In ricord o d i A n d o G ilard i, il vate d ella ...

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22 Ando aveva questo grido di battaglia, rivendi- cava per sé un istinto di sopravvivenza molto sviluppato, che dovevamo sempre ascoltare. Sopravvivenza intesa in senso ampio: fisica e morale. Era uno dei suoi “tormentoni” preferiti . Abbiamo conosciuto Ando nel 1979, recitava spesso il ritornello in modo scherzoso quando era necessario prendere una decisione rapida e prudenziale, niente di drammatico: nel nostro lavoro quotidiano si trattava di prendere precau- zioni per evitare errori o imprevisti tecnici/editoriali; insieme abbiamo realizzato servizi fotografici, riviste, libri, corsi di fotografia… certamente erano importanti, ma sicuramente non questioni di vita o di morte. S olo più tardi abbiamo capito che questo “or- goglio” veniva da lon- tano. Poco per volta abbiamo ri- costruito una storia che mai si è messo a raccontare per intero; ogni tanto emerge- va un dettaglio che maga- ri in quel momento gli era utile raccontarci “a fini edu- cativi”, ma poi rimaneva isolato. A noi è rimasta la sensazione di un grande ri- serbo, un pudore che non ci siamo mai sentite di vio- lare cercando la spiega- zione in dettagli più con- creti. Nel raccordare i frammenti che abbiamo raccolto, vi avvisiamo che potremmo aver commesso qualche imprecisione. Più volte ci ha raccontato la sua abile riscossa infantile dopo aver contratto la po- lio e che crescendo, durante la frequenza alla scuola su- periore, spesso andava in biblioteca a leggere piut- tosto che in classe… qui aveva avuto modo di co- noscere a fondo scritti fi- losofici e politici, dai qua- li era stato attratto fino dal- la tenera età , di avvicinar- si agli ideali comunisti e di opposizione al regime. Per farla breve prima di finire la scuola aveva avuto con- tatti con il Partito Comu- nista clandestino e quan- do si iscrisse alla facoltà di medicina era già un gio- vanissimo attivista. Abbiamo dedotto che fino a quella età non era con- sapevole delle sue origini ebraiche o non ci aveva ri- flettuto, i suoi genitori non erano praticanti. Fu una sorpresa per lui quando gli revocarono l’iscrizione a causa delle leggi razziali, così come la motivazione. Allo scoppio della guerra la sua famiglia si trasferì da Genova, nel piccolo pae- se d’origine del padre, in basso Piemonte. Nonostante ciò Ando si as- socia ad attività antifasci- ste clandestine e mantiene i contatti operativi con una Le nostre storie “Zoppo, ebreo, comunista e ancora vivo!” che pubblicò, primo in Italia, materiale fotografico sullo sterminio di Elena e Patrizia Piccini Fu una sorpresa quando gli revocarono l’iscrizione a scuola per le leggi razziali In ricordo di Ando Gilardi, il vate della fotografia italiana, autore tra l’altro d “cellula” di Genova. È in questo periodo che pen- siamo sia stato sorpreso tra i comunisti durante una riu- nione, arrestato e deporta- to a Mauthausen in treno. Di questa esperienza non ci ha lasciato racconti de- finiti, solo frammenti e al- cuni indizi: parole captate all'interno di discorsi… « sono andato a Mauth- ausen in treno e tornato in Mercedes» e alcune intol- leranze apparentemente in- spiegabili che noi abbia- mo attribuito ad una espe- rienza traumatica, come la sua avversione per i muri di pietra, le stanze con un solo ingresso... il mese di novembre. Ci ha raccon- tato che quando era stato fatto prigioniero non sape- va ancora nulla dei campi “raccontava: “ sono andato a Mauthausen in treno”...

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Ando aveva questo grido di battaglia, rivendi-cava per sé un istinto di sopravvivenza moltosviluppato, che dovevamo sempre ascoltare.Sopravvivenza intesa in senso ampio: fisica e

morale. Era uno dei suoi “tormentoni” preferiti .

Abbiamo conosciuto Ando nel 1979, recitavaspesso il ritornello in modo scherzoso quandoera necessario prendere una decisione rapidae prudenziale, niente di drammatico: nel

nostro lavoro quotidiano si trattava di prendere precau-zioni per evitare errori o imprevisti tecnici/editoriali;insieme abbiamo realizzato servizi fotografici, riviste,libri, corsi di fotografia… certamente erano importanti,ma sicuramente non questioni di vita o di morte.

Solo più tardi abbiamocapito che questo “or-goglio” veniva da lon-

tano. Poco per volta abbiamo ri-costruito una storia che maisi è messo a raccontare perintero; ogni tanto emerge-va un dettaglio che maga-ri in quel momento gli erautile raccontarci “a fini edu-cativi”, ma poi rimaneva

isolato. A noi è rimasta lasensazione di un grande ri-serbo, un pudore che nonci siamo mai sentite di vio-lare cercando la spiega-zione in dettagli più con-creti. Nel raccordare i frammentiche abbiamo raccolto, viavvisiamo che potremmoaver commesso qualcheimprecisione.

Più volte ci ha raccontato lasua abile riscossa infantiledopo aver contratto la po-lio e che crescendo, durantela frequenza alla scuola su-periore, spesso andava inbiblioteca a leggere piut-tosto che in classe… qui

aveva avuto modo di co-noscere a fondo scritti fi-losofici e politici, dai qua-li era stato attratto fino dal-la tenera età , di avvicinar-si agli ideali comunisti e diopposizione al regime. Perfarla breve prima di finire

la scuola aveva avuto con-tatti con il Partito Comu-nista clandestino e quan-do si iscrisse alla facoltàdi medicina era già un gio-vanissimo attivista.Abbiamo dedotto che finoa quella età non era con-sapevole delle sue originiebraiche o non ci aveva ri-flettuto, i suoi genitori nonerano praticanti. Fu unasorpresa per lui quando glirevocarono l’iscrizione acausa delle leggi razziali,così come la motivazione.Allo scoppio della guerra lasua famiglia si trasferì daGenova, nel piccolo pae-se d’origine del padre, inbasso Piemonte. Nonostante ciò Ando si as-socia ad attività antifasci-ste clandestine e mantienei contatti operativi con una

Le nostrestorie

“Zoppo, ebreo, comunista e ancora vivo!” che pubblicò, primo in Italia, materialefotografico sullo sterminio

di Elena e Patrizia Piccini

Fu una sorpresa quando gli revocaronol’iscrizione a scuola per le leggi razziali

In ricordo di Ando Gilardi, il vate della fotografia italiana, autore tra l’altro d

“cellula” di Genova. È inquesto periodo che pen-siamo sia stato sorpreso trai comunisti durante una riu-nione, arrestato e deporta-to a Mauthausen in treno. Di questa esperienza nonci ha lasciato racconti de-finiti, solo frammenti e al-cuni indizi: parole captateall'interno di discorsi…«sono andato a Mauth-ausen in treno e tornato inMercedes» e alcune intol-leranze apparentemente in-spiegabili che noi abbia-mo attribuito ad una espe-rienza traumatica, come lasua avversione per i muridi pietra, le stanze con unsolo ingresso... il mese dinovembre. Ci ha raccon-tato che quando era statofatto prigioniero non sape-va ancora nulla dei campi

“raccontava: “ sono andato

a Mauthausen in treno”...

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,

Era riuscito a introdursi legittimamentein un convoglio della Croce Rossa...

della fondamentale “Storia sociale della fotografia” e di infinite pubblicazioni

È morto all'età di 91 anni a Ponzone, paese di cui era originario e dove era ritornato avivere negli ultimi anni, il grande fotografo Ando Gilardi, artista di famainternazionale, che aveva esordito presso l'Unità di Genova e poi aveva collaboratocon molte riviste italiane e straniere.Nel 1943-45 si era distinto come coraggioso partigiano nelle formazioni Garibaldinedel Piemonte e della Liguria nella lotta contro il nazi-fascismo.L'ANPI esprime le più sincere e sentite condoglianze ai famigliari e a tutti parenti diAndo Gilardi».

...raccolta (febbraio ‘55)allegata all’organo dellaCGIL “Lavoro”

Il cordoglio dell’ANPI genovese nel ricordare il partigiano delle formazioni garibaldine

di lavoro, di concentra-mento e di sterminio, nonimmaginava la portata del-la Shoah. Ci ha racconta-to che per circostanze an-che a lui poco chiare, perfortuna non sono risalitialle origini ebraiche chegli erano valse l’espulsio-ne dall’università e checome prigioniero italiano

comunista, disabile, connozioni di medicina “benvalorizzate”… e una tota-le incoscienza del perico-lo che stava correndo, erariuscito a introdursi legit-timamente in un convogliodella Croce rossa italianadi rientro in Italia per mo-tivi sanitari… o diploma-tici… racconti vaghi.

La forza che lo spingevaera l’idea di riprendere atutti i costi la sua posizio-ne di resistente. Non havoluto lasciarci altri ele-menti sulla durata della suapermanenza al campo. Aparte il ritornello: «Zoppo,

ebreo, comunista e anco-ra vivo». Essere zoppo inun campo di lavoro eraquasi peggio che essereebreo. Al rientro Ando ri-prese il suo posto nella lot-ta clandestina. Sui raccontidi episodi della guerra par-

Al termine della seconda guerra mondiale, fu ingaggiato da una commissione interalleatadedicata al servizio di riproduzione dei documentifotografici per i processi ai crimini di guerra.Attraverso quelle immagini si rese conto pienamentedi cosa era successo e della necessità di divulgarle

....“sono tornato da

Mauthausen in Mercedes

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tigiana non è mai stato ava-ro, anzi erano tantissimi,mitici e sempre pieni dianeddoti rocamboleschi,eroici e divertenti. Addirittura ha accettato diraccontarli in una video-intervista realizzata daGiuliano Grasso nel 2006,intitolata “La guerra diAndo”Al termine della secondaguerra mondiale, nel 1945fu ingaggiato da una com-missione interalleata de-dicata al servizio di ripro-duzione dei documenti fo-tografici per i processi aicrimini di guerra.Attraverso quelle immagi-

ni si rese conto pienamen-te di cosa era successo, na-turalmente quelle immagi-ni lo avevano sconvolto:una sorta di “epifania ne-gativa” come ha racconta-to di sé anche SusanSontag. Dopo quella rive-lazione, la sua posizione di“resistente” in tempo di pa-ce si arricchiva di un nuo-vo obiettivo: il recupero deidocumenti che raffiguranolo sterminio e nella pub-blicazione, diffusione,informazione, affinché cer-ti fatti non si possano ve-rificare più. Ha fatto suetutte le innumerevoli testi-monianze visive ritrovate,

Ando Gilardi scrisse sul Lavoro: “ecco le prove, sono

L’uscita di questo estratto scatenò un terremoto politico

“Zoppo, ebreo, comunista e ancora vivo!” e pubblicò, primo in Italia materialefotografico sullo sterminio

Sono raccolti in questo album alcuni do-cumenti fotografici estratti dalla in-chiesta che il settimanale dellaConfederazione Generale italiana delLavoro ha condotto sotto il titolo:Per non dimenticare ciò che ha com-piuto il militarismo tedesco0 e medi-tare su ciò che potrebbe tornare a com-piere.

“Vi è qui la prova – fornita dalle fonti piùinsospettabili, come indichiamo a par-te, fotografia per fotografia – di alcunefra le più spaventose atrocità compiutedall’esercito hitleriano durante l’ulti-ma guerra. Come già avvertimmo, per l’inchiesta,bisogna evitare che questi documentisiano veduti da chi non raggiunge l’etàdella ragione: ma per il resto ciascunlavoratore deve procurarseli, e poi mo-strarli in giro, agli indifferenti soprat-tutto, e agli increduli, ricordando loroche quanto accadde in Europa dal 1939al 1945 fu reso possibile anche per l’in-differenza e l’incredulità degli uominiche non potevano ammettere tanto mo-struoso orrore. Scientificamente, lo stesso militarismotedesco tenne conto nei suoi piani del-la indifferenza e della incredulità deipopoli, proprio per meglio raggiunge-re il fine di sterminarli. Se sciagura avesse voluto che quei pia-ni fossero stati coronati dal successonon v’è infatti il minimo dubbio che nes-suno avrebbe mai saputo. Ma i popoli

Per appofondireFototeca Storica Nazionale Ando Gilardiwww.fototeca-gilardi.com

Infine il terzo è stato il suoultimo libro: “Lo specchiodella memoria. Fotografiaspontanea dello sterminio,dalla Shoah a You Tube”(2007), il sotto titolo è elo-quente. Internet aveva ri-svegliato in lui una nuovafebbre da ricercatore: ave-va scoperto che “tra le pie-ghe” della rete si trovanodocumenti dei fatti dellosterminio che non hannomai avuto un canale liberoper la diffusione, che emer-gono ancora dopo tanto tem-po clandestinamente e spon-taneamente da chissà qualerepertorio nascosto. Finoall’ultimo, un resistente.

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uniti in difesa della libertà hanno im-pedito quei piani: però molti non han-no considerato come l’avere visto e toc-cato con mano fino a qual punto puògiungere la concezione del massacro edello sterminio, possa rappresentarel’elemento decisivo per impedire, e persempre, altri massacri e altri stermini.Così molti rinunciando alla più ele-mentare prudenza, hanno dimenticato.Altri solo confusamente ricordano, al-tri ancora si sforzano di ignorare: co-storo sono in fondo i peggiori nemici dise stessi.” Scriveva ancora (nel 1955): “essi ac-colgono, sia pure inconsapevolmente,quell’invito che viene rivolto da partedi governi dell’occidente, a considera-re il militarismo tedesco come un incu-bo ormai finito. Essi contano sull’equi-voco che avendo distrutto nell’ultimaguerra gli strumenti del militarismo te-desco - l’esercito, le camere a gas, i cam-pi di sterminio, gli stabilimenti per l’an-nientamento fisico dei popoli ecc.- an-che lo stesso militarismo tedesco sia sta-to distrutto”.

L’uscita di questo estratto e degli stes-si servizi fotografici su “Lavoro” sca-tenò un terremoto politico che, secon-do ciò che ci ha raccontato Ando, fece ecopersino in Parlamento. Una delle puntate del servizio, fu cen-surata a causa della “nudità” dei corpiammucchiati davanti ai forni cremato-ri fotografati dai reporter delle truppealleate, alla Liberazione.

per organizzarle e divul-garle, il più possibile, è sta-to il primo in Italia a pub-blicare materiale fotografi-co sulla Shoah, in una seriedi foto servizi sul settima-nale “Lavoro”, periodicodella CGIL, che poi venne-ro editati e raccolti in un co-fanetto. Per renderci contodel tono della sua denunciaecco la trascrizione di unaparte del suo testo che ac-compagnava questo estrat-to. (nel riquadro qui sot-to)L’impegno di Ando nel de-scrivere, studiare, cercaredocumenti, ricordare il pe-riodo dell’industria dei mas-

sacri in Europa e diffonder-ne la consapevolezza, lo haaccompagnato per tutta lavita. Dopo questo fascicoloha scritto innumerevoli sag-gi, articoli, realizzato au-diovisivi… ha tenuto con-ferenze. I suoi studi si sonoconcretizzati in tre lavori piùimportanti di altri: il primoè una mostra di testi e im-magini intitolata “La gio-conda di Lvov. Immaginispontanee e testi relativi aifatti dello sterminio”(1995), dove in un lavorometicoloso di ricerca ha ac-coppiato 110 immagini del-lo sterminio ad altrettantibrani di testo, saggistica o

narrativa, che raccontano inparole ciò che si vede nelleimmagini… una sorta di“controllo incrociato” de-gli eventi. Il secondo è sta-to un’altra mostra che ha in-titolato “La vita è bel-la”(2003) parafrasando ilpremio oscar di Benigni.Qui Ando ha voluto inda-gare sui presupposti cultu-rali che hanno portato l’af-fermarsi del nazismo e del-l’idea dello sterminio in-dustrioso; lo ha raccontatoin forma grottesca , con ci-tazioni visuali e di testo as-semblati in digitale con uneclettico mix, poetico e ta-gliente.

raccolte in questi servizi e nei documenti fotografici”

co che, racconta Ando, fece eco persino in Parlamento

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Sedici anni sono pochi, sono tanti? Chissà. A Jorge Semprùn, grande scrittore spagnoloma anche un pò tanto francese e profondoconoscitore del tedesco, c’è voluto tutto questo

tempo per decidersi finalmente a scrivere le prime righedi un libro sconvolgente e straziante, ma nello stessotempo avvincente e diverso, nella struttura narrativa, datutti gli altri, sulla materia dei campi di sterminio.

Due anni nell’orrore diBuchenwald, a ven-t’anni, dal ‘43 al ‘45

del secolo scorso, i cento an-ni più tremendi di tutti i tem-pi: una rivoluzione d’otto-bre, due guerre mondiali, efra l’una e l’altra l’aggres-sione italiana all’Etiopia conl’uso dei gas, e la guerra ci-vile di Spagna, milioni dimorti, intere città rase al suo-lo, bellezze ineguagliabilidistrutte, Auschwitz e Hiro-shima e Nagasaki, la guer-ra fredda, il muro di Berlino,la guerra nel Vietnam, la fi-ne dell’impero sovietico, lafine del colonialismo, la na-scita della Cina popolare, ilprimo uomo nello spazio.Semprùn, si può dire chequeste vicende le abbia vis-sute tutte. Nato a Madrid nel dicembredel 1923, nel 1939, seguen-do il padre, un diplomaticoantifranchista fedele alla

Le nostrestorie

Quattro giorni e cinque notti in pieno inverno senza cibo e senza acqua nel v

Il viaggio di Semprùncapolinea l’inferno:lo scrittore spagnolo suidue anni passati nei campi

Repubblica, si trasferì aParigi, dove completò glistudi liceali e poi si iscrissealla facoltà di storia e filo-sofia della Sorbona.Combattente nel Maquiscontro l’occupazione tede-sca, venne catturato, tortu-rato atrocemente ma non aprìbocca e infine fu deportatonel lager di Buchenwald, do-ve non c’erano le camere agas ma i crematori funzio-navano egualmente a pienoritmo, accumulando giornodietro giorno, montagne dicadaveri.Nel campo di sterminio,Semprùn partecipò assiemea gruppi organizzati di in-ternati soprattutto spagnoli,ex combattenti della guerra

civile, a forme di lotta con-tro i nazisti. Sopravvissuto, militò nelPartito Comunista Spagnoloclandestino e organizzò, co-me dirigente, innumerevoliazioni contro il regime fran-chista, una volta ancora a ri-schio della pelle. Così si operava allora inSpagna contro gli antifran-chisti, specialmente se co-munisti. Ricordate Grimau,l’ultimo di tanti altri ad es-sere assassinato su ordinedel boia Franco? Membro del Comitato cen-trale di quel partito, ne ven-ne poi espulso, accusatonientemeno di revisionismo,roba che oggi farebbe ride-re i polli.

di Ibio Paolucci

Combattente nel Maquis in Francia fu catturato, torturato e infine deportato

Jorge SemprùnIl grande viaggio

editore Einaudi 1990Nuovi Coralli,

pag. 220euro 12,39

“al passare degli anni...

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vagone piombato e alla fine l’orrore del campo di sterminio di Buchenwald

Caduto il regime, ricoprì l’in-carico di ministro della cul-tura nel primo governo so-cialista guidato da FelipeGonzales. Il libro di cui stiamo par-lando, che consigliamo cal-damente ai nostri lettori, siintitola Il grande viaggio,scritto nel 1961 e pubblica-to in Italia da Einaudi tre an-ni dopo. Quando lo scrisseSemprùn aveva quarant’an-ni e, per l’appunto, la di-stanza dalla cruda esperien-za di Buchenwald era di cir-ca 16 anni.Il viaggio in questione par-

te da una cittadina francese,Compiegne, e termina aBuchenwald. La durata è di quattro gior-ni e cinque notti in un va-gone piombato, in pieno in-verno, dove sono ammuc-chiate 119 persone in con-dizioni invivibili, descrittein maniera straordinaria-mente realistica dall’auto-re, che si inventa per neces-sità, diciamo così, esisten-ziali, un compagno di viag-gio, che chiama il ragazzodi Semur: un uomo dellaResistenza come lui, un co-munista come lui, scelto da

Un’ insegnante, da lui molto amato, è ritrovato nel campo ormai agonizzante

lui come interlocutore, chediventa un personaggio piùvero del vero, che dialogacon lui, che ricorda con luiepisodi della Resistenza, in-trecciando conversazioni sulpaesaggio, sulla bellezza deiluoghi attraversati, sulla soa-ve dolcezza dei vini dellaMosella, sulle tenere amici-zie e i primi amori, sulle ul-time letture, che lo sprona-no a recitare versi diBaudelaire, Rembaud,Lorca, Machado, Brecht, suicompagni partigiani caduti esu molte altre cose, fino al-la conclusione del viaggio,quando prima di entrare nel-l’inferno di Buchenwald, famorire il Ragazzo di Semursul treno, fra le sue braccia,

Nelle foto in basso alcuneistantanee dello scrittore.Al centro Semprùn èsull’aereo che lo porta aMosca alla presentazionedel film “La confessione”di Costa Gavras su unsoggetto dello scrittorespagnolo. Interpreteprincipale Yves Montand.

Semprùn in visita aBuchenwald nel 2010

attribuendogli il dolente ul-timo saluto: “Non mi la-sciare amico”. Fantasia sì,ma come scrisse l’autore larealtà ha spesso bisogno diinvenzione per diventare ve-ra. Comunque Semprùn nonparla solo del viaggio nelvagone frigorifero privo dicibo e di acqua, tanto da pro-vocare una montagna di ca-daveri, racconta anche delprima e del dopo.Ascoltiamo così da lui i suoiincontri alla Sorbona, i suoicolloqui con gli insegnanti,uno dei quali, da lui moltoamato, ritrovato nel campo,purtroppo agonizzante.Ascoltiamo le sue riflessio-ni sulle opere di Kant e di

dall’esperienza del campo...

...il difficile ritorno da libero”

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La casa-giardino di Goethe,nei pressi di Weimar.Visitandola Semprùn sorprese l’ufficiale franceseche lo accompagnavacitandogli un libro di LeonBlum, leader del FrontePopolare di Francia, exdeportato a Buchenwald.

Hegel e sulla scioccante pri-ma lettura del “Manifesto”di Marx e di Engels, un ve-ro uragano. Poi i primi passi da personatornata libera, la sconvol-gente visita in una casa delvillaggio di Buchenwald, dadove si vedeva a poca di-stanza (e dunque lo vede-vano anche gli inquilini te-deschi di quell’apparta-mento) l’interno del campoe si scorgevano le fiamme esi respirava l’acre odore delfumo del Krematorium. Egli abitanti tedeschi che co-sa pensavano? Fumavanotranquilli i loro sigari, be-vevano allegramente la lorobirra? Chiudevano le fine-

stre anche d’estate per nonsentire la puzza? Semprùn,tornato libero, lo vediamoall’ingresso della vicina vil-letta estiva di Goethe, laGartenhaus, visitando laquale volle sorprendere unpo’ maliziosamente l’uffi-ciale francese che lo ac-compagnava, che era unapersona di vasta cultura, chesapeva sempre tutto di tutti,cogliendolo in flagranza d’i-gnoranza, rendendogli notoche esisteva un libro di LeonBlum, il leader del FrontePopolare, ex deportato aBuchenwald, intitolatoNouvelles conversations deGoethe avec Eckermann.Buchenwald e Goethe, il la-

ger la casa con giardino delgrande poeta tedesco. PoveraGermania, come ti avevanoridotta.Appena uscito dal campo,respirando per la prima vol-ta la fresca aria della libertà,confidò al medesimo uffi-ciale, di avere provato unagrande gioia nel sentire nuo-vamente l’inconfondibile

canto degli uccelli, scacciatiper anni dal nauseabondoodore della carne bruciata:Ora quel trillo, quel suono,quel rumore incantevole miinebria, mi colpisce il cuo-re. Nel Grande viaggio,l’autore confessa, come sidiceva, di avere inventato ilragazzo di Semur perché mifacesse compagnia in treno.

Nella finzione facemmo quelviaggio assieme per can-cellare la solitudine dellamia vita vera.Tornato aParigi, sgomenta la sua in-quietante reazione mentreassiste alla sfilata del 1° mag-gio del 1945, una giornatadi sole allietata da una mareadi bandiere rosse e poi al-l’improvviso una raffica dineve: Una sorte di vertigi-ne mi ha colto nel ricordarela neve e il fumo di Buchen-wald. Una vertigine pienadi serenità, di lucidità pros-sima alla lacerazione. Mi

sentivo fluttuare nell’avve-nire di quella memoria. Cisarebbe stata sempre quel-la memoria, quella solitu-dine, quella neve sotto ognisole, quel fumo ad ogni pri-mavera.Un’angoscia inarrestabile,che Primo Levi, da lui ri-cordato con immensa am-mirazione e gratitudine,esprime con una concisio-ne inarrivabile: Niente eravivo all’infuori del campo.Il resto, la famiglia, la naturain fiore , la casa, solo brevevacanza, inganno dei sensi.

Così, con queste terrifican-ti parole, che si leggono coninarrestabile tremore, PrimoLevi conclude La tregua. Un’angoscia descritta in quellibro che per Semprùn nonha tregua, che ritorna neimomenti più diversi, risen-tendo l’odore disgustoso del-la carne bruciata, del fumodel crematorio di Buchen-wald. Incancellabile. Morto a Parigi nel 2011, al-l’età di 88 anni, JorgeSemprùn scrisse di se: Nonsono rassegnato a morire,né angustiato dalla morte.Sono furioso, straordina-riamente irritato dall’ideache presto non sarò più qui,in mezzo alla bellezza delmondo o, al contrario, nelsuo insipido grigiore - che inquesto caso concreto sonola stessa cosa.

una visione internazionale egenerosa. La morte diSemprùn è una perdita dicui soffriremo tutti, spagnoli,francesi, tutta quell’Europain cui tanto ha creduto. Era una persona rara, il suoesempio e la sua opera re-steranno nel tempo”.

Di lui così scrisse il peru-viano, Premio Nobel per laletteratura, Mario VargasLlosa: E’ stato uno scritto-re magnifico, saggistastraordinario, realmente‘amico’ dei suoi amici, unuomo tollerante e libero daipregiudizi, un europeo con

Ci sarebbe stata sempre quella memoria, e la solitudine, quella neve sotto ogni sole

Il viaggio di Semprùncapolinea l’inferno:lo scrittore spagnolosui due anni passatinei campi

Morto nel 2011 all'età di 88 anni, Semprùnscrisse : “Non sono rassegnato a morire,”

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Quando si trasferì in Lombardia nell’autun-no del 1912, Salvatore si era da poco diplo-mato maestro elementare in Sicilia a PiazzaArmerina, dove era nato il 29 aprile 1892.

Figlio di Concetto (1851-1924) e di ConcettaRausa (1863-1933), discendeva da un’anticafamiglia piazzese di origini normanne, chesembra risalire a Guglielmo di Principato

figlio di Tancredi di Altavilla e della prima moglieMuriella.

APiazza all’inizio delNovecento eranoparticolarmente at-

tivi i fermenti politici dellenuove istanze umanitarie,repubblicane e socialiste.Presso la tipografia diAdolfo Pansini l’editoreTropea di Catania avevastampato i primi libri diNapoleone Colajanni Il so-cialismo (1884) e l’inchie-sta L’alcoolismo sue con-seguenze morali e sue cau-se (1887). Nel 1903 MarioSturzo sarebbe divenuto ve-scovo di Piazza Armerina erimasto in carica fino al1941, antifascista e ispira-tore del fratello minoreLuigi, fondatore del PartitoPopolare. Salvatore, socialista già suibanchi di scuola, fu imputato

Le nostrestorie

Uno dei quindici martiri uccisi il 10 agosto 1944

Mio nonno, il siciliano Salvatore Principato.Il maestro socialistaassassinato a Piazzale Loreto

come «agitatore» in un pro-cesso a seguito di un’insur-rezione popolare avvenutanella cittadina siciliana il22-23 novembre 1911 con-tro l’impresa di trasporti diNunzio Russo, che gestivail controllo delle carrozzeusate per trasportare i lavo-ratori agricoli nelle campa-gne, ostacolando la nascitadi un moderno servizio pub-blico. Una carrozza fu trascinata inpiazza e demolita, un’altradata alle fiamme. Tutti gliaccusati furono assolti consentenza della Regia Preturadi Piazza Armerina del 12giugno 1912. Trasferirsi al nord signifi-cava per Salvatore l’oppor-tunità di accostarsi ai centripiù attivi del socialismo ita-

di Massimo Castoldi

I primi anni: Piazza Armerina e Vimercate Medaglia d’argento nella Grande guerra

Qui sopraSalvatorePrincipatonegli anniQuaranta.A latoSalvatoredurante laGrandeguerra. Il 31 maggio1917 nellabattaglia delmonte Vodice,una delle piùterribili erisolutiveoffensivesull’Isonzo,Salvatore fecequindiciprigionieriaustriaci.

Mio nonno,il siciliano SalvatorePrincipato.Il maestro socialistaassassinato a PiazzaleLoreto

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liano. Milano era in queglianni la città di Filippo Turatie di Anna Kuliscioff.Incominciò a esercitare l’at-tività di maestro a Vimercate,dove rimase in servizio dal1913 al 1919, quindi anchenegli anni della guerra, chetuttavia lo videro combatte-re come semplice soldato suuno dei fronti più difficili eduri del conflitto, quello delCarso. Pur se ostile alla guerra efieramente non interventi-sta, partecipò a tre campa-gne in fanteria, trovandosia vivere in prima persona lecontraddizioni del conflit-to. Il 31 maggio 1917 du-rante la battaglia del monteVodice, una delle più terribilie risolutive offensive

sull’Isonzo, Salvatore fecequindici prigionieri austria-ci, riuscendo nella dupliceimpresa di salvare la vita aquindici uomini, che un po-tere interessato lo aveva ob-bligato a riconoscere come‘nemici’, e di servire al tem-po stesso la patria, nella qua-le credeva quale fervido cul-tore degli ideali risorgi-mentali e garibaldini.Ottenne per questo una me-daglia d’argento al valor mi-litare, della quale sarebbesempre andato orgoglioso,ma anche un significativodebito di riconoscenza daparte di almeno uno di queisoldati, che gli donò un oro-logio, che Salvatore con-servò con cura per tutta lavita.

La ripresa della vita civile con l’insegnamento e la scelta antifascistaRientrato alla vita civile, ri-prese l’insegnamento aVimercate e poi, in ruolo, aMilano. Dopo tre anni discuole periferiche del quar-tiere Turro e di via Co-masina, insegnò dal 1922 al1924 alla scuola elementa-re di via Giulio Romano, dal1924 al 1933 alla «TitoSperi» di viale Lombardiae di via Sacchini, e a parti-re dall’ottobre 1933 inin-terrottamente alla «Leonardoda Vinci» di Piazza Leonardoda Vinci. Fu alla scuola divia Giulio Romano che co-nobbe la giovane maestraMarcella Chiorri, figlia diAmilcare, il farmacista di

via Giulio Romano 1. Fu unamore che durò tutta la vita,nella condivisione degliideali e dei valori del socia-lismo. Si sposarono nel 1923e il 6 marzo 1924 nacque laloro unica figlia Concettina.Salvatore subito compresequanto nella propaganda fa-scista fosse evidente il tra-dimento di quell’ideale dipatria, che aveva animato ilRisorgimento.Quel patriottismo, che ave-va significato difendere lapropria terra, combattendo ildispotismo, l’oppressione ela corruzione, stava diven-tando deteriore nazionali-smo, guerra alle differenze

prima politiche e sociali epoi inevitabilmente etniche,religiose e razziali: premessadi una guerra imperialista,capace di travolgere ogniprincipio di dignità umana,anticamera del lager e pre-ludio dello sterminio di mas-sa. Alla fierezza, all’ardi-mento, algrande sensodi civiltà cheavevano ani-mato le cami-cie rosse diGaribaldi, sierano sosti-tuite l’arro-ganza, la spa-valderia, l’i-pocrisia dellecamicie neredi Mussolini,

lungo un processo destina-to a inquinare nel profondola coscienza civile degli ita-liani. Contro tutto questo sidoveva lottare, ci si dovevaribellare con l’intelligenza,con la persuasione, con laparola e soprattutto con l’e-sempio.

L’insegnamento: “come lo ricordo, arrivava a dare a noi dei chiari messaggi”In questo stava la sua le-zione di maestro ai bambi-ni delle elementari. Nel farloro capire che un’altra mo-dalità di vita era possibile. Bastava un richiamo ai va-lori dei padri del Risor-gimento nei giorni delleCinque giornate di Milano;o ai valori della solidarietà,senza marcare le differen-ze sociali, che pur esiste-vano (e profonde) tra i bam-bini, soprattutto quandoSalvatore andò a insegnarealla Scuola Leonardo daVinci di viale Romagna aMilano.Bastava anche un dettatoche trattasse del rispetto per

gli anziani, per la loro sag-gezza, per la loro espe-rienza, mentre intorno squa-dre di fascisti inneggiava-no con arroganza al gridovuoto di Giovinezza, gio-vinezza.Il giornalista Alfredo Bar-beris, suo alunno tra 1940e 1942, ha scritto recente-mente di non ricordare unasola volta, nella quale il«maestro [...] abbia lettouno dei tanti slogan mus-soliniani che pullulavanonei sussidiari» e una solavolta nella quale abbia ob-bligato gli alunni «a impa-rare a memoria qualchepoesia celebrativa dei fa-

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sti del Duce» (AlfredoBarberis, Il maestro del«no» al fascismo.Salvatore Principato,«Nuova Antologia», anno147, fasc. 2264, ott.-dic.2012, pp. 195-208). «Quando si parlava di sto-ria», ricorda ancora Else-rino Piol (alunno tra 1940e 1942), «i personaggi nonvenivano descritti solo perquello che erano, ma veni-vano portati a confrontocon la realtà in cui viveva-mo. Risultava chiaro, an-che a noi giovani scolari,il significato di frasi del ti-po: “gente come questa” –riferendosi a qualche per-sonaggio storico di gran-de levatura morale – “og-

L’attività politica clandestina e il primo arresto, causato dai delatoriFin dal 1924 Salvatore in-cominciò così ad avviarequell’attività politica di op-posizione al fascismo, chel’avrebbe portato prima acollaborare con la concen-trazione antifascista diParigi, poi con l’opposizio-ne clandestina socialista ein seguito ne fece uno degliispiratori degli scioperi del1943 e del 1944 e dellaResistenza milanese.Il suo nome ricorre nelle re-lazioni dell’ispettore gene-rale di Pubblica SicurezzaFrancesco Nudi come espo-nente di spicco del movi-mento antifascista a Milano,soprattutto per la gestione

della stampa clandestina eil progetto con AlfredoBonazzi di un «giornalet-to» politico di ispirazionesocialista. Il suo appellati-vo era Socrate e come talefu segnalato alla questuraanche da alcuni informato-ri infiltrati nel movimento, inparticolare nelle relazioni diun certo «Silvino» o «Silvio»(Cfr. Relazione di FrancescoNudi a «S. E. il capo dellaPolizia | Roma», datataMilano, 24 febbraio 1933 elettera di Silvio del 16 feb-braio 1933, conservate inArchivio Centrale delloStato, Ministero dell’Interno.Direzione generale della

gi è difficile da trovare”,e il riferimento era ovvia-mente verso chi allora cicomandava. Una certa cautela era ne-cessaria, ma Principato,almeno come lo ricordo,arrivava a dare a tutti noidei chiari messaggi: vo-leva che, nel limite dellenostre possibilità, inco-minciassimo a pensare eragionare». La sua lezio-ne era innanzitutto nell’e-sempio. L’amico Gian Luigi Ponti,illustre banchiere milane-se, ricordava di Principatoil «viso sempre sereno»,la «voce calma e dolce»,«le parole sempre im-prontate a una bontà co-

sciente». Alcuni alunni nehanno ricordato la figuraalta imponente, la parlataferma precisa, l’ordine, l’e-leganza, e, fatto curioso,ma significativo, l’assen-za a lezione di alcun ac-cento siciliano. Un altro alunno alla Leo-nardo, Nicola Prezioso (an-ni 1936-1938), ricorda co-me per Principato «non c’e-rano primi e ultimi: tuttidovevano arrivare, tutti do-vevano essere accompa-gnati lungo il percorso for-mativo, indipendentemen-te dalle loro condizioni eco-nomiche e sociali, ma an-che, in un certo senso, dal-le loro capacità. L’istru-zione per lui era veramen-

te un diritto di tutti». NinoFerrari, commercialista, fi-glio del maestro NovemiFerrari, emiliano socialistariformista e già collega diPrincipato a Vimercate nericordava il continuo inte-ressarsi ai problemi umanie sociali dei lavoratori conparole di consiglio e di fi-ducia e alcuni suoi argo-menti sindacali e politici:«Non debbono più ripeter-si i fatti del Ventidue.Occorre creare un sinda-cato unitario e obbligatorioper tutti ... E chi non ade-rirà al sindacato non po-trà beneficiare dei miglio-ramenti contrattuali, sala-riali e normativi, conseguitidalle lotte dei lavoratori...»

Salvatore con gli alunni della scuola elementare «TitoSperi» nell’anno 1928-1929. Alla sua sinistra FrancescoCastelli, futuro pittore e direttore della rivista«L’uomo e l’Arte». Lo seguì nella lotta contro ilfascismo, fu arrestato nel giugno 1944 e destinato allafucilazione in piazzale Loreto.Graziato all’ultimo momento, fucondotto prima a Bolzano il 17agosto, e poi, il 7 settembre allager di Flossenbürg e da quitrasferito a Dachau. Sopravvisse.Morì il 5 luglio 1997.

I corpi dei quindicimartiri in PiazzaleLoreto, 10 agosto 1944.

Al centro, nella paginaaccanto, la famigliaPrincipato a Lizzano inBelvedere (BO)nell’agosto 1938.

La famiglia Principato in gita a Puntamicapresso Zara (Dalmazia) il 19 agosto 1934.Concettina annota sulverso della fotografia«L’uomo in piedi adestra è il poliziotto che doveva vigilare mio padre».

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pubblica sicurezza.Divisione polizia politica.Materie, b. 116, fasc. 2).Tra 1930 e 1931, dopo l’ar-resto e la condanna di mol-ti giellisti in Italia, tra i qua-li Ernesto Rossi, RiccardoBauer e Ferruccio Parri, l’in-tera organizzazione mila-nese si indebolì e la figuradi riferimento divenne perqualche mese GiuseppeFaravelli, che, sfuggito al-l’identificazione e all’arre-sto, era tuttavia sempre piùassediato dalla polizia fa-scista. Fu Salvatore insieme adAlfredo Bonazzi, RomeoBallabio, Alberto Benzonie Roberto Veratti, a orga-nizzarne la fuga il 28 aprile1931 prima a Lugano, poi inFrancia, con un primo depi-staggio verso Sondrio (cfr.Marcella Principato, Una gi-ta verso Sondrio…, «CriticaSociale», anno 79, n. 1-2,febbraio-marzo 1977, p. 36).A Milano il gruppo sociali-sta fece allora riferimentoad Alfredo Bonazzi, nato nel1865 e impiegato presso laSocietà Anonima FonderiaMilanese di acciaio «Van-zetti». Le riunioni si svolgevanogeneralmente nella sua ca-sa di Via San Gregorio 6. Punto di appoggio del grup-po era la tipografia di AttilioAntelmi in via Santa Sofia31, dove lavorava come ti-pografo il fidato AmbrogioBroggi.Alfredo Bonazzi e RomeoBallabio tenevano i contat-ti con Faravelli al quale in-viavano lettere spesso scrit-te con inchiostro simpaticoda Marcella Principato, lacui scrittura era chiara masoprattutto difficilmente

identificabile dalla poliziafascista.L’appartamento di via SanGregorio 6, la tipografia divia Santa Sofia 31, la Bancapopolare di piazza Crispi,dove lavoravano sia il so-cialista Alberto Benzoni, siai cattolici Pietro Malvestitie Armando Rodolfi, erano iluoghi di riferimento del mo-vimento.Tutto questo non riuscì a na-scondersi alle indagini del-la polizia fascista, che il 19marzo 1933, portò a termi-ne un’operazione molto va-sta. Con Salvatore furonoarrestati e deferiti alTribunale Speciale, tra glialtri, Alberto Benzoni,Alfredo Bonazzi, AmbrogioBroggi, Aristide Cagnoli,Ugo Cavani, LucianoMagrini, Roberto Veratti,con gli esponenti cattolicidel movimento guelfo, tra iquali, Gioacchino Malavasie Pietro Malvestiti. Tra le cause dell’arresto, ol-tre ai risultati delle indaginiche da tempo stava condu-cendo la polizia fascista, gra-zie soprattutto ad alcuniinformatori, si legge nellecarte del processo anche lasorprendente delazione del-la giovane domesticaCristina Morelli, assunta incasa Principato per assiste-re alla madre Concetta, a let-to gravemente malata. La signorina Morelli di-chiara di aver visto nell’ap-partamento dei Principatouna copia del giornale anti-fascista «La Libertà», con«la scritta in rosso», e un al-tro di formato più piccolodal titolo «Giustizia eLibertà» e di aver conse-gnato quest’ultimo al suo fi-danzato Mario Cellario, mi-

La Resistenza, l’arresto in via Cusani, il carcere di Monza e San Vittore

Negli anni Quaranta l’atti-vità clandestina riprese consempre maggiore difficoltà.Salvatore partecipò con l’a-mico Veratti alla riunione aMilano in una sera dell’ot-tobre 1942 in casa di IvanMatteo Lombardo in ViaTantardini per la fondazio-ne di una nuova formazio-ne socialista, il M.U.P.,Movimento di Unità Pro-letaria.Durante l’occupazione te-desca di Milano Salvatorefondò con un amico la pic-cola ditta F.I.A.M.M.A.(Fabbrica Insegne ArrediMobili Metallo Affini At-trezzi per Vetrina) che pre-sto divenne copertura delladistribuzione di propagan-da socialista e antifascista.Nella sua sede di via Cusani10 c’era anche una piccola ti-pografia per manifestini diprotesta. Qui si organizza-va la Resistenza milanese esi prepararono gli scioperidel marzo 1944. Salvatorefaceva parte della 33ª bri-gata Matteotti con l’ex alun-no Renato Ferrarini, calzo-laio in via Gran Sasso, e poidel Comitato di LiberazioneNazionale della Scuola.Sabato 8 luglio 1944 nel po-meriggio fu arrestato dalleS.S. in via Cusani e condot-to al carcere di Monza. Nontrovarono armi, ma molta

stampa, e questo su segna-lazione di un delatore, pa-re un suo fidato operaio in-filtrato anche nel movi-mento socialista clandesti-no.La mattina dopo arrestaro-no Eraldo Soncini, operaioalla Pirelli, uno dei suoi piùvicini collaboratori, men-tre un altro, Dario Barni,riuscì a fuggire, e trovò lamorte in uno scontro a fuo-co coi fascisti a Santa Mariadella Versa (PV), due me-si dopo, il 18 settembre. Poco sappiamo dei suoi ul-timi giorni. La moglie Marcella Chiorridichiarò il 19 aprile 1946:«Andai a fargli visita duevolte durante il tempo del-la sua detenzione e l’ulti-ma volta che lo vidi vivo fuil 1° agosto 1944. Dopo lamia visita cercai di pren-dere contatto con alcuni uf-ficiali, allo scopo di otte-nere il rilascio di mio ma-rito, ma fui sempre invita-ta a parlare col ten.Weining. Non potei maiprendere contatto con que-st’uomo che, per quantocapii, aveva alle sue di-pendenze una formazionedi S.S. italiane ed era in-caricato dell’interrogatoriodei detenuti. Questi inter-rogatori avvenivano in mo-do brutale, perché una vol-

lite della Milizia VolontariaSicurezza Nazionale, Grup-po Oberdan (Archivio Cen-trale dello Stato, SezioneTribunale speciale, b. 456.Fascicolo Salvatore Prin-cipato, cc. 11-12).Salvatore riuscì a scagio-narsi e fu assolto per «nonaver commesso il fatto».Scarcerato l’8 giugno, di-venne da allora un sorve-gliato speciale della poliziafascista. Reintegrato nell’insegna-mento diurno, fu escluso,dopo tredici anni di servi-

zio, dalle scuole serali, puravendone pieno diritto peranzianità e meriti di servi-zio. Si legge sui documentiancora oggi conservati nelsuo fascicolo personale pres-so la scuola «Leonardo daVinci», che il maestro in og-getto «non dà un sicuro af-fidamento di piena adesio-ne alle direttive del Regime»,e «non solo non è iscritto alP.N.F., ma non figura nep-pure tra i soci dell’Asso-ciazione Fascista dellaScuola». A nulla valsero inumerosi ricorsi tentati.

Mio nonno,il siciliano Salvatore Principato.Il maestro socialista assassinato a Piazzale Loreto

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ta, quando andai a fargli vi-sita, mio marito aveva unbraccio ingessato e quandogli chiesi la ragione mi dis-se che glielo avevano rottonel corso di un interrogato-rio. Quando mi recai aMonza, il 9 agosto, seppiche mio marito era stato tra-sferito al carcere di S. Vittorein Milano il giorno prece-dente. Mi recai quindiall’Albergo Regina per ave-re un permesso di visita, mafui mandata via senza potervedere nessuna persona in-vestita di qualche autorità» (Sezione Investigativa delComando Alleato, fasc. n.2167, cc. 283-284).La figlia Concettina ag-giunge: «Ci fu concesso uncolloquio e andammo al car-cere di Monza. Ci introdus-sero in un sotterraneo.C’erano altre persone connoi, parenti di altri carce-rati. Non li conoscevamo etutti tacevano, anche per-

ché vicino a noi repubbli-chini in borghese ci guar-davano e non ci perdevanod’occhio un momento. [...]Si aprì una porticina ed en-trarono i prigionieri. Miopadre era smagrito, la bar-ba lunga, il braccio sinistroal collo, ingessato. Ci ab-bracciammo stretti. Non ri-cordo quello che ci dicemmo,ma certo frasi banali. Duefascisti erano dietro di noicol mitra in mano. [...] Sivoltò un attimo prima discomparire nella porticinadalla quale era venuto, ciguardò ancora e alzò la ma-no che aveva libera in uncenno di saluto. Ci manda-rono fuori subito e ce ne an-dammo in silenzio. Io e miamadre ci tenevamo strettesottobraccio e ci allonta-nammo fino a svoltare l’an-golo, lontane dalla vista ditutti. Poi scoppiammo apiangere. Perché sentivamoche non lo avremmo visto

mai più» (ConcettinaPrincipato, «Siamo dignito-samente fiere di avere vis-suto così». Memoria dellaResistenza e difesa dellaCostituzione. Scritti e di-scorsi, a cura di MassimoCastoldi, Ravenna, GiorgioPozzi, 2010, pp. 33-34).Ai primi di agosto Principatoe Soncini furono trasferitida Monza a San Vittore, 6°raggio, camerone 8. Nellamedesima cella, risulta dairegistri di San Vittore, si tro-vavano anche il ventenneRenzo Del Riccio, anch’e-gli fucilato in piazzaleLoreto, suo zio Mario DelRiccio, Mario Follini eAlessandro Zappata, che ri-sultano essere stati depor-tati in Germania il succes-sivo 17 agosto.Mario Follini, operaio ver-niciatore di Cogliate, eAlessandro Zappata, guar-dia carceraria a San Vittore,sarebbero morti a Hersbruck

(Flossenbürg) rispettiva-mente il 16 novembre 1944e il 22 febbraio 1945. Pocosappiamo di Mario Folliniche, nato a Milano il 22 ot-tobre 1897, era nell’elencodei destinati alla fucilazionein Piazzale Loreto, grazia-to con altri all’ultimo mo-mento. Di Alessandro Zap-pata, nato a Vicenza il 4 set-tembre 1903, della sua par-tecipazione alla causa dellaResistenza e del suo spiritodi solidarietà ho trovato, in-vece, una traccia significa-tiva nel diario di Italo Geloni,che lo dice morto per «loscoppio ritardato di unabomba alleata sganciata suNorimberga», «obbligato afare da artificiere» e feritomortalmente al cuore «dauna scheggia» (Ho fatto so-lo il mio dovere..., memoriedi Italo Geloni ex DeportatoPolitico nei Campi diSterminio, a cura dell’Aned,Pisa, 2002, p. 44).

Verso Piazzale Loreto: 10 agosto 1944.L’ordine fu dato dal capitano SaeveckeAlle quattro e trenta del mat-tino del 10 agosto alcuni de-tenuti furono svegliati e rac-colti nel corridoio princi-pale del carcere di SanVittore. Caricati su un con-voglio formato da cinqueautocarri e un’autovettura,partirono verso PiazzaleLoreto, facendo tappa perpochi minuti in un grossoedificio di Milano, forse percaricare il plotone d’esecu-zione formato da circa «25o 30 soldati italiani»(Sezione Investigativa delComando Alleato, fasc. n.2167, cc. 380-382 dich.

Anton Heininger), fascistidella Legione «Ettore Muti».Il presidio della zona era sta-to affidato invece all’Ae-ronautica repubblicana e acirca trenta militi dellaBrigata nera «Aldo ResegaGruppo Oberdan» di viaCadamosto (ivi, c. 305 di-ch. Silvio Borghi).Quando i camion arrivaro-no, fecero scendere quindi-ci prigionieri e alzarono ilrumore dei motori per co-prire quello degli spari, co-me mi raccontò con chia-rezza la signora GiuseppinaFerazza, che, quindicenne,

Piazzale Loreto negli anni ‘40. I martiri vennero fucilati contro la staccionata deldistributore in basso sulla destra della foto.

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Il fascista e la “Gianna” a Piazzale Loreto.

1944, settant’anni fa. Tra letante stragi che hanno pun-teggiato di sangue e di ter-rore quell’anno tragicoalcune hanno assunto unvalore simbolico tutto parti-colare per la loro imponen-za ed efferatezza, per illuogo in cui sono statecompiute, per il senso disfida nei confronti dei citta-dini: nella memoria di tuttisono rimaste le stragi diMarzabotto e di Sant’Annadi Stazzema, delle FosseArdeatine e di PiazzaLoreto a Milano.Il 10 agosto 1944 un ragaz-

zo passava in quel largopiazzale che segnava il cro-cevia della Milano operaiae industriale: verso nord ilarghi viali portano versoSesto S. Giovanni, la città,allora, delle grandi fabbri-che, verso sud corsoBuenos Aires conduceverso il cuore della metro-poli. Attratto da una follaammutolita il ragazzo siavvicina a una staccionata elì, buttati in maniera scom-posta e sorvegliati dai militifascisti della repubblica diSalò, vede i corpi di quindi-ci fucilati; diversi anni dopo

ricorda così: “C’eranomorti gettati sui marciapie-di, contro lo steccato, qual-che manifesto di teatro, laGazzetta del sorriso, cartel-li, banditi! Banditi catturaticon le armi in pugno!Attorno la gente muta, ilsole caldo. Quando arrivaia vederli fu come una verti-gine: scarpe, mani, braccia,calze sporche […] ai mieiocchi di bambino era unacosa inaudita: uomini get-tati sul marciapiede comespazzatura e altri uomini,giovani vestiti di nero, chesembravano fare la guardiaarmati”. Tra i cadaveriscorge, quasi non credendo

ai suoi occhi, il cadaveredel suo maestro, SalvatorePrincipato, e quello diLibero Temolo, il padre delsuo migliore amico.Quel ragazzo era FrancoLoi, grande poeta milanese,e quello spettacolo di mortenon l’ha mai dimenticato:anzi lo ha rappresentato constraordinaria forza ed effi-cacia nei versi in dialettopresenti nella raccolta“Strolegh” del 1975.La poesia si apre con unappello diretto alla piazza,luogo del crimine, anch’es-sa umanizzata e divenutatestimone partecipe davantia tanto orrore:

Il piazzale, da cui si dipar-tono cinque strade, apparecome una mano dalla pellemorta, una pelle che si stac-ca come quei manifesti sec-cati dal sole d’agosto. La rivelazione della mortearriva prima della visione

della strage e si insinuasubito nella mente di chilegge, assieme all’oppressi-va sensazione prodottadall’Hotel Titanus, divenutoin quegli anni sede di uncomando nazista. Poi pren-de atroce consistenza il

senso dell’orrore perché là,addosso a quei cadaveri cisono gli assassini in divisanera che ridono…“l'è là cheriden”! E’un riso ignobile eprovocatorio, un oltraggioal dolore e alla disperazio-ne, un riso accompagnato

da gesti di disprezzo di chivuole fare violenza nonsolo mediante le armi, maanche e soprattutto attraver-so la negazione di ognisenso di umanità; è un risodi odio, che semina e gene-ra odio:

...piassa Luret, serva del Titanusti', verta,me na man da la pell mortai gent che passa par j a vör tuccà,e là, a la steccada che se sterla,sota la colla di manifest strasciâ,l'è là che riden, là, che la gent surdala streng i gamb, e la vurìss sigà.

[...piazza Loreto, dominata dal Titanustu, aperta,come una mano dalla pelle mortasembri voler toccare la gente che passa,e là, presso la staccionata sconnessa sotto la colla dei manifesti stracciati,è là che ridono, là, che la gente sorda stringe le gambe e vorrebbe gridare.]

“ “

tra n’rid e un dìss üsmen cress j ödide la camisa nera i carimà,vün füma, n òlter pissa, un ters saracca,e 'n crìbben, cul sò fà de pien de merda,man rosa ai fianch el cerca j öcc nia...

[tra il ridere e il parlare, annusano crescere gli odigli occhi lividi delle camicie nereuno fuma, un altro piscia, un terzo sputa, e un delinquente, col suo modo di fare pieno di merdacon le mani rosate sui fianchi cerca gli occhi che gli si negano...]“ “

Il terrore, la rabbia, lo sbalor-dimento di tutta la piazza è

anonimo, ma non impersona-le e a un certo punto prende

forma nel pianto di una donnadel popolo, una “Gianna”,

come si diceva nel dialettomilanese:

di Vincenzo Viola

Giulio Casiraghi, Renzo DelRiccio, Andrea Esposito,Domenico Fiorani, UmbertoFogagnolo, Tullio Galim-berti, Vittorio Gasparini,Emidio Mastrodomenico,Angelo Poletti, Andrea Ra-gni, Eraldo Soncini, LiberoTemolo, Vitale Vertemati.Per la strage Saevecke subìuna tardiva condanna al-

fu spettatrice della fucila-zione da una finestra dellasua casa che si affacciavasul piazzale.Il resto fa parte della storiadi Milano e dell’Italia.L’ordine definitivo per lafucilazione fu dato, senzaalcun processo, dal capita-no delle S.S. Theo Saevecke.Morirono con Principato,

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Ma anche il pianto, la pietà,una preghiera (come hatestimoniato Mons. Barba-reschi, che allora giovanissi-mo seminarista è andato abenedire quelle vittime,dopo il più codardo che

diplomatico rifiuto del card.Schuster, arcivescovo diMilano) sono una minacciaper i fascisti: essi voglionoimporre un terrore muto,che non riesca ad esprimersiin nessun modo, ma scoppi

dentro la testa e il cuore eproduca l’impotenza. Invecequel pianto è dolore chediviene il seme della lotta,di resistenza alla disumaniz-zazione, di volontà insoppri-mibile di giustizia e di

libertà. Allora un militedella Muti (erano stati loro,gli assassini in camicia nera,a eseguire l’eccidio, è benenon dimenticarlo mai!) si faavanti e impone alla donnadi piangere:

Le parole del fascista sonopiene di violenza e didisprezzo: quel “mancaqualcosa” di fronte aquindici corpi massacratiè un monumento alla fero-cia. Ma esse segnanoanche il totale isolamento

dei carnefici. Infatti in uncontesto linguistico total-mente dialettale il poeta lefa pronunciare in italiano:il dialetto qui è la linguadella comunità, l’italianoè il segno dell’estraneità,dell’impossibilità di esse-

re riconosciuto come partedi un popolo.All’italiano, qui lingua delpotere e della prevarica-zione, la donna rispondein dialetto: è una rispostatenue, impaurita (Mi,sciur...?), ma non remissi-

va; strattonata e minaccia-ta, mostra la sua resisten-za tenendo la testa bassa,rifiutando un contatto colmilite fascista che non saesprimersi che con l’im-posizione della forza:

Ehi, tu...!... si tu!... che vuoi?Manca qualcosa?Mì...?Si, tu.e 'na magatel cul mitra sguangel ranfa per un brasc quèla che piang.

[ Ehi tu...!...si tu!... che vuoi?Manca qualcosa?Io...?Si, tu,e un teppista col mitra porcoafferra per un braccio quella che piange.]

“ “

Tira su la testa !e lentament,'m rìd una püciànna, i òcc gagginsbiàven int j òcc ch'amur je fa murì

[Tira su la testa!e lentamente, come ride una puttana, gli occhi bianchicci sbavano negli occhi che l'amore fa morire]. “ “

Ma non basta al repubbli-chino: dopo la violenzasui vivi vuole mostrareanche il disprezzo per imorti per imporre un mar-chio di vergogna, quella

vergogna, come ha scrittoPrimo Levi, “che i tede-schi (e i fascisti loro com-plici) non conobbero,quella che il giusto provadavanti alla colpa com-

messa da altrui, e glirimorde che esista, chesia stata introdotta irrevo-cabilmente nel mondodelle cose che esistono, eche la sua volontà buona

sia stata nulla o scarsa, enon abbia valso a difesa.”Di fronte al dolore e alpianto della “Gianna”, difronte al dolore e alla rab-bia della folla, il fascista,

tra 'n mezza nün 'na gianna la dà 'n piang,e l'è 'na féver che trema per la piassae la smagriss i facc che morden bass.

[in mezzo a noi una povera donna scoppia a piangere,ed è una febbre che trema per la piazzae fa smagrire le facce che stringono i denti a testa bassa].“ “

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Le parole di Franco Loi,legate da frequenti allittera-zioni, cadono pesanti e bru-

cianti come piombo fuso, lasua narrazione procede perimmagini, asciutta, dolente,

mai retorica: e in mezzo atanto orrore resta nellamemoria e negli occhi la

nitida figura di questa donna,simbolo di una resistenzasilenziosa, dolorosa e tenace.

pö, carmu, 'na saracca sliffa seccatra i pé de pulver, e sfrisa 'me 'na lamal'uggiada storta tra quj òmn scalfa.

[poi, calmo, tira secco uno sputotra i piedi nella polvere, e graffia come una lamal'occhiata storta tra quegli uomini scorticati].“ “

l’ergastolo dal Tribunale mi-litare di Torino con senten-za del 9 giugno 1999 e morìnel dicembre 2004, a no-vantatre anni. La sentenzascrive che «logicamente v’èda supporre che il Saeveckenon potesse essere l’unicoideatore dell’orrenda stra-ge» e non v’è dubbio chetanto mistero avvolga an-

cora le discussioni di queigiorni. La vicenda diSalvatore Principato si legada allora tragicamente conquella di altri quattordici uo-mini in uno degli eccidi piùefferati ed emblematici del-la storia recente di Milanoe sul quale mi riservo di in-tervenire in uno dei prossi-mi numeri della rivista.

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Quella che racconta Gilberto è la storia di una famiglia della medio-alta borghesia c

Morti il padre, lamadre, la sorellalo stesso giorno

nelle camere a gas diAuschwitz, appena arriva-ti al campo di sterminio.Morto il nonno per la col-pa di essere ebreo.Sopravvissuti soltanto i duefratelli Renato e Gilberto,grazie al fatto di essere sta-ti sempre uniti. Renato an-che perché medico, Gil-berto, che al momento del-la cattura aveva 16 anni,grazie all’aiuto, in molticasi decisivo, del fratello

maggiore. Si dirà che sitratta di una storia comunea tantissimi ebrei, circa seimilioni, un quarto dei qua-li bambini e anche neona-ti e adolescenti, quasi tut-ti inferiori ai quindici an-ni. Sì, è vero, è cosi, e so-no moltissime le famigliedistrutte completamente,senza sopravvissuti. Unatragedia che non ha l’e-guale nella storia dell’u-manità: la Shoah, l’assas-sinio di massa, lo sterminioche aveva per scopo ulti-mo la “soluzione finale”.

Quella che raccontaGilberto è la storia di unafamiglia medio-alta bor-ghese, che risiede in unaabitazione del centro diGenova e che fino al 1938,l’anno delle infami leggirazziali, conduce una vitadi serena felicità. Lui, allora, aveva appenadieci anni e frequentava laquarta elementare. Ma inquell’anno seppe che, inquanto ebreo, non avevapiù il diritto di frequenta-re una scuola pubblica.Quindi ne venne espulso.Il padre, naturalmente, ven-ne licenziato. Il fratellomaggiore, che rivestiva,

Le nostrestorie

La drammatica storia della famiglia Salmoni:a un passo dalla salvezzala cattura dei nazifascisti

Lacerante l’inizio della storia drammatica, cheha per protagonista l’ex deportato nel campodi sterminio di Buchenwald Gilberto Salmoni,attuale presidente dell’Aned di Genova.

Sì, lacerante, e per capirlo basta fare attenzio-ne alle date elencate nell’incipit del libro, chequi di seguito riproduciamo: “Mio padre GinoSalmoni (Firenze 11.07.1878 – Auschwitz 1944)

funzionario dell’Ispettorato Provinciale; mia madreVittorina Belleli (Genova 23.02.1892 – AuschwitzAgosto1944) casalinga, conosceva bene il francese, eraappassionata di lirica, leggeva romanzi. Mia sorella Dora(Genova 19.01.1918 – Auschwitz Agosto 1944) scuolesuperiori, suonava bene il pianoforte e la fisarmonica.Sposata con Romolo Porcù, allora sotto le armi. Mio fra-tello Renato (01.12.1913 – 18.04.1994) medico”. Miononno materno Vittorio Belleli (Corfù 1867– Genova set-tembre 1944).

di Ibio Paolucci

chiamato alle armi, l’u-niforme di ufficiale del-l’esercito, ne venne, natu-ralmente, cacciato. Le con-dizioni della famigliaSalmoni, naturalmente,peggiorarono notevol-mente, ma in qualche mo-do riuscirono a vivacchia-re. Questo fino al famigerato8 settembre del 1943.Gilberto, che, quando i na-zisti si impossessaronodell’Italia, aveva quindicianni e fino ad allora avevafrequentato una scuola pri-vata svizzera, dovette ab-bandonare e nascondersi,assieme ai famigliari, in

Da destra Marina Picasso che ha accompagnato ilgruppo durante il pellegrinaggio a Mauthausen; inmezzo Gilberto Salmoni e a sinistra la nipote Teresa.

Al famigerato 8 settembre del 1943.Gilberto aveva soltanto quindici anni

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ia che risiede nel centro di Genova e che fino al 1938 conduce una vita serena e felice

quella che lui definisce“una prigione dorata”,ospiti di amici in una villasulla collina di CelleLigure. Ma quella stagionefortunata, naturalmente, fudi breve durata. I nazistidecisero di insediare un lo-ro comando in quella villae i Salmoni furono costrettia trovarsi un nuovo rifu-gio. Ma dove? La cacciaall’ebreo era spietata. I te-deschi non davano tregua.Per di più non mancavanole spie, compensati lauta-mente dai nazisti coloro iquali facevano arrestare unebreo. Ai Salmoni sembrò possi-bile ad un certo punto lavia della fuga in Svizzera.Con alcune guide, carichidi valigie, sotto la pioggia,cominciarono a salire per

sentieri selvaggi. ScriveGilberto: “Albeggiava.Procedemmo su un mantobianco; la neve era profon-da, si affondava parecchio.Arrivati al passo uscì il so-le. ‘Un pò di riposo ve lomeritate’ disse una guida‘siamo praticamente arri-vati, non c’è che da scen-dere’. Entrammo in unapiccola capanna. La sal-vezza era a un passo.Pochi minuti dopo la sal-vezza era perduta. ‘Maniin alto. Uscite uno alla vol-ta’. I repubblichini di Salò,guardie di frontiera, colfucile spianato, la bombaa mano in bocca. Un col-po al cuore. Eravamo per-duti”. Comincia così il calvariodella famiglia Salmoni, pertre di loro senza scampo.

Gilberto SalmoniUna storia nella storia

(a cura diAnna Maria Ori)

Fratelli Frilli Editorepag. 207

euro 10,00

Tra i deportati, la maggior parte dei quali terminò i suoi giorni in quella terra ostile

Gilberto Salmoni

Alcuni prigionieri al loro arrivo nel campo di concentramento di Buchenwald.

Alcuni sopravvissuti del "Blocco 66" diBuchenwald (un edificio destinato ad ospitare ibambini) fotografati poco dopo la liberazione

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Prima varie prigioni, poi ilcampo di smistamento diFossoli, infine il treno cheporta padre, madre e una so-rella ad Auschwitz e i duefratelli a Buchenwald. Dall’agosto del 1944 al 10aprile del ’45, giorno dellaliberazione, i due fratelli,dopo aver subito torture in-dicibili, tornano a respirarel’aria della libertà, lieti peressere riusciti a rimanerevivi, ma disperati per avereappreso che i loro genitorie la loro sorella erano fini-ti nelle camere a gas. Nel suo libro, a cura di AnnaMaria Ori, Gilberto Salmoniracconta la propria storia

drammatica con scorrevo-le narrazione. Lo si legge non senza pro-vare angoscia, indignazio-ne e rabbia, di fronte agliorrori e alle crudeli umi-liazioni, cui venivano sot-toposti i deportati, la mag-gior parte dei quali terminòi suoi giorni in quella ter-ra ostile, che pure, in altreepoche, aveva partorito fi-gli come Kant, Goethe,Durer, Marx, Mann; versicome l’Inno alla gioia diSchiller, musicato daBeethoven, con quel corofinale della Nona Sinfonia,che è diventato l’inno del-le nazioni europee.

Il campo di Buchenwaldera vicinissimo a Weimar,la città amata dal grandepoeta, autore del Faust.Nel lager, invece, si pote-va leggere una sarcasticascritta a caratteri cubitali:“Jedem das Seine”, a cia-scuno il suo. Il “suo” per ideportati erano il lavoromassacrante, le torture, lafame, il freddo, i pidocchie quasi sempre la morte.Il “suo”, per i carnefici,era il sadico, crudele, spie-tato godimento di procu-

rare sofferenze inaudite,che quasi sempre culmi-navano nei forni cremato-ri. Ma nell’inferno di Bu-chenwald ci furono anchepagine di commovente so-lidarietà e di eroica resi-stenza. Nel campo, infatti, comericorda Salmoni, operavaun Comitato clandestinoantifascista, di cui facevaparte il fratello Renato,che giunse fino a procla-mare l’insurrezione primadell’arrivo dei liberatori.

La drammati-ca vicenda della famigliaSalmoni:a un passodalla salvezzala cattura deinazifascisti

All’ingresso diBuchenwald, si potevaleggere una sarcasticascritta a carattericubitali: “Jedem dasSeine”, a ciascuno il suo.Il “suo” per i deportatierano il lavoromassacrante, le torture,la fame, il freddo, ipidocchi e quasi semprela morte.

Un’immagine scattatadalla famosa fotografaamericana MargaretBourke-White chedocumentò le atrocità deicampi alla Liberazione.

Campo di Buchenwald,ufficiali tedeschi e civilidi Weimar, la città piùvicina sono riuniti nelpiazzale del leger.

Ai civili che asserisconodi non aver mai vistoniente viene mostrato il cadavere di unprigioniero impiccato inalto perché fosse benvisibile da tutto il campo,come monito...

Ma nell'inferno di Buchenwald ci furono anche pagine di solidarietà

“A ciascuno il suo” c’è scritto sul cancello d’ingresso

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Il lodigianoGianfrancoLupatini,morto nel1944 in uncampo diconcentra-mento a soli29 anni.

Le nostrestorie

Per il nonno ritrovato:un fiore da Lodi sulla tombadi Gianfranco Lupatini, morto a Gross Lubars

Abbiamo letto sul “Cittadino di Lodi” la lettera che pubblichiamo volentieri

Nonna Zina ci ha la-sciato nel novembredel 2001 ma solo nel

marzo del 2008 la mia mam-ma ha trovato la forza diaprire quella valigia, contutto il timore e la delica-tezza possibile abbiamo di-schiuso quei sottili fogli dicarta perfettamente conser-vati, scritti fitti fitti perchésu un solo foglio dovevanostarci più frasi possibili (alfronte anche la carta da let-tera era un bene prezioso).Cartoline romantiche, an-ch’esse scritte in tutto lo spa-zio disponibile, messaggeredi un amore vissuto all’om-bra di una guerra mostruosa.Quanto amore si leggeva inogni frase e quanta forza en-

trambi traevano da questacorrispondenza! Il loro ma-trimonio era tutto lì, rac-chiuso in quelle frasi spe-ranzose e piene di progettiper il futuro. Abbiamo letto una minimaparte di quella corrispon-denza, leggerla ci rattrista-va molto inoltre ci sembra-va, in qualche modo, di cu-riosare in quella che era sta-ta l’unica vita matrimonia-le di Zina e Gianfranco.Decidemmo di rimettere tut-to nella valigia ancor piùconvinte di dover custodireun tesoro. Gianfranco morì in Ger-mania in un campo di con-centramento, era il 4 apriledel 1944 aveva appena com-

Mia nonna si chiamava Teresina ma per tuttiera solo Zina. Ci teneva molto ad esserechiamata Zina perché così la chiamava il suoadorato marito, Gianfranco Lupatini.

La nonna è stata per tutta la vita una donnasemplice e molto dignitosa, il suo bene piùprezioso era racchiuso in una valigia di car-tapesta, una valigia che non abbandonava

mai e che, quando si allontanava da casa per qualchegiorno, nascondeva come si nasconde un tesoro prezio-so. La valigia di cartapesta conteneva 4 anni di corri-spondenza dal fronte. Lettere e cartoline che nonnoGianfranco le inviava scrivendole tutto il suo amore.

di Margherita Baldrighi

Dopo due anni dalla morte la lettera del cappellano che lo vide morire

Gentile direttore

le trasmetto il testo della storia dei miei nonni non-chè la lettera del Cappellano militare che mi haspinto ad iniziare la ricerca.Ora sto mettendo in ordine cronologico i 4 annidi corrispondenza dal fronte per ricostruire il per-corso di guerra e come hanno vissuto in questo pe-riodo.Quando mio nonno è partito per la guerra la non-na aspettava il loro terzo bambino che mio nonno nonha mai conosciuto e che è morto a 10 mesi. In unanno mia nonna ha perso il bambino, il papà ed ilmarito.Vi ringrazio molto per l'opportunità che mi date difar conoscere la loro storia.

Un cordiale saluto da Margherita Baldrighi

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piuto 29 anni. Zina rimaseinnamorata di lui tutta la vi-ta, non si risposò e non eb-be altri compagni si dedicòcompletamente alle figlie.Dopo aver letto quelle let-tere mi sono chiesta tantevolte come poteva essere fi-nita la vita di questo nonnoche aveva avuto la forza, inun momento così dramma-tico, di scrivere frasi poeti-che e rassicuranti alla suaZina e, soprattutto, mi do-mandavo dove poteva esse-re sepolto ma non mi sonomai messa concretamente afare delle ricerche. Poi il destino, grande registadelle nostre vite, mi ha of-ferto una possibilità.Questa primavera, la miamamma decide di arieggia-re gli armadi della nonna erisistemarne l’ordinatissi-

mo contenuto. Emergonooggetti di ogni tipo e un sac-co di vecchi documenti, mimetto a leggerli decisa adeliminare gran parte di quel-la carta. Trovo un foglio pro-tocollo battuto a macchina èingiallito ma perfettamenteconservato, non sembra mol-to vecchio e penso si trattidi un contratto di affitto.Inizio a leggerlo e il respirosi ferma: è una lettera del-l’aprile 1946, due anni esat-ti dalla morte del nonno, ascriverla è il cappellano mi-litare che ha visto moriremio nonno. In questa lettera il sacerdo-te racconta gli ultimi mesidi vita di Gianfranco e ditanti che, come lui, eranoprigionieri nel campo di con-centramento di GrossLubars.

Il cappellano scriveva“…Aveva lavorato per di-versi mesi nelle fabbrichetedesche, e voi ben sapetequanto pesante fosse que-sto lavoro, che si svolge-va per dodici ore giorna-liere senza che il lavora-tore abbia avuto il neces-sario sostentamento.Praticamente la morte ditanti italiani si può ben di-re è avvenuta per fame.Quando Gianfranco ven-ne in ospedale, presentavai segni di questo martirioprolungato: era quasi di-sfatto, irriconoscibile.L’ospedale non aveva nes-suna attrezzatura; man-cavano soprattutto i vive-

ri adeguati ed i medicina-li. Si trascinò alla menopeggio con la speranza chegli avvenimenti belliciavessero a terminare pre-sto, onde rientrare in Italiae rifarsi. Le cose andaro-no come ben sapete, sì cheegli s’accorse che per luila vita non aveva più unalunga durata. Non si è la-mentato della triste sorte:si è rassegnato. Un sol dolore apparivaevidente sul suo viso nel-le ultime giornate di suavita: non poter più rive-dere la sua famiglia lon-tana. Si è spento serena-mente alle 7,45 del04.04.1944…”

Dopo due anni dalla sua morte la lettera del cappellano che vide la sua agonia

Per il nonno ritrovato: un fiore da Lodi sulla tombadi Gianfranco Lupatini, morto a Gross Lubars

Margherita Baldrighi nel cimiteromilitare italiano di Berlino (a lato unaveduta generale) porta i fiori sullaritrovata tomba del nonno, il soldatoGianfranco Lupatini di Lodi.

Nonna Zina,scomparsa nel 2001,con i fiori freschi chemetteva sempre sottoil ritratto del maritoGianfranco. C’erauna valigia che nonabbandonava mai eche, quando siallontanava da casaper qualche giorno,nascondeva come sinasconde un tesoroprezioso. Contenevaquattro anni dicorrispondenza dalfronte del suo amatoGianfranco.

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Gross Lubars. Un punto dacui partire per cercare miononno, una possibilità di sa-pere dove è sepolto. Corro acasa con il cuore che va amille e una speranza che,grazie ad internet ed all’a-bilità di mio marito di uti-lizzare questo potente stru-mento, in un paio d’ore di-venta realtà: mio nonno haavuto una sepoltura d’ono-re al cimitero militare diZehlendorf a Berlino. Neigiorni successivi facciamouna ricerca presso ilMinistero della Difesa checonferma le informazioniraccolte e la speranza di-venta certezza; non ci restache organizzare il viaggio!Oggi, 18 settembre 2013,

sono qui in questo maesto-so cimitero militare dove ri-posano 1.179 soldati italia-ni, mille emozioni attraver-sano il mio cuore ma su tut-ti prevale la felicità. La fe-licità di averti trovato, lasoddisfazione di poterti por-tare quei fiori freschi chenonna Zina ha messo per an-ni ogni settimana davanti al-la foto che teneva in came-ra da letto per averti semprevicino, lo stupore di esseredavanti a te che non ho maiconosciuto ma che, nella miavita, ho sempre sentito pre-sente. A renderti omaggioho portato con me, nel miocuore, nonna Zina, le tue fi-glie e quella parte di Italiache non ha dimenticato.

Roberto Zamboni ha rinnovato il sitohttp://www.dimenticatidistato.com

Il nonno ha avuto una sepoltura d’onore al cimitero militare di Zehlendorf

16.000 nomi disoldati sepoltinei cimiterimilitari italianiin Germanianel sito di RobertoZamboni

Il Cimitero militare italianod'onore di Francoforte sulMeno in una foto diFabrizio Corso. Qui ora èsepolto Luciano Zamboni.

Zamboni, nipote di undeportato ucciso a 22 annia Flossenbürg e sepolto inun cimitero militare italia-no, ha dedicato un sitoalla sua esperienza e allesue ricerche, avviate findal 1994. Il sito contieneun elenco e note di 16.000militari i cui resti sonosepolti in cimiteri militariitaliani all’estero, e istru-zioni alle famiglie per farerimpatriare i resti neipaesi d'origine.

Mauthausen, Dachau, Flos-senbürg: questi nomi arri-vavano alle mie orecchie dibambino ogni volta che, aNatale, ci si riuniva a casadei nonni. E immancabil-mente, tutti gli anni, venivaricordata la figura diLuciano. Lo zio morto inguerra, in Germania. Noi ni-poti chiedevamo e voleva-mo sapere di più. Il nonno si chiudeva in unsilenzio colmo di dolore. Lanonna invece, a fatica e congli occhi lucidi, ci spiega-va, ci raccontava di quellozio «portato via dai tede-schi» e non più ritornato.

Tentava amorevolmente difarci capire che fine avessefatto Luciano: “L'era in cam-po de concentramento… il'ha dato par disperso…” Era una certezza che fossemorto in un lager in Ger-mania, a Flossenbürg, mache fine avesse fatto il suocorpo, a casa non lo avevaancora appurato nessuno conprecisione. Così decisi dicercarlo per riportarlo a ca-sa. Con Luciano avrei tro-vato migliaia di altri suoicompagni di sventura cheper anni erano rimasti in unasorta di limbo burocratico.

Roberto Zamboni

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“Mio padre diceva che i tedeschi avrebberodovuto sterminare la sua famiglia, prima chelui permettesse loro di uccidere gli ebrei ospitia casa nostra”. Sono parole splendide, di

coraggio e umanità, che colpiscono ancora di più se siconosce il luogo e il tempo in cui sono state pronunciate: Albania, 1943, nel cuore della seconda guerra mondiale.

E sono parole che raccontano al meglio lo spi-rito di “Besa - Un codice d’onore: albanesimusulmani che salvarono ebrei ai tempi dellaShoah”, una mostra fotografica curata per

l’Italia da Istoreco, l’istituto storico di Reggio Emilia.

“Besa” si basa sulle foto scattate da NormanGershman ed è realizzata dallo Yad Vashemdi Gerusalemme, l’istituto israeliano per laricerca e la commemorazione delle vittime

della Shoah che – fra gli altri incarichi – ha il compitodi nominare i Giusti fra le Nazioni, donne ed uomini diorigine non giudaica che durante la guerra salvaronodegli ebrei. Fra questi, ad oggi, vi sono 69 albanesi.

Al centro della mostra,una storia tanto affa-scinante quanto po-

co nota, quella appunto ditanti albanesi musulmani chedurante il conflitto salvaro-no la vita a persone di ori-gine ebraiche, profughe oabitanti in Albania, tutte in-seguite dai nazisti. Il picco-lo paese balcanico è una si-cura eccezione, per l’Europadegli anni ’40: al terminedella guerra vi erano inAlbania più ebrei che all’i-

nizio del conflitto, perchétante famiglie musulmaneper anni protessero questifuggitivi. Una sicura ecce-zione ed un sonoro schiaffoin faccia ai tanti pregiudiziche in questi decenni si so-no sedimentati attorno aglialbanesi.Besa mostra con immaginie parole di testimoni direttila solidarietà dell’Albanianella guerra, concentrando-si su chi allora era bambinoe oggi può raccontare quan-

to accaduto. A partire dainumeri.Nel 1933 l’Albania conta-va 803mila abitanti, fra cuisolamente 200 ebrei. Maquasi duemila profughi ar-rivarono dalla Germania do-po il 1933 e l’arrivo di Hitleral potere, ed altre migliaiavi cercarono rifugio dopo ilconflitto. Nel 1943, quan-do il paese è stato occupatodai nazisti comprende por-zioni di territorio montene-grino, kosovaro e macedo-ne, arriva un gesto di enor-me coraggio. La popola-zione albanese si rifiuta diobbedire all’ordine degli oc-cupanti di consegnare le li-ste degli ebrei che risiedonoentro i confini nazionali.Inoltre varie agenzie go-vernative forniscono a mol-te famiglie ebree documen-

Le nostrestorie

L’antico codice d’onore Besasalva gli ebrei fuggiti,ai tempi della Shoah, tra i musulmani in Albania

di Adriano Arati

Quasi duemila profughi arrivaronodalla Germania dopo il 1933

In mostra con immagini e parole i testimoni diretti della solidarietà dell’Albania

ti falsi, con cui mischiarsinel resto della comunità, sen-za far distinzione fra ebrei“albanesi” e profughi.Alla base, un fortissimo ob-

La copertina del catalogocurato, per l’edizioneitaliana, da Annalisa Govie Matthias Durchfeld

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a nella guerra, concentrandosi su chi allora era bambino e oggi può raccontare

La mostra, simbolo del dialogonella sinagoga e nella moschea

bligo morale, Besa, un co-dice d'onore ancora oggi ri-tenuto il più elevato codiceetico dell'Albania. “Besa”significa letteralmente “man-tenere una promessa”: colui

che agisce secondo il “Besa”è una persona che mantienela parola data, qualcuno acui si può affidare la pro-pria vita e quella dei propricari.

L'Albania, un paese euro-peo a maggioranza musul-mana, ha successo dove al-tre nazioni europee falli-scono. Tutti gli ebrei resi-denti in Albania durante l'oc-cupazione tedesca, sia quel-li di origine locale, sia quel-li provenienti dall'estero, sisalvano ad esclusione di unasola famiglia. Nel paese ci sono più ebreialla fine della guerra cheprima del suo inizio.

Lo Yad Vashem ha omag-giato questo sforzo, inse-rendo 69 albanesi nell’e-lenco dei Giusti tra leNazioni. Il museo israelia-no nasce per creare un luo-go per commemorare emantenere vivo il ricordodei sei milioni di ebrei vit-time della Shoah. Ma ancheper ricordare chi ha lottatoper salvare delle vite. Unodei compiti principali è in-fatti “onorare i Giusti tra le

Istoreco di Reggio Emilia ha deciso di portare Besa inItalia per favorire il dialogo e ricordare questistraordinari e rischiosi esempi di solidarietà. La prima nazionale si è tenuta a Reggio Emilia all’iniziodel 2013, con una doppia sede quanto mai simbolica. Besa, infatti, è stata ospitata prima dalla vecchiasinagoga cittadina e poi all’interno di una moscheareggiana, coinvolgendo fortemente entrambe le co-munità. Una lunga serie di pannelli riporta le immaginid’epoca e soprattutto quelle, più attuali, dei testimoni-narratori, assieme alle loro parole e ad un inquadramentostorico della vicenda. Un’ulteriore conferma della volontà di integrazione èl’elenco dei partner. L’edizione italiana della mostra èpromossa da Istoreco in collaborazione con la Comunitàebraica di Modena e Reggio Emilia ed il Circolo socialeculturale della comunità islamica di Reggio Emilia eProvincia, e con il patrocinio del Comune di ReggioEmilia, del Consiglio d’Europa e della rete “Città delDialogo”.Oggi la mostra è a disposizione di tutte le realtàinteressate. Per le informazioni è possibile scrivere [email protected].

I pannelli in mostra nell’austera sala della vecchiasinagoga di Reggio Emilia e nel circolo culturale collegato alla moschea.

NormanGershman, ilfotografoamericano cheha raccolto lestorie e leimmagini dellamostra. Inbasso donnealbanesi edebree nel 1943 e qui sottodiscendenti deiprotagonisti,oggi al villaggio.

Tutti gli ebrei in Albania si salvano ad esclusione di una sola famiglia

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Nazioni che rischiarono laloro vita per salvare gliebrei”. Questo principio è,unico al mondo nel suo ge-nere, e negli anni si è gua-dagnato un riconoscimentouniversale per la sua im-portanza altamente simbo-lica.Dal 1963, una commissio-ne presieduta da un giudicedella Corte SupremaIsraeliana lavora per confe-rire il titolo di “Giusto tra leNazioni”. La commissioneè tenuta ad osservare diver-si criteri durante il lavoro eda studiare meticolosamen-te tutte le documentazionipertinenti, incluse prove por-tate dai sopravvissuti ed al-tre testimonianze oculari.Alla persona che viene ri-conosciuta come “Giusto trale Nazioni”, vengono dona-ti una medaglia apposita-mente coniata che porta ilsuo nome e un certificatod'Onore. Viene inoltre concesso il pri-vilegio di vedere il proprionome aggiunto agli altri giàpresenti sul Muro dell'Onore

nel Giardino dei “Giusti trale Nazioni” presso lo YadVashem a Gerusalemme. Taliriconoscimenti vengono of-ferti ai “Giusti” o ai loro ere-di nel corso di commoventicerimonie che si tengono aGerusalemme e nel resto delmondo.I “Giusti tra leNazioni” rappresentano lapreservazione dei valoriumani in un momento di as-soluto collasso morale. Essi sono la prova di come vifossero ancora persone che,nonostante i gravi pericoli acui andavano incontro, era-no disposte a rischiare la pro-pria vita al fine di osservareil precetto: “Amerai il pros-simo tuo come te stesso”. I “Giusti tra le Nazioni” so-no un esempio da seguire,una fonte di speranza e diispirazione.Al gennaio 2012, YadVashem ha onorato 24.344persone come “Giusti tra leNazioni”. Tra di loro 69 pro-vengono dall’Albania. Besanasce per ricordare questepersone, tutte o quasi di re-ligione musulmana.

Destan e Lime Balla:durante il Ramadamarrivarono 17 personeNel villaggio eravamo tutti musulmani. Davamorifugio ai figli di Dio in nome del nostro Besa”,raccontano Destan e Lime Balla, marito e moglie delvillaggio di Shengjergji, entrambi Giusti tra leNazioni.“Sono nata nel 1910. Nel 1943, durante il Ramadan,da Tirana arrivarono nel villaggio di Shengjergjidiciassette persone, tutte in fuga dai tedeschi.All’inizio non sapevo che fossero ebrei. Li ospitammoin diverse case del villaggio: da noi vennero a staretre fratelli della famiglia Lazar”, ha spiegato Limeallo Yad Vashem, ricordando le difficoltà di queitempi, difficili per tutti. “Eravamo poveri. Nonavevamo nemmeno un tavolo da pranzo. Nonostantequesto non gli permettemmo mai di pagare per il ciboo per il rifugio. Io andavo nel bosco a tagliare lalegna e a prendere l’acqua per portarla fino a casa.Coltivavamo l’orto, perciò avevamo tutti abbastanzada mangiare”, spiega. Una vita dura e pericolosa,portata avanti per oltre un anno: “Gli ebrei rimaseronascosti nel nostro villaggio per quindici mesi. Lifacemmo vestire da contadini, perché si confondesserotra di noi. Persino la polizia locale sapeva che gliabitanti del villaggio davano rifugio a degli ebrei.Ricordo che parlavano tante lingue diverse”.Il congedo con questi ospiti è del dicembre del 1944.Quando “gli ebrei partirono per Pristina, dove unnostro nipote partigiano diede loro una mano.Dopodiché, perdemmo i contatti con i fratelli Lazar.Solo dopo quarantacinque anni, nel 1990, Sollomon eMordehaj Lazar si misero in contatto da Israele”.

L’antico codice d’onore Besasalva gli ebrei in Albaniafuggiti, ai tempi della Shoah, in un paese musulmano

L’orgoglio del

certifica

to di

“Giusto

tra le nazioni”

Lime Balla,nata nel 1910.Con il maritoDestan è“Giusto tra lenazioni”.

Bahrije Borici. Ha ricevuto dallo “Yad Vashem” ilriconoscimento a tutta la famiglia.

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Besim e Aishe Kadiu: la famiglia perseguitataanche dagli italiani

Mio padre diceva che i tedeschi avrebbero dovutosterminare la sua famiglia, prima che lui permettesseloro di uccidere gli ebrei ospiti a casa nostra”, affermacon comprensibile orgoglio Merushe Kadiu, figlia diBesim e Aishe Kadiu, Giusti tra le Nazioni dal 21 lugliodel 1992. La loro storia tocca anche un nervo vivo italiano,l’occupazione dei balcani, dove i soldati fascistigiocarono un ruolo attivo. “Vivevamo nel villaggio diKavajë. Nel 1940, per un breve periodo, la nostrafamiglia aiutò due ebrei greci a nascondersi dai fascistiitaliani. Erano fratello e sorella, si chiamavano Jakov eSandra Batino. Venivano da Tirana. Il loro padre erastato internato in un campo dagli italiani. Nel ’44 Jakove Sandra ci chiesero nuovamente aiuto per nascondersidai nazisti, mentre un’altra famiglia aveva dato rifugioai loro genitori”.Merushe racconta di fughe, sopravvivenza, ma anche diamicizie fra ragazze della stessa età. “Sandra, Jakov edio eravamo ottimi amici; Un gioco pericoloso, quellodella famiglia Kadiu, portato avanti sino all’ultimogiorno utile. Provvedemmo noi ad ogni loro necessitàfino alla liberazione. A Kavajë fu una grande festa.Ricordo il telegramma che ci spedirono Jakov e Sandrae la gioia per la liberazione. Partirono poco dopo perTirana e poi per Israele”. Da allora, il rapporto el’affetto sono rimasti intatti: “ho ricevuto tantesplendide lettere e fotografie da Israele. Nel 1992 sonostata invitata a ritirare il riconoscimento di “Giusto trale Nazioni” a nome della mia famiglia.

Ali Sheqer Pashkaj: salvare una vita perentrare in paradisoPerché mio padre salvò uno straniero mettendo arepentaglio la sua stessa vita e l’intero villaggio? Eraun musulmano devoto: per lui salvare una vitasignificava entrare in paradiso”. È davvero speciale ilquadro che esce dalle parole di Enver Pashkaj, figlio diAli Sheqer Pashkaj, Giusto tra le Nazioni dal 18 marzo2002 per la sua generosità durante la guerra, nellazona di Pukë, quando ha sfruttato la sua conoscenzadel tedesco, la sua astuzia e la sua professione persalvare un giovane ebreo. “La mia famiglia è originaria di Pukë. Mio padre eraproprietario di un emporio, l’unico nel raggio di diversichilometri che vendesse anche generi alimentari”,narra Enver. “Un giorno si fermò un convoglio tedescocon diciannove prigionieri albanesi destinati ai lavoriforzati e un ebreo condannato a morte. Mio padreparlava perfettamente il tedesco. Invitò i nazisti aentrare nell’emporio, offrì loro del cibo e del vinofinché non furono completamente ubriachi. Nelfrattempo, diede al giovane ebreo una fetta di melonein cui aveva nascosto un biglietto nel quale gli dicevadi fuggire tra i boschi e farsi trovare in un puntoprestabilito”. Una mossa coraggiosa, brillante ma pericolosissima:“Quando si resero conto che era scappato, i nazistimontarono su tutte le furie, ma mio padre si dichiaròinnocente. Portarono mio padre al villaggio e lo miseroal muro affinché confessasse dove si nascondeval’ebreo. Quattro volte gli puntarono la pistola allatempia. Tornarono e minacciarono di dar fuoco alvillaggio, se non avesse confessato. Mio padre tenneduro e alla fine se ne andarono. Recuperò il fuggiasconei boschi e lo nascose per due anni a casa sua, finoalla fine della guerra. Si chiamava YeoshuaBaruchowiç”. Da allora, Ali Sheqer ha ospitatoYeousha, senza mai parlarne: “Nel villaggio c’eranotrenta famiglie, ma nessuno sapeva che mio padre davarifugio a un ebreo. Yeoshua è ancora vivo: oggi fa ildentista e vive in Messico”.

EnverPashkaj,figlio diAliSheqer,posaaccantoad unastatua diSkan-derberg,eroenazionalealbanese

Merushe, figliadi Besim eAishe, con ilpacco di lettereche scambiacon Israele.

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Carlo Ghezzi è curioso di uno zio anarchicomai conosciuto: Francesco, cugino di suopadre. La sua vicenda umana e politica con ildrammatico attentato al teatro Diana appar-

tengono ai ricordi d'infanzia: “In famiglia se ne parlavaa bassa voce, quasi sussurrando”.

A volte capitava che qualche parente s'infer-vorasse nel discutere se c’entrasse o meno conl’attentato: allora il confronto si animava e itoni della voce salivano.

Altri familiari, invece, hanno sempre ostinatamenterifiutato anche solo di parlare dell'argomento.

Così l'autore introducela figura dello zio.Come sappiamo di

una persona quando vo-gliamo scoprirla ciò che ciinteressa è la forma del giu-dizio morale - pur nonavendolo conosciuto - chevogliamo ricavare per noie per gli altri. Carlo Ghezzi,scava nell'album di fami-glia, nel contesto socialedove Francesco Ghezzi ècresciuto e sceglie di col-locarsi con le sue idee epassioni. Il titolo del libro e la foto diFrancesco Ghezzi: “unanarchico nella nebbia” , cidanno l'idea di un uomosemplice, pieno di corag-gio e con voglia di giusti-zia e uguaglianza: la "neb-bia" è quella della Storia,

ma anche quella degli uo-mini che ne sono coinvol-ti. A Carlo Ghezzi piace lastoria, riguarda le perso-ne, le quali, come in que-sto suo racconto, si uni-scono tra di loro o in so-cietà e lavorano e lottano,e così facendo miglioranose stessi e spesso cam-biano in meglio il mondo. Ecco perchè l'autore è par-ticolarmente interessatoagli avvenimenti di questoparente stretto dalla vitatanto avventurosa e libe-ra. Attraverso FrancescoGhezzi e scoprendonepasso dopo passo la straor-dinaria vicenda ci portadentro i grandi passaggi,gli anni cruciali e pieni disconvolgimenti che van-

no dall'inizio del "900 fi-no a oltre la metà del se-colo scorso. In questo ini-zio si comprende come eglicerchi le sue stesse radicie guardi a questo parente,mai conosciuto, anarchi-co individualista, come aun uomo proteso da un' in-domabile volontà di cam-biare il mondo: la primaguerra mondiale, con lemacerie immani che pro-vocò, e successivamente,testimone e vittima al tem-po stesso di uno degli epi-sodi più drammatici dellaviolenza che si scatenò aseguito della repressione,dopo il Biennio rosso, pro-prio con l'avvento del fa-scismo. L'episodio centrale del per-corso dell'anarchico Ghez-

Le nostrestorie

Francesco Ghezzi un anarchico nella nebbia:dalla Milano del teatro Dianaal gulag in Siberia

di Angelo Ferranti

Perseguitato per le proprie idee perdela vita in un gulag sovietico in Siberia

Ricostruita dal nipote Carlo la figura dello zio. Sono gli anni cruciali e pieni di sco

zi è che egli è uno dei so-spettati, ingiustamente, diessere tra i responsabilidella strage avvenuta aMilano all'Hotel Diana nel1921. E per questa accusa infon-data, gli effetti sulla suavita già tormentata per lescelte di oppositore e di-fensore dei più deboli, sa-ranno ancora più duri, cau-sa di un lunghissimo pere-grinare prima in Europa:Francia, Svizzera, Ger-mania e poi in UnioneSovietica dove perderà lavita: perseguitato sempre,prima in Italia come anti-fascista e come anarchicofino a perdere, per le pro-prie idee e per le stesse bat-taglie, la vita in un gulagsovietico in Siberia.

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sconvolgimenti che vanno dall'inizio del ‘900 fino a oltre la metà del secolo scorso

Idee di libertà nel “Programmaanarchico” di Errico Malatesta

Raccontare l'itinerario del-la vicenda umana e politicadi Francesco Ghezzi vuoldire capire e riconoscere lafatica e l'impegno di un uo-mo che, come molti dellasua origine e storia, nellafase iniziale del consolida-mento del capitalismo in-dustriale, si scontra aperta-mente con le forme del po-tere di allora: lo Stato con lesue leggi repressive e la pro-prietà privata. Ma chi è il nostro protago-nista? Fa parte del nuovoproletariato urbano, vieneda una famiglia cattolica, ri-spettosa delle tradizioni eche hanno come portato fon-damentale il lavoro e il sa-crificio. È un operaio spe-cializzato. È un rappresen-tante di quelle trasforma-

zioni che cambiano il ruoloe l'identità di Milano. Con il formarsi di una clas-se operaia consapevole deipropri diritti e della rap-presentanza: nasce l'orga-nizzazione sindacale e po-litica del movimento ope-raio: la prima Camera delLavoro, la CGdl, il PartitoSocialista.È un anarchico individua-lista, il suo mondo è l'anar-chia e i suoi valori' - che in-tende come una delle ra-gioni a cui dare la propriaadesione, a una delle primeforme e più nobili di ugua-glianza e libertà:Quel movimento ha dentrodi sè le condizioni che darisposta individuale per op-porsi al sistema e contra-stare la prevaricazione del

più forte, dà vita a formeorganizzate e alla capacitàdi proporre piattaforme ri-vendicative in difesa dellecondizioni di lavoro e disfruttamento. Seppure mi-noritario il movimento anar-chico e personalità comeFrancesco Ghezzi ne sono isimboli e i rappresentantipiù conseguenti in quellaMilano operaia di allora, di-venta l'esperienza concretada cui altre forme, sindaca-to e partito, non potranno fa-re a meno di conoscere lelotte e le esperienze. Sonouna parte della sinistra, unacostellazione fatta di tantisoggetti in formazione emolto frammentata. La sinistra appunto, quellache verrà dopo, e che dovràmisurarsi con i grandi scon-volgimenti dell'intera Eu-ropa: per le trasformazioni ele conseguenze che deter-mineranno la stessa naturademocratica o no degli Stati

- si pensi in positivo, alla na-scita dell'Unione Sovietica-e per contrasto il fascismoe il nazismo. Carlo Ghezzi, con questasua nuova fatica fa un ope-razione importante: pro-nuncia un nome, quello diFrancesco Ghezzi, che è laforma più straordinaria diriconoscimento, special-mente quando questo pa-rente poteva considerarsi unsenza- nome o peggio an-cora per l' accostamento al-la strage dell' Hotel Diana -una persona non degna diessere ricordata. Ne difen-de la dignità, la memoria e lastoria, che è anche la sua -di sindacalista- e la nostra.Un libro da proporre ai gio-vani, per conoscere e ri-flettere. Ciò vale ancor dipiù, oggi, in questa crisi: rac-contare una storia come que-sta è anche " una maniera" dicondurre una vita , di daresenso alla propria vita.

Qui sotto una rarafotografia della platea delcinema “Diana”devastato da una bomba.La strage avvenne alKursaal Diana a Milanoil 23 marzo 1921, inseguito ad un attentatodinamitardo che causò 21 morti e 80 feriti.A centro pagina unafotografia di FrancescoGhezzi risalente alperiodo in cui era inUnione Sovietica.

Con il formarsi della classe operaia nasce l'organizzazione sindacale

« [...] Noi vogliamo dunque abolire radi-calmente la dominazione e lo sfrutta-mento dell'uomo sull'uomo, noi vo-gliamo che gli uomini affratellati dauna solidarietà cosciente e voluta coo-perino tutti volontariamente al benes-sere di tutti; noi vogliamo che la so-cietà sia costituita allo scopo di forni-re a tutti gli esseri umani i mezzi perraggiungere il massimo benessere possi-bile, il massimo possibile sviluppo moralee materiale; noi vogliamo per tutti pane, libertà, amo-re, scienza.E per raggiungere questo scopo supremo noi crediamonecessario che i mezzi di produzione siano a disposizionedi tutti, e che nessun uomo, o gruppo di uomini possaobbligare gli altri a sottostare alla sua volontà né eser-citare la sua influenza altrimenti che con la forza dellaragione e dell'esempio.Dunque, espropriazione dei detentori del suolo e delcapitale a vantaggio di tutti, abolizione del governo.Ed aspettando che questo si possa fare: propaganda del-l'ideale; organizzazione delle forze popolari; lotta con-tinua, pacifica o violenta secondo le circostanze, con-tro il governo e contro i proprietari per conquistarequanto più si può di libertà e di benessere per tutti.

(Errico Malatesta, sezione conclusiva de Il ProgrammaAnarchico, 1919)