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Incontri nelle scuole LETTURE PREPARATORIE a.s. 2016-2017 www.aspeninstitute.it

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Incontri nelle scuole

LETTURE PREPARATORIE

a.s. 2016-2017

www.aspeninstitute.it

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INDICE DELLE LETTURE

Uno sguardo sul passato

Giovanni Comisso, Un’acropoli di acciaio nella pianura, 1955, in “Fabbrica di carta. I libri

che raccontano l’Italia industriale”, a cura di Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo, Editori

Laterza, giugno 2013

Ottiero Ottieri, La linea gotica, 1963, in “Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia

industriale”, a cura di Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo, Editori Laterza, giugno 2013

Il presente, il futuro

• Giorgio Giovannetti, L’Italia e il rinascimento manifatturiero, cap. II: “Creativi, innovativi,

veloci, torniamo a fare l’Italia”, intervista ad Andrea Pontremoli, Aspen Institute Italia e

Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2016

• Edoardo Campanella, Il lavoro del futuro, Sintesi Conferenza Annuale degli Aspen

Junior Fellows, Milano, 20‐21 novembre 2015

• Wikipedia, l’enciclopedia libera, Industria 4.0, versione del 6 gennaio 2017

• Valeria Miceli, Un circolo virtuoso tra reale e virtuale: la manifattura 4.0, Sintesi Tavola

Rotonda Aspen, Dalmine, 15 febbraio 2016

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Un’acropoli di acciaio nella pianura

di

Giovanni Comisso

1955

in

“Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale”

a cura di Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo

Editori Laterza

giugno 2013

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Giovanni Comisso, Un'acropoli di acciaio nella pianura (1955)

Ogni volta si debba passare il Po, in.fluiti dalla monotonia della pianu­ra, sebbene accesa dal verde intenso, avviene che, al valico, si rimane sorpresi fino a gridare per la meraviglia dello scenario fatto di anse con isole interposte, tutte dense di alti alberi. Ora che si va verso i giaci­menti di gas naturale si pensa a quella vegetazione preistorica che qui esisteva, folta, irruente, impaludata, dove animali giganteschi aprivano strade tra le alte liane e altri minuti e serpeggianti fernnentavano in tumulto: poi l'ultima glaciazione tutto travolse, soffocò, sommerse, nel profondo di altra terra portata dai monti e da tanta strage interrata gem1ogliò questo gas prezioso di recente scoperta.

Avvicinandosi a Cortemaggiore la campagna tenue di un verde più lavorato sembra quasi ingenua, eppure sotto la sua crosta trattie­ne imprigionato il gas antico pronto a tramutarsi in fiamma potente. Non come incubo, ma come un lieto orgasmo ci accompagna questo pensiero per la forza caotica racchiusa. Ogni tanto, lungo la strada si vede da un lato un recinto cli rete metallica, nel mezzo del quale sta una gabbia cli ferro dipinto di bianco che illude sia un pollaio, mentre invece preserva uno dei tanti pozzi che da mille e più metri di profondità porta alla superficie il gas naturale. Chi ci accompa­gna ierma la macchina e ci fa entrare nella gabbia, vuole che si posi l'orecchio al tubo per ascoltare il gorgoglio incessante, poi apre la valvola e con un sibilo acuto il gas si sprigiona nell'aria. Il cielo del pomeriggio è mite, venato appena di qualche strato sottile di nubi, un cielo da pittura lombarda, ampio sopra la pianura ampia e che ri-

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sente del verde sottomesso. AJ di là del recinto, su quella stessa terra, i contadini caricano il fieno su un carro, i buoi biancheggianti al sole abboccano il fieno a ogni sosta, nella cascina., accanto, uomini e don­ne vocia.no awiando un branco di maialini rosa verso lo stabbio. Ci si china verso la terra chiusa dal recinto e si vuole toccarla, discenderla per convincersi sia uguale a quella che a poca distanza genera biade, mentre questa attraverso il tubo profondo genera quel gorgoglio e quel sibilo acuto atterriti dalle sue interiora. Una volta nel trivellare questa terra il fuoco si sprigionò altissimo verso la mitezza del cielo e ia lotta per spegnerlo durò giorni affannosi e lunghissimi. Ogni passo su questa terra viene posato con sospetto. Virgilio che con tanta dolcezza cantò la vita di questi contadini tra le ombre dei faggi non pensava che anche attraverso a essa si poteva giungere qui sotto agli inferiori dove riposano gli eroi.

Qualcosa di misterioso

Cortemaggiore è un paese lombardo che fino a qualche anno ad­dietro dormiva nel giro lento dei suoi traffici agricoli, è tagliato da stradine diritte come se fosse stato costruito sulla traccia di un ac­campamento romano, ma forse era solo un agglomerato di cascine attorno a una ampia corte dove si batteva il grano. Appena fuori dal caseggiato appaiono scintillanti nel sole, che declina, gli impian­ti degli idrocarburi. All'ingresso ci si sente costretti a sostare, non per le guardie che ci richiedono la consegna cautelare delle nostre scatole di fiammiferi, ma per ammirare l'incanto delle torri, delle enormi bombole, delle altissime tubature, tutte dipinte di un bianco alluminio che si inazzurra nell'ombra. Qualcosa di misterioso sta alla radice dell'incanto. Da prima sembra sia dovuto all'inquadratura data dal grande ingresso, poi si pensa dipenda dal cielo fatto ancora più dolce, elevato sopra le costruzioni metalliche splendenti nel loro bianco. Si rimane in un dubbio curioso, nell'entrare e nell'avanzare sempre con un'attenzione incantata.

Sebbene un rumore continuo, ritmico di acqua che cade e insie­me cli un motore, venga da un edificio che sembra una baita mon­tana, si ha l'impressione di un alto silenzio dominante tutta la zona chiusa dal perimetro quachato di un muro. Il silenzio dei cimiteri se si guarda quel muro che gira attorno, ma come si cammina tra le tor­ri, tra i grandi depositi che comprimono il gas, tra i pinnacoli, i mi­nareti argentati e scintillanti quel silenzio ricorda altri silenzi: quello

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che si respira tra le alte cime dei monti o nelle sublimi acropoli. Un silenzio di isola di riposo e di armonia insieme. Ogni costruzione abituale è esclusa ci si trova tra una architettura inusitata, tra un accostamento di masse sferiche, cilindriche, tra tubature innume­revoli, una fila di comignoli alti una quarantina di metri, una torre elevata cli trama metallica, tutto biancheggiante, nella coloi-azione di alluminfo, segnato solo in punti precisi e ritornanti di rosso, di verde, di giallo, nelle parti di manovra o che possono essere toccate o percorse. Un'architettura precisa, razionale per eccellenza, voluta da leggi scientifiche, con economia e ristrettezza assolute, senza margini di retorica, di fantasie false e transitorie. Tutte le linèe, tutti i volumi banno la loro ragione tecnica, essenziale, nuova e che genera uno stupore felice. A un certo momento camminando rasente alla fila degli alti comignoli indorati dal sole prossimo al tramonto in quel silenzio e con quel cielo che li accoglieva verso la cima, non si men­tisce se sembra ritrovarsi sull'acropoli di Atene accanto alle colonne del Partenone quando nella pietra giallina assorbono la stessa luce. In fine la ragione geometrica di quelle colonne richiesta per reg­gere le architravi possenti, è la stessa di questi comignoli, che sono cilindri di quaranta metri d'altezza racchiudenti il gas naturale, che proviene dai vari pozzi e che dentro si purifica e si perfeziona. Tutta la stanchezza per la giornata calda, per il viaggio lungo dispare come se il corpo si sia disintegrato, lasciando libera la mente nel solli vo della contemplazione. Infine ci si accorge che quelle strutture archi­tetturali nella loro ragione di una tecnica scientifica non banno nul­la di diverso delle cristallizzazioni che si compongono simmètriche in dimensioni armonio e volute da una composizione molecolare e chimica che non soffre disgressioni. icché ci si trova davanti a un prodigio convalidato da un'estetica che ricorre tanto nelle opere d'arte divenute classiche, quanto negli aspetti della natura tra i più eccelsi e .ineguagliabili.

Anche la mancanza di alberi, richiesta da necessità tutelari, la­sciando scoperta a nudo ogni zona, sia quella delle torri che quella delle tubature allineate e dei depositi cilindrici, favorisce la rivela­zione di questa cristallizzazione metallica che il bianco alluroinìo lucente e variante col calare del sole rende sempre più incantevole. I brevi spazi interposti di un'erbetta tiepida, quasi avvilita, servono a dare sempre più importanza al cielo vasto che si sposa sopra, facen­do risaltare da ogni lato le masse semplici e nette. E il solo rumore

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d'acqua cadente e di un motore insieme risulta infine come quello di un accordo musicale suscitato da un organo idraulico.

Ricordo del Partenone

Cos1 camminando e pensando ci si accorse che più non ci si ricorda­va che quegli impianti servivano come raccolta de.i vari metanodotti, che più non ci si ricordava che quegli impianti venienti dalla pro­fondit-à terrena si liberava dei suoi complessi elementi per diventare metano e benzina. Entrando in una capanna metallica la realtà riap­parve nel vedere alla grande tavola di distribuzione, a ogni volante corrispondere una dicitura di città lontane, e di fuori i tubi argentei inalberati, come colonnine di bianchissimo marmo si dipartivano da quella capanna, per curvarsi nella terra e andare verso quei centri industriali a dare energia e calore a innumerevoli macchine. Tutto era ancora silente, perfetto. E le brevi colorazioni di certe parti, in rosso, in giallo e in verde, risultavano fioriture violenti e integrali,come tra il chiostro di un convento.

Ma col pensiero si andava ad altri momenti di altre stagioni e di altre ore del giorno. Si sarebbe voluto, come appunto si fece per il Partenone, avere l'occasione di vedere il variare della luce su questo accampamento, così architettato di masse nuove e misurate, quando l'alba avanza nel cielo o in una notte cli luna o in una giornata autun­nale di nebbia lombarda, o al cadere della neve o qL1ando, biancheg­giante il terreno e ritotnato il sole, tutto questo Partenone metallico emerge rilucente. Ma più formidabile, secondo il racconto cli chi ci accompagnava, deve essere quando il mite cielo lombardo nella calura estiva si inferocisce improvviso di fulmini col pericolo imminente che uno colpisca qualcuno di questi serbatoi di gas, incendiandolo spaven­tosamente. Accadde che fulmini irati si scatenassero all'intorno, ma come guidati da mani generose, tutti gli impianti rimasero immuni. Mene re veniva revocata l'ansia di tutto il personale pronto in tenuta di combattimento con gli estintori alla mano, pure rivivendo la loro ansia per il pericolo sovrastante, non si poteva non raffigurarci quelle che dovevano essere le luci di questi elementi metallici, elevati e distesi, nell'accogliere i riverberi di quei fulmini mentre si scatenavano dal

cielo. E quali sarebbero stati se il temporale fosse avvenuto di notte. Più tardi giunsi a Cremona dove pernottai. Al mattino percorsi

la città e andai a sedermi a un caffè davanti al Duomo. Vivevo nel ricordo di Cortemaggiore e di quelle architetture che mi avevano

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così profondamente incantato. Il duomo con la sua facciata lena­mente sembrava richiamarmi. Ogni tanto vi posavo lo sguardo, m­fine come per magico giuoco, tutti i suoi elementi architetturali si sostituirono con quelli che avevo visto a Cortemaggiore. L grande roue corrispondeva all'altra, le serie ricorrenti dell.e colonnine ulllogge e alla base corrispondevano e tubature allmeat e persmo 1 due minareti posti ai lati della facciata verso lo stesso Cielo, presero la forma di quelli che dentro alla loro massa cilindrica purificavano il gas sprigionato dalla terra. [Un'acropoli di acciaio nella pianura, «II Gatto Selvatico», settembre 1955, pp. 10-11]

Giovanni Comisso

(Treviso, 1895-1969) Terminati gli studi classici, partecipa come volontario alla prima guerra mondiale e, in seguito, all'impresa di Fiume (1920-21). Dopo la laurea in Legge all'Università di Siena esercita per un breve periodo la professione d'avvocato, prima di diventare libraio (a Milano) e commerciante d'ar­te (a Parigi). Collabora come giornalista e inviato alle riviste «Salaria», «L'Italiano», «Il Mondo», «La Gazzetta del .Popolo», «Corriere della Sera», «Il Giorno», «Il Gazzettino» e tra le riviste aziendali, «Civiltà delle Macchine» e «Il Gatto Selvatico». I reportage di viaggio in Italia e all'estero sono raccolti nei suoi libri, tra i quali Czr1a-Giappone (1932) e Un italiano errante per L'Italia (19.3 7). Nel 1955 vince il Premio Strega con il romanzo Un gatto attraversa la strada.

Bibliografia: Un'acropoli di acciaio nella pianura, «Il Gatto· Selvatico», settembre 1955.

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La linea gotica

di

Ottiero Ottieri

1963

in

“Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale”

a cura di Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo

Editori Laterza

giugno 2013

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Ottiero Ottieri, La linea gotica ( 1963)

Sono arrivato finalmente dentro l'Alfa Romeo, accompagnato da quelli della Commissione interna e vedo per la prima volta una gran­de fabbrica meccanica. (Mi danno ancora del tu.)

Qui sembra il centro del mondo, della sua potenza e matrice, come un tempo una selva, il raccolto del grano; tutto il resto, sembra lontano e secondario, e lo stabilimento fa una impressione dilatata che rinchiude tutto.

Sotto un grande capannone stanno riposte e allineate le automo­bili nuove, finite, lucide, pronte per la vendita. Morbide e slanciate, come donne. È chiaro che sono la passione degli uomini appena diventati ricchi, e dei ragazzi, il simbolo e il mezzo dell'avventura moderna.

Vedendo tale festa, mi ricordo da dove vengono, come sono state fatte, nei reparti.

I reparti sono quasi tutti un inferno di rumore e di caldo. I rumori esplodono come durante un bombardamento e ognuno pare l'ultimo, definitivo, dopo il quale crollerà tutto, mentre è solo uno fra migliaia di fragori continui. Il caldo viene dal fuoco liquido, dal metallo trava­sato da un recipiente ali' altro come l'acqua o l'olio. In fonderia, sotto i capannoni alti e oscuri, si stende un pavimento di terra come un'aia, una terra nera, la terra delle "forme": qui si ritrova un certo silenzio, di fumo. Ogni tanto escono le lingue di fuoco dai forni. Un operaio lavora seduto in terra e costruisce la forma con le mani.

Alle forge l'inferno è più ricco. Lavorano insieme i magli e i forni. I magli dànno colpi con un assurdo e concentrato meccanismo di violenza, e paiono colpi all'impazzata. Non capisco come l'operaio che ci lavora vicino non aspetti l'ultimo colpo, estremo, il termine dello scatenamento dell'utensile, prima di cominciare lui a lavorare, a vivere; invece lavora insieme, contemporaneamente, alla macchina, sprofondato nel rumore. Tutti dicono che ci si abitua.

Le donne invece, nel reparto bulloneria, fanno piccolissimi pezzi, a freddo. Ma questi luoghi non sono da osservare come uno spetta­colo, un teatro.

Il compagno di Commissione interna aveva problemi da espormi, e io ero tutto travolto dalle "apparenze".

Alla Dalmine di Bergamo, nell'acciaieria, parlo con gli operai con le visiere-schermo sugli océhi, davanti al caldo accecante dei forni.

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Dicono «ora sì, fa caldo, ma d'estate!» (quando comincia il grande caldo della pianura).

Ai lamil;atoi, sta fra i lingotti che vengono immessi nel forno di riscaldo, da lì estratti con pinze enormi, trasportati alla pressa, infa1e nella guida che li conduce al laminatoio obliquo e a quello chiamato Pellegrino, da cui escono lunghi, rossi, infuocati come orribili vermi: già tubi. I colpi tremendi del Pellegrino li hanno forati e allungati. I rubi si raffreddano, rotolano meccanicamente sui grandi rapidstan, saltano, sgusciano da ogni parte. Quando poi la sega circolare li ta­glia, si alza una raggera di scintille, uno stridìo che assorda.

Fuoco rosso e macchine nere. Il cammino autonomo del lingotto infuocato. Il battere ritmico, conVLÙsivo dentro il laminatoio che lo deve forare, spolpare: lavorano contemporaneamente i cilindri per sfibrare l'acciaio e allungarlo, e una spede di scalpello per renderlo cavo. Così il tubo nasce da un lingotto rettangolare, che diventa tondo e bucato, allungandosi. Il semilavorato si fa malleabile come la plasti­lina, ma a prezzo di violenza precisa e di fuoco. I colpi sordi insistono fino in fondo, come se dovessero ammazzare qualcuno, durissimo a morire, sfondare la fronte di un elefante col cervello di ferro.

È una industria "pesante" priva del respiro di una visibile abili­tà dell'uomo, inghiottita, incorporata dalle macchine; dove l'azione umana si è cristallizzata in mani meccaniche giganti, e rimane distan­za fra l'uomo e il fuoco disumano.

Mi vengono in mente le lavorazioni meccaniche di precisione, in cui l'uomo sta chino sulla macchina utensile, come se scrivesse, e sul pezzo - un pezzo minuscolo rispetto alla macchina - e ne segue la cesellatura, lo misura a millimetri. Qui da un parto vulcanico, mostruoso, lacerante, meraviglia della tecnica poderosa, non nasce che un tubo. Opera da ciclopi, dove l'astuto Ulisse non fa la sua figura; è messo in un canto dai passaggi autonomi e guizzanti del lingotto, che si trasforma e scende verso un banale destino. In altri laminatoi, per tubi più sottili e quindi più cattivi, si presenta uno dei lavori più terribili che abbia mai veduto. Un vecchietto con un lungo bastone rimescola continuamente dei tubi - che passano dentro un forno - attraverso una finestrella laterale del forno. Dalla finestrella esce un'aria di fuoco che avvampa il viso del vecchio. Vino, vino, beve vino. Tra il fuoco e il vino, questo vecchietto, con un mise­rabile cappello, sembra che stia in piedi per miracolo. Parla con gentilezza, come un vecchio contadino, indicando la finestrella che non può perdere d'occhio un minuto, altrimenti i tubi si scuociono

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come i maccheroni. Deve sempre rimescolare, spingendo avanti e inclieu·o il lunghissimo bastone. Il vecchio sorride, sorride lui stesso su un simile lavoro e, quasi, insieme ci domandiamo ironicamente chi l'abbia inventato.

Fuori, Dalmine è un paese aziendale, tutto nuovo cli villette e giardini, abeti, alla svizzera, dove abitano gli impiegati, i dirigenti, mogli e bambini, e si fa una piccola vita sociale tra i villini e le conife­re, con bambinaie, pettegolezzi e carrozzine. Ecco un'altra com unità mancata (perché la sera fuggono a Bergamo, a Milano). Gli ingegneri si conoscono tutti fra loro, vivono il giorno e buona parte della notte in stabilimento, le mogli sì lamentano di non avere mai i mariti con loro, anzi di averli a pochi metri di distanza, che lavorano.

Negli uffici dei dirigenti - dove salgo alla fine della visita - ci si può specchiare, nei loro grandi tavoli lucidi. L inferno dei reparti viene a sublimarsi in tali stanze razionali, dove uomini ordinatissimi, su poltrone di tela, dietro i tavoli segnano brevi appunti sui calendari e spazzano via una molecola di cenere dalla superficie delle scrivanie a specchio. Al mmo hanno messo sobrie biblioteche cli volumi tec­nici e qualche annuario.

Più elegante di tutti è l'ufficio pubblicità, in cui i lussi dello stabi­limento sono radunati: immense fotografie a muro, lunari di propa­ganda, perfette tricromie cli momenti spettacolari della lavorazione, scattate per le public relations. Qui il tubo cocca i fastigi dell'arte, si fa merce e si abbellisce per adescare i clienti.

Mi piacerebbe scrivere un romanzo, che si svolgesse tutto a Dal­mine. Un romanzo aziendale puro.

Dovrei abitarci un anno. Come? Mi caccerebbero v:ia. Il lavoro non ammette zone morte contemplative e ogni stabi­

limento è una fortezza piena di segreti. Le industrie italiane sono gelose cli se stesse. Temono 1e spie, i concorrenti; più spesso, che un estraneo scopra le loso magagne, certi reparti vecchi cli cinquant'an­ni: hanno il senso di colpa cli non aver reinvestito abbastanza, e pu­dicamente si nascondono.

[La linea gotica. Taccuino 1948-1958, Guancia, Parma 2012, pp. 66-67 e 94-97]

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Ottiero Ottieri

(Roma, 1924-Milano, 2002)

Nato da famiglia toscana a Roma dove si laurea in Lettere con Natalino Sa.pegno, nd 1948 si trasferisce a Milano per collaborare con l'ìndusrria editoriale. Nd 1955 è assunto dall'azieo.da Olivetti di Ivrea, dapprima nel­la fabbrica di Pozzuoli, poi a Milano, dove rimane fino al 1965. Esordisce come narratore con Memorie dell'incoscienza (1954) nella collana einau­diana "I gettoni", diretta da Elio Vittorini. Dall esperienza del lavoro in fabbrica nascono i romanzi Tempi stretti (1957), Dormarumma all'assolto (1959) e il diario La. linea gotica (196.3 ), uno stralcio del quale viene anti­cipato nel 1961, con il titolo Taccuino industriale, sul quarto nwnero del «menabò». Nel 1966 vince il Premio Viareggio con L'irrealtà quotidiana e nel 1972 il Premio Selezione Campiello con Il campo di concentrazione. Collabora con «Il Contemporaneo», «Il Mondo» e <<ll Giorno».

Bibliografia: Tempi stretti, Einaudi, Torino 1957; in edizione riveduta, Einaudi, Torìno 1964; prefazione di Giuseppe Lupo, postfazione di Mat­tia Fontana, Hacca, Matelica 2012. Donnarumma all'assalto, Bompiani, Milano 1959 e successive; prefazione di Giuseppe Montesano, Garzanti, Milano 2004; prefazione di Edoardo Albinati, Utet, Torino 2006. Tac­cuino industriale, «il menabò», 4, 1961; in edizione riveduta in La linea gotica. Taccuino 1948-1958, Bompiani, Milano 1962; prefazione di Furio Colombo, Guanda Parma 2001 e successive. Donnarumma all'assalto e La linea gotica in Opere scelte, scelta dei testi e saggio introduttivo di Giuseppe Montesano, cronologia di Maria Pace Ottieri, notizie sui testi e bibliografia a cura di Cristina Nesi, Mondadori, Milano 2009.

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L’Italia e il rinascimento manifatturiero

di

Giorgio Giovannetti

cap II:

“Creativi, innovativi, veloci, torniamo a fare l’Italia”

Intervista ad

Andrea Pontremoli

Aspen Institute Italia

e

Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani

Roma, 2016

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CAPITOLO II

II

CREATIVI, INNOVATIVI, VELOCI, TORNIAMO AFARE L’ITALIA

Andrea Pontemoli era un informatico. Nel 1980era entrato in IBM come tecnico di manutenzione. 24anni dopo era divenuto presidente e amministratoredelegato di IBM Italia. Nel 2007 lasciò IBM e decisedi diventare un imprenditore. Acquistò una quotarilevante della Dallara, una società che progettava ecostruiva auto per i campionati su pista. Oggi, laDallara è un’azienda leader mondiale nel suo settore.Un esempio del made in Italy e un modello dei nuovidistretti industriali.

Siamo usciti dalla crisi?Più che una crisi, stiamo vivendo un cambiamento epocale, un mutamento

di paradigma: il mercato globale sembra dettare le regole e dominare lenostre vite. Non possiamo uscire da questa situazione impiegando lepolitiche economiche adottate in passato. Dobbiamo “cambiare pelle”,possibilmente seguendo un percorso di evoluzione, anche se il rischio è diuna involuzione.

La chiave è avere un approccio sistemico e non singolo: per l’Italia saràdifficile perché dobbiamo imparare a lavorare e pensare “insieme”.Quali sono i “motori” del cambiamento? Quale è la prospettiva?

La prospettiva più lineare pare essere quella di un impoverimento

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generale della nostra società: declino economico e sociale.Ritengo che tutto ciò sia causato da una “crisi di valori” e sia la

conseguenza della miseria morale del Paese.Però, la “crisi” può essere uno strumento straordinario per andare oltre

lo stato delle cose e, superando un modello meramente consumistico,trovare nuove vie di sviluppo sostenibile in cui i beni non siano un fine, maun mezzo per vivere meglio.Quando tornerà l’equilibrio economico in che tipo di società citroveremo?

Spero che ci troveremo in una società più solida dal punto di vistafinanziario, anche se, a livello mondiale, i dati macroeconomici fornisconoindicazioni di speculazioni e bolle che continuano a crescere.

Dal punto di vista sociale, invece, credo sia importante ragionare intermini di lungo periodo, cercando di creare valore (non solo in termini diricchezza economica) per le generazioni che verranno dopo di noi.E intanto? Keynes diceva: “Nel lungo periodo saremo tutti morti”…

Certo, ma – se riusciremo a impostare nuovi modelli in cui sviluppo esostenibilità non si escluderanno a vicenda – saremo riusciti a impostare unfuturo migliore per i nostri figli e, quindi, diventeremo un po’ “immortali”.Secondo Lei serve una politica industriale che fornisca indirizzi e, intale ambito, opzioni agevolate, oppure le imprese debbono esserelasciate a se stesse perché, in fin dei conti, il mercato sa autoregolarsi?

Negli anni, l’approccio dell’Italia alla politica industriale è sempre statopiù “politico” che “industriale”.

Molto “politico” perché si è concepito l’intervento dello Stato comemodalità di espressione del potere di chi governa e non come un disegno disviluppo del Paese, che va ben oltre le singole legislature.

Poco “industriale”, perché negli anni non si è stati capaci di anticipare einvestire negli sviluppi tecnologici che stavano emergendo. Penso allaOlivetti degli anni Cinquanta/Sessanta che era un temuto concorrente di Ibme poi la si è lasciata dissolvere. Così come la politica non è riuscita aimmaginare le conseguenze sociali e economiche di ciò che accadeva inCina e in India, ma soprattutto perché non si è riusciti a definire le linee

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strategiche di sviluppo del Paese. Poi, quando alcuni investitori stranieri sisono presentati per acquistare alcune delle industrie italiane, è esploso loscandalo e, invece di dare prospettive diverse, ci si è dati da fare perbloccare gli acquisti.

In questo contesto, le imprese si sono trovate sole e si sono arrangiate,operando anche in modo non coordinato con le istituzioni. Il tutto con altodispendio di risorse e opportunità mancate, e così via.E allora?

Detto questo, mi pare evidente che, tra il dirigismo di Stato e il lassez-faire del mercato, dobbiamo trovare un punto d’incontro, che si concretizziin una politica industriale che sia disegnata insieme tra imprese e governo,che abbia principi strategici di lungo periodo e che venga vista come ilmodo migliore per disegnare il futuro delle prossime generazioni.

È certo, però, che se guardiamo all’attuale situazione italiana e alla suarappresentanza in sede europea, si fa fatica a intravvedere una forma dipolitica industriale coerente.Spesso nei suoi discorsi pone la formazione come snodo centrale. Cosaintende? Con quali percorsi e affidata a chi?

Fino ad ora la formazione è stata ritenuta importante soprattutto in terminidi principio. La realtà è che, fino a oggi, spesso le aziende l’hanno vissutacome una perdita di tempo, un’imposizione o come un male necessario.Allo stesso tempo, le logiche che regolavano la formazione finanziataparevano improntate all’utilizzo di un sistema di incentivazione “a pioggia”.

La formazione oggi è una priorità soprattutto perché è legata al tema dellacompetitività delle imprese, dello sviluppo professionale e dellamotivazione delle persone. Fino a non molto tempo fa si parlavadell’obsolescenza delle competenze in un arco di tempo di una quindicinadi anni; ultimamente si è parlato di riqualificare le competenze ogni 4/5anni. Per le aziende che operano in settori altamente tecnologici ènecessario aggiornare il proprio personale ogni anno, al massimo due.Strettamente collegato al tema delle competenze vi è anche il tema deipercorsi di sviluppo, che in un ambiente meritocratico sono fondamentaliper la costruzione del futuro delle aziende e per l’aggiornamento e la

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crescita professionale delle persone.Pertanto, sono convinto che sia fondamentale una reale condivisione dei

piani formativi tra il mondo dell’impresa e il mondo dei professionisti dellaformazione: l’unico modo per farlo è parlarsi e confrontarsi. In tutto ciò leamministrazioni pubbliche dovrebbero avere il ruolo di facilitatori e non dimeri burocrati.Quale pensa possa essere un “premio” adeguato per stimolareun’impresa a investire?

Ritengo che il premio da parte delle istituzioni nell’affrontarel’investimento deve essere fatto guardando solo a due aspetti: di quantoaumentano gli occupati nelle aree dichiarate strategiche e di quantoaumentano i salari medi dei nuovi assunti rispetto alla media di quelterritorio.

Quando Dallara ha deciso di aprire uno stabilimento negli Stati Uniti, leautorità locali ci hanno chiesto proprio quelle due cose. Abbiamodichiarato che avremmo creato almeno ottanta nuovi posti di lavoro in areaautomotive (area strategica per lo Stato dell’Indiana) e che lo stipendiomedio di queste ottanta persone sarebbe stato superiore a 38.000 $/anno (lamedia dello Stato dell’Indiana era 26.000 $/anno).

Tutti gli anni ci fanno un controllo su questi due numeri e, se sonomantenuti – praticamente non paghiamo tasse – perché lo Stato ricava moltodi più dalle tasse dei dipendenti rispetto a quanto pagherebbe l’azienda.Così si crea un benessere sociale. Mi sembra un modo semplice, misurabilee molto direttivo.Come giudica il trasferimento all’estero di attività produttive e laperdita delle relative produzioni dirette e indotte nei territori italiani?

Tendenzialmente tale fenomeno è avvenuto per la perdita sul territorio diattività scarsamente tecnologiche, quindi a basso valore aggiunto,caratterizzate dall’impegno di manodopera scarsamente qualificata egeneralmente poco pagata. È una naturale conseguenza del cambiamentoepocale che stiamo vivendo e comporta conseguenze negative qualichiusure aziendali, ricorso agli ammortizzatori sociali, disoccupazione…

Il trasferimento all’estero di attività produttive è negativo solo quando

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con questo – oltre che per le conseguenze sociali che ne derivano –scompaiono le conoscenze del territorio stratificate in tanti anni.

Però il problema non è questo.Quale sarebbe, invece?

Il problema non è che abbiamo perso il 25% della produzione industrialenegli ultimi cinque anni, ma che non abbiamo costruito il nuovo 25% ingrado di sostituire quanto si sarebbe comunque perso.

Sta a noi creare aziende tecnologicamente avanzate, dotate di elevateprofessionalità, che siano in grado di competere nel mercato globale,garantendo utili che possano essere re-investiti in azienda per generarenuovo valore, con riflessi positivi per le imprese, per le persone e per iterritori: “non esiste un’impresa competitiva se il territorio nel quale insistenon è competitivo”.Sono molte le aziende passate in mano straniera. Cosa è strategico perl’economia italiana?

Il principio che deve regolare una scelta strategica deve essere quelloche mi permette di essere in una posizione di mercato dove posso dire di“esserci solo io” e non di “esserci anch’io”.

Preso come riferimento questo approccio, sicuramente dobbiamofocalizzarci su quei settori dove le competenze acquisite e la creatività checi distingue siano elementi distintivi o unici: meccanica di precisione,design in tutte le sue applicazioni (nell’abbigliamento, automotive,edilizia), nuove tecnologie produttive, alimentare e turismo, un settoreancora poco “managerializzato”. Ritengo che queste siano alcune delle areestrategiche dove possiamo dire la nostra, non tanto in termini di dimensioneaziendale ma di knowledge.La sua storia personale, top manager di una grande multinazionale ecapo di una azienda del quarto capitalismo, consente una valutazionecomplessiva. Quale tipo di industria è funzionale alla ripresa economicadel Paese?

Sicuramente l’industria, dove la conoscenza e il saper fare sono elementiessenziali e distintivi. In Italia abbiamo tantissime realtà produttived’eccellenza, che hanno radici profonde nelle tradizioni industriale del

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territorio/distretto, ma hanno anche la capacità di innovazione continua euna visione globale del mercato che gli permette di posizionarsi nellagamma del produttore di soluzioni per il cliente e non solo diprodotti/servizi. Dobbiamo fare ciò che sappiamo fare, ma farlo meglio efacendo sistema.

È altrettanto importante creare un clima di fiducia, investire sui giovani esulle start-up.

Un punto chiave è rappresentato dal mondo dell’istruzione e dellaformazione: nella fascia in cui la disoccupazione è più alta (25/34 anni)solo il 22% dei giovani italiani è laureato, contro una media europea del37%.

A fronte di questi dati, sappiamo quanto sia importante avereun’istruzione superiore: entro dodici mesi dalla laurea il 70% dei giovanitrova lavoro, dopo cinque anni siamo al 90%. Oltre a trovare piùoccupazione, i laureati sono mediamente meglio retribuiti rispetto aidiplomati. Insomma, l’istruzione è ancora un “investimento che paga”.

Dobbiamo attrarre investimenti esteri, soprattutto in quei settori distintividel made in Italy (tecnologia, stile/moda, alimentare…), preoccupandocidella serietà dei partner interessati e del fatto che gli investimenti fatti sulterritorio portino uno sviluppo sostenibile. È fondamentale spingeresull’export: molto meglio avere una quota di mercato dell’1% nel mercatomondiale, piuttosto che il 100% nel mercato nazionale!Lei dice: “Il mondo è cambiato: tutto va più veloce ed è necessario nonsolo conoscere i mercati esteri, ma essere costantemente presenti”.Come possono fare le industrie italiane, che non hanno certo lestrutture, le persone e i contatti di una multinazionale?

Qui ritorniamo al concetto di politica industriale su cui discutevamoprima. Quando si osserva il sostegno da parte delle istituzioni americanealle loro piccole–medie imprese nella crescita e nelle esportazioni, sicapisce quanta strada dobbiamo ancora fare in Italia.

Attenzione però a non pensare solo ad un discorso economico efinanziario, serve l’impegno a fare un discorso di sistema, dove tutti gliattori – banche, investitori, comunità locali, regioni, associazioni

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industriali, ecc. – cooperino in modo forte per far crescere la presenzadelle proprie aziende negli altri paesi. Ecco, questo è sicuramente larisultanza di un solido processo di politica industriale verso cui dobbiamoproiettarci.L’industria dell’auto è mutata profondamente negli ultimi anni. In baseall’esperienza della Dallara ci sono ricette che il Paese potrebbeseguire? Rapporti tra università e industria, facilitazioni di start up sullacomponentistica innovativa, interazione tra meccanica e informatica…

Sicuramente il collegamento tra università e industria è la chiave chepermette poi un ampio spazio di evoluzioni nel modo di fare le auto. Inparticolare, un tema chiave dell’industria dell’auto è la necessità dimateriali per la costruzione di veicoli sempre più leggeri, ma chesoddisfino criteri di sicurezza e aerodinamicità più stringenti e sfidanti. Ilmondo universitario e le aziende possono collaborare nello studio eapplicazione di soluzioni, portandole a livello applicativo e industriale. Glioutput di questi progetti avrebbero poi un impatto sulle logiche costruttiveanche di altri prodotti: dal packeting, alle macchine di movimentazioneparti, al design, all’arredamento fino all’edilizia. Il tutto con effetti positivisu tutta l’economia.

In Dallara abbiamo il motto: ”alla ricerca dell’eccellenza”. Questa frasedice tutto: non puoi mai stare fermo alla ricerca di un qualcosa che miglioracontinuamente, dobbiamo distruggere le rendite di posizione.Dai suoi discorsi emerge la reinvenzione dei distretti industriali.Competizione e cooperazione, come filosofia, ma anche nuoveinfrastrutture, reti telematiche, largo spazio ai contratti aziendali, forteinterconnessione con le istituzioni locali: però, chi deve guidare questiprocessi?

Nel nostro caso, nel Polo per la Meccanica-Materiali Compositi diFornovo di Taro, l’impresa è stata il driver dell’iniziativa, ma fondamentaleè stata la collaborazione avuta con il mondo dell’istruzione e dellaformazione. La pubblica amministrazione e la politica hanno ricoperto,nella costituzione della rete tra i vari soggetti, sapientemente, un ruolo difacilitatore.

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La disoccupazione giovanile ha cifre impressionanti, ma il dato checolpisce di più è che i giovani più colti e qualificati fuggono dall’Italia.Formiamo cioè tecnici e classe dirigente, investendo anche notevolirisorse, e poi non siamo in grado di offrigli opportunità e lavoro.

Questo è vero in parte. Ho già detto delle carenze del sistema formativoitaliano e un altro elemento va considerato: a fronte di una disoccupazionedilagante ci sono oltre 100.000 profili professionali vacanti; a frontedell’impossibilità delle imprese di reperire personale qualificato. Dettociò, sicuramente le imprese che non si sono rinnovate in termini di prodottoe processo, che non hanno fatto e non stanno facendo investimenti, risultanopoco attrattive per i giovani più brillanti e possono offrire loro poco onulla, sia in termini di occupazione che di sviluppo professionale.Un mercato del lavoro di basso costo e grande flessibilità di uso delfattore umano è positivo o negativo per il sistema Italia?

La flessibilità non è in sé né positiva, né negativa: è un dato di fatto delmutevole contesto nel quale oggi ogni azienda si trova a operare.

Il mercato del lavoro a basso costo non può essere di nostro interesse,perché un paese come l’Italia – nel quale non si possono utilizzareeconomie di scala – si deve puntare sulla istintività e unicità di prodotti eservizi, che necessitano di una manodopera qualificata.

Semmai il discorso da fare è legato al Total Tax Rate, l’indice cheinclude le imposte sui redditi delle società, i contributi previdenziali e letasse sul lavoro versate dal datore di lavoro, le imposte sui beni immobili esulle transazioni a essi relative, la tassa sui dividendi, sul capital gain,sulle transazioni finanziarie, sui rifiuti, sulla circolazione dei veicoli e altricontributi obbligatori.

Ebbene, secondo i dati della Banca Mondiale, in Italia la Total Tax Ratepesa per il 65,8%, ciò la pone al 138° posto nel mondo. Questa situazioneha evidenti effetti sulle politiche salariali. E non andiamo meglio con altridue importanti indicatori – il tempo impiegato e il numero di pagamentieffettuati – che considerano le imposte versate e quelle riscosse dalleaziende, come l’Iva e le tasse sulle vendite.Quindi, la sua ricetta?

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Fiscalità, stabilità delle norme: l’incertezza interpretativa e i tempi deicontenziosi influiscono direttamente sulla competitività dei singoli paesi.Perciò l’Italia ha bisogno di un sistema fatto di norme più stabili e piùchiare. Ciò avrebbe effetti immediati sulla sua capacità competitiva, datoche l’abbassamento della pressione fiscale è leva assai complessa daattivare in assenza di ripresa economica.La burocrazia viene indicata come un elemento che disincentival’iniziativa industriale. Per la sua esperienza, è davvero così?

Ci troviamo spesso ad avere a che fare con una burocrazia soffocanteche, talvolta, sembra voler fare di tutto per frenare le nuove iniziative. Bastipensare a quanti enti sono coinvolti per autorizzare un nuovo complessoedilizio, per non parlare della burocrazia in campo amministrativo/fiscale.

Le faccio un esempio, vissuto in prima persona.Nel 2011 come Dallara abbiamo partecipato a un bando della regione

Emilia Romagna sull’innovazione. Abbiamo presentato un progettoinnovativo del valore di 220mila euro e abbiamo avuto accesso a uncontributo di 87mila euro. Oggi, ossia dopo quattro anni, non abbiamoancora ricevuto il contributo, ma abbiamo dedicato tantissimo tempo per laproduzione dei documenti e delle perizie richieste.

Noi abbiamo fatto tutti gli investimenti necessari perché credevamo nelprogetto e soprattutto perché avevamo la possibilità di investire quellerisorse autonomamente; ma se avessimo dovuto aspettare il contributo periniziare a investire, saremmo ancora lì ad aspettare. Ma non basta.Perché, c’è dell’altro?

Fa sorridere amaramente il fatto che si tratti di un bandosull’innovazione: dopo quattro anni quell’innovazione per la quale è statoconcesso il finanziamento, probabilmente è già superata.

Attenzione però a non prendere un problema come un alibi. Un buonimprenditore in Italia mette in conto questo aspetto e lo gestisce con tutti ilimiti del caso, ma guai se una buona idea – se buona idea è veramente – èfermata da uno spirito disfattista causato dalla burocrazia.La Dallara è un’industria che ha costruito un distretto. Ha pensato orealizzato “facilitatori” locali per la sua attività e per quella

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dell’indotto?Per quanto riguarda il nostro distretto, direi che la chiave di sviluppo di

Dallara è stata quella di mantenere una certa flessibilità strutturale noninglobando alcune competenze, che si è deciso di lasciare ai fornitori delterritorio. Ciò significa un concetto di partnership non orientato solo alprezzo del prodotto, ma soprattutto orientato alla crescita continua delleesperienze e allo scambio di conoscenze che sono spesso incluse nellaprogettazione dei nostri prodotti (i nostri fornitori servono anche clienti disettori come l’aerospace, il militare, etc.).Parliamo di banche e fondi d’investimento. Quali dovrebbero essere ivalori e le strategie di chi gestisce il denaro altrui? E quali sono nellarealtà?

Le banche e i fondi di investimento hanno un ruolo importante nellosviluppo di una economia.

La prima cosa è quella di essere un primo “giudice” delle proposte diinvestimento in aziende che fanno ricorso a banche e fondi, in particolare aselezionare i progetti secondo solidi parametri economici. In secondoluogo, il loro contributo si concretizza nel fornire quel sostegno strategicoche il loro privilegiato punto di vista gli permette di avere. Infine, lasolidità delle banche e dei fondi di investimento – se questi mantengono unavisione di lungo periodo del loro investimento – permette all’impresa diinvestire e attendere il risultato nei tempi giusti. Questi sono i valori che chigestisce i soldi degli altri deve avere sempre in mente.Per il sistema Italia qual è il maggiore problema che frena gliinvestimenti pubblici e privati? E per Dallara qual è il problema piùgrande?

Oltre alla già citata burocrazia, i problemi principali sono: l’incertezza(e i tempi) della giustizia e la corruzione.

Per noi di Dallara, investire significa scommettere nel futuro, e quandonon si ha visibilità si guarda in basso e a breve raggio. Gli incentivipossono aiutare, ma quello che è più importante è creare quel quadrod’insieme che dia la ragionevole garanzia di poter ottenere i frutti degliinvestimenti fatti.

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Da qui al 2025 quale ritiene sarà la maggiore opportunità per l’Italia eper Dallara?

Nei prossimi anni creeremo un’area di ricerca in ambito materialicompositi, che comprenda la simulazione e un laboratorio d’avanguardia.Desideriamo, inoltre, creare in Italia un network di produttori di manufattiin fibra di carbonio, per garantire la capacità produttiva e i nostri standardqualitativi.

Investire nelle tecnologie del Cfd, continuare a migliorarel’aerodinamica sperimentale (galleria del vento) per essere competitivinell’attuale mercato.

Investire continuamente nello sviluppo di modelli matematici (Racing,Automotive, altro) sia del simulatore in Italia, sia del nuovo simulatore inUsa, con finalità produttive, in modo da produrre profitti per finanziare laricerca in Italia.

Investire nella “fabbrica” per far sì che la produzione di prototipi siasempre più una produzione ad alto valore aggiunto per il cliente e sia ingrado di definire gli standard produttivi e qualitativi ai nostri fornitori.

Queste linee di indirizzo strategico ci permetteranno di ampliare i settorinei quali andremo a operare, sia in termini di prodotto, che di servizio,grazie alle nostre competenze distintive: non più soloautomotive/motorsport, ma anche aerospaziale, difesa, treni a elevatavelocità e quant’altro.E per l’Italia? Oltre alla tecnologia, quali sono secondo Lei i settori sucui puntare?

Sono almeno tre: storia e cultura; agroalimentare e turismo.L’Italia è un “museo a cielo aperto”, è al primo posto per i siti

riconosciuti dall’Unesco (50 su un totale mondiale di 1.007), pari al 5% deltotale mondiale.

Migliaia di anni di storia: fenici, greci, celti, etruschi, romani; castelli efeudalesimo; Rinascimento e così via.

Paesaggi differenti e unici: alpini, mediterranei, pianura, Appennini,colline, vulcani, ghiacciai…“Bella Italia”, il “Belpaese” e poi popolazionicon culture, lingue, fisionomie diverse. Tutto questo in un Paese lungo poco

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più di mille chilometri e largo qualche centinaio!E, poi, l’Agroalimentare: vino, frutta e verdura, olio, formaggi e salumi,

pasta, pomodori e tanto altro, puntando grandissima attenzione non solo allaquantità, ma soprattutto alla qualità delle materie prime: garanzia di origineenogastronomica. In Francia si esalta e si vende la grande tradizioneculinaria, noi non siamo da meno. La cucina regionale, con differenze,unicità, prodotti, storie: si pensi alla differenza tra la cultura dell’olio equella del burro, alle peculiarità locali che differenziano eccellenze adistanza di pochi chilometri.

Tutto questo tenendo presente che in un paese bello e “delicato” come ilnostro non si può trascurare l’aspetto della sostenibilità ambientale e checomunque la tematica “green” è importante anche per garantire elevatilivelli di qualità e sempre più sarà importante a livello di marketing.

Con queste premesse,l’Italia dovrebbe diventare il paese al mondo piùvisitato. Attualmente è al quinto posto, fa specie vedere che la Francia èprima con 83,7 milioni di turisti.Abbiamo iniziato con la necessità di “cambiare pelle”.

Certo, un obbligo, ma restando noi stessi. Possiamo farcela se crediamoin noi e valorizziamo le qualità che ci hanno fatto grandi. Dobbiamo tornarea fare l’Italia.

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Aspen Institute Italia

CONFERENZA ANNUALE ASPEN JUNIOR FELLOWS

Il lavoro del futuro

Sintesi della discussione a cura di

Edoardo Campanella

Milano, 20‐21 novembre 2015

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Il lavoro del futuro

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© Questo documento è stato realizzato in esclusiva per Aspen Institute Italia

Conferenza Annuale degli Aspen Junior Fellows

Il lavoro del futuro Milano, 20‐ 21 novembre 2015

In collaborazione con Edison, UniCredit

Sintesi della discussione a cura di Edoardo Campanella

La storia dell’umanità può essere interpretata come un continuo susseguirsi di piccole e

grandi rivoluzioni tecnologiche. Ognuna ha portato con sé sconvolgimenti economici,

politici e sociali, alterando gli equilibri di potere tra Stati così come i rapporti di forza al

loro interno. Dall’Ottocento a oggi, il mondo ha assistito a tre grandi rivoluzioni

industriali: la prima incentrata sull’uso della macchina a vapore, la seconda alimentata

dall’elettrificazione e dal motore a combustione interna, la terza fondata sull’elettronica e

l’informatica. Oggi la quarta rivoluzione industriale è ormai decollata, sfruttando la

combinazione di tecnologie che superano i confini tra le sfere fisiche, digitali e biologiche.

La velocità, l’intensità e la portata con la quale queste nuove innovazioni tecnologiche

stanno stravolgendo l’economia globale nel suo complesso non hanno eguali. Non c’è

settore o aspetto della vita quotidiana che non sia vulnerabile a questi cambiamenti. In un

simile contesto di continui e radicali stravolgimenti, prevedere il mondo del futuro è

impresa ardua. Una cosa sembra certa, però. Il lavoro di domani sarà estremamente

diverso da quello di oggi.

La quarta rivoluzione industriale sta trasformando il concetto stesso di lavoro. Cambiano

la sua organizzazione, le sue tipologie, i suoi luoghi. Cambiano le istituzioni che lo

regolano e le modalità d’impiego all’interno di processi produttivi sempre più digitalizzati

e automatizzati. Cambia il rapporto di forza tra lavoro e capitale. Da attività individuale e

artigianale, spesso domestica, si è passati al lavoro collettivo, organizzato e segmentato. I

macchinari hanno alleviato il lavoro fisico, i computer hanno supportato quello

intellettuale. Tuttavia, queste grandi trasformazioni del passato sono state graduali, spesso

limitate a certe professioni, almeno nelle loro fasi iniziali.

Oggi, invece, i cambiamenti sono repentini, trasversali e dirompenti. Solo attraverso una

migliore comprensione delle forze in atto è possibile immaginare il lavoro del futuro, tanto

per coglierne le opportunità quanto per contenerne potenziali rischi.

Le tecnologie del futuro

Robotica, intelligenza artificiale, big data, clouding, Internet delle cose, stampanti 3‐D e 4‐D

sono solo alcune delle nuove tecnologie che stanno irrompendo con forza nelle fabbriche,

negli uffici, nelle università e, finanche, nelle abitazioni comuni. Si stima che entro dieci

anni la popolazione mondiale possiederà 20 miliardi di dispositivi digitali come tablet, pc,

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Il lavoro del futuro

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smartphone, notebook. Gli oggetti connessi saranno oltre 200 miliardi, con una proliferazione

di contenuti disponibili sempre maggiore. Al tempo dello smart working, del telelavoro e

della disintermediazione si diventa imprenditori di se stessi e vengono meno le strutture

organizzative gerarchiche e complesse del passato. Il luogo di lavoro sarà sostituito da

spazi virtuali, ciascun lavoratore sceglierà autonomamente il proprio orario, e il potere

datoriale sarà sostituito dall’auto‐direzione del singolo ispirata a una logica di risultato.

Questa maggiore propensione all’imprenditorialità e all’autonomia non sarà, però, solo il

frutto di scelte consapevoli e ambiziose. Spesso sarà dettata dalla necessità di inventarsi

nuovi mestieri e nuove professioni in risposta alla forza distruttrice della tecnologia. A

differenza del passato, quando le innovazioni tecnologiche supportavano il lavoro umano,

le tecnologie del futuro tenderanno a sostituirlo. Secondo uno studio dell’Università di

Oxford, entro il 2030, computer e robot renderanno superfluo il lavoro umano in circa il

47% delle attuali professioni. Trasporto, logistica o lavori amministrativi sono tra i settori

più vulnerabili a questo genere di innovazioni. Ma anche alcuni lavori intellettuali

possono cadere vittime di un semplice software. Già oggi negli Stati Uniti i commenti

post‐partita di sport come il baseball o il football sono spesso scritti da computer, e non da

giornalisti in carne e ossa, attraverso l’utilizzo di sofisticati algoritmi che combinano le

principali statistiche del match. Qualcosa di analogo sta accadendo anche per i traduttori.

Sempre più facilmente i loro servizi sono forniti da software “intelligenti” che, a differenza

del passato, non si limitano alla traduzione letterale del testo, ma cercano di

comprenderne il contesto per selezionare le parole più adeguate e costruire frasi di senso

compiuto.

Il grande elemento di rottura rispetto alle rivoluzioni industriali del passato, però, è un

altro. Per la prima volta nella storia del capitalismo moderno, i lavoratori più qualificati

saranno a rischio “obsolescenza tecnologica” tanto quanto i lavoratori meno specializzati.

In futuro, chirurgi e professori universitari, per esempio, potrebbero cadere vittime delle

nuove tecnologie tanto quanto gli sportellisti di banca o i taxisti di oggi. Nel primo caso,

robot controllati da equipe d’ingegneri e medici potrebbero eseguire complicate

operazioni chirurgiche. Nel secondo caso, la proliferazione e la facilità d’accesso a corsi

online tenuti dai migliori professori a livello internazionale (cosiddetti Massive Open

Online Courses, MOOC) minacciano le università tradizionali, spesso troppo lente

nell’adeguarsi al cambio di domanda del mercato del lavoro. Istituzioni accademiche del

calibro di Harvard, MIT o Stanford hanno già creato piattaforme digitali per condividere

online molti dei propri corsi più popolari. In molte università nei paesi in via di sviluppo,

ma anche negli Stati Uniti stessi, è pratica sempre più diffusa quella di acquisire i diritti di

questi corsi virtuali per distribuirli tra i propri studenti, risparmiando sui costi del

personale accademico e dando accesso a tutti a un’istruzione d’élite.

L’economia digitale di oggi

Quando un settore economico matura, il capitale fisso tende a sostituire il lavoro umano.

Con l’evoluzione del digitale, il lavoro ordinario, retribuito a tempo, è sostituito con lo

stock di capitale intangibile, costituito da competenze a forti economie di scala e

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compensato tramite diritti di proprietà intellettuale. In altre parole, anche l’economia del

digitale crea posti di lavoro, ma meno remunerati e in quantità inferiore rispetto al

passato. Questo fenomeno è evidente nelle imprese digitali più di successo per le quali il

lavoro, inteso nel senso tradizionale del termine, sta diventando un fattore produttivo

quasi superfluo. Si pensi, per esempio, al caso di WhatsApp. Con una capitalizzazione di

Borsa superiore a quella della Sony, il colosso americano di messaggistica telefonica

impiega circa cinquanta dipendenti rispetto ai 131.000 del gigante elettronico giapponese.

In alcuni ambiti della sharing economy, invece, le nuove tecnologie portano principalmente

a rivoluzioni organizzative piuttosto che all’effettiva distruzione di professioni

tradizionali. Si pensi a Uber o AirBnb, per esempio, che nell’arco di pochi mesi hanno

radicalmente riorganizzato il settore dei taxi e quello alberghiero, senza, però,

ridimensionare eccessivamente il ruolo del fattore lavoro. A differenza di quanto accadeva

in passato, il successo di queste piattaforme digitali risiede nelle competenze delle persone

esterne piuttosto che in quelle dei dipendenti stessi. I mezzi di produzione sono di

proprietà del lavoratore e si lavora con modalità e spirito d’identificazione totalmente

diversi rispetto alle aziende tradizionali. Ciò implica che nella sharing economy cambia il

modo di reclutare, selezionare, formare e valutare il capitale umano. Le aziende incapaci

di aggiornare i propri processi organizzativi in questa direzione rischiano di essere

spazzate via dal mercato.

A differenza dei robot o dell’intelligenza artificiale che rivaleggeranno sempre più con i

lavoratori, piattaforme digitali come Uber e AirBnb hanno, invece, un impatto

occupazionale positivo, aumentando il numero di potenziali autisti o albergatori

attraverso l’abbattimento di barriere all’ingresso e una migliore allocazione delle risorse.

Tuttavia, la qualità dei posti di lavoro creati è notevolmente più bassa rispetto alle

industrie della vecchia economia. Si tratta di posizioni lavorative molto instabili e spesso

non sufficientemente remunerative, tanto da dover esser affiancate ad attività

complementari per generare un reddito adeguato. Ovviamente, in un futuro non troppo

remoto, questi cambiamenti organizzativi potrebbero affiancarsi a forme estreme di

obsolescenza tecnologica. Un giorno, automobili senza conducenti offriranno servizi di

taxi nelle principali capitali del mondo, rendendo quasi inutile il ruolo del taxista o

portando ad una radicale compressione della sua remunerazione.

Quali opportunità?

Le nuove tecnologie portano alla distruzione di lavori tradizionali tanto quanto alla

creazione ex‐novo di professioni inesistenti, o perfino inimmaginabili, fino a poco tempo

prima. La portata del cambiamento generato dalla quarta rivoluzione industriale è così

forte che, al momento, non è possibile identificare le dieci categorie d’impiego più

importanti nel 2025. È verosimile che in futuro big data architect, neuro‐scienziati, data

scientist, web ecommerce manager e sviluppatori di applicazioni Internet saranno profili

professionali sempre più richiesti.

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In molti casi, l’economia digitale non si limita a creare solo nuove occupazioni, ma

contribuisce a far emergere interi nuovi settori. Si pensi, per esempio, al fenomeno

dell’unbundling che consiste nello spacchettamento della produzione in settori come

l’editoria, l’istruzione, l’industria cinematografica o quella musicale. Un esempio sono le

piattaforme digitali che offrono la visione di film in streaming a prezzi non sostenibili

dagli incumbent, senza sostenere gli elevati costi finanziari e organizzativi tipici dei canali

televisivi tradizionali. Ovviamente, chi ne beneficia di più sono i consumatori, ma anche

chi riesce ad adattare il proprio business in tempo, cogliendo le potenzialità dei trend

tecnologici emergenti.

Oltre a generare nuove professioni, migliorare l’allocazione delle risorse e facilitare

l’incontro tra domanda e offerta, l’automazione delle mansioni più routinarie permette a

tutti i lavoratori di concentrarsi su compiti più di concetto e gratificanti. Secondo alcune

stime, entro il 2030 il 50% degli occupati svolgerà attività creative, mentre la parte restante

della forza lavoro svolgerà mansioni operaie o impiegatizie. Allo stesso tempo, come

sempre accaduto durante le rivoluzioni industriali del passato, le nuove tecnologie

aumentano il livello di produttività oraria e riducono le frizioni per la conclusione di una

transazione, come dimostrato dalle tante code risparmiate grazie agli acquisti conclusi su

Internet.

Secondo alcuni il beneficio più importante della quarta rivoluzione industriale sarà di

carattere sociale più che economico. La progressiva automazione dell’economia porterà a

un considerevole guadagno di tempo libero per la società nel suo complesso. Alcuni

studiosi sono arrivati a definire la società del futuro come “la società del tempo libero per

tutti”. Si stima che nel 2030, ogni ventenne avrà davanti a sé circa 580.000 ore di vita. Di

queste, 200.000 saranno dedicate al tempo libero e solo 60.000 al lavoro. Tra quindici anni,

la settimana lavorativa tipica potrebbe essere composta da due o tre giorni lavorativi e il

part‐time potrebbe diventare la norma. In un certo senso, l’uomo dovrà abituarsi al tempo

libero, più di quanto si è soliti abituarsi al tempo di lavoro. Una simile organizzazione del

lavoro, se resa sostenibile da adeguate politiche redistributive, migliorerebbe la qualità

della vita di tutti i cittadini e faciliterebbe la maggiore partecipazione al mercato del lavoro

delle donne.

Superstar e proletariato tecnologico

Secondo altri, però, il tempo libero a disposizione sarà così tanto da rendere labile la

distinzione tra momenti di svago e disoccupazione di massa. Inoltre, senza un massiccio

intervento da parte dei governi nazionali, molti lavoratori poco qualificati non avranno

redditi sufficientemente elevati per godere del tempo libero in eccesso. Le professioni del

futuro, infatti, rimarranno nelle mani di poche persone qualificate e porteranno a una

sempre più diffusa polarizzazione occupazionale: pochi lavori molto specializzati e ben

retribuiti da un lato e molti (la maggioranza) lavori di basso livello e instabili dall’altro.

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Il lavoro del futuro

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© Questo documento è stato realizzato in esclusiva per Aspen Institute Italia

Se trend di questo genere dovessero intensificarsi, il mondo del lavoro diventerà sempre

più competitivo e le ferree regole della selezione naturale definiranno vinti (molti) e

vincitori (pochi), rendendo sempre più concreti i timori della disoccupazione tecnologica

di keynesiana memoria. E, da un punto di vista sociale, l’emergere di un proletariato

tecnologico e il suo crescente distacco reddituale dalle cosiddette superstar dell’economia

potrebbe portare alla progressiva scomparsa della classe media. In realtà, il fenomeno è già

in atto. Negli Stati Uniti, lo scostamento tra valore medio e mediano dei patrimoni (300.000

dollari il primo e 45.000 il secondo) illustra l’entità dell’allargamento della forbice.

Per vedere il bicchiere mezzo pieno, al di là delle inevitabili tensioni politiche e sociali

generate da disuguaglianze di reddito in aumento, la polarizzazione occupazionale è

sintomatica, in positivo, dell’unicità dei talenti posseduti dall’uomo. I recenti progressi

tecnologici non sono ancora tali da consentire ai robot e alle intelligenze artificiali di

superare i lavoratori in termini di creatività, flessibilità intellettuale e ingegno. Per tale

motivo, almeno nel prossimo futuro, i lavoratori più qualificati dovrebbero contenere

l’avanzata delle macchine – di cui spesso ne sono gli artefici stessi. Come ricordato da Erik

Brynjolfsson e Andrew McAfee in un recente numero di Aspenia, a cinquant’anni di

distanza rimane ancora valido quanto affermato dalla NASA in un rapporto del 1965:

“L’uomo è il sistema computerizzato da 75 kg non lineare e multifunzionale a più basso

costo che possa essere prodotto da manodopera non specializzata”. È verosimile, però, che

negli anni a venire l’innovazione tecnologica possa erodere, in parte, il potere contrattuale

anche dei lavoratori più qualificati.

Ciò che potrebbe evitare la completa automatizzazione dell’economia e garantire la

sopravvivenza della forza lavoro umana è il desiderio di socialità che caratterizza l’uomo.

Trattandosi di una specie, quella umana, profondamente sociale per natura, diventa

difficile immaginare un’economia caratterizzata dalla totale assenza di relazioni sociali.

Alcuni bisogni economici, soddisfatti sia da personale altamente qualificato sia da

lavoratori poco specializzati, possono essere forniti solo da essere umani. In molte

transazioni economiche, l’interazione sociale, accompagnata in alcuni casi da un forte

elemento emotivo ed empatico, è cruciale e non vi è macchina (per adesso, almeno) capace

di ricrearla. Basti pensare al rapporto medico‐paziente, cameriere‐cliente o attore‐

spettatore.

Specializzazione e nuovi posti di lavoro tra opportunità e incognite

I sintomi dei cambiamenti radicali generati dalla quarta rivoluzione industriale sono già in

parte evidenti oggi. In Cina, la Shenze Ewerwin Precision Tecnhology Company ha

recentemente annunciato la robotizzazione di un intero stabilimento, che porterà al

licenziamento di più di 1.600 posti di lavoro su 1.800, per un investimento complessivo di

circa 150 miliardi di dollari. I veicoli autonomi, i chioschi self‐service, i robot da

magazzino e i super‐computer sono i segni premonitori di un’ondata di progresso

tecnologico che, senza adeguati accorgimenti politici ed economici, potrebbero minare

permanentemente il ruolo del lavoro umano all’interno dei sistemi produttivi del futuro.

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Il lavoro del futuro

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Al momento, il quadro è reso particolarmente complicato dal sovrapporsi, soprattutto in

Europa, di questo tsunami tecnologico con una crisi economica e finanziaria che ha portato

a un rapido processo di terziarizzazione dell’economia. Intere filiere produttive, come

l’edilizia in Italia o in Spagna, sono andate distrutte. Per effetto di questi grandi

cambiamenti strutturali, molti lavoratori non sono stati in grado di riposizionarsi sul

mercato del lavoro, portando a diffusi problemi di skill‐mismatch. Nonostante un esercito

di disoccupati, si stima che circa il 27% delle nuove posizioni lavorative rimangano

scoperte per l’assenza di candidati qualificati. In Francia e Germania, questa percentuale

sale al 50%. Secondo dati della Commissione Europea, entro il 2020 l’Europa avrà bisogno

fino a 900.000 professionisti del digitale, mentre la Germania sarà alla disperata ricerca di

un milione di persone qualificate in materie scientifiche.

Uno skill‐mismatch così forte è fonte di grandi inefficienze economiche. Da un lato, i

giovani acquisiscono competenze sbagliate, sprecando risorse pubbliche e private. In

Italia, per esempio, lo Stato spende in media circa 500.000 euro a studente per finanziare

un intero ciclo d’istruzione, dalle elementari all’università. Inoltre, al momento della

selezione del percorso di studi, i giovani italiani non hanno piena consapevolezza delle

implicazioni lavorative di tale scelta. Si stima che soltanto il 38% degli studenti intervistati

conosca le opportunità occupazionali offerte dai vari percorsi scolastici.

Dall’altro lato, quando le imprese non sono in grado di assumere lavoratori

adeguatamente qualificati, perdono di efficienza e competitività. Il mancato incontro tra

domanda e offerta di lavoro non ha un impatto negativo solo sulle singole imprese, ma

anche sul benessere economico e sociale complessivo. Un posto di lavoro molto qualificato

ne genera altri 5 di medio/basso livello. Se le economie occidentali, soprattutto quella

europea, non sono in grado di formare quel genere di lavoratori, le perdite sono

generalizzate ed estremamente elevate.

Mitigare i rischi, massimizzare le opportunità

La società del XXI secolo è la prima a nascere senza un modello. Nel mondo occidentale, la

combinazione di un dirompente sviluppo tecnologico, del rapido invecchiamento della

popolazione e della contrazione dello Stato sociale stanno ribaltando i rapporti di forza tra

lavoro e capitale, creando un equilibrio altamente instabile. Chi nasce oggi nei paesi

avanzati ha un’aspettativa di vita di circa cent’anni. Ciò significa che, per mantenere gli

stessi livelli di consumo, si dovrà lavorare più a lungo. Tuttavia, questa maggiore necessità

di lavoro pare in contraddizione con un mondo del lavoro dove la tendenza sembra essere

quella di lavorare di meno (o non lavorare affatto). Gli ultimo cinquant’anni si sono basati

su un modello economico semplice, la cui equazione elementare poggiava su tre pilastri:

lavoro, guadagno, consumo. Se il primo elemento viene meno, o si indebolisce, il

capitalismo vacilla e, quindi, occorre riprogettare la società nel suo complesso. Pensare al

lavoro del futuro richiede, in prima battuta, immaginare una nuova società.

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Il lavoro del futuro

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Solo un intervento mitigatore da parte dei governi nazionali, coordinati a livello

internazionale attraverso il coinvolgimento di business leader, rappresentanti dei

lavoratori e accademici, può evitare che la quarta rivoluzione industriale si tramuti da leva

di progresso economico e sociale a fonte di instabilità politica e sociale. Senza un’equa

redistribuzione della ricchezza attraverso, per esempio, la garanzia di un reddito minimo

per tutti, il proletariato tecnologico metterà presto in discussione l’egemonia delle

superstar. L’economia del talento non deve far dimenticare di coloro che talenti non sono,

ossia la maggioranza della popolazione. Allo stesso tempo, senza una ripartizione dei

benefici finanziari generati dall’automazione dei processi produttivi con l’istituzione, per

esempio, di un dividendo robotico, forme moderne di luddismo potrebbero diventare la

norma. Già adesso, casi di attacchi ai dipendenti dei giganti tecnologici della Silicon Valley

sono sempre più frequenti.

Tuttavia, nonostante le grandi sfide e incognite poste da queste trasformazioni epocali, le

opportunità non mancheranno. Per coglierle sarà necessario adottare politiche

lungimiranti, mostrando un’attenzione particolare all’istruzione tecnica,

all’apprendimento continuo e alle soft skills. Le competenze necessarie per il mercato del

lavoro del futuro sono l’esercizio del pensiero critico, l’attitudine alla risoluzione di

problemi complessi, la creatività, la dimestichezza con le nuove tecnologie, ottime doti

comunicative, l’apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo. Le università, dal canto

loro, dovranno riallocare le proprie risorse verso quei settori a più alto potenziale. E per

mitigare gli effetti negativi dello skill‐mismatch, almeno nel breve periodo, l’Europa

dovrebbe cercare di riattrarre molti dei suoi talenti emigrati all’estero durante gli anni

della crisi. Infine, è importante, soprattutto in Italia, lasciare alle spalle l’idea di conflitto

tra capitale e lavoro, favorendo una proficua collaborazione tra mondo delle imprese e

parti sociali per identificare trend tecnologici emergenti e formare la forza lavoro del

futuro nel modo più appropriato.

Gestire la quarta rivoluzione industriale richiede uno sforzo collettivo e collaborativo

enorme. Se si rimarrà inerti, però, non si comprometterà soltanto il ruolo dell’individuo

all’interno di un’economia sempre più post‐umanista, ma si minerà la stabilità stessa

dell’ordine sociale.

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Industria 4.0

da

Wikipedia

l’enciclopedia libera

versione del

6 gennaio 2017

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Industria 4.0 ­ Wikipedia

https://it.wikipedia.org/wiki/Industria_4.0 1/3

Industria 4.0Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il termine Industria 4.0 (o Industry 4.0) indica una tendenza dell’automazione industriale che integra alcunenuove tecnologie produttive per migliorare le condizioni di lavoro e aumentare la produttività e la qualitàproduttiva degli impianti.

L’industry 4.0 passa per il concetto di smart factory che si compone di 3 parti:

Smart production: nuove tecnologie produttive che creano collaborazione tra tutti gli elementi presentinella produzione ovvero collaborazione tra operatore, macchine e strumenti.Smart services: tutte le “infrastrutture informatiche” e tecniche che permettono di integrare i sistemi; maanche tutte le strutture che permettono, in modo collaborativo, di integrare le aziende (fornitore – cliente)tra loro e con le strutture esterne (strade, hub, gestione dei rifiuti, ecc.)Smart energy: tutto questo sempre con un occhio attento ai consumi energetici, creando sistemi piùperformanti e riducendo gli sprechi di energia.

La chiave di volta dell’industry 4.0 sono i sistemi ciberfisici (CPS) ovvero sistemi fisici che sono strettamenteconnessi con i sistemi informatici e che possono interagire e collaborare con altri sistemi CPS. Questo sta allabase della decentralizzazione e della collaborazione tra i sistemi, che è strettamente connessa con il concetto diindustria 4.0.

Indice

1 Origini del nome2 Il concetto di "Quarta rivoluzione industriale"3 Le tecnologie abilitanti4 Note5 Collegamenti esterni6 Voci correlate

Origini del nome

Industria 4.0, o meglio, Industry 4.0 prende il nome dal piano industriale del governo tedesco (presentato nel2011) e concretizzato alla fine del 2013, che prevedeva investimenti su infrastrutture, scuole, sistemi energetici,enti di ricerca e aziende per ammodernare il sistema produttivo tedesco e riportare la manifattura tedesca aivertici mondiali rendendola competitiva a livello globale.

Il concetto di "Quarta rivoluzione industriale"

I risultati ottenuti dalla Germania a livello produttivo ha portato molti altri paesi a perseguire questa politica;per questo sono stati svolti numerosi studi fino ad ora: tra i più conosciuti, quelli di McKinsey[1], BostonConsulting e Osservatori del Politecnico di Milano[2]. Questi studi hanno portato a definire l’impatto che questenuove politiche avranno sul contesto sociale ed economico, definendo questo passaggio storico "Quartarivoluzione industriale".

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Industria 4.0 ­ Wikipedia

https://it.wikipedia.org/wiki/Industria_4.0 2/3

Dalla ricerca The Future of the Jobs[3] presentata al World Economic Forum è emerso che, nei prossimi anni,fattori tecnologici e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro. Alcuni, come latecnologia del cloud e la flessibilizzazione del lavoro, stanno influenzando le dinamiche già adesso e lo farannoancora di più nei prossimi 2­3 anni. L'effetto sarà la creazione di 2 nuovi milioni di posti di lavoro, macontemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo di oltre 5 milioni di posti di lavoro. L'Italiane esce con un pareggio (200 000 posti creati e altrettanti persi), meglio di altri Paesi come Francia e Germania.A livello di gruppi professionali, le perdite si concentreranno nelle aree amministrative e della produzione:rispettivamente 4,8 e 1,6 milioni di posti distrutti. Secondo la ricerca compenseranno parzialmente questeperdite l’area finanziaria, il management, l’informatica e l’ingegneria. Cambiano di conseguenza le competenzee abilità ricercate: nel 2020 il problem solving rimarrà la soft skill più ricercata, e parallelamente, diventerannopiù importanti il pensiero critico e la creatività.

Le tecnologie abilitanti

Da uno studio di Boston Consulting emerge che la quarta rivoluzione industriale si centra sull’adozione dialcune tecnologie definite abilitanti; alcune di queste sono “vecchie” conoscenze, concetti già presenti ma chenon hanno mai sfondato il muro della divisione tra ricerca applicata e sistemi di produzione veri e propri; oggi,invece, grazie all’interconnessione e alla collaborazione tra sistemi, il panorama del mercato globale stacambiando portando alla customizzazione di massa, diventando di interesse per l'intero settore manifatturiero.

Le 9 tecnologie abilitanti definite da Boston Consulting sono:

Advanced manufacturing solution: sistemi avanzati di produzione, ovvero sistemi interconnessi emodulari che permettono flessibilità e performance. In queste tecnologie rientrano i sistemi dimovimentazione dei materiali automatici e la robotica avanzata, che oggi entra sul mercato con i robotcollaborativi o cobot.Additive manufacturing: sistemi di produzione additiva che aumentano l'efficienza dell’uso dei materiali.Augmented reality: sistemi di visione con realtà aumentata per giudicare meglio gli operatori nellosvolgimento delle attività quotidiane.Simulation: simulazione tra macchine interconnesse per ottimizzare i processi.Horizontal e vertical integration: integrazione e scambio di informazioni in orizzontale e in verticale, tratutti gli attori del processo produttivo.Industrial internet: comunicazione tra elementi della produzione, non solo all’interno dell'azienda, maanche all’esterno grazie all'utilizzo di internet.Cloud: implementazione di tutte le tecnologie cloud come lo storage online delle informazioni, l’uso delcloud computing, e di servizi esterni di analisi dati, ecc. Nel Cloud sono contemplate anche le tecniche digestione di grandissime quantità di dati attraverso sistemi aperti.Cyber security l’aumento delle interconnessioni interne ed esterne aprono la porta a tutta la tematica dellasicurezza delle informazioni e dei sistemi che non devono essere alterati dall’esterno.Big Data Analytics: tecniche di gestione di grandissime quantità di dati attraverso sistemi aperti chepermettono previsioni o predizioni.

Note1. ^ McKinsey & Company, su McKinsey & Company. URL consultato il 15 dicembre 2016.2. ^ Osservatori Home, su www.osservatori.net. URL consultato il 15 dicembre 2016.3. ^ (EN) The Future of Jobs, in The Future of Jobs. URL consultato il 15 dicembre 2016.

Collegamenti esterniPiano Industria 4.0 rilasciato dal Ministero per lo Sviluppo Economico nel 2015 (PDF),sviluppoeconomico.gov.it.

Voci correlate

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Industria 4.0 ­ Wikipedia

https://it.wikipedia.org/wiki/Industria_4.0 3/3

RobotBig dataCloud computingStampa 3DInternet delle cose

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Categorie: Informatica Ingegneria Industria

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Aspen Institute Italia

TAVOLA ROTONDA

Un circolo virtuoso tra reale e virtuale:

la manifattura 4.0

Sintesi della discussione a cura di

Valeria Miceli

Dalmine, 15 febbraio 2016

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Un circolo virtuoso tra reale e virtuale: la manifattura 4.0

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© Questo documento è stato realizzato in esclusiva per Aspen Institute Italia

Tavola rotonda

Un circolo virtuoso tra reale e virtuale:

la manifattura 4.0 Dalmine (BG), 15 febbraio 2016

Con il contributo di ABB

Sintesi della discussione a cura di Valeria Miceli

Da pochi anni è stato riscoperto il ruolo fondamentale del manifatturiero in Europa e nel

mondo: da Industry 0.0 ovvero dalla morte dichiarata della manifattura si è giunti a

Industry 4.0, la rivoluzione che cambierà non solo l’industria stessa, ma anche i sistemi

economici. Su un punto si può concordare: si tratta di una vera rivoluzione e non solo di

una graduale evoluzione. Nel corso della tavola rotonda ci si è chiesti in cosa consista e

quali elementi la caratterizzino.

Che cosa è Manifattura 4.0

La “fabbrica intelligente” cui ci conduce questa nuova ondata innovativa coinvolge tutte le

fasi del processo industriale, dalla progettazione al post‐vendita, passando per produzione

e logistica. Le fabbriche intelligenti del futuro entreranno in un social network fatto di

macchine, merci, lavoratori e consumatori che interagendo fra loro stabiliranno un nuovo

paradigma tecnologico‐produttivo. Si calcola che al 2020 ci saranno 26 miliardi di oggetti

connessi nel mondo. L’enorme mole di dati generata attraverso queste interazioni porterà

a produrre con maggiore efficienza, ma anche con maggiore flessibilità così creando

maggior valore. È fondamentale essere in grado di selezionare i dati di interesse, di

pianificare come e quando condividerli, di impostare un sistema per mettere il tutto in

relazione (Big Data). In questo contesto, il software diventa cruciale, e sono gli investimenti

in questo ambito che determineranno i vantaggi competitivi delle imprese.

Internet of things

Un elemento fondamentale della Manifattura 4.0 è rappresentato dall’“Internet of Things”

(IoT) che in una visione allargata diventa anche “Internet of services and people”. Persone,

cose, servizi che interagiscono tra di loro trasformando processi e prodotti in sistemi

integrati di oggetti e luoghi “intelligenti”, capaci di dialogare tra loro e con il mondo

esterno. Secondo la Commissione Europea entro il 2020 il mercato IoT avrà il valore di 1

trilione di euro. Di qui al 2020 le imprese industriali europee investiranno 140 miliardi di

euro in applicazioni IoT. Il 75% delle imprese ha già iniziato a farlo. Perché si ottenga il

massimo ritorno risulta necessario che l’intera filiera sia coinvolta nell’utilizzo dell’IoT, dai

primi fornitori ai consumatori finali.

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Un circolo virtuoso tra reale e virtuale: la manifattura 4.0

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I fattori abilitanti

Il passaggio a Industry 4.0 dipende da una serie di fattori abilitanti che vanno dalle

infrastrutture digitali, alle competenze umane agli investimenti finanziari. Per quanto

riguarda le infrastrutture, le più cruciali sono banda larga e reti in fibra. In questo ambito

l’Italia ha un divario da colmare se consideriamo che la velocità media di download ha un

gap di 17 megabit per secondo con il Regno Unito e di 13 con la Germania.

Il capitale umano è l’input fondamentale dell’Industry 4.0. Per preparare i giovani a

gestire i saperi digitali e per allineare le competenze generate dai percorsi formativi coi

nuovi fabbisogni delle imprese, bisogna investire in formazione. Quest’ultima deve

diventare sempre più trasversale e interdisciplinare, deve contemplare l’alternanza scuola‐

lavoro, come accade in Germania, e promuovere la formazione tecnico‐professionale e

l’apprendimento on the field. Università e imprese dovranno collaborare non solo in attività

di ricerca e sviluppo e trasferimento tecnologico, ma anche in attività di formazione. La

partecipazione dei vari attori alla filiera innovativa sarà cruciale per realizzare la

rivoluzione della Manifattura 4.0.

Servono, infine, grandi investimenti, dunque ingenti capitali, che implicano un migliore

funzionamento dei mercati sia del debito che dell’equity e una maggiore capacità di

attrazione di investitori esteri. Secondo alcune stime è necessario investire globalmente

1.300 miliardi di euro nei prossimi 15 anni (sino al 2030) nella Manifattura 4.0 ovvero

mettere sul piatto 90 miliardi di euro all’anno. Di questi la sola Germania dovrebbe

spenderne 680, l’Italia 275.

Le sfide

Non si tratta di una rivoluzione facile da gestire. Le implicazioni e le sfide che essa pone ai

sistemi non solo produttivi, ma anche economici in senso lato, sono altamente complesse e

variegate e vanno gestite con consapevolezza, cautela, ma anche visione innovativa.

Innanzitutto vanno definiti degli standard comuni e aperti. L’Industry 4.0 comporta,

infatti, l’integrazione all’interno di network di valore di molte imprese e ciò sarà possibile

solo grazie a un linguaggio comune e ad un’architettura di riferimento condivisa.

I modelli di pianificazione e controllo vanno poi adeguati alla gestione di una accresciuta

complessità e ciò comporta anche interventi di formazione specifici sulle risorse umane. Vi

è poi la questione della sicurezza delle architetture e della cyber security. Prodotti e

stabilimenti che incorporano questa enorme mole di dati andranno adeguatamente

protetti.

Va valutato anche l’impatto sul mondo del lavoro non solo in termini di competenze e

organizzazione, ma anche in termini di saldi netti dei posti di lavoro. Se è vero che tanti

nuovi lavori possono essere creati è, infatti, anche vero che molti verranno distrutti.

Secondo alcune stime, in Germania vi sarà un saldo positivo nel mercato del lavoro: si

perderanno 610.000 unità, ma se ne creeranno 960.000. Si è di fronte a una sfida anche agli

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assetti manageriali e organizzativi: ad esempio la figura del “chief digital officer”

responsabile di tutti i processi digitali aziendali dovrà essere integrata in modo efficace

nella struttura. Infine, bisogna valutare la necessità e l’impatto della regolamentazione

riguardo a questioni cruciali quali la protezione e gestione dei dati ai fini della privacy, la

responsabilità degli stessi, le limitazioni al loro utilizzo e scambio.

L’Italia a confronto con gli altri paesi

Una domanda cruciale riguarda quello che stanno facendo gli altri paesi , Germania in

primis che del 4.0 ha fatto la sua bandiera industriale e che ha affiancato all’investimento di

grandi capitali, un’alta sensibilizzazione della classe politica e una notevole capacità di

fare sistema. Se il concetto di Manifattura 4.0 può quasi considerarsi un brand tedesco, va

detto che esiste anche una via italiana a questa rivoluzione. Ci sono motivi per essere

ottimisti, anche se sappiamo che le criticità non mancano. Tra i motivi di ottimismo

ricordiamo che l’Italia è la seconda potenza manifatturiera in Europa e vanta eccellenze e

primati nella competizione industriale globale. Ci sono ambiti come quello delle smart

appliances per elettrodomestici in cui l’Italia è oggi leader e batte persino la Germania.

Tra le criticità si è particolarmente dato risalto a due aspetti. In primis l’obsolescenza del

parco macchine italiano. Poiché non è pensabile puntare alla sostituzione dell’intero parco

macchine, è necessario ipotizzare soluzioni alternative come ad esempio il retrofitting

dell’esistente che consiste nel riadattare l’esistente per permettere l’estrazione di dati e il

funzionamento integrato in un sistema digitalizzato. Si tratta certamente di una soluzione

che presenta elevata complessità e costi significativi, ma è l’unica alternativa alla

sostituzione completa.

Un secondo elemento di criticità che riguarda in particolare l’Italia, è la scarsa sensibilità

della politica rispetto a questo cambiamento epocale che determina anche scarsa capacità

di regia nel fare sistema tra tutte le componenti coinvolte (imprese, università, associazioni

industriali). L’Italia si è mossa in ritardo, e per lo più, con misure specifiche come ad

esempio crediti di imposta per la ricerca e sviluppo. Continuano a mancare capacità di

pianificazione e visione di politica industriale. Bisogna riconoscere che di recente è

aumentata la consapevolezza della portata del fenomeno e si contano alcune iniziative in

corso a livello di governo, ma la capacità di pianificare e fare sistema rimane ancora non

all’altezza delle sfide attuali.

Manifattura 4.0 e PMI

Uno dei motivi per cui in Italia la rivoluzione Industry 4.0 incontra più ostacoli è l’estrema

frammentazione del mondo produttivo italiano in tante realtà per lo più piccole e medie.

Se è vero che la rivoluzione 4.0 può coinvolgere anche il mondo delle PMI, è anche vero

che per queste ultime le sfide si moltiplicano.

Al di là del generale problema di digital divide tra aziende grandi e piccole, si pongono

criticità specifiche. Ad esempio il problema dell’obsolescenza del parco macchine riguarda

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Un circolo virtuoso tra reale e virtuale: la manifattura 4.0

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in particolare il mondo delle PMI per le quali è ancora più difficile reperire i capitali

necessari al loro rinnovo. In questo contesto la soluzione rappresentata dal retrofitting

diventa l’unica strada percorribile.

Inoltre, in un mondo produttivo molto frammentato, diventa difficile investire in

piattaforme uniche e aumenta così il rischio di cedere potere ai fornitori che saranno così

in grado di determinare gli standard futuri.

La risposta passa per una maggiore cooperazione. Bisogna aggregarsi seguendo una logica

tipicamente distrettuale, fatta non tanto di distretti fisici quanto di distretti digitali. In un

ecosistema integrato basato su connessioni digitali, è necessario parlare lo stesso

linguaggio, condividere architetture e reperire risorse per investimenti comuni. Il ruolo

delle associazioni industriali diventa allora cruciale per coagulare il mondo produttivo

italiano attorno alla sfida dell’Industry 4.0.

Conclusioni

La Manifattura 4.0 richiede grandi investimenti e una visione di lungo periodo. Per questo

occorre sensibilizzare la politica, talvolta disattenta alle esigenze del mondo produttivo e

dell’innovazione tecnologica. La capacità innovativa che richiede un vasto impiego di

risorse finanziarie e umane nell’attività di ricerca e sviluppo, fa da sfondo alla Manifattura

4.0. È su questa rivoluzione non solo tecnologica, ma anche culturale che si misura la

capacità dell’Italia di preservare e rafforzare il suo posizionamento nell’industria globale.

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