanciarsi, può essere un’esperienza straordinaria: a partire dalle tempura (deliziosi ed eterei fritti di pesce e verdure, che devono il loro nome ai marinai portoghesi e all’obbligo di mangiare pesce nel tempo, o tempora, di quaresima), per continuare con gli yakitori (spiedini di carne e verdure che si comprano in apposite microtaverne a gestione familiare; se il padrone è sobrio non entrate, è un postaccio), o con gli spiedini di riso alla salsa di arachidi (non ricordo come si chiamino e ho fatto il furbo fino a ora con i nomi, non mi sembra il caso di insistere), e altro ancora. Tutto questo tralasciando l’alta cucina di Kyoro e zone limitrofe, o kaiseki-ryoory, o i piatti a base di pesce crudo come il sushi o il sashimi che o piacciono o non piacciono. Certo, essendo una cucina lontana, a base di materie prime molto diverse dalle nostre, a volte le proprietà organolettiche di queste ultime possono risultare difficili

Page 10: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

da gestire: dopo aver assaggiato i famosi dolci di castagne di Obuse, e aver concluso che devono essere fatti con i gusci, oppure dopo aver assaggiato per sbaglio a colazione una scodella di fagioli di soia fermentati scambiandoli, come ha fatto mia moglie, per arachidi al miele e guadagnandosi una bella crisi di vomito sulla terrazza panoramica dell’albergo, potreste decidere che certi gusti non fanno per voi, e non vi si potrebbe dare torto. D’altra parte, chi di voi ha già viaggiato o soggiornato in Olanda ha probabilmente un ricordo legato al cibo di struggente nostalgia: quello del momento in cui ha rimesso piede sul suolo italiano ed è andato a farsi una pizza. Perché in Olanda ci sono due alternative: si può mangiare male, oppure si può digiunare. Il motivo per cui questo accade è in realtà molteplice. Da una parte, ci sono le materie prime: se uno va al supermercato ha a disposizione, ad esempio, una vastissima varietà di acqua. C’è acqua a forma di pomodori, acqua a forma di zucchine, acqua a forma di cipolla, e via dicendo. Però può consolarsi con una vastissima scelta di zuppe pronte, patatine, salatini, crocchette prefritte (poi vanno rifritte) e via dicendo; conservo ancora gelosamente l’involucro di un pacchetto di noccioline pastellate e fritte, per chiunque non mi credesse. L’altro motivo va ricercato nelle limitate tecniche di cottura note ai cuochi olandesi, che invariabilmente tramano una zuppa o una frittura, qualsiasi sia la materia prima di partenza. Che, solitamente, è una patata. In molti ristoranti, ad esempio, le patatine fritte vi vengono servite incluse nel coperto, al posto del pane, mentre vi apprestate a degustare una bella stampot (purè di patate con crauti, indivia e salsicce affumicate). Insomma, quando sono arrivato in Olanda la prima volta sono rimasto stupito nello scoprire che gli olandesi pranzano abitualmente a mezzogiorno e cenano alle cinque e mezzo del pomeriggio. Dopo poco tempo ho concluso che fanno così per levarsi il pensiero il prima possibile. Oltre ai pasti, ovviamente, c’è anche la possibilità di mangiare fuori pasto, se proprio ci tenete. Qui però il discorso si fa più interessante, perché i Paesi Brevilinei offrono alcuni snack da strada notevoli, o se non altro curiosi. Il più caratteristico è l’aringa cruda (hollandse nieuwe), coperta di pezzettini di cipolla, da ingurgitare in un solo boccone a uno dei tanti banchetti che punteggiano i mercatini del sabato. Il più soddisfacente, per me, sono le patatine fritte a forma di grossi bastoncelli (vlaamse frites) che si comprano dagli ambulanti. Il più inquietante è rappresentato senza dubbio dalla eierball, che si può degustare dopo averla presa da uno dei tanti distributori automatici disseminati in ogni città: si tratta di un uovo sodo ricoperto da una pastella a base di rafano e (come dubitarne?) fritto. Mangiare un eierball mi ha aperto nuovi orizzonti nel panorama del disgustoso. Per finire, bisogna dare un’occhiata alle bevande; molti olandesi a pranzo pasteggiano a latteo, i più impavidi a latticello (karnemelk), e amano concludere ogni pasto con un bel caffè. È noto che gli olandesi siano i maggiori consumatori di caffè del mondo, e visto quello che mangiano la cosa non può stupire. Il loro caffè è molto lungo e viene servito in una tazza grande, con il latte a parte. Ciò nonostante, non è una bevanda da disprezzare. Se non altro, perché significa che il pasto è finito.

Page 11: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

Come fisiologia vuole, dopo aver mangiato e bevuto prima o poi si passa da un luogo ben preciso, che l’Artusi definiva luogo comodo, che gli elegantoni sono soliti chiamare toilette, e che qualche sporadico amante delle parole desuete si azzarda a nominare ritirata. Cioè, il cesso. Anche qui, le differenze sono eclatanti. E anche qui, l’Oriente vince a mani basse. Entrare in un gabinetto giapponese è un’esperienza mistica. In primo luogo, se è il gabinetto di casa vostra, o della vostra camera d’albergo, la prima cosa che dovete fare è indossare le speciali ciabatte da toilette o, se già avete addosso delle altre ciabatte, cambiarle: il luogo nel quale state per entrare, infatti, è pulitissimo, igienicamente paragonabile a una nostra sala operatoria. La seconda cosa che probabilmente farete è restare sorpresi nel vedervi di fronte, al posto della tazza del cesso, qualcosa di simile all’astronave Enterprise. La tazza meccatronica, orgoglio degli ingegneri del Sol Levante, è un dispositivo che unisce l’idraulica del comune cesso all’incredibile competenza elettronica del paese; accanto alla seduta, infatti, troverete un bracciolo simile a un cruscotto, pieno di tastini a pressione decorati da icone che vi spiegano, con esilarante efficacia, che cosa succederà premendo quel dato tasto. C’è la funzione «bidè», con scelta della direzione del getto (o dei getti) d’acqua: acqua, sia ben chiaro, a temperatura impostata dall’utente con precisione di mezzo grado centigrado grazie a un termostato elettronico (così come, sia detto, è termostatata la ciambella: quando vi sedete, le vostre chiappe incontrano una gradevole e preselezionata temperatura di 37°, che potete comunque variare a vostro piacimento). C’è la funzione «sciacquone semplice», quella «sciacquone violento» e quella «maelstrom», accompagnate da disegni che a volte indicano la quantità d’acqua che verrà giù, altre volte invece le situazioni in seguito alle quali sono richieste: e qui, vi lascio solo immaginare le risate che si possono fare di fronte al disegno di una piccola ed elegante merda stilizzata sul pulsante di un cruscotto. C’è, talvolta, la funzione «analisi», con relativo display: alcuni di questi cessi, infatti, sono in gradi di dirvi in tempo reale se avete qualche problema metabolico o altro, grazie a un’analisi spettroscopica delle urine al volo. Casomai uno ne avesse bisogno… Le analisi, molto spesso, vi verrò voglia di farle anche in Olanda: ma probabilmente tale impulso vi coglierà dopo essere stati al cesso, non durante. Il luogo, tipicamente, ha una superficie di mezzo metro quadro, nella quale i solerti architetti olandesi fanno entrare tutto quanto serve. Questo «tutto quanto serve» non contempla mai la finestra, e raramente un aspiratore. Non mi credete? Lo capisco: non ci credevo nemmeno io. Le soluzioni sono spesso originali, ma non troppo pratiche: nella mia casa di Groningen la tazza era posizionata di fronte al lavandino, e vi andava a finire sotto, per cui ero costretto a lavarmi i denti seduto. Ma questo non è certo comune: di fronte alla tazza, di solito, l’olandese original posiziona un calendario, sul quale sono segnati i compleanni di tutti i suoi amici. Dimenticarsi della ricorrenza, in Olanda, è veramente offensivo, per cui il nostro pensa bene di porre questo calendario in un

Page 12: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

luogo dove, comunque la si guardi, è veramente difficile dimenticarsi di andare. L’arredamento è completato solitamente da una pianta, messa lì presumibilmente per pura cattiveria, e da uno sciacquone il più possibile originale. Spesso si tira l’acqua con una semplice cordicella, a volte con delle maniglie messe in posti assurdi, e una volta sono stato costretto a uscire dal bagno e chiedere al mio amico Nicola dove minchia fosse lo sciacquone, perché non lo trovavo. Al che lui, sorridendo, è entrato in bagno, ha afferrato il tubo di plastica che collegava la cassetta alla tazza e ha spinto in su. Splash. Questo maniacale rispetto delle norme igieniche (in Giappone) e il loro totale disprezzo (in Olanda) genera un’ulteriore differenza, che riguarda il mio animale preferito: il gatto. I giapponesi amano i gatti, tanto che uno dei portafortuna più comuni nel Sol Levante è un micetto sorridente, seduto e con la zampa destra alzata (Maneki-neko), che è ritenuto foriero di soldi: ma, in giro, di gatti in pelliccetta e ossa se ne incontrano pochi. I pochi che si trovano stanno in strada e sono solitamente magri e macilenti, pur se in buona salute: si vede che, pur essendo un popolo che ama il pesce, i nipponici non se riservano a sufficienza per nutrire i loro mici. Comunque, sia come sia, in strada. Nei locali pubblici, in Giappone, vedere un gatto è impossibile. Come avrete ormai capito, quindi, in Olanda è normale. Ad Amsterdam quasi ogni bar o ristorante che si rispetti ha un gatto; un milione socievole, affettuoso e cordiale, che vi si piazza tranquillamente in grembo o che passeggia indisturbato fra i tavoli, spesso anche sui tavoli. Detto felino non è un ospite occasionale, ma fa parte del personale del bar in senso stretto. Tanto per farmi capire, una volta alla porta di un bar nel Gratchengordel ho visto un cartello che diceva testualmente: «Per favore, chiudete la porta quando entrate: gatto nuovo». Solitamente, l’animaletto in questione stazza sui dieci-dodici chili e più: come nel Bar Sport di Stefano Benni, il prestigio del locale infatti è spesso direttamente proporzionale al peso del felino. Poco prima della mia definitiva partenza da Amsterdam sono entrato in un ristorante tipico ed evidentemente molto prestigioso, nel quartiere del Jordan, e ho chiesto se c’era posto. Mi hanno risposto che c’era da aspettare, e che magari potevo intanto sedermi al bar. Vado e trovo che gli unici due sgabelli non occupati da umani erano presidiati da un gattone tigrato grosso come una mortadella. «Posso sedermi lì?» ho chiesto. «Certo,» mi ha risposto il barista «se ce la fai a spostarlo. Io non ci riesco.» Se non siete ancora stufi di differenza, ce n’è ancora una fondamentale, e riguarda il denaro: infatti, se i giapponesi e i batavi rispettano l’alcon nello stesso modo, lo stesso non si può dire del denaro. L’olandese tipo nei confronti del denaro (geld) è di solito una persona attenta, giudiziosa e che guarda alla sostanza; in una parola, è tirchio. Tale tirchieria si manifesta nei modi più impensati, tanto che anche qui è necessario ricorrere a degli esempi:

Page 13: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

1) A volte, quando venivo invitato a cena dai miei amici olandesi, questi simpatici svergognati compravano le materie prime e mi chiedevano espressamente di cucinare (io non sono un grande cuoco, diciamo che me la cavo, ma sempre meglio che mescolare a caso…). Tra le varie suppellettili di cucina che trovavo, non mancava mai una sorta di bastoncino di plastica, simile a quello con cui si puliscono i flauti, con in cima una piccola mezzaluna anch’essa di plastica. Chiesto lumi su cosa fosse, mi è stato risposto che era un flessenlikker, ovvero un attrezzo per pulire perfettamente le bottiglie di salsa, maionese, ecc. senza sprecare nemmeno quelle poche gocce che di solito rimangono attaccate alla bottiglia. In questo modo, su un vasetto di maionese che costa un euro e mezzo si possono risparmiare (secondo calcolo grossolano) circa quattro centesimi di salsa. Per cui, il conto è presto fatto: dato che l’oggetto costa circa due euro, passato il tempo sufficiente a comprare una cinquantina di vasetti di maionese il costo iniziale verrà completamente ammortato, e l’utensile comincerà a lavorare in attivo. Non so voi; io, alla fine del tempo necessario a consumare cinquanta vasetti di maionese, probabilmente avrei perso il flessenlikker.

2) Alcune vecchie case di Amsterdam hanno, al posto del campanello, un complicato sistema di cordicelle legate a piccole campanelle (di metallo) che risuonano in tutta la casa. Tutto questo fa molto fattoria di Nonna Papera, ma soprattutto fa risparmiare l’elettricità del campanello.

3) Quando lavano i piatti, gli olandesi per prima cosa forzano dentro la buca del lavandino un mastello di plastica. Poi, riempitolo d’acqua, vi immergono il piatto, lo insaponano e lo risciacquano nella stessa tinozza che, già al terzo passaggio, non è più acqua ma saponata. In questo modo i piatti rimangono velati da una patina di sapone permanente (che può aggiungere un tocco, non necessariamente in peggio, a una tipica pietanza made in Holland) – ma, come mi è stato spiegato, la cosa importante è che si risparmiano almeno dieci litri d’acqua al giorno. Ora, un ragionamento del genere mi sembrerebbe logico e ammirevole in Tanzania, o in Kenya, dove l’acqua scarseggia. Ma in Olanda…

Per i prodi discendenti del Manovratori della Lancia Celeste, invece, comprare

è un lavoro. D’altronde, la scelta di generi commerciali è sterminata. Il Giappone è il paradiso del consumismo, a qualsiasi livello e di qualsiasi genere: dai grandi magazzini con i loro sterminati reparti di generi alimentari, che sono autentiche boutique del gusto, a teranegozi di abbigliamento, dai mercatini rionali organizzatissimi e ordinaterrimi che vendono spezie di qualsiasi genre (solitamente si può assaggiare tutto), al rutilante casino di Akihabara, la città elettronica, dove centinaia di piccole bancarelle vendono oggetti elettronici di ogni tipo, dal computer portatile fino ai transistor e alle doppie prese. Se mai andrete in Giappone, portare con voi una valigia vuota per gli acquisti: rimpiangerete sempre di averla presa troppo piccola.

Page 14: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

L’ultimo aspetto degno di nota (o, meglio, che mi viene in mente) riguarda l’importanza che i due diversi popoli attribuiscono all’aspetto esteriore. Entrambi i popoli hanno un gusto estetico notevole, ma lo applicano in modo settoriale.

Gli olandesi, ad esempio, hanno un gusto dell’architettura e dell’arredamento semplicemente spettacolare; gli appartamenti che si affacciano sui canali hanno enormi finestroni da cui si possono ammirare interni fantastici, stracolmi di oggetti di design e con un’attenzione maniacale al particolare. I negozi di architettura si distinguono dalle case solo per la presenza di una porta aperta da cui entrare.

Tutto ciò stride fastidiosamente col concetto che gli olandesi hanno di abbigliamento. A vedere come va vestito l’olandese medio, un italiano è portato a concludere che ogni condominio abbia i vestiti in comune e che ogni mattina questi vengano sorteggiati tra gli abitanti del palazzo, senza nemmeno considerare aspetti marginali come la taglia o il colore.

I giapponesi invece si vestono in modo impeccabile, a più livelli. Dagli impiegati in completo scuro e cravatta ai giovani alla moda, i ragazzi dagli occhi a mandorla sono un trionfo di sciccheria, e le ragazze in tailleur e borsa di Vuitton sono perfette, tanto da sembrare inumane. A volte, poi, capita di vedere delle persone in costume tradizionale, e non sono mai riuscito a stabilire se passo più tempo a guardarle e ad ammirare la perfezione dell’insieme o a tentare di calcolare quanto cavolo di tempo debba aver impiegato il tizio per agghindarsi e pettinarsi in quel modo; ma, sia come sia, il risultato è sempre degno di ammirazione.

La cura che riservano alla persona, però, solitamente non viene riservata alla casa, che ha molto più del magazzino che della civile abitazione: l’appartamento del cittadino giapponese medio, a causa dell’elevatissima densità di popolazione, è un cubetto di cinquanta metri quadri dove tutto è estraibile, e dove si accampano coperte, oggetti elettronici, vestiti, pentole e altro in modo dantesco.

Dopo questo mucchio di discorsi a sproposito, per premiare la vostra pazienza,

finirò con un’ultima annotazione che apparentemente non c’entra niente ma che mi ha sempre divertito.

Alle Olimpiadi di Tokyo, del 1964, per la prima volta venne ammesso (non come dimostrativa, ma a tutti gli effetti come disciplina olimpica) uno degli sport più rappresentativi del Giappone, il judo. Chi lo conosce, sa che questo sport è un’arte marziale dalle tecniche rigidamente codificate, e che richiede allenamenti maniacali per eccellere. I giapponesi vinsero tutte le medaglie d’oro, tranne la più ambita, quella della categoria open, cioè senza limiti di peso. Ad aggiudicarsela (sconfiggendo in finale il titolatissimo giapponese Aiko Kaminaga, e scatenando una tragedia nazionale) fu un gaijin, uno straniero. La foto che immortala il momento della vittoria è una delle più belle e significative della storia dello sport: mentre Kaminaga è a terra, i compagni di squadra del vincitore si precipitano verso di lui per festeggiare. Ma il neocampione olimpico, consapevole del dramma che stanno vivendo lo sconfitto e tutto il pubblico, li ferma alzando le mani per non farli entrare sul tatami. Festeggeremo dopo: adesso non è il caso.

Page 15: Inediti d'Autore 019 - Marco Malvaldi - Sol Levante e Pioggia Battente

Come avrete già immaginato, lo straniero era europeo: tale Anton Geesink, per la precisione, di professione boscaiolo e di nazionalità olandese.

Grazie ad Anton Roks e Yuichi Masubuchi per avermi presentato alcuni aspetti della loro cultura che ignoravo, e grazie a Ivo Klaver per aver eliminato alcuni errori e per avermi fornito alcuni cognomi esilaranti. Marco Malvaldi è nato a Pisa nel 1974. laureato in Chimica, ha pubblicato per la casa editrice Sellerio la cosiddetta «trilogia del BarLume» La briscola in cinque (2007), Il gioco delle tre carte (2008) e Il re dei giochi (2010). Il suo ultimo libro, sempre per Sellerio, è Odore di chiuso (2011).