Incontro Maggio 2010

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Per una Chiesa Viva www.chiesaravello.it www.ravelloinfesta.it Anno VI - N. 4 – Maggio 2010 Nella prima delle quattro costituzioni pastorali del Concilio Vaticano II, quella sulla Liturgia, promulgata nel dicembre 1963, si afferma che la Chiesa considera suo dovere celebrare l’opera salvifica del Redentore e consegnare tutto il mistero di Cristo alla celebrazione liturgica che si svolge nel corso dell’anno. In questo modo i fedeli potranno attingere alle ricchezze delle azioni salvifiche e dei me- riti del Signore che vengono resi presenti a tutti i tempi. Non si deve, tuttavia, dimenticare che la Chiesa, nel corso della celebrazione an- nuale dei misteri di Cristo, venera anche con particolare amore Maria di Nazaret ed in Lei ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione. Maria, la Ma- dre del Signore, partecipa in modo pieno ed attivo alla vita del Figlio. Lo concepi- sce, lo genera, lo educa nel corso degli anni. Scopre insieme con lui qual è la sua vocazione. Nel momento della prova è sotto la croce. Durante la sua sepoltura vive in silenzio il dolore della perdita, consapevole che il suo Figlio risusciterà. Dopo la risurrezione, è piena di gioia, perché colui che ha portato in grembo è risorto. Si unisce quindi al gruppo dei discepoli, rimane con loro al momento della discesa dello Spirito e come model- lo, prega, come avvocata, intercede, come patrona, protegge, come Signora, indica il Cristo-via, che soffre, muore, risorge; come Madre del Salvatore testi- monia la risurrezione del Figlio, come Madre della Chiesa, la ama, la esorta alla gioia quotidiana, mentre le insegna l’arte del vivere in attesa della venuta del Mes- sia alla fine dei tempi. Maria partecipa agli avvenimenti della storia della Reden- zione: dall’annunciazione alla nascita, dalla passione, alla morte, alla risurrezio- ne, Maria rimane l’umile ancella al servi- zio del Signore e lo accompagna con la sua presenza. Con il suo stile di vita Ella è stata la prima discepola del Salvatore. Contemplando Maria, la Chiesa vede in Lei un modello di cooperazione all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza, l’ardente carità. In Maria la Chiesa contempla con gioia, come in una immagine purissima, ciò che essa deside- ra e spera di essere nella sua interezza; e nell’ampio spazio dell’anno liturgico in cui si dispiega tutta la sua forza del miste- ro di Cristo, trova logicamente spazio la memoria della SS.Vergine Maria, Madre di Dio, indissolubilmente congiunta all’opera salvifica del Figlio. Anche se non abbiamo un ciclo liturgico speciale per Maria, il tempo di Cristo e dello Spi- rito che è l’Anno Liturgico prevede mo- menti privilegiati nei quali il ricordo del- la presenza di Maria nella storia della salvezza viene celebrato in modo più o meno particolare. Alla luce delle indica- zioni offerte dalla costituzione conciliare sulla Liturgia è stato rivisto il Calendario Romano Generale del 1969, che ha inse- rito” in modo più organico e con un lega- me più stretto la memoria della Madre nel ciclo annuale dei misteri del Figlio”, dove la figura e la presenza di Maria nelle celebrazioni liturgiche emerge nelle varie solennità, feste e memorie a Lei dedica- te. Nella esortazione apostolica del 2 febbraio 1974, il Papa Paolo VI parla diffusamente del culto a Maria nei vari tempi liturgici del Calendario, ma tace sul tempo di Quaresima e di Pasqua. Questo silenzio forse è stato suggerito da una assenza di feste o memorie mariane tali da consentire celebrazioni particolari a Lei dedicate in quei due tempi liturgi- ci; la liturgia romana, infatti, non ha mai dato un grande spazio a Maria nel perio- do quaresimale e pasquale. Tuttavia, nella Introduzione alla raccolta delle Messe in onore della Beata Vergine leggiamo: «La Chiesa celebra in pri- mo luogo l’opera di Dio nel mistero pasquale di Cristo, e in esso trova la Ma- dre intimamente congiunta con il Figlio: nella passione del Figlio, infatti, la beata Vergine "soffrì profondamente con il suo Unigenito e si associò con animo mater- no al sacrificio di lui, consentendo amo- rosamente all’immolazione della vittima da lei generata"; nella sua risurrezione fu ricolma di gioia ineffabile; dopo la sua ascensione al cielo, unita in preghiera con gli Apostoli ed i primi discepoli nel Cena- colo, implorò "il dono dello Spirito, che l’aveva già adombrata nell’annunciazione"». Continua a pagina 2 Maria nel tempo pasquale P ERIODICO DELLA COMUNITÀ ECCLESIALE DI RAVELLO

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Anno VI - N. 4 – Maggio 2010 PERIODICO DELLA COMUNITÀ ECCLESIALE DI RAVELLO Continua a pagina 2 ne, Maria rimane l’umile ancella al servi- zio del Signore e lo accompagna con la sua presenza. Con il suo stile di vita Ella è stata la prima discepola del Salvatore. Contemplando Maria, la Chiesa vede in Lei un modello di cooperazione all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza, l’ardente carità. In Maria la

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Per una Chiesa Viva

www.chiesaravello.it www.ravelloinfesta.it Anno VI - N. 4 – Maggio 2010

Nella prima delle quattro costituzioni pastorali del Concilio Vaticano II, quella sulla Liturgia, promulgata nel dicembre 1963, si afferma che la Chiesa considera suo dovere celebrare l’opera salvifica del Redentore e consegnare tutto il mistero di Cristo alla celebrazione liturgica che si svolge nel corso dell’anno. In questo modo i fedeli potranno attingere alle ricchezze delle azioni salvifiche e dei me-riti del Signore che vengono resi presenti a tutti i tempi. Non si deve, tuttavia, dimenticare che la Chiesa, nel corso della celebrazione an-nuale dei misteri di Cristo, venera anche con particolare amore Maria di Nazaret ed in Lei ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione. Maria, la Ma-dre del Signore, partecipa in modo pieno ed attivo alla vita del Figlio. Lo concepi-sce, lo genera, lo educa nel corso degli anni. Scopre insieme con lui qual è la sua vocazione. Nel momento della prova è sotto la croce. Durante la sua sepoltura vive in silenzio il dolore della perdita, consapevole che il suo Figlio risusciterà. Dopo la risurrezione, è piena di gioia, perché colui che ha portato in grembo è risorto. Si unisce quindi al gruppo dei discepoli, rimane con loro al momento della discesa dello Spirito e come model-lo, prega, come avvocata, intercede, come patrona, protegge, come Signora, indica il Cristo-via, che soffre, muore, risorge; come Madre del Salvatore testi-monia la risurrezione del Figlio, come Madre della Chiesa, la ama, la esorta alla gioia quotidiana, mentre le insegna l’arte del vivere in attesa della venuta del Mes-sia alla fine dei tempi. Maria partecipa agli avvenimenti della storia della Reden-zione: dall’annunciazione alla nascita, dalla passione, alla morte, alla risurrezio-

ne, Maria rimane l’umile ancella al servi-zio del Signore e lo accompagna con la sua presenza. Con il suo stile di vita Ella è stata la prima discepola del Salvatore. Contemplando Maria, la Chiesa vede in Lei un modello di cooperazione all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza, l’ardente carità. In Maria la

Chiesa contempla con gioia, come in una immagine purissima, ciò che essa deside-ra e spera di essere nella sua interezza; e nell’ampio spazio dell’anno liturgico in cui si dispiega tutta la sua forza del miste-ro di Cristo, trova logicamente spazio la memoria della SS.Vergine Maria, Madre di Dio, indissolubilmente congiunta all’opera salvifica del Figlio. Anche se non abbiamo un ciclo liturgico speciale per Maria, il tempo di Cristo e dello Spi-rito che è l’Anno Liturgico prevede mo-menti privilegiati nei quali il ricordo del-la presenza di Maria nella storia della

salvezza viene celebrato in modo più o meno particolare. Alla luce delle indica-zioni offerte dalla costituzione conciliare sulla Liturgia è stato rivisto il Calendario Romano Generale del 1969, che ha inse-rito” in modo più organico e con un lega-me più stretto la memoria della Madre nel ciclo annuale dei misteri del Figlio”, dove la figura e la presenza di Maria nelle celebrazioni liturgiche emerge nelle varie solennità, feste e memorie a Lei dedica-te. Nella esortazione apostolica del 2 febbraio 1974, il Papa Paolo VI parla diffusamente del culto a Maria nei vari tempi liturgici del Calendario, ma tace sul tempo di Quaresima e di Pasqua. Questo silenzio forse è stato suggerito da una assenza di feste o memorie mariane tali da consentire celebrazioni particolari a Lei dedicate in quei due tempi liturgi-ci; la liturgia romana, infatti, non ha mai dato un grande spazio a Maria nel perio-do quaresimale e pasquale. Tuttavia, nella Introduzione alla raccolta delle Messe in onore della Beata Vergine leggiamo: «La Chiesa celebra in pri-mo luogo l’opera di Dio nel mistero pasquale di Cristo, e in esso trova la Ma-dre intimamente congiunta con il Figlio: nella passione del Figlio, infatti, la beata Vergine "soffrì profondamente con il suo Unigenito e si associò con animo mater-no al sacrificio di lui, consentendo amo-rosamente all’immolazione della vittima da lei generata"; nella sua risurrezione fu ricolma di gioia ineffabile; dopo la sua ascensione al cielo, unita in preghiera con gli Apostoli ed i primi discepoli nel Cena-colo, implorò "il dono dello Spirito, che l’aveva già adombrata nell’annunciazione"».

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Maria nel tempo pasquale

PERIODICO DELLA COMUNITÀ ECCLESIALE DI RAVELLO

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SEGUE DALLA PRIMA Nei 50 giorni dopo Pasqua in cui la Liturgia della Chiesa ci invita ad ap-profondire il mistero più grande del-la nostra fede, la Pasqua di Risurre-zione, possiamo guardare e contem-plare il mistero della Santa Vergine Maria, Madre del Signore Risorto, da un’angolazione diversa, quella cele-brativa del Mistero culminante dell’anno liturgico, il tempo di Pa-squa,” in cui la gioia ecclesiale per la risurrezione di Cristo e per il dono dello Spirito è come prolungato nel gaudio di Maria di Nazaret, la madre del Risorto”. Vivendo il tempo pasquale alla luce della presenza di Maria, siamo certa-mente ancor più stimolati a vivere l’esperienza della gioia dell’incontro con il Risorto che culmina con il do-no dello Spirito Santo effuso su Maria e gli apostoli nel cenacolo nel giorno di Pentecoste. Che Maria Santissima ci accompagna durante il Tempo Pasquale lo ricavia-mo dalla documentata esperienza delle prime comunità cristiane, so-prattutto da quella di Gerusalemme. La presenza di Maria nelle prime co-munità cristiane, dopo la Pasqua, è un avvenimento a cui si pensa poco, ep-pure presenta un valore e un segno della Sua materna funzione verso i discepoli di Gesù, nel trasmettere quanto Lei, soltanto Lei ha potuto conoscere il Figlio. Lei con la Sua vita silenziosa ha testimoniato e fatto gu-stare ai discepoli i ricchi frutti spiri-tuali di una vita vissuta accanto a Ge-sù e in perfetta adesione alla volontà di Dio. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, sottolineando nell’'Enciclica sull'Eu-caristia alcuni momenti della vita di Maria, offre interessanti spunti di riflessione su questo argomento. Ma-ria fa memoria delle meraviglie ope-rate da Dio nella storia della salvezza, secondo la promessa fatta ai padri, annunciando la meraviglia che tutte le

supera: l'Incarnazione redentrice. Maria conosce bene che il Figlio di Dio si presenta a noi nella «povertà» dei segni sacramentali, pane e vino, e mette nel mondo il germe di quella storia nuova in cui i potenti sono «rovesciati dai troni», e sono «innalzati gli umili»; Maria canta in-sieme agli Apostoli, quei «cieli nuovi» e quella «terra nuova» che nell'Euca-ristia trovano la loro anticipazione. Maria era presente alla «frazione del pane», formula indicante l'Eucaristia, che veniva celebrata assiduamente dalla comunità di Gerusalemme e poi da Paolo. Gli Atti degli Apostoli attestano la presenza della Madre di Gesù tra gli Apostoli «concordi nella preghiera», nella prima comunità radunata dopo l'Ascensione in attesa della Penteco-ste. Questa Sua presenza non poté certo mancare nelle celebrazioni eu-caristiche tra i fedeli della prima ge-nerazione cristiana, assidui «nella fra-zione del pane». Ricevere l'Eucaristia doveva significare per Maria quasi un riaccogliere in grembo quel cuore che aveva battuto all'unisono col suo e un rivivere ciò che aveva sperimentato in prima persona sotto la croce. Questo dato esemplare della chiesa delle origini interpella le comunità cristiane del nostro tempo perché riscoprano e valorizzino nella Liturgia l’amabile presenza di Maria, Madre della Chiesa. Perché anche noi non cerchiamo di entrare nell'assemblea che si accinge a celebrare la Santa Messa assumendo i sentimenti di Maria? Negli Atti degli Apostoli ci è indicata l'atmosfera spirituale che accompa-gnava realmente il rito dello spezzare il pane, la Messa per i cristiani della prima generazione. La Madre di Ge-sù, nominata come facente parte della comunità cristiana post-pasquale, era tra quei «tutti» che «ogni giorno fre-quentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con leti-zia e semplicità di cuore».

E’,dunque,alla scuola di Maria che potremo crescere nella fede e nell’amore per vivere intensamente la Pasqua di Gesù e la nostra Pasqua.

Don Giuseppe Imperato Maria Madre di Dio

La caratteristica fondamentale della SS. Vergine è questa: che essa è la Madre di Dio. Qui c' è tutto. Tutto il rimanente è per questo e in ragione di questo. Noi dobbiamo credere e ritenere per certo che nello scegliere una creatura a tale ufficio, Dio, nella sua eterna scienza dei futuri e dei futuribili, ha visto i motivi per scegliere Maria piuttosto di qualun-que altra creatura. Perché Iddio fa le cose per bene, e tutte le cose hanno sempre una ragione eterna, e questa è la grande antifona del merito personale della Ver-gine. Se è stata scelta lei, la scienza dei futuri e dei futuribili ha indicato a Dio che il merito di questa Vergine la poneva dinanzi a tutto e a tutti perché fosse la prescelta. Ma tutto è in lei perché è stata la Madre di Dio. Perché è Madre di Dio? Perché ha dato a Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, quello che danno tutte le altre madri: il corpo, e l'ha dato in modo superiore a tutte le altre madri, perché in ragione della sua verginità, per miracolo unico nel genere umano, nella storia degli uomini, è stata la causa unica in ragione della sua verginità, per cui la verginità della Vergine fa la Madonna più Madre di tutte le altre madri: cosa che non bisogna dimenticare. Essa è la Madre per eccellenza, e questo vuol dire che è Madre in un ordine che ha tutto quello che hanno tutte le altre madri

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più qualche cosa di molto grande, pro-prio perché è Vergine. Perché è Madre di Dio? Perché il concet-to di maternità è una relazione, è un rapporto, e il concetto di maternità lo si rivela sempre dal termine del rapporto. Tutte le altre madri che cosa danno ai loro figli? Danno solamente il corpo; non danno né l'anima né la personalità ; ep-pure le chiamiamo solo madri del corpo del figlio o madri del figlio? Sono madri del figlio e non semplicemente madri del corpo del figlio. E dandogli il corpo, il rapporto, la relazione con chi è instaura-ta? Col termine a cui è dato il corpo, cioè con la persona del figlio, che è crea-ta da Dio. E allora si qualificano dal ter-mine della relazione di cui le madri pon-gono l'obiettivo fondamento dando il corpo: siccome lo danno alla persona del figlio, si dice che sono madri del figlio. E' la stessa cosa per la Madre di Dio: essa ha dato il corpo umano al Figlio di Dio, ma a chi l'ha dato? Lo ha dato alla Perso-na eterna del Verbo, perché il soggetto terminale di questa relazione, di questo rapporto, è il Verbo stesso, non la crea-tura, e pertanto la relazione è contratta con lui, col Verbo. Ecco perché essa è la Madre di Dio: Theotocos. Voi sapete che cosa è successo quando Nestorio ha cercato di attaccare questa verità: la Chiesa si è alzata in piedi, col Concilio che ha lasciato nell’antichità l'impressione più commovente nell'ani-ma del popolo cristiano, il Concilio Efe-sino. È successo questo: che quando hanno proclamato la divina maternità della Ma-donna contro l'eresia di Nestorio, il po-polo, che sente sempre la Madre, sem-pre, ha fatto ciò che non ha fatto per nessun altro Concilio, il popolo di Efeso si è armato di torce — la sera del giorno in cui è stata fatta la definizione finale e la condanna di Nestorio — ed è andata a prendere i Padri del Concilio e li ha por-tati in trionfo al chiarore delle torce. Tutto quello che fa grande la Vergine è che è Madre di Dio: tutti gli altri privile-gi sono stati dati ad essa perché è Madre di Dio; Vergine perché è Madre di Dio; Immacolata perché è Madre di Dio.

Card.Giuseppe Siri

Durante il periodo di Quaresima, appena concluso, abbiamo vissuto dei momenti di preghiera, di raccoglimento, di rifles-sioni e di comunione fraterna. Uno di questi è stato il pellegrinaggio al Santua-rio dell’Addolorata di Castelpetroso, promosso dalla Confraternita del S.S. Nome di Gesu’ e della Beata Vergine del Carmelo. Al Santuario, dopo la Celebra-zione Eucaristica , presso le sette Cappel-le, davanti ai dipinti del Maestro A.Trivisonno, che rappresentano i sette dolori di Maria, abbiamo pregato con il pio esercizio della “ Via Matris”. Essa è modellata sulla “ Via Crucis” , è nata co-me forma di preghiera nel XVI secolo, ma la sua forma attuale risale al secolo XIX . “Associati nel progetto salvifico di Dio, Cristo Crocifisso e la Vergine Addolora-ta, sono associati anche nella Liturgia e nella pietà popolare. Come Cristo è “ l’uomo dei dolori” (Is 53,34), per mezzo del quale piacque a Dio “ riconciliare a sé tutte le cose, rap-pacificando con il sangue della sua Croce (…) le cose che stanno sulla terra e quel-le dei cieli.( Col. 1,20) “,così Maria è la “ Donna del dolore” che Dio volle come Madre , e partecipe della sua Passione.” I sette dolori di Maria sono narrati nel Vangelo: 1. la rivelazione di Simeone– 2. la fuga in Egitto- 3. lo smarrimento di Gesù- 4.l’incontro di Maria con Gesù sulla via del Calvario- 5. la presenza di Maria sotto la Croce del Figlio- 6. Maria che accoglie Gesù deposto dalla Croce- 7. Maria

che da sepoltura al suo Figlio Gesù. La Via Matris è un cammino che ripercorre la vita di Maria, che si fa via di dolore e di sof-ferenza, sotto il segno della spada. Meditando le stazioni della Via Matris riscopriamo in Maria, un esempio, per noi di “ fede autentica”. Ella non ha mai ha esitato a riconferma-re il suo“ Eccomi”, fidandosi di Dio,accogliendo in silen-zio,con sottomissione, serban-do nel proprio cuore, tutto il

mistero che ha caratterizzato la vita di Gesù, a partire dalla profezia di Simeo-ne . “Ella serbò fedelmente la sua unione al Figlio fino alla Croce” . Ella è anche esempio di coraggio e di speranza. In attesa dell’Evento della Resurrezione, con umiltà ed obbedienza ha cooperato alla redenzione dell’umanità, consapevo-le che attraverso la Vita Nuova donata dal suo Figlio, la morte è stata sconfitta e la sofferenza redenta. Il popolo di Dio prega, attraverso il pio esercizio della Via Matris, per chiedere al Padre, sull’esempio di Maria, di mante-nere salda la fede, nel tempo del dubbio e della prova; di avere sempre l’ardore

necessario per cercare Cristo con genero-so impegno, e di scoprirlo nella Parola e nel Mistero della Chiesa; di suscitare in ciascuno il desiderio di seguire Cristo, portando la croce per andare incontro al fratello che soffre, per essere degni di partecipare alla “ Gloria della Resurrezio-ne”; per chiedere inoltre di “ concedere a ciascuno di essere portatore di speranza e testimone della vita nuova operata da Cristo Risorto”.

Giulia Schiavo

LA VIA MATRIS

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Nella domenica Laetare, lo scorso 14 marzo, Papa Benedetto XVI ha visitato la comunità evangelica luterana a Roma e con essa ha partecipato a una liturgia se-r a l e n e l l a C h r i s t u s k i r c h e . Un segno piccolo, ma importante e inci-sivo, di rapporti ecumenici maturi e soli-di e di un ecumenismo vissuto, come a Roma da molti anni è prassi buona e viva tra le diverse confessioni cristiane. Il Pa-pa è stato accolto calorosamente e cor-dialmente dalla comunità luterana, ha impressionato per come si è rivolto ai suoi membri, per la partecipazione alla liturgia e per l'omelia profonda e r i c c a d i c o n t e n u t i . Da questo incontro è risultato in modo chiaro e concreto che cosa è essenziale per Benedetto XVI e per i l s u o m i n i s t e r o p e t r i n o . Il Papa ha spiegato un brano del Vange-lo di Giovanni (12, 20-26), dove si narra che alcuni greci vanno dall'apo-stolo Filippo e gli dicono: "Signore vogliamo vedere Gesù". Nella sua me-ditazione su questi versetti il Papa ha detto che "questa espressione ci com-muove, poiché noi tutti vorremmo sempre più veramente vederlo e cono-scerlo. Penso che quei greci ci interes-sano per due motivi: da una parte, la loro situazione è anche la nostra, anche noi siamo pellegrini con la domanda su Dio, alla ricerca di Dio. E anche noi vorremmo conoscere Gesù più da vici-no, vederlo veramente. Tuttavia è an-che vero che, come Filippo e Andrea, dovremmo essere amici di Gesù, amici che lo conoscono e possono aprire agli altri il cammino che porta a lui". I pellegrini che vanno incontro a Dio e, nello stesso tempo, sono amici di Gesù possono aprire ad altre persone una porta verso di lui. Con ciò il Papa descrive i tratti fondamentali di una vita cristiana. E queste due immagini esprimono due idee che mostrano chiaramente come Bene-detto XVI concepisce e svolge il suo ser-vizio, imprimendo a questo pontificato il suo carattere particolare. Chi incontra il Papa, incontra un cristiano che non met-te al centro se stesso o il proprio ministe-ro, ma Gesù Cristo. Egli vuole conoscer-

lo sempre di più e condurre altri all'in-contro con lui, perché ha sperimentato egli stesso che la fede dona consolazione e s p e r a n z a , r e a l i z z a z i o n e e s e n s o n e l l a v i t a . Proprio questo fa Benedetto XVI con le omelie, le catechesi e le visite pastorali, con prudenza, discrezione e umiltà, ma in modo tanto convincente da renderlo un modello nella fede anche per i lutera-ni. Papa Benedetto XVI è senza dubbio una delle più importanti personalità del nostro tempo. Ha affrontato in maniera

decisiva e che rimarrà le grandi questioni e i grandi temi del mondo contempora-neo: il rapporto fra le religioni, i valori e le tradizioni, la crisi economica, i diritti dell'uomo, e così via. Tuttavia, nello stesso tempo, il Papa dà ogni giorno un contributo importante alla fede cristiana. Come pellegrino e come amico di Gesù va sempre incontro alle persone, testi-monia il messaggio evangelico e incorag-gia così a credere. Con piccoli gesti e segni che spesso non hanno una grande risonanza ma che sono - e Benedetto XVI lo sa - indispensabili per rendere viva la comunità dei fedeli e far crescere la fede. E proprio in questo senso va interpretata la liturgia celebrata con la piccola comu-

nità luterana. Senza tralasciare le difficol-tà nell'ecumenismo, il Papa ha spiegato che le Chiese cristiane, prima di lamen-tarsi, dovrebbero innanzitutto dimostrar-si grate "che vi sia già tanta unità. È bello che oggi, domenica Laetare, noi possiamo pregare insieme, intonare gli stessi inni, ascoltare la stessa parola di Dio, insieme spiegarla e cercare di capir-la; che noi guardiamo all'unico Cristo che vediamo e al quale vogliamo appartenere, e che, in questo modo, già rendiamo testimonianza che egli è l'Unico, Colui

che ci ha chiamati tutti e al quale, nel più profondo, noi tutti apparteniamo". Già il giorno successivo all'elezione, Benedetto XVI, nel suo messaggio ai cardinali, ha descritto come suo dovere urgente "quello di lavorare senza ri-sparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo". Egli è consapevole del fatto che a questo scopo non è suffi-ciente una dichiarazione di buona vo-lontà, perché "occorrono gesti che entrino negli animi e smuovano le co-scienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presup-posto di ogni progresso sulla via dell'e-cumenismo". Il Papa è sempre pronto a questi gesti che esprimono la comu-nione, che consolidano la fede e, nello stesso tempo, hanno forza visionaria. Così è stato per la liturgia nella Chri-stuskirche, e la vicinanza e la comunio-ne vissute in quella occasione si espri-

mono in modo visibile e duraturo. Bene-detto XVI ha concluso la sua omelia con queste parole: "Preghiamo gli uni per gli altri, preghiamo insieme affinché il Si-gnore ci doni l'unità e aiuti affinché il mondo creda". Così facciamo, gli uni per gli altri e insieme. Grati perché in Bene-detto XVI abbiamo incontrato un Papa che si considera pellegrino nel cammino verso Dio e amico di Gesù.

Jens-Martin Kruse Pastore della comunità evange-

lica luterana di Roma L'Osservatore Romano - 24 aprile 2010

Benedetto XVI modello nella fede Un Papa amico di Gesù

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Quando era arrivato nella stazione dei Carabinieri, si era sparsa subito la voce che fosse un tipaccio. “Faceva parte dei Corpi Speciali. E’ stato in Libano, è uno che ha sparato, questo c’ha le palle”. “Già”, commentava un altro, “ma allora che ci sta a fare nella caserma di un Co-mune di mille abitanti? Non sai che la nostra è una stazione punitiva? Se è così cazzuto, perché l’hanno mandato in un posto dove non succede mai niente?”. Sì, era un po’ un mistero, il maresciallo dei Carabinieri “Barbetta”. Il soprannome gli era stato affibbiato perché il volto pallido e glabro, illuminato da occhi chia-rissimi, si appuntiva in un pizzetto bion-diccio e ben curato, in strana armonia con la pelata e l’assenza di sopracciglia. Un tipo schivo, dai modi essenziali, restio a socializ-zare. Lavoro e famiglia, nient’altro. Sposato con una libanese, aveva due bambi-ni, che non frequentavano la Scuola Materna e non usci-vano quasi mai di casa. A quel tempo facevo l’ufficiale d’anagrafe, una professione che comporta frequenti contatti con la stazione dei Carabinieri. Così, col trascorrere delle settimane, fra me e “Barbetta” si stabilì una certa confidenza; una confidenza, mi confessò un giorno, destinata a non durare, perché attendeva un incarico che lo avrebbe allontanato per sempre dalla nostra caserma. Nel tempo libero, “Barbetta” amava por-tare i suoi bambini, e spesso anche la moglie, in un grande prato alle pendici dei Monti Ruffi, dove si divertivano a giocare col freesbe e a far volare gli aqui-loni. Li avevo visti molte volte, sfreccian-do con la macchina lungo la strada che costeggia il “Rojo”, e un giorno decisi di fermarmi ad osservarli. Quando “Barbetta” mi notò, mi fece cen-no di avvicinarmi. “Hai mai fatto volare un aquilone?”, do-mandò col sorriso più bello che gli avessi mai visto sulla faccia.

Risposi di no. “Porta i tuoi bambini la prossima volta, vi faccio vedere come si fa. E’ bello, si di-vertiranno”. Improvvisamente, mi accorsi che non avevo mai provato il piacere di liberare nel cielo ventoso dei Ruffi i fantastici arcobaleni di carta che destavano un’irrefrenabile allegria nei bimbi di “Barbetta”. Anche mio padre, nella bella stagione, mi portava a giocare nei prati della vallata; ma amava il calcio e la bici-cletta, e furono questi i divertimenti che divisi per anni con lui. Allo stesso modo, realizzai, mi ero comportato con i miei figli: bici, calcio, nuoto, li avevo iniziati con passione ai benefici di questi sport,

ma non avevo mai pensato al divertimen-to che desta in ogni bambino il volo libe-ro e gioioso degli aquiloni. Quando dissi loro che li avrei portati a giocare con le comete volanti dei figli di “Barbetta”, si mostrarono entusiasti. Pochi giorni dopo, raggiungemmo insie-me il prato del “Rojo”. “Barbetta” era già lì; in alto, sullo sfondo delle balze roccio-se dei Monti Ruffi, volteggiava uno splendido aquilone multicolore. “Ho preso il campione”, mi disse sorri-dendo, “questo è un aquilone grande, dà belle soddisfazioni. Dovevamo far diver-tire i tuoi bambini, no?” “Grazie. E’ davvero bellissimo. Lo hai costruito tu?”. “Sì. Certo, richiede un po’ di impegno. Innanzitutto il materiale: non è lo stesso

con cui si fanno gli aquiloni più piccoli. Per esempio, non sono sufficienti le stec-chette di ramino, ci vogliono quelle di bambù. Poi, la carta per la velatura deve essere più robusta, e gli agganci più soli-di, altrimenti i vari pezzi possono staccar-si o lacerarsi. Se vuoi, possiamo comin-ciare a costruire un aquilone più piccolo, così potrai insegnarlo ai bambini. Guarda come sono contenti…” “Vedi?”, continuò, “l’aquilone vola gra-zie all’azione del vento. Può volare anche senza, ma la condizione normale è che ce ne sia almeno un po’. Sai perché ho scel-to questo posto? Perché siamo ai piedi del monte, e spalle al vento. Così si sfrut-ta al meglio la corrente d’aria ascenden-

te, e l’aquilone si alza con facilità”. D’improvviso, da un remoto spicchio della mia adolescenza, emerse un ricordo nitido e fastidioso: non era vero che non avessi mai provato a far volare un aquilo-ne. Dovevo avere sedici-diciassette an-ni: avevo trovato il materiale necessario in una pesca di bene-ficenza e mi ero im-mediatamente messo

al lavoro per assemblarlo. Come spesso mi capitava, feci le cose troppo in fretta, col solo risultato che il mio sbilenco aqui-lone non riuscì mai a librarsi nel cielo. Dovevo a “Barbetta”, uno sconosciuto, la gioia che ora provavo insieme ai miei bambini, l’emozione per lo spettacolo di allegria, libertà, spensieratezza che si svolgeva sotto i miei occhi. Ma non ero il solo che ne stava godendo: a un tratto, avvertii la presenza di qualcuno alle mie spalle. Mi voltai, e vidi l’anziano Antonio “Biasella” immobile sul ciglio del prato, poggiato di schiena contro la portiera della sua macchina. Lo chiamai a voce alta; rispose a malapena con un cenno della testa, qualcosa di molto strano in una persona aperta e cordiale come lui.

Continua a pagina 6

DOVE VOLANO GLI AQUILONI

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Istintivamente, aguzzai lo sguardo, e rimasi di stucco: Antonio aveva gli occhi lucidi e arrossati. Guardai ancora: sì, le sue guance erano rigate da lacrime. Ero impietrito, non sapevo cosa fare. “Anto’!”, borbottai dopo qualche secon-do, e feci dei passi verso di lui. “No, no”, disse scrollando il capo, “non è niente. Torna indietro”. Prima che po-tessi replicare, si voltò, salì in fretta sulla macchina e si dileguò lungo la provincia-le. Continuai a giocare con i bambini, ma il pensiero del pianto di Antonio non mi abbandonò per tutta la serata. Lo cono-scevo bene: un uomo tranquillo e ancora laborioso, una famiglia senza problemi, due figli maschi e cinque bei nipotini. Perché si era commosso? Possibile che a muoverlo al pianto fossero stati dei bam-bini che seguivano gioiosi i volteggi di un aquilone? Un paio di giorni dopo, bussai a casa sua. Mi accolse con un sorriso schietto, am-miccando, segno che aveva compreso il motivo della visita. “Ci sei rimasto male, vero? Beh, scusa, non avrei dovuto, per poco non rovino il divertimento dei bambini. Ma è stato più forte di me…” “Anto’, ti conosco. Se ti è successo, un motivo c’è. Se non ti dispiace…” Annuì: “Sì, sì. Ascolta, quel prato, come sai, si chiama “Rojo”, e appartiene ai Ma-tassi. Erano i ricconi del paese, ettari e ettari di terra. Adesso è in abbandono, ma un tempo era un giardino, tutto colti-vato, si seminava pure attorno ai sassi. Mentre vedevo i bambini che giocavano, mi è ritornato in mente… mi sono ritor-nate in mente le schiene, le schiene curve a terra di Giggio, del povero Simone, di Mariotto, tutti quelli che lì si sono am-mazzati di lavoro. E poi le schiene di chi da quel prato non s’è alzato più… mio cugino Giovanni e Alfredino. Era il mag-gio del ‘44; i tedeschi seppero che qual-cuno nascondeva degli inglesi e iniziaro-no a rastrellare tutto il territorio. Una mattina, il 15 maggio, successe che vide-ro scappare due ragazzi… chissà perché Giovanni e Alfredino stavano lì, chissà perché i tedeschi reagirono così. Comun-que, gli spararono senza pietà, proprio dove stavate voi, al “Rojo”. Morti senza

colpa, senza un perché… ecco, ho ripen-sato a queste cose, mentre vedevo i vo-stri bambini.” Restammo a lungo in silenzio. Ma credo che i miei pensieri e quelli di Antonio fossero gli stessi. Un piccolo, insignifi-cante angolo di mondo, e la storia dell’uomo: la gioia e il dolore, la vita e la morte. Chissà quante altre volte quell’anonimo spicchio di terra aveva visto alternarsi la guerra degli uomini e la pace degli elementi. Solo quel remoto prato vallivo ai piedi dei Monti Ruffi? No; ogni angolo di mondo ha visto le stesse cose, ogni infinitesima parte di terra serba per intero le vicende umane. Ma il tempo corrode la memoria, non c’è luogo che possa trattenere i ricordi. Innalzandosi al di sopra del tempo, ovun-que e sempre nel mondo, ignari aquiloni voleranno sull’eterna tragedia dell’uomo, sulla gioia e sul dolore, sulla vita come sulla morte.

Armando Santarelli

GRAZIE, MAMMA! Un occhio allenato non si affanna a cer-care somiglianze. Bastano tutte quelle evidenti per abitudine: prese singolar-mente, costituiscono indizi sufficienti, familiari, e non ispirano più sorpresa. Per tutti gli altri diventa quasi un gioco, una caccia al tesoro fatta di dettagli: una voglia, un neo, la forma dell’ovale, perfi-no un gesto banale e quotidiano. E’ co-me se la pelle stessa potesse ricondurre alla radice da cui si proviene, e quella comunanza diventa orma, traccia, sentie-ro guida. E dunque scoperta, intuizione. E quante volte ce lo siamo sentite dire, con sorpresa o con abitudine. Perché è così: è impatto, consapevolezza rinnovata o attesa paziente sapere di appartenerci. Ma poi c’è tutto il resto, ed è qualcosa che non si ferma al colore dei capelli, al modo di camminare, di parlare, di rap-portarsi alla vita. E questi sono dettagli di un percorso a parte, fatto di anni e di sfide, di tempo e vita. Io sono questo: emanazione, provenienza, frutto di un’ origine. Ti ringrazio: per la prima volta al mare, per il mio cappello di paglia e per i fermagli fra i riccioli mai in ordine. Per il vestito di carnevale e per quello

della Prima Comunione, per i quaderni su cui la mia mano si è allenata con pa-zienza, a volte con dispetto e con stan-chezza, per la prima frase di latino a cui tu hai dato un senso compiuto quando io preferivo non cercarlo più e mi arrende-vo, per i giocattoli e per il tappeto su cui li ho stesi. Grazie per tutto ciò che non ci siamo dette, per ciò che ci diremo, per il modo in cui accetti la mia idea di vita, come se fossi sempre in un mondo di-stante, ovattato, per quella volta in cui ci siamo abbracciate in preda ad un dolo-re nuovo ed insopportabile, per tutte le altre in cui ad abbracciarsi sono stati solo i nostri pensieri ed il corpo è rimasto muto di gesti. Ma noi in fondo non ab-biamo bisogno di dirci molto. Capirsi in silenzio è il dono di chi appartiene ad una radice comune, sono passaggi di linfa, sensazioni che scorrono insieme al san-gue. E le parole spesso diventano così un orpello, un codice necessario a chi non ha la nostra stessa usanza fatta di sguardi e sintonie leggere come vento. La chiave di volta di chi non ha accesso, se non per un istante, al nostro piccolo universo di comprensioni invisibili, di discorsi senza suono. Dirti grazie è necessario, forse non lo faccio abbastanza :come spesso avviene, ciò che ci sta vicino e che meri-terebbe uno sguardo attento e costante, viene osservato in una prospettiva quasi sfocata, come se fosse regola allenarsi a guardare oltre e superare con sufficienza ciò che consideriamo certo, abituale, quotidiano. Non c’è forse errore più grande: la vicinanza non è garanzia di eternità e ciò che sembra di acciaio, in-toccabile, spesso è incredibilmente velo-ce nel dissolversi. Di tutto ciò che sarà e di come si scioglieranno i giorni dal rosa-rio sconosciuto del nostro destino, è difficile dire o intuire. Posso dire di ciò che è stato. Di quanto mi è piaciuto e di quanto è stato bello. Sorretto da una compagnia sincera, da una protezione fatta solo di coraggio e da cui non ci si slaccia mai. Perché la consonanza che ci rende madre e figlia va al di là delle rego-le e del tempo. In questo giardino di vite e passaggi, di altalene fra gioia e dolore, noi ci nutriamo insieme. Come dal pri-mo istante.

Emilia Filocamo

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Parlare della mamma può sembrare faci-le. Del resto, la mamma è sempre la mamma. Su di lei tanto si è detto, tanto si è scrit-to, tanto si è cantato. Ma, parlare della mamma può risultare anche difficile: come si fa a concentrare in poche righe, quel significato profondo e quell’amore sconfinato che la mamma ha per ognuno dei suoi figli? Certo, si potrà obiettare, che non è sem-pre tutto “rose e fiori”. Ci sono mamme assenti, mam-me lontane, mamme sem-plicemente non pronte ad essere tali, mamme dimenti-che dei loro doveri, mamme distratte, ecc. Potrei conti-nuare all’infinito, ognuno ha una sua storia, ma la que-stione è un’altra. Credo, infatti, che è proprio a volte da tale contrasto, da tale opposizione con essa, che si comprende e si sperimenta il suo valore più grande, il suo senso più profondo. L’assenza di una mamma è un vuoto incolmabile, che non si riesce a superare. La sua dipartita, anche se si è già a propria volta mamme o ormai ben lontane dall’età delle cocco-le e delle storielle raccontate per la nan-na, è sempre una separazione atroce, che ci prende nell’anima. Perché? Perché con la mamma si ha un legame viscerale, impossibile da annullare.

Mamma che è porto dove rifugiarsi, me-ta dove tornare volentieri, casa nel senso più grande e complesso del termine, amore incondizionato, oltre misura. La mamma è Maria che piange sotto la Croce il figlio morto, quella che lo difen-de davanti all’errore più grave, quella che lo sostiene nel momento più difficile e ancora quella che l’ostacola solo per farlo crescere e diventare più maturo. Un vecchio proverbio recita: “Una mam-ma accudisce cento figli, ma cento figli non accudiscono una mamma”. Quanto è vero? Tanto direi. A volte non si com-prende il suo valore o forse lo si dimenti-ca, per comodità, per pigrizia, per inca-pacità di coglierlo. Un valore che forse è la stessa mamma a non comprendere, a non riuscire ad etichettare o ad usare con misura. Potrei dilungarmi ore a parlare dei buon esempi, delle capacità, delle peculiarità che ogni madre possiede, non lo voglio fare. Mi spiacerebbe non includere nella mia lista, per distrazione magari, questa o quella madre che per differenza o al-tro, non rientra nel classico esempio di angelo del focolare, dolce e affettuoso; ma ne è pur sempre una, meno perfetta,

meno presente, ma non per questo meno mamma. Il mio augurio è, dunque, rivolto a tutte le mamme. A tutte quelle che anche nei giorni più scuri ci sono state per i loro figli e sempre ci saranno, non importa come, non importa quando. E a voi, figli, che leggete, correte a casa o telefonate la vostra, di mamma, siamo sicuri che lei non aspetta che questo. Auguri.

Iolanda Mansi

Occhi a mandorla, lingua che a tratti fa fatica, lineamenti lievemente alterati: Mattia è un bimbo down. Ma come tutti i bambini ride quando va al circo con la mamma, piange quando il fratellino gli ruba l’orsacchiotto, gioca quando è in compagnia dei suoi amichetti. E’ solo rimasto “più piccolo” di qualche anno. Personalmente credo che il vero handi-cap non sia di questo bambino, né di tutti gli altri disabili, bensì sia da ricercarsi nella natura profonda della nostra socie-tà, che ha paura del “diverso”, lo guarda con sospetto, di qualunque tipo sia la diversità. Una ragazza che non veste Ar-mani è “squadrata” dalle compagne di scuola. Un bambino dal simpatico viso “a luna piena” è oggetto di scherno dei coe-tanei. Un ragazzo che non fuma, non si ubriaca e non prende parte a folli corse notturne sulle moto non è accettato dal “gruppo”. Ma chi è a decretare il modo giusto di essere, di comportarsi, di vivere? La no-stra società, la società del progresso e che si definisce “evoluta” conia, giorno dopo giorno, nuovi handicap. Così, noi che dovremmo cercare di aiu-tare chi è stato meno fortunato, ci ritro-viamo ad essere mosche intrappolate nella tela invisibile del ragno della società’, schiavi del nostro tempo e ad essere troppo infelici per farlo. Noi a cui è stato affidato per tacito accordo di prendersi cura dei più sofferenti finiamo per essere consolati da questi stessi, inco-raggiati dai loro sguardi, rassicurati dai loro sorrisi timidi. Sono proprio queste persone a cui occorre offrire speranza, la nostra maggiore fonte di speranza. E, bombardati da idee del tipo “omologazione = perfezione”, non sap-piamo neanche più come comportarci di fronte al diverso. Siamo in imbarazzo. L’importante è non lasciarsi andare ad atteggiamenti di pietosa simpatia, di commiserazione inutile e spesso ipocrita. Non cadiamo in questa trappola. La pietà è la strada più semplice, ma non la mi-gliore.

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A tutte le mamme Handicap dei tempi moderni: la paura del diverso

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A volte l’handicap non rappresenta in sé un grave peso per il soggetto che ne è affetto, ma lo diventa nel momento del confronto con la società. Se il deficit fisi-co non venisse enfatizzato da rigidi sche-mi sociali, il portatore di handicap po-trebbe affrontare i propri problemi evi-tando di ingigantirli ulteriormente, non precludendosi tante strade. L’handicap potrebbe essere circoscritto e “neutralizzato”, invece di costituire una fonte di sofferenza, pregiudizi, una bar-riera mentale difficile da valicare. Non bisogna segregare gli handicappati in un mondo parallelo, alternativo al no-stro, basato su criteri di fittizia e quanto mai ipocrita perfezione, ma rendere il nostro mondo più accogliente anche a chi presenza carenze psico-fisiche. Il quesito che dovremmo porci è: “Appaga davvero l’essere perpetue vitti-me di una corsa all’omologazione?” Fer-miamoci un attimo. Ascoltiamo la rispo-sta che il nostro animo ci sussurra nel silenzio. Sottraiamoci per un secondo alla frenesia dell’odierna società. Prendiamo per mano i bimbi come Mat-tia e impariamo insieme a sognare, con-tando le stelle, a sorridere, guardando una farfalla che danza al ritmo del vento, ad amare la vita, nonostante tutto…

Stefania Gargano

Nello splendido scenario del santuario dei SS. Cosma e Damiano a Ravello, si è svolto sabato 24 aprile, l’incontro di presentazione del libro di don Silvio Longobardi, direttore del periodico Pun-to Famiglia: “L’uomo dinanzi al dolore. La sofferenza nella vita e nelle parole di Giovanni Paolo II”. Relatore d’eccezione, padre Gianfranco Grieco, capoufficio del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Presenti anche don Giuseppe Imperato, parroco del duomo di Ravello e padre Antonio Petrosino, rettore del Santuario. Un libro che reca la data dell’ 11 febbraio 2010, Nostra Signora di Lourdes. Nel giorno in cui la Chiesa ricor-da la piccola cittadina francese come luogo della sofferenza trasfigurata dalla fede, il sacerdote dell’Agro presenta un libro sul dolore a partire da una domanda inquietante: serve a qualcosa soffri-re? E perché il dolore da sempre accompagna la storia dell’uomo? Pagine appassionate scaturite da un’esperienza molto dolo-rosa che ha visto don Silvio, accompagnare il calvario del suo nipotino Antonio, colpito da un male incura-bile, che nel giro di pochi mesi lo consuma fino alla morte. Un’esperienza uma-nissima segnata però dalla fede che illumina e ridona il respiro della speranza. Non solo. Nel libro si trova an-che l’esperienza bellissima ma poco conosciuta del Cardinale ameri-cano Joseph Bernardin, morto alcuni anni fa. Quando scoprì di essere ammala-to, il cardinale ebbe l’impressione di restare come schiacciato dal dolore. Poi iniziò a guardare quell’esperienza con gli occhi della fede, ebbe il coraggio di co-municarlo alla sua Diocesi, tanti ammala-ti gli scrissero lettere commoventi in cui chiedevano preghiere. Ed egli comprese così che la sofferenza era per lui un altro e più fecondo ministero che il Signore gli aveva affidato, un ministero da leggere alla luce della speranza. E la speranza è anche il filo con cui la sapiente penna dell’autore ricostruisce l’esperienza della

sofferenza nella vita di Giovanni Paolo II. “L’esperienza del dolore non è uno dei tanti capitoli esistenziali, né tanto meno quello marginale di papa Wojtyla” ha detto don Silvio, durante la serata “al contrario, sono convinto che ha inciso profondamente nella sua vita ed ha orientato in modo determinante la sua riflessione. Presentandosi al mondo con la sua infermità e continuando a svolgere fino in fondo il suo ministero, nonostante il male che devastava e progressivamente imprigiona-va il suo corpo, egli ha testimoniato fedelmen-te quella verità che negli anni precedenti aveva saputo annunciare attraverso i suoi scritti”. Ospite della serata, padre Gian-franco Greco. Durante la sua relazione appassionata, padre Grieco ha ripercorso i momenti più belli e salienti del pontifi-cato di questo grande papa. Le parole accorate, scaturite da una vita al seguito di Giovanni Paolo II come giornalista dell’Osservatore Romano, durante i suoi viaggi in giro per il mondo, hanno susci-tato nei partecipanti alla serata una gran-

de commozione. Padre Gianfranco ha ricordato come dall’attentato del 1981 in piazza san Pietro, siano scaturiti una serie di eventi dolorosi, attraverso i quali, il Papa atleta lascerà il posto al Papa soffe-rente. Con dovizia di particolari anche inediti, padre Gianfranco ha ricordato come il Gemelli di Roma, l’ospedale dove il papa ha trascorso 105 giorni del suo pontificato, era diventato l’altare dove Giovanni Paolo II celebrava ogni volta la sua offerta per la costruzione del regno. Il libro presenta inoltre un appro-fondimento molto interessante della Let-tera Apostolica Salvifici doloris di papa Wojtyla, scritta nel 1984. “La Lettera è il

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primo documento pontificio che offre una riflessione sistematica sulla sofferenza e invita tutti gli uomini a ripensare il significato e il valore di questa esperienza” commenta don Silvio “direi ancora di più che questa Lettera ci invita a riscoprire non solo il senso cristiano della sofferenza ma soprattutto il suo valore salvifico”. Presentando il libro, il vescovo della diocesi di Nocera-Sarno, Mons. Gioacchino Illiano ne sottolinea l’utilità “per gli operatori pastorali, i catechisti, ma anche e soprattutto per quelli che hanno il ministero di stare accanto ai malati”. Non solo si fa fatica infatti ad accogliere il dolore ma anche a restare accanto a chi soffre. Commentan-do questo aspetto don Silvio sottolinea come: “La sofferenza resta uno scandalo anche per i credenti, per dirla con Santa Teresa, alza un muro che spesso impedi-sce di vedere il cielo, un interrogativo al quale non è facile rispondere. È una real-tà difficile da vedere e da comprendere. Eppure tanti credenti sono passati per questa via stretta senza perdere la gioia e senza cadere nella rassegnazione. Anzi, alcuni hanno vissuto questa esperienza come una grazia speciale. Hanno attinto forza dalla parola del Vangelo che invita a vedere nella sofferenza una partecipazio-ne alla redenzione del mondo.” L’ultima nota interessante è che il ricava-to del libro sarà destinato al Centro Jean Paul II di Koupéla in Burkina Faso, inau-gurato all’inizio del 2010. Un’iniziativa dell’Associazione Progetto Famiglia per la costruzione di un luogo dedicato al grande Papa dove i ragazzi possano stu-diare e approfondire, collegarsi ad internet e trovare tutti gli elementi indi-spensabili per la loro istruzione in un paese in cui l’alfabetizzazione resta anco-ra una grande sfida. Questa struttura intende offrire ai giovani la possibilità di acquisire una buona formazione scolasti-ca e, più ampiamente, una capacità di elaborazione culturale e imprenditoriale. Il progetto non si basa su una prospettiva di tipo assistenziale (donare le spese di scolarità), ma intende offrire spazi e mezzi di formazione e nello stesso tempo coinvolgere gli stessi giovani in un pro-cesso educativo che li rende protagonisti e si apre sul mondo del lavoro. Giovanna Abbagnara

CELEBRAZIONI DEL TRIDUO PASQUALE

Ogni Celebrazione è un dono di Dio da accogliere con gratitudine da parte di tutti i battezzati , membri della famiglia di Dio che è la Chiesa, parteciparvi aiuta il cammino di fede e di crescita spiritua-le. Le Celebrazioni Liturgiche della Set-timana Santa, in particolare le Celebra-zioni del Triduo Pasquale , attraverso la proclamazione della Parola, le riflessioni del Celebrante, i Segni Liturgici , fanno sì che ciascuno racchiuda nel proprio cuore sentimenti di partecipazione al dolore ed alle sofferenze di Cristo; rivi-vendo la Passione di Gesù , fino alla mor-te sul Calvario, diventiamo consapevoli del Grande Amore di Dio e del suo Uni-co Figlio, per noi. Sperimentiamo l’ amore e la fedeltà di Dio quando acco-gliamo il Mistero della Resurrezione di Cristo, e sostituiamo nel nostro cuore i sentimenti di dolore e di sofferenza , con sentimenti di stupore, di gioia,di pace, avendo la consapevolezza della Vita Nuo-va , avuta in dono da Gesù Risorto, il Vivente. Sono stati più o meno questi gli spunti di riflessione delle Omelie ,tenute nelle diverse Celebrazioni. Le Letture e le riflessioni del Giovedì Santo, ci ripor-tano a due fondamentali realtà della Vita Cristiana: l’Istituzione della S.S. Eucari-stia e l’importanza della Vita Sacerdota-le . Ogni volta che celebriamo il Memo-riale dell’Ultima Cena, diventiamo parte-cipi della morte e della resurrezione di Gesù, in attesa del suo ritorno, riceven-do il dono di poter comunicare al Cor-po ed al Sangue di Cristo , sorgente di Vita Eterna. L’avvenimento della Lavan-da dei piedi , narrato dal Vangelo di Gio-vanni, ci testimonia la via del servizio concreto. Gesù, “ avendo amato i suoi , li amò sino alla fine “, portando a compi-mento la sua donazione. In virtù del

Battesimo, ciascuno di noi diventa parte-cipe del “ sacerdozio di Cristo e della sua missione profetica e regale; Cristo ha fatto di noi “un regno di sacerdoti ,” e se il sacerdozio ministeriale è un altro dono straordinario sgorgato dal cuore di Gesù , per il quale elevare continuamente inni di lode e ringraziamento,specialmente in questo anno sacerdotale, anche il nostro “ sacerdozio” deve essere riscoperto, per metterci al servizio della Chiesa e dei fratelli,senza esitare ad essere testimoni della Resurrezione. Il clima di preghiera, silenzio e raccoglimento ,sperimentato durante la Celebrazione, e la Processio-ne di Gesù morto, per le vie di Ravello, Venerdì Santo, hanno fatto risuonare nella nostra mente e nel nostro cuore le parole dell’Omelia di Padre Gianfranco Grieco, il quale ci esortava a renderci partecipi del Processo,della Condanna, della Via Dolorosa, fino alla Crocifissione di Gesù. Non possiamo e non dobbiamo rimanere semplici spettatori di fronte ad un evento così tragico!E’ necessario sce-gliere il nostro ruolo,facendo un esame di coscienza ,meditando la Passione, il nostro cuore ci deve dettare se partecipa-re come Giuda, come Pietro, come Pila-to, come la Veronica, come le donne di Gerusalemme, o come Simone di Cirene e così di seguito fino a Giuseppe di Ari-matea ,senza dimenticare che “ Gesù è morto per i nostri peccati e più profon-damente è morto per noi, è morto per-ché Dio ci ama al punto di dare il suo Figlio unigenito, “affinchè abbiamo la vita per mezzo di Lui” ( Gv3,16-17).Gesù dunque è morto per ciascuno di noi e dentro di noi dobbiamo dire : “ è morto per me, per i miei peccati.” Questo non significa scoraggiarci, ma al contra-rio,significa trasformare la nostra vita in un cammino di conversione , per corri-spondere al Grande Amore di Dio, e certi della Vita Nuova, non ci stanchere-mo di proclamare la nostra fede, la nostra gioia,il nostro grazie . La notte della Ve-glia in onore del Signore Risorto, Sabato Santo, è una tappa fondamentale di ogni cammino spirituale,poiché rappresenta il compendio della Parola, senza la quale “ non conosceremmo il Risorto”.

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Gesù Risorto, infatti, è Colui che porta a compimento le Scritture, le quali raccontano la storia della Salvezza per ogni uomo , ed è per questo che abbiamo proclamato,”il rac-conto della Creazione , il racconto della libe-razione del popolo Ebreo dall’Egitto,ed an-che due letture tratte dal libro del profeta Isaia che ci rassicurano la prima, che l'ulti-ma parola di Dio sulla nostra vita non è castigo, ma è misericordia, la seconda attraverso la quale Dio promette di stabilire con il suo popolo un'alleanza eterna. Infine il profeta Baruc che da una parte molto onestamente ci ricorda che l'abbandonare Dio è di ogni uomo, e dall'altra però afferma che ritornare a Lui è possibile attraverso l'ascolto del libro dei decreti di Dio. Infine il profeta Ezechiele, attraverso il quale Dio ci promette che noi saremo il suo popolo.” Nel Vangelo poi, il racconto delle donne che si recano al sepolcro, sembra uguagliare il nostro cammino,la nostra ricerca, la nostra incredulità,il nostro dubbio ; lo stupore di Pietro, che avvisato, corre anch’Egli per verificare, è simile al nostro stupore , che spesso ci blocca e non ci porta ad essere testi-moni della Luce, della Speranza che scaturi-scono dalla Resurrezione di Gesù. Padre Gianfranco Grieco,nell’Omelia della Veglia, ci ha invitati ad aprire il nostro cuore “all’invasione della Luce dell’Amore Risor-to”, dopo le tenebre della morte e del pecca-to. I segni di luce e la Liturgia della Luce, nella notte della Veglia,diventano La Luce che deve illuminare la nostra vita , Gesù, unica Speranza, Luce a cui affidare i nostri passi, perché ci preservi dalle “ nostre notti, dalle nostre oscurità,dai nostri affanni” e ci dia la forza ed il coraggio di annunciare agli altri così come hanno fatto le donne “il gior-no dopo il sabato”, la Resurrezione di Gesù. Il Triduo Pasquale culmina con le Celebra-zioni della Pasqua di Resurrezio-ne ,Passaggio ,Vittoria della Vita, sulla mor-te. Noi, cittadini di Ravello, abbiamo un Testimone autentico del Mistero della Pa-squa : San Pantaleone che ha accettato il Mar-tirio, per annunciare fino all’ultimo respiro la Resurrezione di Gesù. Il Lunedì dell’Angelo, festeggiamo il Patrocinio del Santo Marti-re,come ha detto Don Carlo Magna, nell’Omelia ,durante la Celebrazione Ve-spertina. Essendo nostro Patrono ,Egli è nostro custode e come gli Angeli: “illumina, regge e governa ciascuno di noi” e noi suoi custodi , dobbiamo fare in modo di corri-spondere alla Sua Predilezione, lasciandoci illuminare dalla Sua Fede e dalla sua Testimo-nianza.

Giulia Schiavo

Le carte dell’ Archivio Caruso nella XII Settimana della Cultura Lo scorso 17 aprile nell’ambito della settima-na della cultura, voluta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali è stata organizzata qui a Ravello una giornata di studi su una tematica molto presente nei dibattiti naziona-li ed internazionali: il ruolo della cultura locale nell’ambito dell’economia globale. La giornata è stata voluta dal Centro Unoiversi-tario Europeo per i Beni Culturali, che ha sede a Ravello, che, insieme alla Soprinten-denza ai Beni architettonici e Paesaggistici delle Province di Salerno e Avellino e al Co-mune di Ravello e in collaborazione con l’Istituto Comprensivo locale e all’Associazione cul-turale “Ravello No-stre”, partendo da un’importante dona-zione che ha visto il deposito presso i locali del Centro Universitario della parte sopravvissuta delle carte dell’archivio privato della famiglia Caruso, ha voluto chiamare i ravellesi e non solo a confrontarsi su quanto l’identità locale può essere volano per la cultura. Il dottor Gino Caruso, infatti, due anni fa ha donato grazie alla mediazione del professore Dieter Richter al Centro Universitario quanto lui possedeva dell’archivio che riguardava il vecchio alber-go Caruso e l’omonima cantina vinicola. Lo studio delle carte avviato dalla dottoressa Maria Cioffi e continuato in seguito dai soci della Ravello Nostra ha permesso di presen-tare al pubblico in questa occasione attraver-so i primi risultati l’importanza di un archivio privato nella ricostruzione della storia econo-mica e sociale di una determinata epoca. La giornata si è articolata in due sessioni: quella mattutina dedicata all’archivio Caruso e ai risultati dello studio e quella pomeridiana in cui si è discusso di economia, di progettualità e di identità locale. Per rendere più interes-sante e coinvolgente la giornata, gli organiz-zatori hanno coinvolto gli alunni della classe terminale dell’Istituto Comprensivo, inco-raggiandoli a creare una ricerca che affrontas-se un aspetto particolare dell’epoca in cui era vissuto Pantaleone Caruso, capostipite della famiglia e ideatore dell’attività ricettiva e della cantina. I ragazzi, incoraggiati dal diri-gente scolastico, la professoressa Felicetta Confessore, e seguiti dalla professoressa Sa-maritani, si sono sentiti così più coinvolti e ben predisposti ad ascoltare quanto veniva

loro detto durante i vari interventi della gior-nata. La giornata, tenutasi nella pinacoteca del Duomo, si è aperta con i saluti istituzio-nali, portati ai partecipanti dal sindaco, l’avvocato Paolo Imperato, dal presidente del Centro Universitario, il senatore Alfonso Andria, e dal parroco, Don Giuseppe Impe-rato, i quali unanimemente hanno sottolinea-to l’importanza per un paese di riappropriarsi della propria storia, di quella microstoria che ha creato le trasformazioni economiche che oggi inconsapevolmente viviamo. L’introduzione agli interventi è stata fatta dal professore Richter che insieme al dottore Gino Caruso ha presentato l’idea che si è poi concretizzata nella donazione delle carte dell’archivio e soprattutto ha tracciato un profilo di Pantaleone Caruso che per primo a

Ravello aveva capito l’importanza di offrire ai suoi clienti l’immagine vera del paese attraverso l’accoglienza ospitale e il contatto continua-tivo negli anni. I’intervento della dottoressa Maria Carla Sorrentino, che ha continuato il lavoro

intrapreso dalla dottoressa Cioffi, ha eviden-ziato come lo studio soprattutto dei copialet-tere con tutta la corrispondenza che il Caruso teneva con i suoi clienti rappresenti una fonte inestimabile di notizie e per la storia di Ra-vello in un periodo poco indagato dagli sto-riografi ufficiali e per la figura stessa di Panta-leone Caruso. La Sorrentino ha sottoli-neato con alcuni passaggi delle lettere scritte dal Caruso come in quest’uomo si sentisse preponderante l’educazione ricevuta dal suo mentore Nevile Reid e soprattutto come sapesse adattarsi, pur non avendo studiato, alle singole necessità: sapeva essere burbero quando si sentiva imbrogliato ma anche di una dolcezza infinita quando parlava dei figli o della sua amata Ravello, per la quale si spendeva senza sosta per migliorarne le con-dizioni di vita. Gli aspetti legati alla produ-zione di vino sono stati affrontati dal signor Antonio Ferrara, vicepresidente della “Ravello Nostra”, il quale ha mostrato come la produzione di vino ravellese giungesse allora ovunque in Italia e all’estero e soprat-tutto come Pantaleone Caruso sapesse sa-pientemente gestire i suoi affari trattando con i maggiori alberghi storici di Napoli e di A-malfi, ai quali inviava il suo famoso vino di cui decantava le lodi tanto da farne innamora-re anche coloro che ancora non lo provavano. Il quarto intervento della mattinata, affidato al professore Dieter Richter, ha riproposto

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il turismo di inizio secolo scorso come veniva fuori dallo studio dei libri degli ospiti dell’hotel Caruso. Il professore ha mostrato addirittura i menu che si offrivano agli ospiti e i prezzi nonché la tipologia dei turisti che si recavano qui a Ravello. La prima parte della mattinata si è conclusa con la presentazione della ricerca dei ragazzi della classe terza media, che rappresentati da Alfonso Calce hanno mostrato il loro prodotto multimediale in cui si presentava la figura di Paolo Caruso, figlio di Pantaleone, grande pittore nomchè tra gli ideatori del Festival Wagneriano di musica classica. La seconda parte della matti-nata ha visto l’intervento del professore Fer-ruccio Ferrigni, urbanista della Seconda Uni-versità di Napoli, nonché coordinatore dei programmi scientifici del Centro Universita-rio. Il professore ha discusso dell’identità locale come strumento di valorizzazione del proprio paese e ha individuato nel recupero della propria identità il migliore mezzo di mediazione culturale tra i popoli; ha sottoli-neato, infatti, rivolgendosi soprattutto ai ragazzi delle scuole, come la non conoscenza generi paura e timore dell’altro mentre la conoscenza di sé e degli altri non può che generare incontro. La prima sessione si è conclusa, quindi, con l’inaugurazione di una mostra, organizzata dall’Associazione “Ravello Nostra”, dal titolo “Ravello tra cul-tura e natura”. L’esposizione riuniva una piccola parte dell’archivio fotografico in pos-sesso dell’associazione, che contiene foto dei luoghi più belli di Ravello nei primi decenni del ‘900. La sessione pomeridiana si è aperta con l’interessantissima lectio magistralis affida-ta al professore Adalgiso Amendola, docente dell’Università degli Studi di Salerno, che ha presentato il nesso tra cultura, economia e sviluppo. Il professore partendo dai concetti base dell’economia ha fatto una panoramica sulle condizioni economiche dei maggiori Paesi del mondo evidenziando come la cultu-ra sia ancora poco avvertita come volano dello sviluppo. Hanno fatto riflettere i pre-senti soprattutto i dati che inquadravano lo sviluppo economico dei Paesi terzomondisti, quelli in cui ogni giorno 10.000 bambini muoiono solo per la mancanza di acqua. È stata poi la volta dell’architetto Giovanni Villani, funzionario della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Salerno, che ha illustrato il progetto riguardante l’area introno al Duomo di Ravello con la creazione di un piccolo teatro completamente ricavato sfruttando la morfologia naturale dei luoghi e il recupero della storica strada che univa il palazzo vescovile alla cattedrale.Le conclusio-ni, affidate al professore Ferruccio Ferrigni, nella qualità di direttore scientifico del pro-getto di redazione del Piano di Gestione per

il sito UNESCO Costiera Amalfitana, hanno rimarcato la necessità del recupero di quelle regole antiche che hanno generato il territo-rio amalfitano se veramente vogliamo sperare di poter tutelare quell’unicità riconosciuta dall’UNESCO nel 1997 e presentata ai propri ospiti da persone quali Pantaleone Caruso, che, senza conoscere nozioni di marketing o di economia, sapeva offrire a tutti l’immagine più vera di Ravello e della Costiera Amalfita-na, un’immagine fatta di rispetto per l’ospite che qui veramente si sentiva accolto come nella propria casa.

La Redazione

La Confraternita dell’Annunziata Tre secoli di religiosità popolare

nella Ravello Episcopale

Il Complesso Monumentale dell’Annunziata costituisce ormai il simbolo della “Città della Musica”: il suo profilo, delineato da volte estradossate e cupole sullo sfondo del mare, campeggia su cartoline e guide turistiche, in una perfetta fusione di arte e natura. Pochi sanno, però, che per tre secoli il complesso architettonico ha ospitato uno dei sodalizi religiosi più antichi della città: la Confraterni-ta dell’Annunziata. La Congrega è do-cumentata almeno dal 1437, anno in cui il vescovo Lorenzo e il Capitolo donaro-no la quinta parte di una vigna sita in Brusara ai Fratelli Disciplinati dell’"Annunciata". I confratelli si stabi-lirono nell’Oratorio dell’Annunziata, edificato agli inizi del XV secolo, e chia-mato nelle fonti documentarie “Ecclesia Nova”, per distinguerlo dall’antica chie-sa omonima. La sala, coperta da volte a crociera, presentava tre altari: sull’altare maggiore si ammirava un grande quadro in cui erano raffigurati il Padre Eterno, tra un coro di angeli, il Prese-pe e l’Annunciazione della Beata Vergine mentre gli altari laterali erano dedicati a San Giovanni Battista e ai Santi Cosma e Damia-no. Lungo le pareti si disponevano bancali “bancalia magna pro sedendo” mentre al cen-tro era un piccolo organo. Davanti all’altare maggiore pendevano una lampada grande e sei più piccole sempre accese.Nel corso del XIV secolo la chiesa dell’Annunziata era di patronato reale: “il Cappellano di questa chie-sa era di nomina del re e re Roberto nel 1323 presentovvi per rettore e cappellano l’abate Giovanni Frezza”, si legge nelle Memorie di Matteo Camera, ma il Re Carlo III di Duraz-zo rinunziò al beneficio in favore di Antonio Fusco mentre Ladislao, dopo la morte di Antonio, privo di una discendenza maschile legittima, concesse il patronato “con ispecial diploma” a suo nipote Nicola Fusco.

L’oratorio, pertanto, fu concesso alla Confra-ternita dalla nobile famiglia de Fusco. Nel 1577 la sede, governata da Francesco Furno, fu visitata da mons. Paolo Fusco (1570 - 1578). In quella occasione furono rinvenuti 43 vesti per i confratelli “cum cappuccis et cingulis” e 28 per le esequie “pro mortuis”. La suppellettile liturgica era costituita da calici d’argento, 15 torce grandi, 220 piccole e un incensiere. Nella chiesa si conservava una statua di legno che si portava in proces-sione per tutta la città, “processio generalis per tota civitate”, in occasione della festa dell’Annunciazione, celebrata il 25 marzo. In quel giorno di giubilo venivano solitamente distribuiti tre moggi di pane ai fedeli che prendevano parte ai sacri riti. Si celebrava anche un’altra festa nella terza feria dopo Pasqua durante la quale venivano distribuiti pane, vino e uova a chi offriva elemosine e altre oblazioni. Nella festa di Sant’Andrea, invece, la Congrega offriva il vino “in porta civitatis”, alla porta della città, che presumi-bilmente doveva essere la vicina porta di San Matteo del Pendolo. Sotto l’Oratorio erano presenti una “domus” antica che minacciava rovina e una cantina, il “cellarium”, dove si conservavano botti di vino in cui veniva ripo-sto il vino offerto.

I confratelli versavano una somma che con-sentiva loro di utilizzare le campane dell’Annunziata vecchia e il vestibolo in cui nel giorno della festa veniva allestito un “bancale” per la distribuzione dei beni. Mons. Francesco Benni de Butrio (1603 - 1617) visitò ripetutamente l’ "Ecclesia con-fraternitatis laicorum" che trovò “bene ornata e accomodata” e comandò al cappellano, Giovanni Andrea de Fusco, di celebrare una sola messa a settimana contrariamente alle due messe solitamente celebrate. Negli anni successivi il prelato comandò più volte al riottoso economo della confraternita, Giovanni Angelo Fenice, “di rendere conto della sua amministrazione, di provvedere al restauro del fornice della chiesa che minaccia-va rovina e di ornare l’altare”.

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Page 12: Incontro Maggio 2010

CELEBRAZIONI DEL MESE DI MAGGIO La Messa nei giorni festivi e feriali sarà celebrata alle ore 19.00

6 - 13– 20 - 27 Maggio: ore 19.30: Adorazione Eucaristica 8 MAGGIO

Ore 12.00: Sulla alla B.V. del Rosario di Pompei 9 MAGGIO

V DOMENICA DÌ PASQUA Ore 8.00-10.30– 19.00: Sante Messe

16 MAGGIO ASCENSIONE DEL SIGNORE FESTA DELLATRASLAZIONE

DELLA RELIQUIA DI S.PANTALEONE Ore 8.00 - 10.30: Santa Messa

Ore 19.00: Processione e al ritorno Santa Messa 22 MAGGIO

Ore 19.00: Messa della Vigilia di Pentecoste 23 MAGGIO PENTCOSTE

Ore 8.00-10.30– 19.00: Sante Messe 30 MAGGIO SS. TRINITA’

Ore 8.00-10.30– 19.00: Sante Messe 31 MAGGIO

Visitazione della B.V. Maria Ore 19.00: Santa Messa e Processione con la statua

della B.V. del Rosario di Pompei

Anche mons. Michele Bonsio (1617 - 1623) dovette invitare il Fenice a rendere conto della sua amministrazione mentre in quegli anni una lite tra Giovanni Andrea de Fusco e Ferdinan-do Confalone, arrivata alla Sacra Rota, provo-cò la sospensione delle messe e dei “divina officia” nella chiesa "vecchia". In quella situa-zione di abbandono gli interventi alle campane, “in periculum effractionis”, furono sostenuti direttamente dalla Confraternita. Dalla visita di Antonio de Panicolis del 1665 apprendiamo che la città aveva nominato due amministratori approvati dal Vescovo, Andrea de Fusco e Salvatore Battimelli, con il compito di esigere le rendite e di far celebrare due messe a setti-mana. In quell’anno l’organo era inutilizzabile poiché molte canne erano state rubate mentre i confratelli versavano 4 carlini per il suono delle campane e l’utilizzo del vestibolo. Nel Settecento la struttura subì un ampio rimaneg-

giamento: le absidi laterali furo-no tamponate e le pareti vennero ornate nella parte superiore da un fregio pittorico mentre sotto la volta fu inserito un soffitto a cassettoni. Durante la visita pa-storale mons. Giuseppe Maria Perrimezzi (1707 - 1714) ordinò il restauro dell’antica statua li-gnea, cara alla devozione popola-re ma, purtroppo, l’auspicato intervento non avvenne. Così, solo qualche anno più tardi, mons. Nicola Guerriero (1718 - 1732) ordina-va di prendere l’effigie scultorea, ormai defor-me, e di bruciarla. La Confraternita “in Eccle-sia SS Annunciationis extra Cathedralem costi-tuita”, che soggiaceva alla visita del vescovo e prendeva parte alle processioni e ai riti con grande devozione, è documentata anche nelle visite "ad limina" di mons. Luigi Capuano (1694 - 1705) e di mons. Perrimezzi. Nel

secondo decennio del XVIII la Congrega si estinse e, difatti, all’epoca di mons. Antonio Maria Santoro (1732 - 1741), la festa dell’Annunciazione, tradizionalmente legata ai disciplinati, passò sotto il patronato della fami-glia de Manso. Un altro sodalizio, testimone della profonda religiosità popolare, era tra-montato per sempre.

Luigi Buonocore

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