INDICE - bibliogalilei.it · Frankl V., Uno psicologo nei Lager p.77 Wiesel E., La notte, Firenze...

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INDICE

Testi introduttivi

Antigiudaismo e antisemitismo: tra paganesimo e cristianesimo

p. 2

Antisemitismo e geopolitica di Marco Baldino

p. 4

L’antisemitismo nazista e la sua escatologia p. 7

Antisemitismo: un excursus p. 13

L’antisemitismo ideologico e politico nell’Europa degli anni Trenta di Liliana Picciotto Fargion

p. 22

Testi dello sterminio

Joseph Goebbels, “Decalogo di Goebbels” p. 40

La strada per Auschwitz. Documenti e interpretazioni sullo sterminio nazista

p.42

Höss, Comandante in Auschwitz p.44

Testi di filosofia

T. W. Adorno, Contro l'antisemitismo p.49

Sigmund Freud, Le ragioni inconsce dell’antisemitismo

p.51

H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica

p.52

Jean-Paul Sartre, L'antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica

p.55

Agamben, Quel che resta p.57 Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico p.61

Testi di storia L. Poliakov, Il mito ariano p.65

G. L. Mosse Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto

p.67

Testi di letteratura

Levi P., Se questo è un uomo p.74

Frankl V., Uno psicologo nei Lager p.77

Wiesel E., La notte, Firenze p.79

Levi P., Se questo è un uomo p.82

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Antigiudaismo e antisemitismo: tra paganesimo e cristianesimo

Anticipando l'esito degli approfondimenti che saranno proposti, possiamo

introduttivamente delineare il rapporto tra paganesimo ed ebraismo in questi

termini:

la distruzione del tempio di Elefantina dimostra che nell’antico Egitto

germinarono i primi barlumi di antigiudaismo,

destinati a crescere in epoca ellenistica fino al pogrom di Alessandria del 38 d.

C.;

da parte di Roma, poi, l’atteggiamento diviso tra attrazione e repulsione

rispecchiava la singolare combinazione di esclusivismo e successo di cui

godeva l’ebraismo,

mentre il timore che la religione giudaica potesse contribuire a distruggere

definitivamente i valori culturali e religiosi della società romana determinava

una diffusa ostilità verso gli ebrei da parte della classe dirigente pagana.

Tale ostilità, tuttavia, non sfociò in un vero e proprio antigiudaismo di stato -

con l'unica eccezione delle misure antiebraiche assunte da Adriano nel 135 - e

si limitò a filtrare nell'attenzione prestata dagli intellettuali agli aspetti

singolari dell'ebraismo, con un atteggiamento di accentuata repulsione per il

particolarismo ebraico.

Con l'avvento del Cristianesimo il quadro della situazione si modificò.

Nell’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’ebreo si riscontra sin dalle

origini un ambiguo intreccio di punti di vista:

quello secondo cui l'ebreo è vittima di un errore originario che contamina la

verità;

quello secondo cui l'ebreo contamina la realtà che lo circonda.

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Dal primo scaturisce l’antigiudaismo di fondo interno alla storia del

cristianesimo, come tentativo di determinare la percezione negativa dell’ebreo

da un punto di vista religioso.

Dal secondo, invece, deriverà, attraverso successive evoluzioni, non del tutto

lineari e scontate, l’antisemitismo, come affermazione della diversità dell'ebreo

in senso fisico-morale [razzista].

Già in Paolo si avverte questa oscillazione:

nella Lettera ai Romani gli Ebrei sono prospettati come parte della società

cristiana, in quanto portatori di un errore che è occasione per l'affermazione

della verità;

nella Lettera ai Galati e nella Lettera ai Corinzi l'ebreo viene invece presentato

come elemento contaminante.

Maggioritaria nella tradizione successiva della Chiesa sarà la linea che sostiene

che l'ebreo deve essere presente nella società cristiana, ma la sua presenza - come

quella dell'errore - deve essere subordinata alla Verità.

Minoritaria risulterà invece l'altra tendenza: l'errore deve essere sradicato dalla

società cristiana; l'ebreo deve essere allontanato dalla comunità che professa la vera

religione.

Fissata come elemento dello stereotipo, la diversità fisico-morale dell'ebreo

sarebbe stata destinata, soprattutto nella cultura del tardo Ottocento e del

primo Novecento, a una accentuazione foriera dei drammi dello sterminio.

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Antisemitismo e geopolitica

di Marco Baldino

Sergio Romano

I falsi Protocolli. Il «complotto ebraico» dalla Russia di Nicola II a oggi,

Corbaccio, Milano 1992.

APRILE 1994

1.

Piccolo capolavoro di produzione del segreto i Protocolli vengono a svolgere in

Occidente, soprattutto nella prima metà del XX secolo, un'importante

funzione rassicurativa: aiutare i popoli europei a dominare la crescente

insicurezza derivante dall'esplosione della modernità, spostandone le cause

dall'interno (lo stesso spirito europeo) all'esterno (l'ebreo).

Questo libro, che segue gli itinerari dei falsi Protocolli chiarendo ad ogni tappa

le linee essenziali dei rapporti internazionali e dei problemi politici interni ai

vari stati investiti di volta in volta dal problema dell'antisemitismo; che segue -

dicevo - gli itinerari dell'antisemitismo dalla Russia di Nicola II alla

Repubblica di Weimar, dall'Inghilterra all'America di Ford, dalla Francia

all'Italia fascista, dalla Germania di Hitler al Medio Oriente prima e dopo il

1948, fino alla dichiarazione delle Nazioni Unite del 10 novembre 1975

quando il sionismo venne definito «una forma di razzismo e di

discriminazione razziale», disegna, sotto la dominante dell'antisemitismo, il

quadro geopolitico generale dell'intero Occidente lungo tutto un secolo.

La cosa più interessante di questo libro non è tanto la storia dei Protocolli, la

dimostrazione della loro falsità o l'analisi di come un falso possa produrre

degli effetti storici cospicui - cose che pure il libro contiene -, ma proprio la

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ricostruzione, della mappa geopolitica dell'Europa del XX secolo utilizzando il

filtro dell'antisemitismo.

2.

A partire dall'affaire Dreyfus (1893-94) gli stati europei, impegnati a definire,

rafforzare, difendere la propria identità territoriale e a ridisegnare la mappa

della propria influenza nel mondo consentirono alle tensioni causate

dall'enorme attrito prodotto dai loro stessi movimenti di de- e ri-

territorializzazione (neocolonialismo, pangermanesimo, panslavismo,

socialismo internazionalista) di scaricarsi lungo certe linee di erosione che

pian piano vennero a configurare la trama di un complotto; trama e

complotto che presero ben presto la forma della trama e del complotto

ebraico, di cui i Protocolli sono ad un tempo rappresentazione e causa.

Il XX secolo si apre su un problema che il XIX aveva portato ad un grado di

estrema acutezza, il problema del nazionalismo. Da Mazzini a Lagarde, da

Renan a Peguy, lo stato-nazione europeo si presenta non come una semplice

concrezione storica, ma come una manifestazione della provvidenza divina

che, di volta in volta, assegna ai vari popoli la loro parte di mondo e la terra

su cui svolgere il proprio destino storico spirituale («Le nazioni - dice Lagarde -

sono i pensieri di Dio»), ovvero: non come una mera concrezione storica ma

come categoria teologico-politica.

Da questa rappresentazione rimane tuttavia escluso il suo inventore: l'ebreo.

In fuga all'Est incalzato dalla violenza dei pogrom antisemiti questi si insedia

all'Ovest prendendo dimora proprio in quelle linee di crisi che solcavano lo

spazio sociale euro-occidentale; qui comincia ad occupare i territori della

mercatura e delle professioni intellettuali, impara le lingue e, con la stessa

disinvoltura, le dismette un dopo l'altra a seconda dei suoi spostamenti, quasi

sempre forzosi. Acquisisce via via tutte le patrie senza tuttavia appropriarsene

realmente nessuna, in quanto, come sosterrà Alfred Rosenberg, egli è

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apatride, apolide: l'ebreo - dice Rosenberg - non è nemmeno un tipo umano

determinato, ma qualcosa capace di assumere pericolosamente tutte le forme.

3.

È nota la conclusione a cui i nazisti portarono questo presupposto. Lo

sterminio può anzi essere considerato la conclusione storico-determinata dei

vari tentativi europei di dare risposta al problema dell'identificazione

mediante l'equazione Stato = Nazione = Patria. Questo tipo di equazione

ammette infatti una sola soluzione: l'inquadramento di ogni essere umano: a)

in un retaggio biologico; b) in un retaggio culturale; c) in un retaggio

giuridico - ogni uomo è cioè tale solo in quanto ha padri, è stanziato su una

terra, obbedisce al proprio signore.

Lo sterminio non è nient'altro che l'estrema conseguenza di quel processo di

identificazione bio-politico-territoriale che ha il suo presupposto nella

formazione dello stato-nazione giacobino dallo spirito rousseauiano.

7

L’antisemitismo nazista e la sua escatologia

da una lezione di David Bankier, Yad Vashem, 7.9.2000

La questione da cui partire concerne il ruolo che gli ebrei rivestono

nell’ideologia nazista. I nazisti infatti hanno perseguitato anche altri gruppi,

ma quella degli ebrei è stata una persecuzione unica, diversa da tutte le altre e

non perché essi erano più numerosi ed hanno avuto più vittime. E’ senza

dubbio immorale fare “classifiche” quando si parla di sterminio: non è

comunque il numero delle vittime che sancisce l’unicità del genocidio

ebraico, ma piuttosto il modo in cui si è sviluppata la persecuzione nazista

degli ebrei, diverso da quello che caratterizza tutte le altre persecuzioni

perpetrate dal nazismo.

Secondo l’ideologia nazista gli ebrei svolgono nella storia dell’umanità un

ruolo nefasto perché agiscono costantemente per distruggere la società gerarchica

che, come sappiamo, è il modello di società a cui il nazismo aspira (e che,

come vedremo, la stessa “natura delle cose” impone): così fu in Egitto, dove

gli ebrei rifiutarono la gerarchia sociale, così nell’impero romano, dove solo

gli ebrei contestarono la struttura gerarchica della società, così è nel XIX

secolo con la dottrina marxista (che i nazisti considerano di “ebraica”), perché

essa addirittura mira a capovolgere la gerarchia sociale.

Per gli ideologi nazisti c’è un legame tra l’ “utopia biblica degli ebrei” e l’

“utopia universalistica” delle moderne ideologie egualitarie. Secondo l’

“utopia biblica”, in origine il male non esiste, poi esso irrompe e da allora

inizia la storia (prima di quell’evento non c’è storia), la quale è caratterizzata

da continui conflitti, primo tra tutti quello tra monoteismo e politeismo. Il

divenire storico, nonostante questa intrinseca conflittualità, è però concepito

in termini teleologici: al suo termine si ritorna infatti alla situazione perfetta

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dell’origine, dopo aver superato i catastrofici eventi che caratterizzano la fine

dei tempi. L’esito finale è la pace eterna e la vittoria del bene sul male.

Questo quadro, con poche variazioni, viene ripreso dal cristianesimo; cambia

tuttavia il conflitto “centrale” della storia, che non è più quello tra

monoteismo e politeismo, ma quello tra cristiani e “infedeli”. Resta l’idea di

un processo storico da intendersi in modo deterministico-teleologico con

conflitto escatologico e finale trionfo del bene. Questo è dunque il “mito”

biblico-ebraico-cristiano. Il medesimo schema, secondo gli ideologi nazisti, si

può riconoscere nella dottrina di Marx: in origine c’è la perfezione,

rappresentata dalla società senza classi, poi irrompe il male, non più

identificato nella “mela” di Adamo (e quindi nella dimensione morale), ma

nel nascere della proprietà privata; esito di questi eventi è la permanente

conflittualità che caratterizza la storia, una conflittualità di classe (non più

“teologica” come quella tra monoteismo e politeismo o quella tra

cristianesimo e paganesimo); alla fine, però, come nella Bibbia, si ritorna alla

perfezione originaria, cioè all’instaurazione della società senza classi,

preceduta dalla rivoluzione sociale (e anche qui l’analogia è “stringente”). E’,

secondo i nazisti, la stessa concezione teleologica del divenire storico che si

ritrova nella Bibbia e nel cristianesimo. Essi vedono in questa analogia Bibbia

- cristianesimo - marxismo la prova del carattere “giudaico” di queste

ideologie. E’ la loro “giudaicità” a spiegarne la somiglianza.

I nazisti, come detto, hanno perseguitato altre minoranze oltre agli ebrei, per

esempio gli omosessuali e gli zingari: negli ebrei però hanno visto dei nemici

non del Reich, ma dell’intera umanità. Essi sono l’elemento distruttore della

società gerarchica in quanto tale, non di quella specifica del Reich tedesco.

L’ebreo di fatto altera l’ “equilibrio naturale”, basato sulla darwiniana legge

del più forte, perché produce ideologie che sempre eccitano lo schiavo contro

il padrone, il sottomesso contro il superiore, il proletario contro il

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proprietario, e via dicendo. E’ dunque il pervertitore dell’ordine naturale,

soprattutto grazie al cristianesimo, che ha diffuso - conformemente alla sua

matrice “giudaica” - ideali di uguaglianza e parità. Ecco perché il nazismo

riserva agli ebrei un vero e proprio “privilegio del male”, che li differenzia da

ogni altro gruppo, compresi quelli che, come gli zingari e gli omosessuali,

vennero perseguitati perché socialmente pericolosi.

Gli ideologi nazisti si pongono in proposito una domanda: l’agire perverso

degli ebrei deriva da mero calcolo o scaturisce automaticamente dalla loro

natura, dal loro stesso essere ebrei? Non si può dirlo con sicurezza. Questo

tuttavia non è poi così rilevante: importante è ciò che fanno, non perché lo

fanno. che si rendano o no conto del loro potere distruttivo devono

assolutamente essere fermati, il che significa, come si vedrà, distrutti. E, va

sottolineato, questa eliminazione è un puro meccanismo naturale, che, se

correttamente analizzato, non comporta né colpa della vittima né

responsabilità dell’uccisore. E’ solo la legge della natura che fa il suo corso.

Nell’ideologia nazista, al contrario di quanto accade nella Bibbia, la vita

umana non è un valore: il valore risiede nella “vita naturale”, nella vita cioè di

tutta la natura nel suo insieme. Ma viene spontaneo chiedersi come mai la

natura abbia prodotto gli ebrei, quale funzione nell’equilibrio della realtà

possa ad essi venire riconosciuta (è chiara qui la forte suggestione delle teorie

darwiniane). Orbene, le società, le nazioni sono per i nazisti “fenomeni

organici”, che nascono, crescono e muoiono come ogni altro animale: gli

ebrei hanno la funzione di provocare la “rinascita” delle società decadenti,

vicine alla fine ma ancora dotate di capacità di reazione. Sono, in sostanza,

come i virus, che provocano la generazione di anticorpi negli organismi in cui

si insediano, a patto che essi abbiano ancora le energie per farlo. Gli ebrei

hanno dunque la funzione di attivare una reazione salutare nelle società che

“attaccano”, del tutto paragonabile alla salutare reazione di un organismo che

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reagisce producendo anticorpi quando è attaccato da un virus. La società

ormai decadente dell’antica Roma non riuscì a mettere in atto questa

“salutare reazione”: la predicazione cristiana (soprattutto paolina) avrebbe

potuto determinare questo meccanismo di risposta, ma ormai non c’erano

abbastanza uomini dotati delle risorse necessarie (come, ad es., Tacito).

L’antisemitismo è quindi nell’ideologia nazista un vero e proprio meccanismo di

difesa dell’organismo sociale e nazionale contro il “virus ebraico”. Se però il

virus viene estirpato, come si regolerà la natura? Creerà verosimilmente “un

altro ebreo” che assolva alla stessa funzione: attaccare le nazioni e stimolare la

loro reazione anticorpale (questo, ovviamente, a patto che ne abbiano la

capacità e la forza, altrimenti il virus determina la loro morte).

I nazisti uccidono alcuni zingari, non tutti, alcuni omosessuali, non tutti (non

le lesbiche, per esempio, alcuni disabili, non tutti (non nell’Europa occupata,

per es.); con gli ebrei è diverso, non vogliono lasciarne vivo nemmeno uno, è

una vera e propria ossessione. Ovunque arrivino, i nazisti cercano di

eliminare tutti gli ebrei, anche dove solo pochissimi, anche quando la guerra

imporrebbe loro altre priorità. L’eliminazione degli ebrei resta per i nazisti

l’urgenza fondamentale, il compito primario da eseguire: questo può essere

compreso solo se si analizza attentamente il ruolo degli ebrei nell’ideologia

nazista.

Viene spontaneo porti una domanda: perché i nazisti non eliminano i

cristiani? Certamente c’è una questione di numeri: i cristiani sono centinaia

di milioni, molti più degli ebrei. Inoltre essi, diversamente dagli ebrei,

svolgono una funzione positiva in chiave anticomunista. Ma la differenza

essenziale risiede proprio nella natura degli uni e degli altri: l’ebraismo è una

religione portata da uno specifico gruppo razziale; eliminando questo gruppo

si elimina la stessa possibilità del giudaismo come virus (di volta in volta

palesatosi come cristianesimo, comunismo o in qualche altra forma di

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egualitarismo). L’ebreo produce “per natura” questa cancrena, il cristiano no;

l’ebreo è la “causa”, il cristiano solo l’ “effetto”. Dopo la guerra, nei piani

nazisti, il cristianesimo verrà sicuramente eliminato, ma a tal fine basterà

“rieducare” i cristiani. Con gli ebrei questo è impossibile: bisogna

assolutamente eliminarli, perché “per natura” producono ideologie egualitarie

come il cristianesimo e il comunismo. Cristiani e comunisti possono invece

essere, almeno in parte, “recuperati”. Prendiamo, ad esempio, il caso dei

comunisti: anche loro sono stati deportati nei Lager, ma non per essere

sterminati, bensì per tentare di “rieducarli”. Con loro questa speranza esiste,

con gli ebrei no, perché loro il “male” lo portano in se stessi. Un virus non

può essere vaccinato! L’unico modo di sconfiggerlo è eliminarlo. Ecco perché

l’eliminazione metodica e di massa ha riguardato solo loro e non i comunisti

o i cristiani. Anche i polacchi, che pure appartengono a un gruppi

razzialmente inferiore, sono in qualche modo recuperabili: li si può a poco a

poco “germanizzare”, tranne ovviamente i più recalcitranti, cioè le élites

politiche e religiose.

Da quanto precede si comprende che, nell’ideologia nazista, il giudaismo è un

terribile “camaleonte”, che assume nella storia aspetti diversi: cristianesimo,

democrazia, marxismo, egualitarismi d’ogni sorta. Eliminando tutti gli ebrei si

elimina il cancro di cui sono naturalmente portatori, il cancro della storia che

si oppone alla realizzazione della società gerarchica. E, va precisato, la società

gerarchica è la società “naturale”, quella conforme alla struttura e alla logica

della natura; il nazismo dunque si propone soltanto di realizzare quello che

già è “scritto” nel codice essenziale della realtà.

Vale la pena, a questo punto, di dire qualcosa sull’equazione nazismo-

comunismo che viene spesso proposta, specie negli ultimi tempi. La storia

ricerca la specificità dei fenomeni, non le omologazioni (più o meno)

sommarie. Nella storia perché si sono compiuti eccidi? Perché si voleva

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qualcosa che apparteneva a qualcun altro, perché si desiderava qualcosa di

utile, di giovevole sul piano economico, pratico o di altra natura. C’è, in

qualche modo, una sorta di “logica” dietro gli eventi anche più tragici della

storia. Nel caso del nazismo, invece, siamo di fronte ad un fenomeno che

sfugge a qualsiasi spiegazione logico-pratica. Perché, per esempio, uccidere gli

zingari? Non sono né ricchi, né potenti, né importanti; non hanno una terra

che possa essere loro sottratta. Per il “credente” nazista non ci sono (e non

occorrono!) spiegazioni di tipo razionale: ci sono solo motivazioni di tipo

ideologico. Noi cerchiamo la spiegazione razionale delle cose e dei nostri

comportamenti, i “credenti” della fede nazista no.

trascrizione di Fabio Maria Pace

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Antisemitismo: un excursus

L’antisemitismo moderno, diversamente da quello precedente, non era

fondato sulla critica delle pratiche religiose degli ebrei, bensì sulla teoria che

gli ebrei erano una razza inferiore. I teorici dell’antisemitismo prendevano a

pretesto l’esilio forzato degli ebrei per dimostrare “scientificamente” che la

“mancanza di radici” di questo popolo era un fatto genetico. Un ebreo, uomo

o donna, era un ebreo non perché praticava una determinata religione, bensì

perché si portava questa caratteristica dentro il sangue. Benché vi siano

testimonianze di persecuzioni contro gli ebrei fondate sull’antisemitismo non

di religione bensì laico anche in tempi più antichi, soltanto con l’Illuminismo

questo tipo di antisemitismo divenne il più frequente.

I fondamenti teorici dell’antisemitismo moderno

L’idea filosofica centrale della dottrina illuministica vedeva la ragione umana

e il pensiero razionale come unici strumenti atti a risolvere i problemi e a

dare basi etiche all’esistenza. L’Illuminismo affondava le proprie radici nella

rivoluzione scientifica avvenuta alla fine del Seicento. Scienziati e filosofi

quali Newton, Keplero, Galileo, Bacon e Cartesio avanzarono teorie

sull’universo; le loro scoperte andavano a contraddire e sfidare direttamente il

potere della Chiesa. Molti scienziati e filosofi dell’Illuminismo condannarono il

sistema delle monarchie teocratiche europee, le superstizioni e anche gli ebrei per le

loro credenze mistiche e religiose e per i loro costumi che respingevano ogni

forma di integrazione; additarono persino gli ebrei come capri espiatori in

questioni di importanza nazionale.

Tre sono gli insegnamenti fondamentali dell’Illuminismo settecentesco:

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1. l’universo nella sua interezza è completamente intelligibile, e le forze che

presiedono al suo funzionamento sono naturali e non soprannaturali;

2. il “metodo scientifico” può dare la risposta ai quesiti fondamentali;

3. si può “insegnare” alla razza umana a migliorarsi, e perfino a superare le

limitazioni dovute alla propria nascita e alla propria classe sociale.

Durante l’Illuminismo videro la luce i primi nazionalismi. Gruppi di persone

che condividevano una cultura, una lingua, una storia, una razza e un sistema

di valori si unirono insieme in entità politiche, economiche e sociali con

confini geografici ben determinati: oggi queste entità vengono chiamate

nazioni. Una nazione era un gruppo di persone unite politicamente e

militarmente sotto un’unica bandiera e con un unico capo, in modo da non

essere conquistata dallo straniero. Quel gruppo di persone aveva in comune

un senso di lealtà verso la propria nazione.

Gli ebrei, in quanto estranei che non condividevano con gli altri lingua,

cultura, religione e valori, venivano considerati dagli estremisti come una

minaccia al movimento nazionalista. Per questo divennero bersaglio di

persecuzioni.

L’antisemitismo in Francia

La Francia fu il cuore del movimento illuminista, e i philosophes volevano

cambiare la società applicando il pensiero razionale ai problemi sociali e

politici del loro tempo. Figura centrale del movimento fu Voltaire, accanto a

Diderot, Montesquieu e Condorcet. La condanna alle pratiche repressive del

cristianesimo e dell’ Inquisizione era generale. In teoria, tutti gli illuministi erano

favorevoli alla tolleranza nei confronti degli ebrei e denunciavano le persecuzioni, ma

Voltaire era contrario al “particolarismo”, alla testardaggine, all’ostinazione e

all’avarizia degli ebrei. I nemici degli ebrei citavano Voltaire per dimostrare che

non solo la loro religione, ma anche le loro caratteristiche naturali erano

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cattive, che erano di vedute ristrette e intolleranti, come si poteva evincere

dalla Bibbia.

Durante gli anni della rivoluzione francese e dell’epoca napoleonica, fra il

1780 e il 1814, questi argomenti furono discussi negli appassionati dibattiti

intorno all’opportunità o meno di considerare gli ebrei come cittadini a tutti gli effetti.

Forse che gli ebrei avrebbero costituito uno “Stato dentro lo Stato” (secondo

l’espressione coniata dal filosofo tedesco Fichte nel 1793) ? Se si dava loro il

diritto di possedere la terra, di affiliarsi alle corporazioni, di dedicarsi a varie

attività di lavoro al di fuori dei ghetti, era giusto che venissero considerati

cittadini ?

In Francia, la rivoluzione era considerata, da parte di alcuni cattolici e

militaristi antirepubblicani, come l’incarnazione stessa del male, voluta da

misteriose forze antifrancesi e anticristiane. La Alliance Israelite Universelle, lega

internazionale fondata per proteggere gli ebrei, aveva la sua sede centrale a

Parigi e fu accusata di essere il quartier generale di una cospirazione

internazionale contro la Francia.

Nel 1886, il trattato antisemita di Edouard Drumont, La France Juive, ebbe in

un solo anno 114 edizioni e fece da battistrada per la propaganda antisemita

su larga scala. Anche Drumont faceva il confronto tra l’ebreo avido e

commerciante e l’eroico e leale ariano.

Nel 1894 il capitano Alfred Dreyfus, ufficiale francese ed ebreo, venne

arrestato con l’accusa di aver venduto segreti di stato alla Germania. Dreyfus

fu condannato in base a prove falsificate e venne deportato. Dopo il processo,

emersero le prove della sua innocenza e la sua condanna finì per essere

revocata. Nondimeno, l’affare Dreyfus accese d’odio contro gli ebrei molti

conservatori e reazionari francesi. Il caso divise politicamente il paese, e la

violenza antisemita ebbe modo di uscire allo scoperto.

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L’ironia del destino volle che proprio l’antisemitismo emerso in seguito

all’affare Dreyfus motivasse il giornalista austriaco Theodor Herzl a

organizzare il movimento sionista. Questo movimento culminò nella

fondazione della patria degli ebrei, lo Stato di Israele, nel 1948.

L’antisemitismo in Russia

In Russia, la maggior parte degli ebrei era confinata entro il Recinto di

Residenza: questo territorio era stato stabilito dal governo russo nel 1792 e

consisteva di alcune regioni della Polonia russa, della Bielorussia, della

Crimea, della Bessarabia e dell’Ucraina. Vi erano poi altre restrizioni, si

praticavano frequentemente i pogrom, e aveva inoltre grande credito il mito di

una cospirazione ebraica, che diede occasione ad alcuni russi emigrati in Francia

di fabbricare un falso, intitolato “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”.

Il libello venne confezionato in Francia durante l’affare Dreyfus, con l’aiuto

della polizia segreta russa, e documentava una colossale cospirazione ebraica

internazionale per prendere il potere in tutto il globo al fine di dare inizio a

guerre e depressioni economiche.

I “Protocolli” figuravano essere le bozze di parte del convegno internazionale

dei dirigenti ebrei del 1897, indetto da Theodor Herzl, e noto col nome di

Primo congresso sionista mondiale. Questo falso era mal confezionato e

totalmente implausibile dall’inizio alla fine. Ma per quanto fossero grotteschi,

i “Protocolli” furono dati per veri da molte persone del popolo che vedevano

negli ebrei il capro espiatorio ideale. Il documento fu tradotto in almeno sette

lingue.

Bisognerà arrivare al 1921 perché un giornalista del Times di Londra scopra

che la vicenda descritta nei “Protocolli” altro non è che un plagio di due

oscure opere di narrativa, una satira di Napoleone scritta da un francese,

Maurice Joly, e un racconto di Herman Goedsche. Ma il danno era fatto. I

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nazisti motivarono le loro persecuzioni con i “Protocolli”, e la diffusione del

documento in tutto il mondo continuò ad alimentare le fiamme

dell’antisemitismo ancora anni dopo che la falsificazione era stata

smascherata. A tutt’oggi, là dove agiscono individui o gruppi che odiano gli

ebrei, capita di assistere alla diffusione di copie dei popolarissimi “Protocolli”.

Il Romanticismo e il nazionalismo in Germania

Per reazione al razionalismo del XVIII secolo, il Romanticismo esaltava il

sentimento e le caratteristiche specifiche della storia di un popolo. In Germania,

queste idee erano propugnate da Johann Gottfried von Herder, August

Wilhelm von Schlegel, Johann Gottlieb Fichte e Friedrich Melchior Grimm.

Nel 1808, Fichte tenne una serie di Discorsi alla nazione tedesca in cui incitava i

popoli di lingua tedesca a resistere all’invasione dei francesi guidati da

Napoleone e parlava di “superiorità dei tedeschi”. Nello stesso periodo, Ernst

Arndt e Friedrich Jahn diffondevano ed esaltavano l’idea di un Volk (popolo)

mistico, del quale gli ebrei non potevano far parte.

In seguito al Congresso di Vienna del 1815, le speranze tedesche di sovranità

nazionale furono rese vane dal principe di Metternich. Ebbe inizio un

periodo di reazione e in molte città della Germania vi furono violente

persecuzioni di ebrei.

L’antisemitismo razziale e il mito ariano

I teorici ottocenteschi del razzismo furono i primi a usare il termine “ariano”

(che è proprio della linguistica e sinonimo di “indoeuropeo”) per parlare di

razza. Anche la parola “semita” è di origine linguistica.

Il più notevole fra i primi teorici del razzismo fu Arthur de Gobineau (1816-

1882), che formulò, grazie all’apporto di dati antropologici, linguistici e

storici, una teoria in base alla quale ogni singolo avvenimento umano era

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spiegabile sotto l’aspetto della razza. Nel suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze

umane (1853-1855), Gobineau argomentava che egli, e quanti come lui

appartenevano all’aristocrazia francese, erano superiori alle masse in virtù

della purezza della loro ascendenza ariana. Gli avvenimenti decisivi della

storia sono determinati dalla ferrea legge della razza e il destino umano è

decretato dalla natura ed espresso nella razza. «La storia dimostra che ogni

civiltà scaturisce dalla razza bianca» e la perla di questa razza è quella ariana, la

cui stessa esistenza, asseriva Gobineau, era ora minacciata da incroci e

mescolanze.

Quarant’anni più tardi il trattato di Gobineau verrà tradotto in tedesco e avrà

una profonda influenza su quel popolo: per esempio sul compositore Richard

Wagner e su suo genero, Houston Stewart Chamberlain, il quale a sua volta

influenzò le dottrine razziali dei nazisti.

In seguito alla vittoria tedesca nella guerra franco-prussiana del 1870, la

Germania venne unificata grazie alla politica di Ottone di Bismarck, detta

«del sangue e del ferro». Il nazionalismo tedesco si allontanava di un altro passo

dalle idee democratiche e liberali. Il nuovo Reich tedesco del 1871 era in mano

agli Junker (i proprietari terrieri) e alla Prussia militarista.

Nel 1878 il Partito socialdemocratico tedesco fu messo fuori legge e ogni

impegno democratico venne soffocato. Nell’ultimo decennio del secolo XIX

la democrazia venne bloccata dall’ascesa degli industriali tedeschi e

dall’espansionismo coloniale. Questo periodo coincise con una nuova ondata

di antisemitismo, durante la quale gli ebrei furono accusati di manipolare i

contadini e i piccoli commercianti e di incitarli a rivoltarsi contro l’ordine

sociale ed economico tradizionale. Si diede agli ebrei la colpa della depressione

economica del 1873.

Nello stesso anno, il giornalista Wilhelm Marr, cui si deve l’invenzione della

parola “antisemitismo”, scrisse il pamphlet La vittoria dell’Ebraismo sul

19

Germanesimo. La pubblicazione ebbe grande successo ed ebbe dodici edizioni

in sei anni. Utilizzando i concetti di razza e di nazionalismo völkisch ( =

popolare, razziale, nazionale), Marr dimostrava come nel corso dell’Ottocento

gli ebrei fossero divenuti «il potere forte dell’Occidente». Accusava gli ebrei di

liberalismo, di essere privi di radici e di aver “giudaizzato” i tedeschi in modo

irrecuperabile.

Alla fine dell’Ottocento i partiti politici europei, e specialmente quelli

tedeschi, fecero dell’antisemitismo uno dei punti cardine dei loro programmi.

Il primo fu il Partito dei lavoratori cristiano-sociali, fondato nel 1878 da

Adolf Stricker, cappellano alla corte imperiale. Stricker attribuiva agli ebrei la

colpa della scarsa prosperità economica, diceva che essi avevano in mano le

redini dei movimenti politici liberali e che erano «una goccia di sangue

straniero nel corpo della Germania, ma una goccia dai poteri micidiali !». Egli

si rivolgeva ai tedeschi appartenenti alle classi sociali ed economiche più

basse, gli stessi cui si rivolgerà Hitler, i quali sentivano il bisogno di acquisire

una posizione migliore e di avere uno stato forte.

Nel 1879 Stricker si unì a Marr e insieme fondarono la Lega antisemita.

Nel 1879 lo storico Heinrich V. Treitschke prese a scrivere che «gli ebrei

sono la nostra disgrazia» e che vi era un abisso incolmabile tra lo spirito

tedesco e quello ebraico.

Nel 1881 il filosofo Eugen Karl Dühring scrisse il trattato La questione ebraica

in quanto problema razziale, morale e culturale, in cui si prefiggeva di dimostrare

che gli ebrei erano la causa del declino della Germania e che costituivano una

«contro-razza» che né la conversione né l’integrazione potevano cambiare. Egli

ebbe una forte influenza sugli studenti universitari. Nel 1893, 250.000

elettori mandarono al Reichstag (la Camera dei deputati della Germania) 16

deputati su 397 il cui programma conteneva misure di carattere antisemita.

20

Nel 1900 lo scrittore di origine inglese Houston Stewart Chamberlain (1855-

1927) scrisse i Fondamenti del secolo XIX, in cui idealizzava «l’anima della razza»

germanica e descriveva i tedeschi come persone oneste, leali e industriose,

mentre gli ebrei erano materialisti, bigotti e privi di moralità e di tolleranza. I

due popoli erano impegnati in una lotta che doveva terminare con la

sconfitta degli ebrei. Questo libro divenne il vangelo razziale dei nazisti e

riscosse grande successo di vendita in Germania.

Durante la prima guerra mondiale, quando la Germania cominciava a

mostrare segni di cedimento militare, si ebbe per reazione una nuova ondata

di antisemitismo. Gli ebrei vennero accusati di praticare la borsa nera, di non

partecipare ai combattimenti e di causare scarsità di approvvigionamenti. Vi

fu una proliferazione di scritti contro gli ebrei.

La sconfitta nel 1918 fu attribuita a ebrei e socialisti.

Il generale tedesco Erich Ludendorff, che partecipò al tentativo di colpo di

stato a opera di Hitler nel 1923, denunciò gli ebrei e la loro “mortifera

superstiziosa credenza in Geova”.

L’inflazione spaventosa e devastante, le condizioni durissime imposte dai

vincitori con il trattato di Versailles e la miseria generale furono gli elementi

che contribuirono a creare un terreno fertile per l’antisemitismo. Nel 1922

Walter Rathenau, ministro degli esteri della Germania, ebreo, venne

assassinato. Nacquero e proliferarono movimenti e partiti popolari,

nazionalisti e razzisti; fra questi il Partito dei lavoratori tedeschi, che diverrà

poi il Partito nazista, cui Hitler si affiliò nel 1919.

Nel 1920 il Partito nazista pubblicò il proprio programma in venticinque

punti, nel quale sosteneva che nessun ebreo avrebbe mai potuto appartenere

al Volk (popolo) tedesco. Lo scontento per le condizioni sociali ed

economiche, nonché il senso di umiliazione dovuto alla sconfitta bellica,

spinse molti ex combattenti a unirsi ai Freikorps. Essi irrompevano durante le

21

riunioni delle organizzazioni di sinistra per disperderle e soffocavano le

rivolte. I membri di questi gruppi paramilitari formarono il nucleo originario

delle Sturmabteilungen di Röhm (le S.A., squadre d’assalto).

La violenza dei gruppi e dei partiti di destra nel periodo postbellico fu una

palestra per gli assassini che più tardi saranno implicati nell’annientamento

degli ebrei. Nel 1930, Alfred Rosenberg, che portò all’attenzione di Hitler e

di tutta la Germania i “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, scrisse Il mito del

XX secolo in cui predicava la superiorità della razza nordica e la creazione di

una chiesa nazionale tedesca fondata sui concetti di razza e di purezza del

sangue. Lo stesso anno i nazisti ottennero più di sei milioni di voti e 107 seggi

al Reichstag divenendo il secondo partito del paese.

22

P. REINACH SABBADINI (a cura di), La cultura ebraica, Einaudi, Torino

2000, pp. 494-510

L’antisemitismo ideologico e politico nell’Europa degli anni Trenta

di Liliana Picciotto Fargion

Nel biennio successivo alla conclusione della prima guerra mondiale, il clima

politico creatosi in Germania era estremamente teso: la neoproclamata

Repubblica di Weimar, fin dall’inizio della sua esistenza, aveva dovuto

misurarsi con i tentativi insurrezionali dell’estrema sinistra. Il ripetersi di

questi nel cosiddetto biennio rosso (1919-20), e il loro verificarsi anche nelle

vicine Austria e Ungheria, dimostrava la debolezza delle istituzioni,

considerate incapaci di arginare la sovversione. Le istanze internazionaliste

della rivoluzione, lo scoppio congiunto di moti insurrezionali in aree diverse,

la loro proclamazione di obiettivi comuni furono fattori determinanti nel

minare la fragile democrazia di Weimar.

Gli ebrei con le loro relazioni in tutta Europa, con la loro capacità di adattarsi

a ogni congiuntura, apparivano necessariamente l’incarnazione

dell’internazionalismo che, attraverso di loro, avrebbe corroso la Germania

dall’interno. Si diffuse così il pregiudizio che «rivoluzionario» coincidesse con

«ebreo».

Il problema delle sanzioni belliche fissate dai vincitori, la polemica sulle

responsabilità della cocente sconfitta rendevano il clima politico rovente.

Gruppi nazionalistici di destra organizzarono una violenta campagna

antigovernativa, decine di delitti politici rimasero impuniti. Tra i più

clamorosi, quelli del ministro delle Finanze Matthias Erzberger nel 1921, e

del ministro degli Esteri Rathenau nel 1922.

23

Nel biennio successivo, fu troppo arduo per il governo gestire l’ordine

pubblico in uno scenario in cui lo scontro fra estrema destra ed estrema

sinistra provocava incidenti quotidiani.

In questo clima, nel 1923, Adolf Hitler progettò di assumere la guida della

protesta di destra contro i «cedimenti» governativi in materia di riparazioni.

Scossi dalla disfatta, dal terrore della rivoluzione, dall’inflazione che li

impoveriva progressivamente, gli scontenti del presente e i nostalgici del

passato ricercavano un qualche valore di riferimento per riacquistare la

perduta sicurezza. Lo avrebbero trovato nel sentimento, mai del tutto sopito,

dell’originalità nazionale tedesca basata sulle tradizioni della terra, della

lingua, della superiorità germanica rispetto alle altre genti.

Richard Wagner con la sua musica, e Houston Stewart Chamberlain con il

suo I fondamenti del XIX secolo (1899), avevano sin dalla fine dell’Ottocento

contribuito alla codificazione di una cultura nazionale richiamandosi ad

antichi miti teutonici come espressione più autentica dello spirito tedesco in

cui gli altri popoli non avevano parte. Da qui a considerazioni meramente

razziste il passo fu breve. Le teorie sulle differenze razziali, rimaste per tutta la

metà dell’Ottocento nelle aule delle università e negli istituti di ricerca,

vennero popolarizzate e diffuse ovunque, nei movimenti giovanili, nelle

associazioni di ex combattenti, nelle consorterie professionali. Hitler

rispolverò questi temi cui però sovrappose quello - già popolare negli

ambienti nazionalisti tedeschi – dell’ebreo agitatore, rivoluzionario,

responsabile dell’ingiusta pace di Versailles, modernista e sovvertitore dei

valori della tradizione.

Nel rielaborare queste teorie, egli le nutrì di espressioni e immagini tratte

dalla biologia razziale e dall’osservazione del comportamento degli animali,

temi molto di moda nell’Europa degli anni Venti. Per Hitler solo un governo

forte poteva disporre degli strumenti legali necessari a rendere stranieri gli

24

ebrei e a eliminarli. Ma un governo forte non esisteva, poiché la Repubblica

di Weimar, per l’influenza esercitata appunto dagli ebrei, era, per principio,

in netta contrapposizione all’ideologia antisemita.

Nel 1924, prigioniero nella fortezza di Landsberg dopo il fallito putsch, Hitler

iniziava la stesura dell’opera che conteneva insieme la sua visione del mondo

e il suo programma politico futuro, il Mein Kampf (La mia battaglia), il cui

primo e secondo volume vennero pubblicati rispettivamente nel 1925 e nel

1927. Vi proponeva il nazionalsocialismo come contrapposizione assoluta alla

dottrina marxista, considerata il culmine della degenerazione delle idee

egualitarie dell’Illuminismo. Si autodefiniva profeta di una concezione volta a

valorizzare la differenza tra le razze piuttosto che tra le classi; mostrava come il

nazionalsocialismo fosse il nuovo credo politico da indicare alle masse;

esponeva la fede nell’enorme potenzialità della propaganda, che doveva

servirsi di pochi e semplici slogan ripetuti ossessivamente come in un rituale

religioso.

Nel libro, Hitler esprimeva anche la necessità dell’espansione territoriale della

Germania a est, che garantisse nuovi «spazi vitali» dove trapiantare la popo-

lazione eccedente e sviluppare la sana vocazione contadina del popolo

germanico, smanioso, a suo dire, di contrastare la crescita dell’industria, del

commercio e del capitalismo corruttore. La politica estera e militare era

piegata all’esigenza di attuare questa visione del mondo, arcaica, razzista,

antimodernista, monoliticamente devota al capo. Nel Mein Kampf egli mostrò

di voler dare al problema dell’antisemitismo un posto preminente nella sua

scala di valori. Per lui, quella ebraica non era solo una questione tedesca: in

un’interpretazione più generale della storia, attribuiva agli ebrei un ruolo

preciso, quasi «metafisico», di alterità nei confronti dei popoli della terra.

25

Negli anni Trenta, la diffusa sfiducia nei valori e nelle istituzioni della

democrazia borghese, il senso di frustrazione collettiva e di disillusione nel

futuro, la grave crisi economica, costituirono il terreno per l’affermazione

delle idee di Hitler.

Egli conquistò il consenso delle masse principalmente attraverso due concrete

promesse: la riduzione dell’occupazione e la rivalsa contro le umiliazioni e le

frustrazioni imposte dalla pace con la ricollocazione del paese al rango di

potenza mondiale. Le sue proposte, tanto in politica interna quanto in quella

estera, erano ambiziose e anticonformiste, tali da colpire nel profondo

l’opinione pubblica.

Il 30 gennaio 1933, il presidente della Repubblica, maresciallo von

Hindenburg, decise di affidargli il Cancellierato.

Il nuovo governo di coalizione, formato con i conservatori, vedeva i

nazionalisti ancora in minoranza e non presentava sostanziali cambiamenti

rispetto ai tre gabinetti precedenti della Repubblica di Weimar, nominati con

decreto presidenziale. Lo stesso Stresemann era ricorso alla «legge sui pieni

poteri», che conferiva per quattro anni al governo il diritto di legiferare senza

il concorso del Parlamento e del Senato; che consentirà a Hitler, il 23 marzo

successivo, di prendere saldamente in pugno il regime parlamentare. La

dittatura trasse però la sua legittimità dal decreto presidenziale del 28

febbraio, varato il giorno successivo all’incendio del Reichstag provocato dal

partito nazista stesso ma imputato all’opposizione; decreto che, applicando

l’articolo 48 della Costituzione sulla tutela dell’ordine e della sicurezza dello

Stato, sospendeva i diritti fondamentali. Il decreto non venne più revocato,

dando l’avvallo legislativo alla persecuzione degli oppositori. Lo stesso Hitler,

nell’agosto del 1934, riunì nella sua persona le funzioni di capo dello Stato,

del governo e del partito nella formula Führer und Reichskanzler.

26

Nel 1936, due dei suoi più fedeli collaboratori furono preposti a settori vitali

dello Stato quali l’economia e la politica interna. L’uno, Hermann Göring, fu

nominato capo del Piano Economico Quadriennale, che doveva preparare

l’economia tedesca alla guerra; l’altro, Heinrich Himmler, fin dal 1929 capo

delle SS (Schutzstaffel, Squadra di Protezione), braccio armato del partito,

divenne capo della polizia.

Con questo provvedimento, il regime realizzava, nella persona di Himmler, la

definitiva saldatura tra la polizia di partito e la polizia di Stato. Le SS, nate

come corpo scelto a tutela della sicurezza di Hitler e dell’élite nazista, si

trasformarono in pochi anni in un esercito di decine di migliaia di uomini.

Anche in Romania, Polonia e Ungheria gli anni Trenta furono turbolenti; si

concretizzarono infatti le rivalità etniche e i fermenti nazionalistici comparsi

nel decennio precedente, cui si aggiungeva una sempre più profonda crisi

economica. Il regime fascista, ormai affermatosi in Italia, e poi quello nazista

in Germania apparvero all’opinione pubblica come apprezzabili modelli di

stabilità cui si ispirarono i numerosi nascenti movimenti di destra, per i quali,

tra l’altro, l’antisemitismo proclamato da Hitler era un esempio legittimo da

seguire.

Alla fine degli anni Trenta l’emanazione di leggi antiebraiche per limitare la

partecipazione degli ebrei alla vita economica e per impedire loro il pieno

diritto agli studi divenne la regola, mentre Germania e Italia si davano un

intero corpus legislativo antiebraico che toccava i diritti fondamentali delle

loro comunità ebraiche.

Una volta al potere, i nazisti avviarono la campagna antiebraica, che doveva

privare gli ebrei dei diritti acquisiti con l’emancipazione. Lo scopo era quello

di convogliare su di essi il malcontento sociale, di spingerli ai margini della

27

vita del paese, di depredarli dei loro beni, per poi espellerli dalla Germania.

L’esito di tale politica non era forse del tutto chiaro a priori (su questo

particolare aspetto del problema la discussione tra gli storici è ancora aperta),

nel senso che ogni fase della persecuzione potrebbe essere nata da una

radicalizzazione e da un superamento della precedente, in una sequenza non

del tutto prevedibile. Giunti alla fase dell’espulsione generalizzata e constatata

l’impossibilità della sua attuazione, solo allora i dirigenti nazisti si sarebbero

orientati sull’annientamento fisico.

Tra il 1933 e il 1935, gli ebrei furono espulsi dalla pubblica amministrazione

e subirono limitazioni nell’esercizio delle professioni di avvocato e di medico;

nell’insegnamento superiore; vennero allontanati dall’editoria e dall’attività

giornalistica; persero la cittadinanza tedesca se ottenuta dopo il 1918; furono

esclusi dal servizio militare; subirono gravi limitazioni nell’accesso agli studi

universitari.

Il 10 maggio 1933, nel corso di un rito spettacolare, i nazisti, con grandi roghi

allestiti sulle pubbliche piazze, diedero alle fiamme capolavori della letteratura

tedesca e mondiale e opere fondamentali del pensiero contemporaneo di

autori ebrei e non ebrei. L’azione aveva un significato fortemente simbolico,

in quanto rappresentava il rigetto da parte del nazismo della cultura

cosiddetta decadente.

Intanto, la propaganda lavorava per presentare la minoranza ebraica come

razza diversa, inferiore, corruttrice della morale del popolo tedesco, con effetti

nefasti sul suo vigore fisico e sulla sua integrità biologica. La promessa

contenuta nel Mein Kampf e nel programma del Partito nazionalsocialista era

di porre fine alla mescolanza e alla confusione delle razze.

Nel settembre del 1935, nel corso del congresso del partito, a Norimberga, a

sanzionare tale separazione furono varate due leggi fondamentali, la prima

28

denominata «legge sulla cittadinanza del Reich», la seconda «legge per la

protezione del sangue e dell’onore tedesco».

Nella prima si sanciva la divisione dei tedeschi in «appartenenti allo Stato» e

«cittadini dello Stato», cioè tra sudditi e cittadini, questi ultimi soltanto

riconosciuti come soggetti giuridici titolari dei pieni diritti politici. Nel

regolamento esecutivo si fissavano i criteri per la definizione di ebreo. Il

principio era puramente razziale: non si basava sulla religione praticata dal

singolo, ma sulla «purezza» del suo sangue, controllato fino all’ascendenza dei

nonni.

La seconda legge di Norimberga proibiva i matrimoni e le unioni tra ebrei e

non ebrei. Era ormai rigidamente tracciata una linea di demarcazione tra la

popolazione non ebraica e quella ebraica.

Nel 1937, il regime intervenne in un settore rimasto fino ad allora

sostanzialmente inviolato, la vita economica. Iniziò la cosiddetta

arianizzazione dell’economia, per cui gli imprenditori ebrei si videro costretti

a cedere le loro attività economiche a prezzi irrisori.

Nel 1938, la situazione materiale e morale della comunità ebraica tedesca si

aggravò ulteriormente per la più decisa spinta impressa dal governo alla

politica delle esclusioni e dell’emigrazione.

L’azione antiebraica più clamorosa avvenne nella notte tra il 9 e il 10

novembre 1938, con l’assalto popolare alle case, ai negozi, alle istituzioni degli

ebrei, in quella che fu denominata la «notte dei cristalli». Squadre di aderenti

al partito, correndo da un negozio all’altro, da un’abitazione all’altra,

infransero migliaia di vetrine, gettarono mobilio dalle finestre delle case,

incendiarono sinagoghe, richiamando alla memoria le violenze messe in atto

dalle folle inferocite della Russia zarista. E, come nei pogrom di allora, la

polizia non solo seguì impassibile i tumulti, ma completò l’opera dei

facinorosi, depredando le sinagoghe dei loro archivi e arrestando migliaia di

29

ebrei, secondo un ben preciso ordine di Heydrich diramato preventivamente

ai commissariati di polizia. Dall’autunno del 1938, la comunità ebraica

tedesca fu definitivamente messa in ginocchio, le sue organizzazioni messe

fuori legge, i suoi funzionari arrestati, la stampa soppressa. Completò l’opera

un decreto (settembre del 1941) che obbligava gli ebrei dai sei anni in su a

cucire sui vestiti, come segno distintivo, una stella gialla, e vietò loro ogni

spostamento non autorizzato.

Il coordinamento della persecuzione antiebraica era stato affidato da Hitler a

Göring, che a sua volta, il 24 gennaio 1939, aveva affidato ufficialmente al

capo della Sicherheitspolizei, Reinhard Heydrich, l’attuazione del piano di

emigrazione forzata, a quell’epoca riconosciuta come la soluzione più

praticabile per risolvere il cosiddetto problema ebraico. Da quell’epoca, le SS

ebbero il controllo totale di tutta la politica ebraica. Ma, con l’invasione della

Cecoslovacchia e l’acquisizione di una popolazione ebraica superiore a quanti

erano emigrati, risultò chiaro che i piani per l’emigrazione forzata non

potevano seguire il ritmo delle annessioni. Con la guerra vennero meno tutti

i piani, realistici o fantasiosi che fossero, di far partire gli ebrei. La conquista

della Polonia, poi, attirò nell’orbita nazista una nuova massa di oltre 3

milioni di persone e, di conseguenza, intervenne un mutamento dei piani.

Nell’ottobre del 1941, con una circolare, si vietava l’emigrazione dai territori

occupati. Il 23 ottobre il giro di vite fu totale: Himmler ordinò di fermare

ogni emigrazione per tutta la durata della guerra. Gli ebrei dell’Europa

occupata erano ormai chiusi in una gigantesca trappola, dalla quale era

impossibile fuggire.

Veniamo ora ai rapporti tra ebrei e regime nell’altro paese europeo sotto

dittatura, l’Italia fascista.

30

Nei primi anni del XX secolo, all’antigiudaismo di origine clericale e

antimodernista si era aggiunto un altro filone che, pur di minore importanza,

ebbe un certo seguito nei facinorosi ambienti nazionalisti. Si trattava dell’idea

che gli ebrei fossero internazionalisti, senza patria e senza radici, devoti al

profitto e sostenitori del comunismo, della massoneria, della Società delle

Nazioni e di ogni diavoleria internazionale.

Nonostante la presenza di questi due filoni di pensiero, non si può ancora

dire che nel panorama culturale italiano, fino alla prima metà degli anni

Trenta, l’antisemitismo aveva raggiunto un vasto pubblico. Anzi, non essendo

funzionale alle dinamiche politico-sociali del paese, non fu utilizzato come

strumento di consenso politico né ebbe occasione di diffondersi, come

altrove, tra la popolazione, per la quale l’ebreo era semmai una presenza

simbolica, incarnazione di un’antica colpa.

Fu in realtà il fascismo a introdurre in Italia una del tutto inedita cultura

politica antiebraica, inserendosi da protagonista in quel processo di negazione

dei diritti agli ebrei, già in atto in Germania e, se pur con caratteristiche più

tradizionali, anche in Polonia, Ungheria e Romania.

Quando si trattò di dare una forma all’odio antiebraico, il fascismo preferì

quella razzista, la più «laica», la più radicale e « moderna» in circolazione in

Europa.

Nel 1935, l’Italia, allo scopo di estendere il suo impero coloniale, attaccava

l’Etiopia, senza una preventiva dichiarazione di guerra. Le conseguenti

sanzioni economiche, votate dalla Società delle Nazioni, furono presentate

dal governo all’opinione pubblica come tentativo di strangolamento del paese

che «cercava il suo posto al sole», e come provvedimenti ingiusti contro i quali

l’intera nazione avrebbe dovuto schierarsi. Il consenso al fascismo e al suo

capo salì alle stelle.

31

Un anno dopo, quando la Società delle Nazioni votò l’abolizione delle

sanzioni e i singoli paesi riconobbero l’annessione dell’Etiopia, il prestigio

internazionale di Mussolini toccò il culmine. La vicenda però aveva messo in

gioco la credibilità della Società delle Nazioni, che non si risollevò più da

quella crisi.

Nello stesso tempo aveva creato le condizioni per un avvicinamento dell’Italia

alla Germania, perfezionatosi, l’anno successivo, con l’intervento congiunto

dei due paesi in Spagna, a fianco delle forze ribelli del generale Franco. Da

allora, la politica estera italiana si allineò inesorabilmente alla Germania

nazista con la firma di una serie di accordi che rendevano sempre più stretta

l’alleanza fra i due paesi: dall’Asse Roma-Berlino dell’ottobre 1936, al patto

antisovietico (anti-Comintern) del novembre 1937, al ritiro dell’Italia dalla

Società delle Nazioni dello stesso mese, al Patto d’Acciaio del maggio 1939,

alla vigilia della guerra.

Solo pochi spiriti illuminati, nel plauso quasi generale, mostrarono di

avvertire per la comunità ebraica i pericoli insiti in tale avvicinamento: se non

altro le autorità italiane avrebbero dovuto trarre alcune conseguenze da tali

accordi, come quella di evitare di includere funzionari ebrei di alto grado

nelle delegazioni ufficiali che andavano e venivano in continuazione da

Berlino. La cosa si verificò puntualmente, con l’invito del ministro degli

Esteri Ciano, il 23 novembre 1936, a tutti gli altri ministri di astenersi

dall’inviare in missioni ufficiali in Germania «connazionali di fede israelita».

Nello stesso periodo, dal 12 settembre e per tutto il mese di ottobre, Roberto

Farinacci, dalle colonne del «Regime Fascista», condusse una campagna

denigratoria basata sul tema della doppia lealtà degli ebrei, alla nazione e a

una supposta «internazionale ebraica».

Il 23 dicembre iniziò l’allontanamento degli ebrei dalla stampa fascista e il 31

dello stesso mese apparve, anonimo, su «Il Popolo d’Italia», di cui Mussolini

32

era il direttore, un acrimonioso articolo dal titolo Il troppo storpia, nel quale si

affermava che «l’annunciatore e il giustificatore dell’antisemitismo è sempre e

dovunque uno solo: l’ebreo. Quando esagera, e lo fa sovente….».

Nell’aprile 1937, con la pubblicazione del libro Gli ebrei in Italia in cui Paolo

Orano riproponeva in forma organica, riassumendole, le tesi

dell’antisemitismo già apparse qua e là sulla stampa, iniziò una vera e propria

campagna di odio. Nel libro si prendeva di mira il sionismo e quegli ebrei

che, pur dichiarandosi fascisti, mostravano tendenze «separatiste» e

«individualiste». Antisemitismo e razzismo correvano nel 1937 ancora su due

binari paralleli, ma erano destinati a incontrarsi da lì a poco, nel 1938, con i

primi concreti passi della politica antisemita assunta dallo Stato. Agli inizi del

1938, riprese con grosso slancio un vero coro denigratorio e calunnioso

contro gli ebrei, divenuti, di colpo, i responsabili di tutti i mali. Alle vecchie

accuse di particolarismo e infedeltà se ne aggiunsero di più grossolane: di

essere ladri, sfruttatori, profittatori, cospiratori. Tutto l’arsenale

propagandistico in uso in Germania venne ripreso in Italia, senza sfumature,

con una violenza assolutamente inusitata. Lo scopo di tale montatura era

evidentemente quello di preparare psicologicamente l’opinione pubblica alla

legislazione antiebraica.

Benché il nuovo corso antisemita fosse già stato deciso da Mussolini, tra la

fine del 1936 e l’inizio del 1937, il governo non si era ancora espresso in

proposito. La prima dichiarazione ufficiale, redatta dallo stesso Mussolini,

giunse il 16 febbraio 1938, nel n. 14 del bollettino del ministero degli Esteri

«Informazione Diplomatica». In un tortuoso quanto subdolo testo antisemita,

pur negando l’esistenza di un problema ebraico in Italia; si annunciavano i

provvedimenti contro gli ebrei stranieri e, per quelli italiani, l’introduzione di

un meccanismo di limitazione, proporzionale al loro numero. Per vari mesi

ancora il governo smentì di avere in progetto qualche provvedimento

33

antiebraico, nel timore forse che l’opinione pubblica non vi fosse preparata o

che crescesse l’impopolarità dell’Italia all’estero.

I passi successivi furono la pubblicazione, il 13 luglio 1938, su «Il Giornale

d’Italia» (ma ripreso il giorno dopo su tutti i quotidiani) di un manifesto di

scienziati razzisti dal titolo Il Fascismo e i problemi della razza, e il comunicato

del Partito nazionale fascista, del 25 luglio, che costituirono la piattaforma

scientifico-ideologica dell’antisemitismo di Stato. Il comunicato del partito

verteva su argomenti più politici, con l’accusa agli ebrei di costituire, in ogni

nazione, lo stato maggiore dell’antifascismo.

Nel giro di un mese la comunità ebraica veniva sottoposta a un controllo

numerico incrociato, con l’obbligo per la stessa di consegnare gli elenchi dei

propri iscritti (e dissociati) e, il 22 agosto 1938, con uno speciale censimento

della popolazione ebraica, esteso anche a tutti gli impiegati della pubblica

istruzione.

Incaricata di tale compito fu la Direzione Generale per la Demografia e la

Razza del ministero dell’Interno, istituita il 19 luglio in sostituzione

dell’Ufficio Demografico Centrale e alla cui guida fu posto il prefetto

Antonio Le Pera.

Senza neppure aspettare l’esito di questi controlli, sul n. 18

dell’«Informazione Diplomatica», già il 5 agosto si dichiarava che la

partecipazione degli ebrei alla vita del paese si sarebbe adeguata alla

proporzione di uno a mille. Il 17 agosto e nei giorni seguenti, con apposite

circolari amministrative, si ordinava la rimozione degli ebrei dalle cariche

pubbliche e dalla pubblica amministrazione. Il 2 e il 3 settembre il Consiglio

dei ministri prese tre gravissime decisioni: espellere tutti gli ebrei stranieri,

revocare la cittadinanza italiana a coloro che l’avevano ottenuta dopo il 1°

gennaio 1919, espellere dalla scuola pubblica di ogni ordine e grado

insegnanti e allievi.

34

Durante il mese di settembre, in attesa di presentare al Gran Consiglio del

Fascismo il progetto organico della persecuzione antiebraica, Mussolini

provvide con pressioni e colloqui personali a rimuovere gli ultimi possibili

ostacoli rappresentati dal re e dal papa.

Il Gran Consiglio del Fascismo, convocato il 16 ottobre 1938, approvò il

testo di una lunga dichiarazione già preparata dal dittatore. Nel suo diario,

Ciano riferisce quanto Mussolini ebbe a dire a proposito delle

discriminazioni (attenuazioni) discusse con Balbo: «Le discriminazioni non

contano. Bisogna sollevare il problema. Ora l’antisemitismo è inoculato nel

sangue degli italiani. Continuerà da solo a circolare e a svilupparsi. Poi, anche

se questa sera sono conciliante, sarò durissimo nella preparazione delle leggi».

Dal 15 novembre successivo mettevano fine all’emancipazione degli ebrei,

ottenuta soltanto sessant’anni prima, non solo le leggi limitative dei loro

diritti civili, ma anche le circolari amministrative emanate dai vari ministeri o

dalla Direzione Generale per la Demografia e la Razza o da altri uffici

pubblici.

Se qualcuno allora nutrì la speranza che l’antisemitismo fosse una politica

transitoria, dovette in breve ricredersi: fu un proliferare di leggi, decreti,

circolari amministrative. I capisaldi del procedimento legislativo persecutorio

sono rappresentati da alcune decine di leggi e decreti regi e ministeriali

pubblicati sotto il nome di Provvedimenti per la difesa della Razza sulla «Gazzetta

Ufficiale del Regno d’Italia».

Essi prescrivevano, tra l’altro, l’espulsione degli ebrei stranieri e la revoca della

cittadinanza ai naturalizzati dopo il 1919; la preclusione alla frequenza nelle

scuole per insegnanti e alunni ebrei; il divieto di matrimonio fra cittadini di

razza ebraica e di razza ariana; l’obbligo di denuncia di appartenenza alla razza

ebraica nei registri di stato civile e nei certificati; il divieto di prestare servizio

militare; di esercitare l’ufficio di tutore o curatore testamentario; di proprietà

35

o di gestione di aziende di interesse nazionale; di possedere terre o fabbricati

urbani con estimo superiore a una certa cifra; il divieto di tenere alle proprie

dipendenze domestici ariani; il divieto alle amministrazioni pubbliche di

avere dipendenti di razza ebraica; l’obbligo entro 90 giorni di autodenuncia di

appartenenza alla razza ebraica presso l’Ufficio di Stato Civile del comune di

residenza; il divieto di iscrizione al Partito nazionale fascista; il divieto di

esercizio della professione di notaio e di giornalista; l’obbligo di limitare le

proprie prestazioni professionali ad altri ebrei per i seguenti liberi

professionisti: medici, farmacisti, veterinari, ostetriche, avvocati, procuratori,

commercialisti, ragionieri, ingegneri, architetti, chimici, agronomi, geometri,

periti agrari e industriali, e molti altri obblighi.

Il 10 settembre 1939, la Germania attaccava senza una preventiva

dichiarazione di guerra la Polonia, piegando la sua difesa in poco più di due

settimane.

Il 3 settembre, Francia e Inghilterra, non potendo più evitare di intervenire,

come era avvenuto l’anno precedente in occasione dell’attacco alla

Cecoslovacchia, dichiararono guerra alla Germania. Iniziava il secondo

conflitto mondiale.

Si trattò di una guerra ideologica e totale: prima di tutto per fascisti e nazisti,

che la scatenarono per realizzare le loro mire egemoniche sul mondo, poi per

le democrazie, quando si resero conto che non era in gioco solo l’integrità di

questo o quel territorio, ma i principi della libertà, della giustizia, della

convivenza civile. Si trattava di combattere contro il totalitarismo, la barbarie

culturale del razzismo, contro il pericolo concreto che, con la vittoria, i nazisti

e i loro alleati imponessero la loro ideologia, il loro sistema di vita. Questi

motivi spiegano anche la partecipazione delle popolazioni civili a una lotta

sentita e giustamente definita di Liberazione. Le potenze fasciste, Germania,

Italia e Giappone, schierate su un fronte ideologico comune, consideravano

36

una necessità il muovere guerra alle «imbelli e decadenti democrazie

borghesi», cui associarono il «disordine barbarico» incarnato dal comunismo

sovietico. L’esito del conflitto presupponeva per loro non la sconfitta, ma la

distruzione del nemico, sicché sistematico fu il ricorso alla brutalità e alla

violenza, in spregio alle convenzioni in vigore in tempo di guerra.

La violenza si esercitò in particolare contro alcuni popoli e gruppi sociali,

principalmente gli ebrei poi gli slavi, gli zingari, i comunisti, gli oppositori. I

paesi conquistati vennero divisi in territori occupati militarmente (Norvegia,

Danimarca, Olanda, Belgio, Francia del Nord, Jugoslavia, Grecia) e territori

amministrati o protettorati senza alcuna autonomia né politica né civile

(Boemia-Moravia, Polonia, Ucraina, Russia Orientale).

Agli alleati (Italia, Ungheria, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Francia di Vichy)

fu garantita una formale indipendenza, ma di fatto essi erano satelliti dal

punto di vista ideologico e politico. I rispettivi popoli venivano trattati di

conseguenza: schiavizzati i primi, formalmente liberi gli ultimi, ma obbligati

alla devozione alla Germania. In realtà, nonostante le differenze nel controllo

esercitato, l’obiettivo della Germania era di accrescere il suo potenziale

militare e industriale per mantenere alto il tenore di vita dei tedeschi

attraverso lo sfruttamento degli altri popoli.

Con l’invasione, il 1° settembre 1939, la Polonia fu immediatamente investita

da un’ondata di violenze e di terrore ad opera di truppe speciali della

Sicherheitspolizei (SIPO-SD) al seguito dell’esercito.

Tra i civili, gli ebrei furono oggetto di aggressioni fisiche e di maltrattamenti

particolari: quanti fra loro erano maggiormente riconoscibili per

l’abbigliamento e l’aspetto esteriore, venivano fermati per strada, coperti di

ridicolo, obbligati a penosi esercizi ginnici, a subire pubblicamente il taglio

della barba. Iniziarono le ordinanze, prima fra tutte l’obbligo di portare un

segno distintivo: un bracciale di stoffa bianca con una stella azzurra, oppure

37

una stella gialla cucita sul petto (novembre 1939). Tra il dicembre 1939 e il

gennaio 1940, seguirono il coprifuoco, la proibizione di servirsi dei mezzi di

trasporto e l’obbligo di delegare Consigli (Judenräte) a rappresentare le

comunità ebraiche presso le autorità naziste.

Nel giro di pochi mesi, i tedeschi istituirono i ghetti, quartieri nelle città

recintati da mura o da filo spinato, dove la popolazione ebraica venne ristretta

come in una gigantesca prigione, alla mercé degli occupati che ne

controllavano dall’esterno l’economia, il vettovagliamento e l’ordine

pubblico. Il primo ghetto fu istituito a Lòdz nell’aprile 1940, poi, in

successione, nelle altre città: a Varsavia in autunno, a Cracovia nel marzo

1941, a Lublino in aprile.

Il ghetto divenne ben presto per i nazisti un enorme serbatoio di manodopera

a basso costo: il lavoro poteva essere interno, svolto nelle fabbriche di divise e

materiale bellico, oppure esterno. Erano soggetti al lavoro tutti i maschi tra i

16 e i 60 anni che, in cambio della loro fatica, ricevevano del cibo, troppo

scarso per salvare l’intero ghetto dalla morte per fame. Le tragiche condizioni

di vita erano dovute a diversi elementi, il più grave dei quali divenne presto il

sovraffollamento. A Varsavia la densità raggiunse i 7,2 individui per stanza e,

su un area che poteva contenere al massimo 160.000 persone ne furono

ammassate 450.000. Gli ospedali, i sotterranei, le sinagoghe dove trovavano

asilo momentaneo i nuovi arrivati in continuo afflusso dalle cittadine vicine,

si trasformarono in epicentri di epidemie.

Riducendo progressivamente la quantità globale di cibo, i nazisti gettarono la

popolazione nell’angoscia. I morti per fame e per freddo si potevano trovare a

mucchi sul ciglio delle strade. Si calcola che nel ghetto di Varsavia, in due

anni, 83.000 persone morirono di questa «morte naturale».

Molti testimoni descrivono gli abitanti del ghetto nell’inverno del 1941 come

larve umane in grado di sollevarsi a stento dai giacigli, in camere sovraffollate,

38

invase dal fetore e dalla sporcizia. Particolarmente toccante, in questo clima,

era la sorte dei bambini: senza latte, senza cibo adatto, senza spazio per

giocare né muoversi, in un paesaggio che offriva alla loro vista solo miseria e

morte.

La lotta quotidiana per cercare di sopravvivere alle condizioni imposte dai

nazisti divenne ben presto una forma di resistenza. Si sviluppò un sistema di

assistenza dei più abbienti verso i più poveri, con raccolte speciali e, grazie a

un diffuso volontariato, vennero aperte cucine pubbliche che servivano

migliaia di pasti.

Sorsero decine di comitati che si occupavano degli alloggi, dell’educazione dei

bambini, delle attività culturali.

Tra le istituzioni benefiche si ricorda l’orfanotrofio modello diretto dal dottor

Korzcak, insigne pedagogista allora molto noto in Polonia, che applicò ai suoi

bambini innovativi metodi di educazione. L’orfanotrofio fu smobilitato e i

bambini con il dottore e il personale uccisi nella camera a gas di Treblinka.

Nè può essere dimenticata l’opera di Emanuel Ringelblum, eminente storico

che, rinchiuso nel ghetto, ebbe chiara la premonizione della prossima

scomparsa della comunità ebraica di Varsavia. Per salvarne la memoria, istituì

una commissione di cronachisti, studiosi, medici, artisti, che documentassero

la vita e la morte all’interno del ghetto. Grazie alla sua istituzione, oggi

conosciamo le sofferenze, l’organizzazione interna, i combattimenti

dell’ultima ora, registrati accuratamente e occultati sotto terra dai suoi

collaboratori.

Dopo la guerra, una ricerca, effettuata sotto le macerie del ghetto demolito,

portò alla luce bidoni metallici del latte contenenti le ultime vestigia della

comunità ebraica di Varsavia.

Accanto alla miseranda vita che scorreva in superficie, a Varsavia ne fiorì una

sotterranea, ricca di studi, sacri e profani, di discussioni politiche, di letture,

39

di esecuzioni musicali. I movimenti giovanili, molto sensibili ai problemi

della sopravvivenza collettiva, cercavano di dare una mano dove potevano,

confortavano, incoraggiavano, prestavano soccorso ai bisognosi; furono

proprio loro a rendersi conto, per primi, che la situazione era senza sbocco,

che nelle intenzioni naziste c’era l’assassinio di tutti gli ebrei della Polonia. Da

loro partì l’esortazione a opporsi ai decreti nazisti e alla sudditanza al

Consiglio ebraico che, al contrario, temeva che la disobbedienza attirasse sulla

popolazione le ire tedesche e provocasse rappresaglie. Completamente isolati

dal mondo esterno, senza contatti né possibilità di comunicazione, giovani

corrieri, facendosi passare per ariani, si spostavano di ghetto in ghetto per

portare e raccogliere notizie. Grazie a loro fu possibile talvolta avviare rapporti

con movimenti antinazisti polacchi, per l’acquisto di armi.

40

Joseph Goebbels, “Decalogo di Goebbels”

sta in E. Collotti, Nazismo e società tedesca 1933-1945, Loescher, Torino

1982

1. Gli ebrei sono la nostra rovina. Essi hanno appiccato e condotto la guerra

presente. Con essa vogliono distruggere il Reich tedesco e il nostro popolo.

Bisogna mandare all’ aria questo piano.

2. Non c’è differenza tra ebreo ed ebreo. Ogni ebreo è nemico giurato del

popolo tedesco. Se egli non mostra la sua inimicizia nei nostri confronti è

solo per viltà e furbizia, non perché non alberghi nel suo cuore.

3. Ogni soldato tedesco che cade in questa guerra passa sul conto debiti degli

ebrei. Sono essi che lo hanno sulla coscienza e per questo essi dovranno

anche pagare.

4. Chi porta la stella giudaica è designato come nemico del popolo. Chi

intrattiene ancora con lui rapporti privati, è uno di loro e deve essere valutato

e trattato come un ebreo. Egli merita il disprezzo del popolo intero, che nel

momento più duro ha vilmente e volgarmente piantato in asso per passare

dalla parte di coloro che lo odiano.

5. Gli ebrei godono la protezione del nemico straniero. Non c’è alcun altro

bisogno per provare il loro ruolo distruttivo nel nostro popolo.

6. Gli ebrei sono i messaggeri del nemico tra noi. Chi si pone dalla loro parte,

passa in guerra dalla parte del nemico.

7. Gli ebrei non hanno alcun diritto a comportarsi come se avessero i nostri

stessi diritti. Quando vogliono prendere la parola per la strada, nelle file

dinanzi ai negozi, nei mezzi di trasporto, bisogna indurli al silenzio, non

soltanto perché hanno in linea di principio torto, ma perché sono ebrei e

come tali non hanno alcuna voce in capitolo nella comunità.

41

8. Se gli ebrei ti si accostano facendo leva sul sentimento, sappi che questa è una

speculazione sulla tua capacità di dimenticare: mostra subito loro che tu vedi i

loro nascosti propositi e puniscili con il disprezzo.

9. Dopo la sconfitta il nemico decente avrà diritto alla nostra magnanimità. Ma

l’ebreo non è un nemico decente, non può comportarsi diversamente.

10. Gli ebrei portano la responsabilità della guerra. Con il trattamento che noi

infliggiamo loro non patiscono alcun torto. Lo hanno più che meritato.

Sbarazzarsi definitivamente di loro è affare del governo. Nessuno ha il diritto

di agire di propria iniziativa, ma tutti hanno il dovere di apprezzare le misure

dello stato contro gli ebrei, di difenderle nei confronti di chiunque e di non

farsi fuorviare nella chiara consapevolezza della loro nocività da nessuna

manovra e da nessun ammiccamento degli ebrei.

Questo è quanto la sicurezza dello stato richiede da tutti noi.

42

G. GOZZINI, La strada per Auschwitz. Documenti e interpretazioni sullo

sterminio nazista, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 152-154

Le tecniche dello sterminio

Da testimonianze fornite nel dopoguerra sappiamo che già a metà agosto lo

stesso Himmler aveva dato facoltà di esperire metodi di esecuzione capitale diversi

dalle fucilazioni di massa, causa di abbrutimento tra gli effettivi delle

Einsatzgruppen1 Come abbiamo visto, a fine ottobre, per evitare «fucilazioni di

ebrei, che anche per il fatto di essere compiute in pubblico non possono essere

approvate», era stato inviato alle dipendenze di Lohse il personale che, sotto la

supervisione di Brack, aveva condotto l’operazione T42. Così l’esperienza svolta

nell’ambito del programma eutanasia indirizzò subito le ricerche verso l’impiego

di gas venefici, seguendo diverse strade parallele.

La prima fu quella dei Gaswagen (“veicoli a gas”): speciali camion a tenuta

stagna che riutilizzavano i gas di scarico del motore tenuto acceso dopo che

era stato completato un “carico” umano variabile, a seconda dei tipi di

furgone, da 25 a 60 persone. Nel giugno 1942 venne rimesso a Berlino un

rapporto generale sull’efficacia di questa nuova tecnica.

Dal dicembre 1941 sono stati trattati [verarbeitet] per esempio 97 mila, usando 3

camion, senza che nei veicoli si sia manifestato alcun difetto [...]. Sembra che sia

1 Cfr. R. D. Breitman, Himmler. Il burocrate dello sterminio, Mondadori, Milano 1991,

pp. 256-257. Numerose testimonianze di parte nazista sui disagi psichici derivanti dalle fucilazioni di massa in E. Klee, W. Dressen, V. Riess (a c. di), “Bei tempi”. Lo

sterminio degli ebrei raccontato da chi l’ha eseguito e da chi stava a guardare, Giuntina, Firenze 1990, p. 52 ss.

2 Vedi pp. 114-115.

43

necessaria una riduzione dello spazio di carico del camion. Ciò si può otte-

nere accorciandolo di circa un metro. Il problema non può essere risolto

semplicemente riducendo il numero di soggetti trattati, come si è fatto

finora. Perché in tal caso diventa più lungo il tempo di esecuzione,

necessario perché l’ossido di carbonio saturi gli spazi vuoti. Viceversa, se il

piano di carico fosse più piccolo, ma interamente occupato, l’operazione

richiederebbe molto meno tempo, perché non ci sarebbero spazi vuoti. La

ditta costruttrice ha sostenuto nel corso di discussioni che una riduzione di

volume del camion provocherebbe una distribuzione ineguale del carico.

Ci sarebbe il rischio di un sovraccarico dell’asse. In effetti si verifica una

compensazione naturale nella distribuzione del peso. In fase operativa il

carico, nello sforzo di raggiungere la porta posteriore, si ammassa per la

maggior parte nel retro [...]. L’esperienza inoltre dimostra che quando la porta

posteriore si chiude e l’interno rimane al buio, il carico si getta contro la porta. Il

motivo è che quando si trova al buio il carico si protende verso la poca luce

che rimane. Il che ostacola l’operazione di chiusura della porta. Si è anche

notato che il rumore provocato dalla chiusura della porta si combina con la

paura suscitata dall’oscurità. È perciò utile tenere le luci interne accese prima

dell’operazione e durante i primi minuti della sua attuazione. Le luci sono

anche necessarie per il lavoro notturno e per la pulizia del vano di carico. Per

facilitare lo scarico rapido dei furgoni, deve essere collocata sul pavimento una

griglia asportabile, con pattini scorrevoli su una rotaia a forma di U3.

3 Lettera della sezione IID3 della Polizia di sicurezza a W. Rauff, direttore della

divisione IID, 5 giugno 1942, documento originale presso gli Archivi nazionali di Washington (R 58/871), riprodotto in copia in E. Kogon, H. Langbein, A. Rückerl, Nazi Mass Murder. A Documentary History of the Use of Poison Gas, Yale University Press, New Haven 1993, pp. 231-235.

44

La fabbrica dello sterminio di Auschwitz

Ad Auschwitz, in Polonia (il nome locale è Oswiecim) venne costruito nel 1940 un

vastissimo campo di concentramento per deportati politici che rimase in servizio, con

questa funzione, fino alla fine della guerra. Il primo marzo 1941, il comandante in

capo delle SS, Heinrich Himmler, ordinò l’edificazione, nella vicina località di

Birkenau, di un secondo campo di dimensioni ancora più grandi destinato ai

prigionieri di guerra sovietici. Da lì a poco, tuttavia, si definirono i piani dello

sterminio in massa degli ebrei per la cui attuazione ad Auschwitz-Birkenau venne

assegnato un ruolo centrale. Il compito di dirigerlo fu affidato a Rudolf Höss che venne

istruito sui suoi compiti direttamente da Eichmann alla fine dell’estate del 1941.

Volontario a quindici anni nella Prima Guerra Mondiale, Höss aveva poi fatto

carriera nel corpo delle SS servendo nei campi di concentramento dal 1934.

Apparteneva a “quegli individui per i quali la visione della vita si identificava

totalmente con l’ideologia delle SS, ed erano in grado di svolgere qualsiasi compito che

il Reichsführer-SS assegnava loro” [Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei in Europa,

Torino, Einaudi, 1995, p.974]. Condannato a morte in Polonia, Höss venne

giustiziato nel 1947.

Rudolf Höss, Comandante in Auschwitz, Torino, Einaudi, 1995, pp.130-133

Le fucilazioni mi atterrivano, soprattutto pensando alle masse, alle donne e ai

bambini. Ne avevo abbastanza, ormai, delle esecuzioni di ostaggi, delle

fucilazioni in gruppo ordinate da HimmIer o dall'Alto Comando della polizia

del Reich. Ma ora ero tranquillo perché questi bagni di sangue sarebbero stati

evitati, e perché le vittime avrebbero potuto essere risparmiate fino all'ultimo

momento. Era proprio questo che mi turbava di più, quando pensavo alle

descrizioni che Eichmann ci aveva fatto dello sterminio di ebrei, mediante

mitragliatrici e mitra, compiuto dalle squadre speciali (Einsatzkommando). Pare

45

che vi si svolgessero scene spaventose: i tentativi di fuga da parte dei

condannati, l'uccisione dei feriti, soprattutto delle donne e dei bambini. I

frequenti suicidi nelle file delle squadre speciali, da parte di coloro che non

erano più in grado di sopportare quei bagni di sangue. Alcuni sono impazziti.

La maggioranza dei membri di queste squadre hanno cercato di dimenticare il

loro triste lavoro annegando nell'alcool. Secondo le descrizioni di Höfle,

anche i militi di Globocnik addetti ai luoghi di sterminio consumavano

quantità inverosimili di alcool.

Nella primavera del 1942 giunsero i primi trasporti di ebrei dall'Alta Slesia',

tutti individui da sterminare. Vennero condotti dal luogo dell'arrivo alla

fattoria - il primo bunker - attraverso i prati di quello che sarebbe poi stato il

settore numero 2. Aumeier, Palitzsch e altri Blockführer li guidavano,

discorrendo con loro degli argomenti più innocui e informandosi delle loro

professioni e mestieri, per meglio ingannarli. Giunti alla fattoria, gli ebrei

dovettero spogliarsi. All'inizio entrarono tranquillamente nelle sale dove

dovevano subire la disinfestazione, ma in breve alcuni cominciarono ad

agitarsi e a parlare di soffocamento, di sterminio. Nacque così un'atmosfera di

panico, ma subito quelli che erano ancora fuori vennero spinti nelle sale e le

porte sbarrate. Per i trasporti successivi, si provvide in tempo a individuare gli

elementi più irrequieti, per poterli tenere d'occhio. Se cominciavano

disordini, gli elementi turbolenti venivano portati dietro la casa senza dare

nell'occhio, e qui uccisi con armi di piccolo calibro, affinché gli altri non si

accorgessero di nulla. Anche la presenza dei Sonderkommando [composto di

prigionieri ebrei] e il suo contegno tranquillizzante servì a calmare gli

irrequieti e i sospettosi. Ancor più induceva alla tranquillità il fatto che alcuni

uomini del Sonderkommando entrassero coi deportati nelle sale e rimanessero

con loro fino all'ultimo momento; anche un milite SS restava fino all'ultimo

sulla porta.

46

Era della massima importanza che tutta l'operazione dell'arrivo e della

svestizione avvenisse in tutta calma, che non ci fossero grida, eccitazione. Se

qualcuno non voleva spogliarsi, altri che già l'avevano fatto, oppure quelli

del Sonderkommando, dovevano intervenire per aiutarli. Anche i più ostinati

venivano così persuasi e spogliati, con le buone maniere. I prigionieri

del Sonderkommando badavano anche a che l'operazione procedesse con grande

rapidità, affinché le vittime non avessero troppo tempo per meditare su

quanto sarebbe avvenuto.

In generale, lo zelo con cui costoro provvedevano a far spogliare i deportati e

a condurli dentro era assai singolare. Non ho mai saputo né visto che

dicessero una mezza parola ai deportati sulla sorte che li attendeva. Al

contrario, facevano di tutto per ingannarli, e soprattutto per calmare i

sospettosi. Anche se non credevano ai militi delle SS, costoro dovevano pur

credere con piena fiducia ai loro compagni di razza (infatti i

Sonderkommandos, appunto per infondere fiducia e tranquillità, erano

composti sempre di ebrei provenienti dalle stesse regioni in cui erano in corso

volta per volta le deportazioni). Si facevano raccontare della vita nel campo e,

per lo più, si informavano delle condizioni di conoscenti o di familiari giunti

con trasporti precedenti. Ed erano interessanti la capacità di mentire da parte

degli uomini del Sonderkommando e la loro forza di persuasione, i gesti con cui

sottolineavano le proprie parole. Molte donne nascondevano i bambini

lattanti nei mucchi di abiti. Ma gli uomini dei Sonderkommando vigilavano, e a

forza di parole riuscivano a persuaderle a riprendersi i bambini. Esse

credevano che la disinfestazione potesse essere nociva ai piccoli, e per questo

li nascondevano. I bambini piccoli per lo più piangevano durante la

svestizione, impressionati da tante novità, ma quando le madri, oppure quelli

del Sonderkommando, gli parlavano dolcemente, si calmavano e si avviavano

tranquilli nelle camere a gas, stuzzicandosi l'un l'altro o tenendo in mano dei

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giocattoli. Ho notato spesso che donne le quali intuivano o addirittura

sapevano ciò che le attendeva, pur con l'angoscia della morte negli occhi,

trovavano la forza di scherzare coi figli, di parlargli amorevolmente. Una volta

una donna passando mi venne vicina e mi sussurrò, indicandomi i suoi

quattro figli, che aiutavano fraternamente i più piccoli a superare gli ostacoli

dei terreno: - Come potete avere il coraggio di ammazzare questi bambini? Ma

non avete un cuore nel petto? - Un altro, un vecchio, nel passarmi davanti

mormorò: - La Germania sconterà duramente questo assassinio in massa degli

ebrei -. E i suoi occhi ardevano di odio. Pure, entrò coraggiosamente nella

camera a gas, senza curarsi degli altri. Sopra tutti gli altri mi colpì una

giovane, che correva freneticamente avanti e indietro, aiutando i bambini e

gli anziani a spogliarsi. Durante la selezione aveva accanto a sé due bambini

piccoli; mi avevano colpito la sua eccitazione e in generale il suo aspetto: non

sembrava affatto un'ebrea. Ora non aveva più i bambini accanto a sé. Fino

all'ultimo si diede da fare per aiutare alcune donne che avevano parecchi

bambini, parlando loro gentilmente, calmando i bambini. Fu tra gli ultimi a

entrare nel bunker. Sulla porta si fermò e disse: - Ho saputo fin dal principio

che ad Auschwitz saremmo stati gasati. Quando avete fatto la selezione, ho

evitato di essere messa tra gli abili al lavoro, perché volevo seguire i bambini.

Volevo fare questa esperienza in piena coscienza. Spero che presto tutto sarà

finito. Addio.

Talvolta avveniva anche che alcune donne, mentre si spogliavano, rompessero

d'improvviso in grida laceranti, strappandosi i capelli e comportandosi come

isteriche. Subito venivano allontanate dalla massa e portate dietro la casa per

essere uccise con un'arma di piccolo calibro, mediante il colpo alla nuca.

Avveniva anche che, nel momento in cui quelli del Sonderkomman-

do lasciavano il locale, le donne, intuendo perfettamente ciò che stava per

accadere, ci urlassero dietro tutte le maledizioni possibili. Mi ricordo anche di

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una donna che, mentre stavano per chiudere le porte, cercò di spingere fuori

i figli, e gridava piangendo: -Lasciate in vita almeno i miei bambini!

Molte furono le scene commoventi, e colpivano tutti i presenti. Nella

primavera del 1942 centinaia di uomini e donne nel fiore degli anni

andarono così alla morte tra i frutteti in fiore della fattoria, nella camera a

gas, senza per lo più intuire nulla. Questa immagine di vita e di morte rivive

ancor oggi nitidamente davanti ai miei occhi.

Già l'operazione di selezione nel cortile era piena di incidenti. La divisione

delle famiglie, la separazione degli uomini dalle donne e dai bambini,

diffondeva eccitazione e inquietudine in tutto il trasporto, e questo stato

d'animo era accentuato dalla selezione degli abili al lavoro. Le famiglie

volevano restare unite a ogni costo, e così i selezionati correvano di nuovo a

raggiungere gli altri membri della famiglia, o la madre e i figli correvano in

cerca dei loro uomini o dei figli maggiori considerati abili. Nasceva così una

confusione tale che spesso bisognava ricominciare tutto daccapo. Inoltre, lo

spazio angusto impediva che la selezione avvenisse con maggiore ordine, e

tutti i tentativi di riportare la tranquillità naufragavano contro l'eccitazione

della massa. Così, spesso bisognava impiegare la forza.

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T. W. Adorno, Contro l'antisemitismo, Roma, Manifestolibri, 1994, a cura

di S. Petrucciani, tr. F. Filice, pp. 41-42

“I gruppi antisemiti provenivano in larga misura da strati sociali esprimenti

un duplice rifiuto: da un lato contro il socialismo, dall’altro contro ciò che ai

loro occhi era clericalismo. Essi abbinavano una certa resistenza contro poteri

convenzional-conservatori a quella contro il movimento operaio. In Austria

questo aspetto era particolarmente sviluppato: chi non era cristiano-sociale o

socialdemocratico, tendeva automaticamente al popolarismo tedesco e quindi

all’antisemitismo. Io ritengo che questa mentalità continui a esistere ancora

oggi. Le strutture fondamentali dei raggruppamenti politici hanno una

curiosa longevità che evidentemente travalica le immani tragedie che abbiamo

già vissuto. Di conseguenza gli argomenti di tipo religioso si trovano

facilmente in svantaggio ideologico rispetto a persone che vivono comunque

in una sfera che non si lascia avvicinare da quella religiosa e che di essa fiuta

soltanto la fittizia pretesa di dominio oltramontano. Anche i gruppi religiosi

(...) dovrebbero cercare di combattere l'antisemitismo sul suo stesso terreno;

da un lato, quindi, contribuire a impedire il costituirsi di strutture caratteriali

antisemite, dall'altro riallacciarsi, là dove queste già esistono, a ciò che

sappiamo del conscio e dell'inconscio degli antisemiti, andando anche oltre,

ma non sem-plicemente affermare, o addirittura propagare il loro punto di

vista. E ciò mi spinge a soffermarmi sulla posizione da assumere rispetto ai

problema della propaganda nel suo complesso. Consentitemi di premettere

un po' accentuatamente una tesi: l'antisemitismo è un mezzo di

comunicazione di massa nei senso che prende spunto da inconsci istinti,

conflitti, inclinazioni, tendenze per rafforzarli e manipolarli anziché

rischiararli ed elevarli al livello di coscienza. È un potere completamente

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antiilluministico e, malgrado il suo naturalismo, si è da sempre collocato in

contrasto stridente con l'illuminismo continuamente e ripetutamente

biasimato in Germania. Questa struttura è comune alla superstizione,

all'astrologia, che cerca anch'essa di potenziare e sfruttare gli istinti inconsci, e

a ogni propaganda; fa sempre la stessa cosa. Di conseguenza, ciò che si chiama

metodo propa-gandistico parte già in svantaggio rispetto all'antisemitismo. Io

considero proprio questo cristallizzarsi razionale di tendenze irrazionali, la

loro confer-ma o riproduzione attraverso varie forme di comunicazione di

massa, oggi, una delle forze ideologiche più pericolose nella società

contemporanea.

In occasione di uno studio contro l'astrologia commerciale nelle rubriche dei

giornali, che ho pubblicato qualche tempo fa, un noto psicologo, senza

nominarmi esplicitamente, ha polemizzato con me rimproverandomi di

sopravalutare queste cose innocue, e sostenendo che sarebbe bello se

l'astrologia servisse a convincere gli uomini a essere gentili gli uni con gli altri

e un po' più cauti nella guida. Non voglio sopravalutare l'importanza della

astrologia, ma vorrei altresì ammonire a non sottovalutarla. La tenden-za a

non rischiarare quanto cova nell'inconscio, ma a manipolarlo e porlo al

sevizio di interessi particolari è presente anche nel pregiudizio antisemita. Io

potrei fornirvi la prova che esiste, fin nei più piccoli particolari, una con-

comitanza strutturale tra, mi si conceda il termine, "gli stereotipi astrologici" e

gli "stereotipi antisemiti", e che i meccanismi di cui qui si tratta sono nel

contempo le costanti della psicologia pubblicitaria. Si potrebbe dire che

l'antisemitismo è l'ontologia della reclame.”.

51

Sigmund Freud, Le ragioni inconsce dell’antisemitismo, da L’uomo Mosè e

la religione monoteistica, in Opere 1930-1938, Boringhieri, 1989 (Der

Mann Moses und die monotheistische Religion, 1934)

I motivi più profondi dell’odio per gli Ebrei sono radicati nel passato più

remoto, agiscono dall’inconscio dei popoli, e non c’è da stupirsi che sulle

prime appaiano incredibili. Arrischio l’affermazione che la gelosia per il

popolo che si è spacciato per il figlio primogenito e preferito del Padre divino

non è stata superata ancor oggi dagli altri popoli, quasi questi avessero

prestato fede a tale pretesa […]. E infine l’ultimo motivo: non

dimentichiamoci che tutti questi popoli che oggi eccellono nell’odio contro

gli Ebrei sono diventati cristiani solo in epoca tarda, spesso spinti da

sanguinosa coercizione. Si potrebbe dire che sono tutti “battezzati male” e che

sotto una sottile verniciatura di cristianesimo sono rimasti quello che erano i

loro antenati, i quali professavano un barbaro politeismo. Non avendo

superato il rancore contro la nuova religione che è stata loro imposta, l’hanno

però spostato sulla fonte donde il cristianesimo è loro pervenuto. Il fatto che i

Vangeli narrano una storia che si svolge tra Ebrei e tratta propriamente solo

di Ebrei ha facilitato questo spostamento. Il loro odio per gli Ebrei è al fondo

odio per i cristiani, e non vi è di che meravigliarsi se nella rivoluzione

nazionalsocialista tedesca questa intima relazione tra le due religioni

monoteistiche trova così chiara espressione nel trattamento ostile riservato a

entrambe.

52

H. Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine judische Stimme,

Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1987, trad. it. Il concetto di Dio

dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1993, pp. 33-35

Tuttavia accanto a queste obiezioni di carattere logico e ontologico al

concetto di una onnipotenza divina, assoluta e illimitata, vi è anche

un’obiezione di carattere teologico e genuinamente religioso. La onnipotenza

divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale

non comprensibilità di Dio, cioè dell’accezione di Dio come mistero assoluto.

Di fronte all’esistenza nel mondo del male morale o anche solo del male

meramente fisico, dovremmo sacrificare la comprensibilità di Dio alla

coesistenza in lui degli altri due attributi. Solo di un Dio totalmente

incomprensibile si può affermare che è assolutamente buono e

cooriginariamente assolutamente onnipotente e che, nonostante ciò,

sopporta il mondo così com’è. Più in generale, i tre attributi in questione -

bontà assoluta, potenza assoluta e comprensibilità - sono fra loro in rapporto

tale che ogni relazione tra due di loro esclude il terzo. Questo è allora il pro-

blema vero: quali sono i due concetti veramente irrinunciabili, fondamentali

per il nostro concetto di Dio e quale è il terzo che deve essere escluso? Certo

la bontà, cioè la volontà del Bene, è inseparabile dal nostro concetto di Dio e

non può sottostare a nessuna limitazione. La comprensibilità o la

conoscibilità che è doppiamente condizionata, dall’essenza di Dio e dalla

limitatezza umana, è, in ultima analisi, certamente un attributo limitato,

tuttavia non può essere in nessun modo negata. Il Deus absconditus, il Dio

nascosto (per non parlare del Dio assurdo) è un concetto del tutto estraneo

all’ebraismo. La nostra dottrina, la Torah, si fonda sul presupposto che noi

possiamo conoscere Dio, ovviamente non in modo perfetto, ma limitato: che

53

noi conosciamo cioè qualcosa di lui, del suo volere, delle sue intenzioni e

della sua essenza, dal momento che egli stesso ce lo ha rivelato. Ci fu la

Rivelazione, possediamo i suoi comandamenti e la sua legge, a molti - i suoi

profeti - egli si rivolse direttamente, affinché trasmettessero la sua parola a

tutti nel linguaggio degli uomini e del tempo; egli ha parlato ricorrendo a

questo mezzo imperfetto, non si è chiuso perciò in un impenetrabile mistero.

Il concetto di un Dio totalmente nascosto è conseguentemente inammissibile

per la fede ebraica. Ma certamente Dio dovrebbe essere incomprensibile se

con la bontà assoluta gli venisse attribuita anche l’onnipotenza. Dopo

Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una

Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile (nel

governo del mondo in cui noi unicamente siamo in condizione di

comprenderla). Ma se Dio può essere compreso solo in un certo modo

e in un certo grado, allora la sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non

deve escludere l’esistenza del male; e il male c’è solo in quanto Dio non è

onnipotente. Solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è

comprensibile e buono e che nonostante ciò nel mondo c’è il male. E poiché

abbiamo concluso che il concetto di onnipotenza è in ogni caso un concetto

in sé problematico, questo è l’attributo divino che deve venir abbandonato.

Fino ad oggi l’argomento invocato a favore della onnipotenza si è limitato ad

affermare, in accordo con la teologia di origine ebraica, il principio

fondamentale secondo cui la potenza di Dio ha il suo limite in qualcosa, la

cui esistenza in virtù di un diritto che le è proprio e di un potere di agire per

autorità propria - egli riconosce. Tale riconoscimento viene interpretato come

una concessione da parte di Dio, che può essere revocata in ogni momento,

come se Dio trattenesse in sé un potere integro che ha esercitato in modo

parziale a vantaggio della creazione e del diritto proprio di quest’ultima.

Tuttavia questo non può bastare, poiché di fronte alle cose veramente inau-

54

dite che, nel creato, alcune creature, fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad

altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà,

venga meno alla regola che si è imposto di trattenere in sé la propria potenza

e intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato;

durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto. I

miracoli che accaddero furono unicamente opera di uomini: le azioni di quei

giusti, appartenenti ad altri popoli che, in modo isolato e sovente scono-

sciuto, accettarono l’estremo sacrificio per salvare, alleviare, se non erano in

grado di far altro, condividere la sorte di Israele. Anche di costoro parlerò.

Ma Dio tacque. Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non lo volle,

ma perché non fu in condizione di farlo. Per ragioni che in modo decisivo

derivano dall’esperienza contemporanea, propongo quindi l’idea di un Dio

che per un’epoca determinata – l’epoca del processo cosmico - ha abdicato ad

ogni potere di intervento nel corso fisico del mondo; un Dio che nell’urto con

gli eventi mondani rivolti contro di lui, non ha reagito “con la mano forte e

con il braccio teso” - come noi ebrei recitiamo ogni anno ricordando l’esodo

dall’Egitto - bensì continuando con muta perseveranza la realizzazione del suo

fine incompiuto.

55

Jean-Paul Sartre, L'antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, tr. I.

Weiss, Milano, Mondadori 1990, Réflexions sur la question juive, Paris,

1954 (1a ed. 1946), pp. 44-53

"Per causa sua il Male accade sulla terra, tutto ciò che c'è di male nella società

(crisi, guerre, carestie, rivolgimenti e rivolte) gli è direttamente o

indirettamente imputabile. L'antisemita ha paura di scoprire che il mondo è

fatto male: perché allora bisognerebbe inventare, modificare e l'uomo si

ritroverebbe padrone dei propri destini, provvisto di una responsabilità

angosciosa e infinita. Perciò localizza nell'ebreo tutto il male dell'universo. Se

le nazioni si fanno guerra ciò non deriva dal fatto che l'idea di nazionalità,

nella sua forma presente, implica quella dell'imperialismo e del conflitto di

interessi. No, è l'ebreo che sta lì, dietro ai governi, e soffia la discordia. Se c'è

una lotta di classe, ciò non si deve al fatto che l'organizzazione economica

lascia a desiderare: sono i caporioni ebrei, gli agitatori dal naso adunco che

traviano gli operai. Così l'antisemitismo è originariamente un manicheismo;

spiega il corso del mondo con la lotta del principio del Bene contro il

principio del Male. Tra questi due principi non è concepibile nessun accordo:

bisogna che uno dei due trionfi e che l'altro sia annientato.[...]

Questo tipo [l’antisemita] siamo ora in grado di comprenderlo. E' un uomo

che ha paura. Non degli ebrei, certamente: ma di se stesso, della sua

coscienza, della sua libertà, dei suoi istinti, delle sue responsabilità, della

solitudine, del cambiamento della società e del mondo; di tutto meno che

degli ebrei. E' un codardo che non vuol confessarsi la sua viltà; un assassino

che rimuove e censura la sua tendenza al delitto senza poterla frenare e che

pertanto non osa uccidere altro che in effigie o nascosto dall'anonimato d'una

folla; uno scontento che non osa rivoltarsi per paura delle conseguenze della

sua rivolta. Aderendo all'antisemitismo, non adotta semplicemente

56

un'opinione, ma si sceglie come persona. Sceglie la permanenza e

l'impenetrabilità della pietra, l'irresponsabilità totale del guerriero che

obbedisce ai suoi capi, ed egli non ha un capo. Sceglie di non acquistare

niente, di non meritare niente, ma che tutto gli sia dovuto per nascita - e non

è nobile. Sceglie infine che il Bene sia bell'e fatto, fuori discussione,

intoccabile: non osa guardarlo per timore d'essere indotto a contestarlo e a

cercarne un altro. L'ebreo è qui solo un pretesto: altrove ci si servirà del

negro, o del giallo. La sua esistenza permette semplicemente all'antisemita di

soffocare sul nascere ogni angoscia persuadendosi che il suo posto è stato da

sempre segnato nel mondo, che lo attende e che egli ha, per tradizione, il

diritto d'occuparlo. L'antisemitismo, in una parola, è la paura di fronte alla

condizione umana. L'antisemita è l'uomo che vuole essere roccia spietata, un

torrente furioso, fulmine devastatore: tutto fuorché un uomo.

57

AGAMBEN G., Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone,

Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 13-16

I.

Il testimone

I.I Nel campo, una delle ragioni che possono spingere un deportato a

sopravvivere, è diventare un testimone:

Per parte mia, avevo fermamente deciso che qualunque cosa mi accadesse non mi sarei

tolto la vita. Volevo vedere tutto, vivere tutto, fare esperienza di tutto, trattenere tutto

dentro di me. A che scopo, visto che non avrei mai avuto la possibilità di gridare al

mondo quello che sapevo? Semplicemente perché non volevo togliermi di mezzo, non

volevo sopprimere il testimone che potevo diventare (Langbein H., Auschwitz.

Zeugnisse und Berichte, a cura di H. G. Adler, H. Langbein, F. Lingens-Reiner,

Europäische Verlag, Hamburg 1994, p. 186).

Certo non tutti, anzi solo una infima parte dei detenuti si dà questa ragione.

Può anche darsi, del resto, che sia una ragione di comodo («vorrei

sopravvivere per questa o quella ragione, per questo o quello scopo, e trova

centinaia di pretesti. La verità, è che vorrebbe vivere a qualsiasi costo»:

(Lewental S., Gedenkbuch, in «Hefte von Auschwitz », n° I, Oswiecim 1972, p.

148). O che si tratti soltanto di vendetta («naturalmente potrei suicidarmi

gettandomi sul filo spinato, questo possiamo sempre farlo. Ma io voglio

vivere. Magari succede un miracolo e saremo liberati. E allora mi vendicherò,

racconterò a tutto il mondo quello che è successo qui dentro»: (Sofsky W.,

L’ordine del terrore, Laterza, Roma-Bari 1995, ed. orig. Die Ordnung des Terrors,

Fischer, Frankfurt a. M., 1993, p. 477). Giustificare la propria sopravvivenza

non è facile, tanto meno nel campo. Alcuni dei sopravvissuti, poi,

preferiscono tacere. «Alcuni dei miei amici, amici a me molto cari, non

58

parlano mai di Auschwitz» (Levi P., Conversazioni e interviste, Einaudi, Torino

1997, p. 224). E tuttavia, per altri, non far morire il testimone è l’unica ragio-

ne di vita. «Altre persone, invece, ne parlano incessantemente, ed io sono uno

di loro» (ibid.).

1.2 Un tipo perfetto di testimone è Primo Levi. Quando torna a casa fra gli

uomini, racconta instancabilmente a tutti quello che gli è capitato di vivere.

Fa come il Vecchio Marinaio della ballata di Coleridge:

Lei ricorda la scena, il Vecchio Marinaio blocca gli invitati al matrimonio, che non gli

prestano attenzione - loro stanno pensando al loro matrimonio -, e li costringe ad

ascoltare il suo racconto. Ebbene, quando ero appena ritornato dal campo di

concentramento, anch’io mi comportavo esattamente così. Provavo un bisogno

irrefrenabile di raccontare la mia vicenda a chiunque!... Ogni occasione era buona per

raccontare a tutti la mia vicenda; al direttore della fabbrica così come all’operaio,

anche se loro avevano altre cose da fare. Ero ridotto proprio come il Vecchio Marinaio.

Poi incominciai a scrivere a macchina durante la notte... Tutte le notti scrivevo, e

questa veniva considerata una cosa ancora più folle! pp. 224 sg.).

Ma non si sente scrittore, diventa scrittore unicamente per testimoniare. In

un certo senso, scrittore non lo è mai diventato. Nel 1963, quando ha già

pubblicato due romanzi e vari racconti, alla domanda se si consideri un

chimico o uno scrittore risponde senz’ombra di dubbio: «Ah, un chimico, sia

ben chiaro, non fraintendiamo» p. 102). Il fatto che, col tempo e quasi suo

malgrado, abbia finito col diventarlo, scrivendo libri che con la sua te-

stimonianza non c’entrano per nulla, lo mette profondamente a disagio: «Ho

scritto poi... ho acquisito il vizio di scrivere» (p. 258). «In questo mio ultimo

libro, La chiave a stella, mi sono spogliato completamente della mia qualità di

testimone... Con questo non rinnego nulla; non ho cessato di essere un ex

deportato, un testimone...» (p. 167).

59

E con addosso questo disagio che io l’ho incontrato nelle riunioni della casa

editrice Einaudi. Poteva sentirsi in colpa per essere sopravvissuto, non per

aver testimoniato. «Sono in pace con me perché ho testimoniato» (p. 219).

1.3 In latino ci sono due parole per dire il testimone. La prima, testis, da cui

deriva il nostro termine testimone, significa etimologicamente colui che si

pone come terzo {*terstis) in un processo o in una lite tra due contendenti. La

seconda, superstes, indica colui che ha vissuto qualcosa, ha attraversato fino

alla fine un evento e può, dunque, renderne testimonianza. E evidente che

Levi non è un terzo; egli è, in ogni senso, un superstite. Ma ciò significa,

anche, che la sua testimonianza non concerne l’acquisizione dei fatti in vista

di un processo (egli non è abbastanza neutrale per questo, non è un testis). In

ultima analisi, non è il giudizio che gli importa - tanto meno il perdono. «Io

non compaio mai come giudice» (p. 77); «io non ho l’autorità di concedere il

perdono... io sono privo di autorità» (p. 236). Sembra, anzi, che gli interessi

soltanto ciò che rende il giudizio impossibile, la zona grigia dove le vittime

diventano carnefici e i carnefici vittime. Soprattutto su questo i superstiti

sono d’accordo: «Nessun gruppo era più umano di altri» (p. 232); «Vittima e

carnefice sono ugualmente ignobili, la lezione dei campi è la fraternità

dell’abiezione» (Rousset, in Levi, op. cit., 216).

Non che un giudizio non possa o non debba essere pronunciato. «Se avessi

avuto davanti a me Eichmann, lo avrei condannato a morte» (ibid. 144); «Se

hanno commesso un crimine, allora devono pagare» (p. 236). Decisivo è

soltanto che le due cose non siano confuse, che il diritto non pretenda di

esaurire la questione. Vi è una consistenza non giuridica della verità, in cui la

quaestio facti non può mai essere ricondotta alla quaestio iuris. Questo è,

appunto, affare del superstite: tutto ciò che porta un’azione umana al di là del

diritto, ciò che la sottrae radicalmente al Processo. «Ciascuno di noi può

60

essere processato, condannato e giustiziato senza neppure sapere il perché» (p.

75)

61

GIULIANI M., Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle «teologie

dell’Olocausto», Morcelliana, Brescia 1998, pp. 15-19

ANCORA DOMANDE

Il pensiero di fronte alla Shoà

In Se questo è un uomo, nel capitolo dedicato al suo arrivo nel campo di

Auschwitz, Primo Levi racconta:

«Spinto dalla sete, ho addocchiato, fuori di una finestra, un bel ghiacciolo a portata di

mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno

grande e grosso che si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. - Warum? -

gli ho chiesto nel mio povero tedesco. - Hier ist kein Warum (qui non ci sono perché) -

mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone».

Ad Auschwitz non si fanno domande. Si danno ordini, si gridano imperativi,

si prendono decisioni di vita o di morte. Ma non si fanno domande. E

soprattutto non si fa quella domanda - la domanda del senso, della ragione,

della presa di coscienza: Warum - perché? La domanda della causa,

dell’origine, della fondazione. La domanda che cerca la spiegazione, che in-

daga i motivi, che esige giustificazione. La domanda che fa la differenza tra

l’animale razionale e l’animale non razionale, la domanda che muove il

pensiero verso i confini del non-ancora-conosciuto, verso il mondo del

possibile e dell’ipotetico, verso quel di-più che rende così unica e affascinante

l’esperienza umana. È la domanda del senso, del significato, di Dio - perché?

Ogni domanda, ma soprattutto questa domanda, ad Auschwitz non solo non

era possibile, ma anzi era vietata, negata, annientata. Auschwitz, appunto: il

luogo dove «non ci sono perché». Emil Fackenheim esplicita: «dove c’è la

Shoà, nessun pensiero è possibile». Auschwitz è ‘senza perché’. Nei due sensi,

62

in cui quest’affermazione può essere intesa: è ‘senza perché’ in quanto lì ogni

perché era bandito, ed è ‘senza perché’ in quanto Auschwitz appare ancor

oggi qualcosa di incomprensibile, di inspiegabile, di troppo terribile, troppo

osceno, troppo ripugnante, troppo antiumano, semplicemente troppo. Ne

abbiamo testimonianza da persona che, come pochi, ha studiato e ‘spiegato’

storicamente questo luogo dell’anti-ragione. Raul Hilberg è forse il più

attendibile storico della Shoà, colui che meglio ha ‘spiegato’ come tutto ciò sia

avvenuto. Hilberg ha confessato di aver molto pensato anche al perché tutto

ciò sia avvenuto, ma di essere rimasto come intrappolato in una risposta

tautologica: «Essi lo hanno fatto, perché hanno voluto farlo». E anche coloro

che si sono avventurati in un’impresa per così dire filosofica su Auschwitz, se

onesti, hanno dovuto arrendersi dinanzi al paradosso del «tanto più si spiega,

tanto meno appare comprensibile». Perché questo paradosso? Perché un

filosofo della statura di un Adorno ha potuto affermare che di fronte ad

Auschwitz «ogni capacità metafisica è paralizzata»? Possiamo accontentarci di

formule come quelle che pongono l’incomprensibilità di Auschwitz nel fatto

della sua unicità storica? Quale evento, più o meno tragico, non è ‘unico’

nella storia? Cosa significa l’unicità di Auschwitz? Essa forse vuol rimandare a

una specificità, a una qualità - più che a una quantità - di male. O forse non

vuol proprio rifuggire la sua inclusione nella generica, troppo filosofica,

categoria di male? Quale male si è ‘incarnato’ ad Auschwitz: il male

metafisico, ‘radicale’, delle tradizioni religiose (più o meno gnostiche)?

Oppure il male sociale dei sistemi economici (e politici) fondati

sull’alienazione? Oppure quel male ‘banale’ di cui parlava Hannah Arendt nel

suo bilancio sul processo Eichmann: si vorrebbe cercare il male in qualche

profondità, in qualche radice - magari demoniaca -, e invece esso è tutto

‘apparenza’, è in superficie, senza causa né radice: è, frustrante scoperta, privo

di spessore, e come tale senza pensiero, o almeno senza possibilità di essere-

63

pensato. Impensabile appunto, perché solo il bene ha quella profondità che

permette di essere-pensato. Ma come poteva, allora, la stessa Arendt dire che

«il male sfida il pensiero»? Lo sfida nel senso, forse, che lo confonde, lo

ridicolizza, lo prende per il naso, come un gioco drammatico a mosca cieca,

dentro il quale il pensiero deve constatare di giocare solo con se stesso,

avendo perso ogni possibilità di fissare una qualche regola del gioco. Il male

confonde il pensiero: questi rincorre un senso, una causa, un perché -

appunto - e, al dunque, il male è senza senso e privo di cause (esiste perché

vuole esistere). Ma chi è il soggetto di questo volere, se non il male stesso, sia

che esso abbia il nome di un criminale, sia che si celi sotto una ‘spiegazione’

psicopatologica, o socio-politica, o economicista, o religiosa ... Il male

rimanda sempre a se stesso, e come tale rimanda sempre a vuoto. Il perché del

come è ‘senza perché’. O forse un perché esiste, ma chi osa pronunciarlo con-

scio del valore delle parole? Forse il male è in quella coscienza, in quella

libertà, in quella stessa ragione che usiamo chiamare (per usare una metafora

comune a giudaismo e cristianesimo) «immagine di Dio». Se il male è qui, chi

può distinguere il bene dal male? Il pensiero è, dunque, al contempo giudice

e accusato, in un processo contro se stesso che va ben al di là della ‘sfida’ di

cui parlava la Arendt? Possiamo, a questo punto, ricominciare daccapo, come

nel cerchio di Eraclito: che dire di Auschwitz a fronte di una categoria così

‘evanescente’ come quella del male? E ancora: è possibile dire qualcosa di

sensato - o almeno di eticamente vincolante - se la ragione e il pensiero sono

così zittiti da quel magnetismo di incomprensibilità, che Auschwitz sembra

emanare. Dobbiamo concludere, con lo stesso Primo Levi, che forse quel che

è successo «non deve neppure essere compreso», perché ogni comprensione,

se autentica, implica anche una giustificazione? Ma possiamo azzardare ancora

qualche domanda. È questa inintelligibilità di Auschwitz una conseguenza

della sua - questa sì - ‘radicale’ incomunicabilità? O è esattamente il contrario:

64

Auschwitz è incomunicabile perché, alla fine, resta (e resterà per sempre)

inintellegibile, incomprensibile alla ragione umana? Prima si è perduto lo

scrigno, poi si è perduta la chiave. O, forse, lo scrigno sta - dice un midrash -

sotto il trono di Dio. Ma non è questo un altro modo per dire che, oggi -

nella storia -, esso è chiuso per sempre? Che il dolore è senza senso?

Incomprensibile, dunque incomunicabile. Solo il senso è comunicabile. Non esiste

linguaggio o grammatica per il non senso, per l’aldilà di ogni senso. O, se

esiste, è come se non esistesse. Analogamente a certi suoni troppo bassi o

troppo acuti, o a certi colori, come l’ultravioletto ... Ma se Auschwitz è

incomprensibile, perché le testimonianze delle vittime, dei sopravvissuti, dei

poeti della Shoà ci fanno così pensare? Perché le parole che vengono da

Auschwitz sono così tragicamente chiare, spesso univoche, sempre taglienti -

una spada a doppio taglio? Di quale ‘ragione’ parliamo, quando ne

decretiamo l’impotenza e lo scacco? A quale ‘pensiero’ alludiamo, quando lo

crocifiggiamo con i suoi stessi errori, con i suoi compromessi, con le sue

connivenze con il male?

Incomunicabile, dunque incomprensibile. Il linguaggio, straordinaria invenzione

dell’intelligenza, è presente in forme diverse in tutto il regno animale. Il

linguaggio ad Auschwitz: o meglio la babele delle lingue, là dove non c’era

nulla da esprimere. Perché non c’erano domande. Se Auschwitz è

incomunicabile, perché interrogarsi ancora e ancora sulla negazione di ogni

ragionevolezza, di ogni segno d’umanità, di ogni ‘differenza’ tra uomini? Cosa

celebra il linguaggio se non la differenza, e cosa era più negato ad Auschwitz

se non l’individualità che la parola, nel suo distinguere, esprime? Forse che

non tocca proprio al linguaggio dopo Auschwitz esprimere l’incomunicabile

della ragione negata? E similmente, non tocca proprio al pensiero dopo

Auschwitz indagare l’impotenza della parola ricacciata nella gola da un male

troppo grande, sia da pensare che da raccontare?

65

L. Poliakov, Il mito ariano, trad. di A. de Paz, 1976, pp. 186-188

Per lo storico, il paradosso o l'enigma che si incontrano in Voltaire sono costituiti

dal fatto che egli resta nel ricordo degli uomini il principale apostolo della

tolleranza, a dispetto di uno spietato esclusivismo a cui non si saprebbe dare

altra qualifica che quella di razzista, e di cui i suoi scritti sono una testimonianza

altrettanto valida della sua vita. Per quanto concerne gli uomini di colore, egli

stesso rivelava, fin dal suo primo attacco, una delle chiavi della sua passione.

Checché ne dica «un uomo vestito di un lungo e nero abito talare (= un prete = la

tradizione religiosa cristiana -n.d.r.), scriveva nel suo Traité de métaphysique

(1734), i bianchi con la barba, i negri dai capelli crespi, gli asiatici dal codino, e gli

uomini senza barba, non discendono dallo stesso uomo». Cantico discepolo

dei gesuiti (= Voltaire - n.d.r.) si rivoltava dunque contro gli insegnamenti

ricevuti; ma si adeguava alle opinioni comuni situando i Negri nel gradino più

basso della scala: i Bianchi erano «superiori a questi negri, come i Negri alle

scimmie, e le scimmie alle ostriche», scriveva un po' più avanti. Vent’anni più tardi,

Voltaire sviluppava la sua visione antropologica nel celebre Essai sur le moeurs

et l'esprit des nations (= Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni - n.d.r.).

Dopo aver stabilito che «è permesso soltanto a un cieco di dubitare che i

Bianchi, i Negri e gli Albini (termine usato nel Settecento per indicare i

popoli africani di pelle chiara - n.d.r.) sono razze completamente diverse»,

bollava con l'epiteto di animali soprattutto i Negri; poi, riferendosi agli antichi

autori, parlava delle «specie mostruose che sono potute nascere da questi abomine-

voli amori», intendendo con questo gli accoppiamenti tra scimmie e donne

negre. Più avanti, l'esistenza del Nuovo Mondo gli forniva altre argomentazioni a

favore del poligeni-smo, ed il poligenismo a sua volta gli permetteva di avanzare delle

giustificazioni «naturali» allo schiavismo. (...) Se nessun uomo ha portato un

contributo valido come quello di Voltaire per demolire gli idoli e i pregiudizi del

66

passato, nessuno come lui ha però tanto diffuso e ampliato le aberrazioni della

nuova età della scienza. (...)

David Hume pubblicava nel 1742 un saggio sui J «caratteri nazionali», in

cui affermava, en passant (= senza soffermarsi sul tema -n.d.r.), che «tutti i

popoli che vivono al di là del circolo polare o fra i tropici sono inferiori al resto

della specie». Nel 1754, in occasione dell'undi-cesima edizione, Hume

aggiungeva una nota in cui parlava specificamente dei Negri: «Sono portato a

sospettare che i Negri, e in generale tutte le altre specie umane (perché ve ne

sono quattro o cinque diversi generi) sono per natura inferiori ai Bianchi.

Non è mai esistita una nazione civilizzata, con una costituzione, che non fosse

bianca, né vi è mai stato anche un solo individuo ragguardevole nel campo

dell'azione o della speculazione. Né le industrie, né le arti, né le scienze si

sono mai sviluppate presso i Negri. D'altra parte, i Bianchi più rozzi e barbari,

come gli antichi Germani o gli attuali Tartari, presentano ancora qualche lato

considerevole per valore, per forma di governo, o per qualche altra

particolarità. Una differenziazione così costante ed uniforme, diramandosi su

tanti paesi e su tanti secoli, non sarebbe potuta esistere, se la natura non

avesse operato una distinzione, in origine, fra queste razze umane. Senza

parlare delle nostre colonie, esistono degli schiavi negri dispersi attraverso

tutta l'Europa, e mai si sono scoperti in loro dei sintomi di ingegnosità;

mentre persone di bassa estrazione sociale e prive di educazione arrivano ad

emergere da noi in tutte le professioni.

67

G. L. Mosse, Toward the Final Solution. A History of European Racism,

trad. it. Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto, ed. Mondadori,

Milano 1992, pp. 248-253

Capitolo XIV - Una conclusione che non conclude

L’olocausto ha trasformato la teoria razziale in pratica. Il razzismo attuato con

tanto successo da Hitler era l’esemplificazione estrema del «mistero della

razza», ricolmo di segrete forze vitali e di idee di una guerra cosmica tra ariano

ed ebreo. Gli ebrei furono i suoi nemici, l’unico popolo che egli volle

sterminare: e non ci fu da sperare nel compromesso, nella carità o nelle

norme del vivere civile. La sua fu proprio quella totale guerra razziale

profetizzata da uomini come Houston Stewart Chamberlain e propagandata

dalle piccole sette di Vienna e di Monaco la cui lezione Hitler aveva così ben

appreso. Già quando stava preparando la seconda guerra mondiale Hitler

pensava che gli obiettivi di conquistare alla Germania uno spazio vitale e di

realizzare la «soluzione finale» per quel che riguardava gli ebrei fossero

strettamente intrecciati tra loro. Ma lo sterminio degli ebrei ebbe la

precedenza, perché in loro Hitler vedeva il vero nemico della Germania4.

L’olocausto non avrebbe potuta essere realizzato senza fare uso della

tecnologia moderna, senza un moderno stato centralizzato con i suoi schedari

e sistemi di comunicazione e senza la brutalizzazione delle coscienze degli

uomini provocata dalle esperienze della prima guerra mondiale durante la

quale, per fare un solo esempio, la «fede nella Germania» fu identificata con

4 Su questo argomento si veda R. Binion, Hitler Among the Germans, New York 1976.

68

la forza bruta5. Dietro lo schermo della seconda guerra mondiale avvennero

assassinii di massa accompagnati dall’accusa, ripetuta da Hitler e da Himmler

come una litania, che erano stati gli ebrei a provocarla e che essi ora

ricevevano la meritata ricompensa. Al centro della giustificazione di Hitler e

di Himmler per la soluzione finale vi era una profezia auto-realizzantesi: la

colpa della guerra, scatenata dai nazisti, fu addossata agli ebrei, che Hitler

aveva minacciato di morte se fosse scoppiata. Tuttavia, dietro tutti i tentativi

di giustificazione, vi era una fede fanatica nelle idee razziste. Era un razzismo

che nasceva dalle frange esterne del movimento, collegato con lo

spiritualismo, le scienze segrete e le lotte cosmiche. Ma tali idee avevano preso

il sopravvento nel pensiero di Hitler, che era nello stesso tempo un fanatico e

un eccellente politico. Hitler fu sempre convinto che lo sterminio degli ebrei

dovesse essere l’obiettivo ultimo del suo governo, eppure fu sempre pronto ad

adeguare i tempi della sua politica alle necessità del momento e ad imparare

dai suoi stessi passati errori, come nel caso del putsch del 1923.

Ma il razzismo in quanto visione del mondo non fu una prerogativa del

pensiero e dell’azione di Hitler. Il «mistero della razza» che annebbiava la

mente di Hitler non soppiantò mai tutte le altre varietà di razzismo da noi

esaminate in questo libro. Hitler in realtà si giovò di un vantaggio comune a

tutti i seguaci del razzismo, sia che ponessero l’accento sulle forze spirituali,

sia che tentassero di collegarlo con la scienza. I miti razzisti non solo

spiegavano il passato e aprivano una speranza per il futuro, ma dando rilievo

agli stereotipi rendevano concreto ciò che era astratto. Gli stereotipi razzisti

fecero sì che la teoria diventasse, in maniera semplice e diretta, qualcosa di

vivo. Abbiamo visto che gli stereotipi della bellezza si erano formati sin dai

primissimi tempi della storia del razzismo europeo: alla loro creazione

5 H. Zöberlein, cit., K. Prümm, Das Erbe der Front, in Die Deutsche Literatur im Dritten Reich, a cura di H. Denkler e K. Prümm, Stuttgart 1976, p. 149.

69

avevano contribuito le idee estetiche del tempo ed essi fecero dell’apparenza

esteriore dell’uomo un simbolo della condotta del suo animo. Dal secolo

XVIII sino a quando i nazisti se ne servirono nella realizzazione

dell’olocausto, questo stereotipo non è mai cambiato. Il paragone tra il tipo

dell’uomo virile, ellenistico e quello dell’uomo malvagio e deforme, e la

contrapposizione tra l’ariano dalle proporzioni greche e il mal proporzionato

ebreo fecero del razzismo un’ideologia incentrata sui fattori visivi, e questa

insistenza sull’elemento visivo a sua volta, rese più facile alla gente

comprendere la critica violenta dell’ideologia. Torna alla mente perciò

l’osservazione fatta da Johan Huizinga a proposito del secolo XV, e cioè che

«quando il pensiero, che ha riconosciuto all’idea una realtà indipendente,

vuole tradursi in immagini, non lo può fare che col mezzo della

personificazione»6.

Lo stereotipo non è mai mutato, sia quando il razzismo ha tentato di istituire

un legame con la scienza attraverso l’antropologia o l’eugenetica e praticando

la sperimentazione e l’osservazione scientifiche, sia quando ha postulato

teorie su «sostanze vitali» razziali che niente avevano a che fare con la scienza

moderna (Hitler credeva che l’intera scienza dovesse tornare ad essere scienza

segreta, mistica)7. Al razzismo non mancarono mai le prove che rendessero i

suoi stereotipi convincenti, sia che li traesse dall’antropologia, dalla frenologia

o dal darwinismo, sia che parlasse di «sostanze vitali» o di «balenio del

sangue». Le diverse qualità attribuite sin dal principio allo stereotipo già pre-

sagivano il tentativo nazista di convertire il mito in realtà. Allo stereotipo

venivano attribuite qualità buone o cattive a seconda che si scrivesse su una

razza superiore o inferiore.

6 J. Huizinga, L’autunno del Medioevo, trad. it. Firenze 1942, p. 281.

7 H. Rauschning, Gespräche mit Hitler, New York 1940, p. 40.

70

Il razzismo non ha avuto un padre fondatore e questa è stata una delle sue

forze. Esso si è alleato con tutte le virtù tanto apprezzate dall’età moderna e le

qualità da lui preferite furono la pulizia, l’onestà, la serietà morale, il duro

lavoro e la vita familiare, quelle cioè che durante il secolo XIX assursero a sim-

bolo degli ideali della classe media8, e da quella classe esse si diffusero negli

strati superiori e inferiori di tutta la società europea, soppiantando lo stile di

vita frivolo, disonesto e pigro che secondo i rispettabili uomini e donne del

secolo XIX era incarnato dai propri immediati ascendenti. Il razzismo si

collegò con queste virtù e non con le dottrine di un qualsiasi filosofo o

teorico sociale di qualche importanza, e se esso ebbe come punti di

riferimento personaggi come Gobineau, de Lapouge, Weininger o Wagner, si

trattava di pensatori, di pubblicisti, di sintetizzatori di secondo piano. Lo

stretto collegamento che spesso è stato istituito con Darwin è stato un errore,

perché come abbiamo visto il razzismo non fu semplicemente una forma di

darwinismo sociale, ma un’ideologia composita, che aveva attribuito le virtù,

la morale e la rispettabilità dell’epoca ai suoi stereotipi e le aveva ritenute

qualità innate della razza superiore.

Il razzismo si è appropriato delle virtù dell’epoca ed ha condannato come

degenerato tutto ciò che era l’esatto contrario di tale rispettabilità. Non

incarnare il tipo-ideale dell’«americano tutto d’un pezzo» o dell’«inglese dalla

vita onesta» era segno di razza inferiore. Pur essendo spesso vago, il razzismo

ha fatto suoi tutti i valori della rispettabilità borghese e ha proclamato di

esserne il difensore. É vero che pochi all’inizio credettero in questa

affermazione: per la grande maggioranza degli europei bastava essere un

gentiluomo cristiano. Ma anche in questo caso il razzismo aveva a tal punto

8 W. E. Mosse, Liberal Europe, London 1974, p. 54; G. L. Mosse, The Culture of Western Europe, Chicago 1974, pp. 94 sgg.

71

contagiato il cristianesimo che non si arrivò mai a uno scontro aperto tra

l’uno e l’altro. Ambedue elogiavano le medesime virtù della classe media e

vedevano il nemico negli stessi non conformisti, fossero essi zingari, massoni

o ebrei. Il sostegno dato dal razzismo ad ideali che si opponevano a una

minacciata degenerazione fu in pratica più importante di qualsiasi disaccordo

tra razzismo e cristianesimo.

Il razzismo, con la sua vasta penetrazione, i suoi collegamenti e contagi,

coinvolse spesso uomini e donne che non erano affatto razzisti o il cui

razzismo era estremamente ambiguo; tuttavia esso, con la sua capacità di tutto

raccogliere, si impossessò anche delle loro idee. Il razzismo dovette pur

cercare da qualche parte i suoi stereotipi e la sua teoria dell’ereditarietà e a

volte scelse ciò che vi era di meglio e questo a sua volta avrebbe conferito

nuova rispettabilità all’ideologia. Darwin, Gall, Lavater, Lombroso e Galton

non accettarono il razzismo come visione del mondo e io mi scuso con loro

per averli messi in così cattiva compagnia. Ma le loro idee furono tanto

importanti per il razzismo da dover essere incluse nella nostra storia del

movimento, proprio come alcuni colti signori della Società antropologica

francese o come quei tedeschi collegati con l’«Archiv für Rassen - und

Gesellschafts Biologie» che diedero il loro contributo al razzismo malgrado il

loro ambiguo atteggiamento allorché si trattò di accettare una concezione

razzista del mondo. I confini del pensiero razziale sono sfuggenti e

ingannevoli come l’ideologia nel suo complesso. Eppure, malgrado tutto ciò il

mito fu effettivamente trasformato in realtà e non solo durante l’olocausto e

nei campi, ma ovunque la gente comune abbia espresso sul proprio simile

giudizi basati su una sottintesa accettazione dello stereotipo razziale.

L’olocausto è ormai avvenuto. La storia del razzismo da noi narrata ha

contribuito a spiegare la soluzione finale. Ma il razzismo stesso è sopravvissuto

e non è diminuito il numero di coloro che pensano secondo categorie razziali.

72

Non vi è nulla di provvisorio nell’imperituro mondo degli stereotipi ed è

questa l’eredità che il razzismo ha ovunque lasciato. Se, sotto lo shock

dell’olocausto, il mondo postbellico ha proclamato una temporanea

sospensione dell’antisemitismo, il nero è però in genere rimasto inchiodato in

una collocazione razziale che non è molto cambiata dal secolo XVIII ai nostri

giorni. In pratica tutti i neri sono rimasti lontani dalla portata di Hitler e

perciò nei loro riguardi non vi è stato un brusco risveglio dal sogno razziale.

Inoltre, nazioni che avevano combattuto contro il nazionalsocialismo hanno

continuato ad accettare l’idea dell’inferiorità razziale dei neri ancora molti

anni dopo la fine della guerra e non sembra che abbiano compreso che tutti i

razzismi, siano essi diretti contro i neri o contro gli ebrei, sono sempre fatti

della medesima stoffa. Purtroppo questo libro deve avere una conclusione che

conclude: se grazie allo studio della storia noi possiamo meglio comprendere

il mondo che l’uomo si è costruito, allora la storia del razzismo ci può

spiegare perché questo atteggiamento verso la vita è stato così duraturo,

perché è servito per più di un secolo a far fronte ai timori dell’uomo e a dargli

speranza per il futuro. Interpretare correttamente la storia del razzismo

significa anche meditare sulla storia d’Europa con la quale esso è strettamente

intrecciato. Troppo spesso il razzismo è stato trascurato perché immeritevole

di uno studio serio, perché ritenuto una semplicistica e ingenua visione del

mondo che può essere lasciata in un canto, una fede erronea, mentre gli

storici rivolgono la loro attenzione a soggetti più complessi e affascinanti.

Tuttavia per esorcizzare questo male, non sono necessari poteri occulti, solo

lo sforzo di inserire lo studio del razzismo nel nostro studio della storia

moderna dell’Europa. Non dobbiamo mai trascurare di cercare dove si trova

chi accumula rifiuti sino a quando gli è stata strappata la maschera e non è

stato scoperto, anche là dove sembrava esserci solo virtù, bontà e verità.

73

Sebbene in pratica tutti i sistemi politici e culturali creati dall’Europa durante

gli ultimi due secoli abbiano una maggiore consistenza intellettuale del

razzismo, ciò non ci deve distogliere dal compito di analizzarlo con la stessa

attenzione da noi dedicata al socialismo, al liberalismo o al conservatorismo.

Forse il razzismo è stato, in ultima analisi, tanto efficace proprio perché così

banale ed eclettico, e perché, più di qualsiasi altro sistema del secolo XIX, si è

adoperato con tanto successo a fondere il fattore visivo con quello ideologico.

É avvenuto allora come se le stesse banalità di una vita morale e virtuosa, solo

perché basate sul razzismo e protette da lui, acquistassero improvvisa vitalità

sino ad assumere nuove e orrende dimensioni. Ogni libro che analizzi un

movimento per un periodo così lungo di tempo può perdere il senso delle

proporzioni. Certo, alla fine il razzismo è riuscito a dominare l’Europa, ma

sul continente esso ha sempre trovato di fronte a sé degli avversari. Non si

deve sottovalutare l’antirazzismo liberale, socialista e persino cristiano. Sono

esistite organizzazioni che hanno combattuto il razzismo ed esse non sono

sempre state condannate all’impotenza. É bene ricordare tutto ciò perché, pur

essendosi questo libro occupato del razzismo e non della tradizione

antirazzista in Europa, le truppe per la vittoria sul razzismo sono esistite, per

quanto assediate e sconfitte, in particolare negli anni tra le due guerre

mondiali. Anche ora che esse si sono molto rinvigorite la lotta continua, ma

con maggiore speranza di quanto mai vi sia stata in precedenza. Il primo

passo verso la vittoria su questo flagello dell’umanità consiste nel rendersi

conto di quale ne sia stata la causa, di quali aspirazioni e speranze esso abbia

suscitato nel passato. Questo libro intende contribuire alla formulazione di

una diagnosi del cancro del razzismo nelle nostre nazioni e persino in noi

stessi.

74

Levi P., Se questo è un uomo. La tregua, ed. Einaudi, Torino 1989

In questo mondo scosso ogni giorno più profondamente dai fremiti della fine vicina, fra

nuovi terrori e speranze e intervalli di schiavitù esacerbata, mi accadde di incontrare

Lorenzo.

La storia della mia relazione con Lorenzo è insieme lunga e breve, piana ed

enigmatica; essa è una storia di un tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni

realtà presente, e perciò non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si

comprendono oggi i fatti della leggenda e della storia più remota.

In termini concreti, essa si riduce a poca cosa: un operaio civile italiano mi portò un

pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno per sei mesi; mi donò una sua

maglia piena di toppe; scrisse per me in Italia una cartolina, e mi fece avere la

risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e

semplice, e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso.

Tutto questo non deve sembrare poco. Il mio caso non è stato il solo; come già si è

detto, altri fra noi avevano rapporti di vario genere con civili, e ne traevano di che

sopravvivere: ma erano rapporti di diversa natura. I nostri compagni ne parlavano con

lo stesso tono ambiguo e pieno di sottintesi con cui gli uomini di mondo parlano delle

loro relazioni femminili: e cioè come di avventure di cui si può a buon diritto andare

orgogliosi e di cui si desidera essere invidiati, le quali però, anche per le coscienze più

pagane, rimangono pur sempre al margine del lecito e dell'onesto; per cui sarebbe

scorretto e sconveniente parlarne con troppa compiacenza. Così gli Häftlinge

raccontano dei loro «protettori» e «amici» civili: con ostentata discrezione, senza far

nomi, per non comprometterli e anche e soprattutto per non crearsi indesiderabili

rivali. I più consumati, i seduttori di professione come Henri, non ne parlano affatto;

essi circondano i loro successi di un'aura di equivoco mistero, e si limitano agli accenni

e alle allusioni, calcolate in modo da suscitare negli ascoltatori la leggenda confusa e

inquietante che essi godano delle buone grazie di civili illimitatamente potenti e

75

generosi. Questo in vista di un preciso scopo: la fama di fortuna, come altrove

abbiamo detto, si dimostra di fondamentale utilità a chi sa circondarsene.

La fama di seduttore, di « organizzato », suscita insieme invidia, scherno, disprezzo e

ammirazione. Chi si lascia vedere in atto di mangiare roba «organizzata» viene

giudicato assai severamente; è questa una grave mancanza di pudore e di tatto, oltre

che una evidente stoltezza. Altrettanto stolto e impertinente sarebbe domandare « chi

te l'ha dato? dove l'hai trovato? come hai fatto? » Solo i Grossi Numeri, sciocchi inutili

e indifesi, che nulla sanno delle regole del Lager, fanno di queste domande; a queste

domande non si risponde, o si risponde «Verschwinde, Mensch!», «Hau'ab», «Uciekaj»,

«Schiess' in den Wind», «va chier»; con uno insomma dei moltissimi equivalenti di «

Lévati di torno» di cui è ricco il gergo del campo.

C'è anche chi si specializza in complesse e pazienti campagne di spionaggio, per

individuare qual è il civile o il gruppo di civili a cui il tale fa capo, e cerca poi in vari

modi di soppiantarlo. Ne nascono interminabili controversie di priorità, rese più amare

per il perdente dal fatto che un civile già «sgrossato» è quasi sempre più redditizio, e

soprattutto più sicuro, di un civile al suo primo contatto con noi. È un civile che vale

molto di più, per evidenti ragioni sentimentali e tecniche: conosce già i fondamenti

dell'«organizzazione», le sue regole e i suoi pericoli, e inoltre ha dimostrato di essere in

grado di superare la barriera di casta.

Infatti, noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con

tutte le sfumature che stanno fra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per

essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa nostra

condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima

colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che

suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza

capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai

leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e

malfidi, fangosi cenciosi e affamati, e, confondendo l'effetto con la causa, ci giudicano

76

degni della nostra abiezione. Chi potrebbe distinguere i nostri visi? per loro noi siamo «

Kazett », neutro singolare.

Naturalmente questo non impedisce a molti di loro di gettarci qualche volta un pezzo

di pane o una patata, o di affidarci, dopo la distribuzione della « Zivilsuppe » in

cantiere, le loro gamelle da raschiare e restituire lavate. Essi vi si inducono per togliersi

di torno qualche importuno sguardo famelico, o per un momentaneo impulso di

umanità, o per la semplice curiosità di vederci accorrere da ogni parte a contenderci il

boccone l'un l'altro, bestialmente e senza ritegno, finché il più forte lo ingozza, e allora

tutti gli altri se ne vanno scornati e zoppicanti.

Ora, tra me e Lorenzo non avvenne nulla di tutto questo. Per quanto di senso può

avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre

equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere

vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente

rammentato, con la sua presenza, con il suo modo così piano e facile di essere buono,

che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di

ancora puro e intero, di non corrotto e non selvaggio, estraneo all'odio e alla paura;

qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia

metteva conto di conservarsi.

I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi

l'hanno sepolta, sotto l'offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e stolide, i Kapos,

i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge indifferenziati e

schiavi, tutti i gradini della insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono paradossalmente

accomunati in una unitaria desolazione interna.

Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di

fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non

dimenticare di essere io stesso un uomo.

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Frankl V., Uno psicologo nei Lager, Milano, Ares, 1975, pp. 42-44

La spoliazione

Ora attendiamo in una baracca: l'anticamera della «disinfezione». Una SS arriva con

delle coperte: dobbiamo gettarci quanto ci rimane: gli orologi e tutti i gioielli. Con

grande gioia dei detenuti «anziani» che collaborano all'operazione, vi sono tra noi

ancora degli ingenui, che osano chiedere di conservare almeno la fede, o un

medaglione, un talismano, un ricordo. Nessuno arriva a credere che ci sarà tolto

proprio tutto, fino all'ultimo avere. Cerco d'accattivarmi la fiducia d'uno dei detenuti

anziani; mi avvicino piano piano alla preda, gli faccio vedere un rotolo di carta,

nascosto nella tasca interna del cappotto e dico: «Stammi a sentire, tu! Ho qui con me

il manoscritto di un lavoro scientifico. So che cosa mi vuoi dire, lo so benissimo: salvare

la vita, uscirne con la vita e nient'altro, è tutto quello che si può chiedere al destino, è

il massimo. Ma non ci posso fare nulla, io sono un megalomane e voglio di più. Voglio

conservare questo manoscritto, lo voglio conservare con qualsiasi mezzo, perché è il

lavoro di tutta la mia vita; capisci?». E lui comincia a capire, mi capisce benissimo.

Comincia a ghignare, dapprima compassionevolmente, poi ironico, sfottente,

sarcastico, finché abbaia con uno sberleffo, liquida la mia domanda con una sola

parola, che urla a gran voce, quella parola che mi sarebbe toccato di sentire poi in

continuazione, come «la parola» del vocabolario del Lager. Sbraita: «Merda!!». E

capisco benissimo anche io come vanno le cose. Giungo al punto finale di questa prima

fase di reazioni psicologiche: cancello con un sol tratto la vita trascorsa finora!

Un'improvvisa agitazione anima la folla dei miei compagni di viaggio, che discutevano

perplessi e non sapevano che cosa fare, con i volti spaventosamente pallidi. Di nuovo

quei comandi urlati da voci rauche; siamo spinti, con percosse e di corsa, nel locale

vicino che è poi la vera anticamera delle docce. Ci troviamo in un atrio, in mezzo al

quale una SS attende di vederci tutti riuniti, prima di parlare: «vi lascio 2 minuti.

78

Controllo sul mio orologio. In questi 2 minuti, dovete spogliarvi completamente, gettate

tutto a terra, dove vi trovate; non potete portare nulla con voi, tranne le scarpe, la

cintura e le bretelle, un paio d'occhiali e tutt'al più il cinto erniario. Cronometro i 2

minuti- via!». Con furia incredibile, la nostra gente si strappa i panni di dosso. Mentre

il tempo concesso sta per scadere, i prigionieri si affannano, sempre più nervosi e inetti,

intorno a capi di vestiario e biancheria, fettucce e cinture ecc. ecc. Si cominciano a

sentire i primi schiocchi: nerbi di bue colpiscono corpi nudi. Poi, ci spingono in un altro

locale. Siamo rasati, e non solo sul cranio; su tutto il corpo non ci resta più nemmeno

un pelo. Ci trascinano poi nelle docce. Ci mettono in formazione, quasi non ci

riconosciamo più tra di noi. Ma ognuno di noi costata, con enorme gioia e sollievo, che

dagli imbuti della doccia cadono veramente gocce d'acqua.

Mentre continuiamo ad attendere, la nostra nudità ci diventa familiare: non abbiamo

nient'altro, soltanto questo corpo nudo; non ci resta nulla, tranne questa nostra

esistenza letteralmente nuda. Quale anello di congiunzione esterno ci unisce ancora

alla vita di prima?

79

Wiesel E., La notte, Firenze, Giuntina, 1980, pp. 32-33

Dov'è Dio?

Ho visto altre impiccagioni, ma non ho mai visto un condannato piangere, perché già

da molto tempo questi corpi inariditi avevano dimenticato il sapore amaro delle

lacrime.

Tranne che una volta. L'Oberkapo del 52° commando dei cavi era un olandese: un

gigante di più di due metri. Settecento detenuti lavoravano ai suoi ordini e tutti

l'amavano come un fratello. Mai nessuno aveva ricevuto uno schiaffo dalla sua mano,

un'ingiuria dalla sua bocca.

Aveva al suo servizio un ragazzino un pipel, come lo chiamavamo noi. Un bambino

dal volto fine e bello, incredibile in quel campo.

(A Buna i pipel erano odiati: spesso si mostravano più crudeli degli adulti. Ho visto un

giorno uno di loro, di tredici anni, picchiare il padre perché non aveva fatto bene il

letto. Mentre il vecchio piangeva sommessamente l'altro urlava: «Se non smetti subito

di piangere non ti porterò più il pane. Capito?». Ma il piccolo servitore dell'olandese

era adorato da tutti. Aveva il volto di un angelo infelice).

Un giorno la centrale elettrica di Buna saltò. Chiamata sul posto la Gestapo concluse

trattarsi di sabotaggio. Si scoprì una traccia: portava al blocco dell'Oberkapo olandese.

E lì, dopo una perquisizione, fu trovata una notevole quantità di armi.

L'Oberkapo fu arrestato subito. Fu torturato per settimane, ma inutilmente: non fece

alcun nome. Venne trsferito ad Auschwitz e di lui non si senti più parlare.

Ma il suo piccolo pipel era rimasto nel campo, in prigione. Messo alla tortura restò

anche lui muto. Allora le S.S. lo condannarono a morte, insieme a due detenuti presso

i quali erano state scoperte altre armi.

Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale

dell'appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate:

80

la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l'angelo

dagli occhi tristi.

Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo

davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il

verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si

mordeva le labbra. L'ombra della forca lo copriva.

Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia.

Tre S.S. lo sostituirono.

I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti

contemporaneamente nei nodi scorsoi.

- Viva la libertà! - gridarono i due adulti.

Il piccolo, lui, taceva.

- Dov'è il Buon Dio? Dov'e? - domandò qualcuno dietro di me.

A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.

Silenzio assoluto. All'orizzonte il sole tramontava.

Scopritevi! - urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi

piangevamo.

- Copritevi!

Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata,

bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva

ancora...

Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i

nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli

passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.

Dietro di me udii il solito uomo domandare:

- Dov'è dunque Dio?

E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:

- Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...

81

Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.

82

Levi P., Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1976, pp. 233-235

“Perché Lei parla soltanto dei Lager tedeschi, e non anche di quelli russi?

Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla parte del giudice

preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle

cose che ho subite e viste. I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli

mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza

diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad

esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e

neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori: infatti non

conoscevo questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo,

quando tutto il mondo li ha appresi.

Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei Lager russi: per mia

fortuna non ci sono stato, e non potrei che ripetere le cose che ho letto, cioè

quelle che sanno tutti coloro che a questo argomento si sono interessati. E

chiaro che tuttavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che

ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un’opinione. Accanto ad

evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager nazisti mi pare di poter

osservare sostanziali differenze.

La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi costituiscono

qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell’umanità: all’antico scopo di

eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno

e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire

press’a poco dal 1941, essi diventano gigantesche macchine di morte: camere

a gas e crematori erano stati deliberatamente progettati per distruggere vite e

corpi umani sulla scala dei milioni; l’orrendo primato spetta ad Auschwitz,

con 24.000 morti in un solo giorno, nell’agosto 1944. I campi sovietici non

erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno sia gradevole, ma in essi,

83

neppure negli anni più oscuri dello stalinismo, la morte dei prigionieri non

veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato

con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma, un

sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica. In questo

lugubre confronto fra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che

nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto

alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è

sempre esistito: al tempo di Stalin i «colpevoli» venivano talvolta condannati a

pene lunghissime (anche quindici o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma

una sia pur lieve speranza di libertà sussisteva.

Da questa fondamentale differenza scaturiscono le altre. I rapporti fra

guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani:

appartengono tutti allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, non sono

«superuomini» e «sotto-uomini» come sotto il nazismo. I malati, magari male,

vengono curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una protesta,

individuale o collettiva; le punizioni corporali sono rare e non troppo crudeli;

è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con viveri; la personalità umana,

insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro,

almeno per quanto riguardava gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la

strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che

furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le

atrocità della storia umana. Come conseguenza generale, le quote di mortalità

sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi

più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, riferito a tutti gli ingressi, e

questo è certamente un dato intollerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la

mortalità era del 90-98 per cento….”