A Domenico Mancini, marito fedele, padre affettuoso e ... - Un...palazzo ducale acquistato dai suoi...

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“ A Domenico Mancini, marito fedele, padre affettuoso e nonno amorevole” “Al prof. Giuseppe Jovine, maestro ed amico sincero” “Al dottor Carlo Jovine, continuazione dell’amore paterno per la terra di Molise” “ Ai miei avi tutti”

Transcript of A Domenico Mancini, marito fedele, padre affettuoso e ... - Un...palazzo ducale acquistato dai suoi...

“ A Domenico Mancini, marito fedele, padre affettuoso

e nonno amorevole”

“Al prof. Giuseppe Jovine, maestro ed amico sincero”

“Al dottor Carlo Jovine,

continuazione dell’amore paterno per la terra di Molise”

“ Ai miei avi tutti”

SOMMARIO

Cenni storici e bibliografici

Jovine e la religione

Un tema ricorrente: la morte

Gli affetti

Il poeta e la sua terra

Jovine saggista

Un poeta vivo nel ricordo

Appendice

Bibliografia e pubblicazioni

1

16

30

42

64

76

85

92

95

1

CAPITOLO 1 Cenni storici e bibliografici

Giuseppe Jovine nasce a Castelmauro, in Molise, il 20 Novembre del 1922 nel

palazzo ducale acquistato dai suoi avi dai duchi di Canzano. La sua infanzia scorre

tranquilla tra i boschi e le colline della ridente regione del mezzogiorno, ma avverte

da subito la volontà di risolverne quei disagi di cui non si è mai raccontato nei

manuali di storia. Già dall’infanzia si insinua nel suo cuore un sentimento profondo

di giustizia sociale. Un aneddoto rivelatomi dal figlio Carlo ci mostra come l’idea

della comunione sia partecipe della sua vita. Tornato a casa, dopo un pomeriggio di

giochi, senza calzature, aveva ricevuto le attenzioni della madre Adele, preoccupata

dal fatto che il figlio fosse rientrato in casa senza le scarpe. Senza minimamente

scomporsi, Jovine spiegò che il suo compagno di giochi non ne aveva, e gliele aveva

regalate in quanto lui ne aveva molte altre. L’interesse per il prossimo, che man mano

diventerà amore per la propria terra e i propri corregionali, è vivo nel poeta

molisano sin dall’infanzia e si ripeterà nelle sue poesie e nei suoi racconti dove i

maggiori protagonisti sono per lo più contadini e poveracci. Nel 1933, all’età di

undici anni, viene mandato a studiare presso la Scuola dei Salesiani di Macerata dove

resterà sino al 1938. Qui inizia quel che gli antichi chiamavano il “cursus honorum”

pubblicando su un foglio studentesco la sua prima fatica: “Contemplazione della

morte di d’Annunzio”, mostrando così fin da subito quella attenzione nei confronti

del vate abruzzese che lo accompagnerà per tutta la vita. Terminate le scuole presso

Macerata si sposta a Chieti dove frequenta il Liceo Classico, che però interrompe per

2

una azione sconsiderata. Infatti insieme con un compagno di studi decide di

imbarcarsi per l’Albania ma viene fermato dal colonnello che si rende conto in tempo

che la divisa indossata dai due non è quella d’ordinanza e quindi li rimanda a casa.

Terminati gli studi liceali si trasferisce a Firenze dove frequenta l’Università, ma la

voglia di arruolarsi perdura sino al terzo anno quando viene distaccato al IV

Battaglione del Reggimento Bersaglieri dal quale si concederà nel 1945. Continua le

sue pubblicazioni maggiormente su fogli accademici come la “Gioventù” di Napoli in

cui appaiono diverse poesie. Si evince da queste prime pubblicazioni una certa

polemica nei confronti dello strutturalismo e del decadentismo, a causa

dell’influenza di personaggi come Giorgio Pasquali e Giuseppe De Robertis, tesa a

far si che essi non scadano, seppur involontariamente, in una sorta di positivismo che

non permetterebbe di giungere ad una critica letteraria atta, secondo un dettame

marxista da lui seguito, a “guardare oltre il fenomeno puramente linguistico e

considerarlo nella sua complessa interazione dinamica con il contesto sociale che l’ha

generato”1. L’interesse par la politica si radicò in lui sin dall’età adolescenziale,

quando a soli quattordici anni seguiva lo zio Paolo Jovine, consigliere provinciale

socialista nei suoi comizi, maturando in lui la possibilità di una intesa tra comunismo

e valori cristiani; possibilità che lo spinse a seguire le ideologie di autori come

Stinmer e Troetsch. Nel 1945, quando ormai la caduta di Mussolini era irreversibile,

Jovine viene nominato Commisario Prefettizio a Castelmauro, ossia la carica attuale

di sindaco, e, non essendosi in Molise combattuta una guerra di resistenza, egli

1 LUGIGI BONAFFINI - “Premio Nazionale di Poesia Giuseppe Jovine”- Pag. 78 – Edizioni Enne - 2000

3

utilizzò la sua carica per permettere l’evasione di prigionieri inglesi. Castelmauro era

ovviamente sotto il controllo dei tedeschi che avevano minato il ponte di accesso al

piccolo borgo; ed allora Jovine, come egli ricorda in un passo de “La Luna e la

Montagna” incaricò una persona di andare a togliere le mine. Questa però, scoperta

dai tedeschi, fu costretta alla fuga. Nel 1948 vinse il concorso per i licei ed iniziò ad

insegnare prima filosofia, e poi italiano e latino nei vari licei della capitale. Continuò

ad insegnare sino al 1973, salvo poi divenire preside di scuole medie presso la

capitale; carica che mantenne sino al 1991. Il primo scritto di Jovine è un saggio sulla

poesia di Albino Pierro, terminato nel 1965 e uscito l’anno successivo in cui prende

in considerazione non solo l’intento poetico di Pierro ma cerca di incentrarlo anche in

un quadro culturale e politico. La sua critica cerca di conciliare insieme l’ideale

marxista dell’arte intesa come appropriazione del reale e quello che era stato

l’insegnamento di Croce sino a quel momento. Ma le idee delle riviste del primo

novecento, come ad esempio “La Voce” di Prezzolini, trovano un riscontro nel suo

voler inquadrare poeta e poesia in un quadro storico ben preciso. Egli allora affronta

questo suo lavoro intendendo la produzione di Pierro come la storia culturale della

borghesia italiana di formazione cattolico/idealista, e ponendosi a difesa di quel

popolo che da secoli scrive la storia del mondo ma che dal Pierro era inteso solo

come uno sfondo pittorico. Egli giustamente si prende l’onere di una critica che possa

far interagire insieme non solo la storia ma anche la filologia, che lui intende

ovviamente complementari. E termina così il suo studio definendo Pierro “poeta di

4

formazione e ispirazione cattolico/idealistica, che ha saputo darci quello che i

marxisti definiscono un rispecchiamento dialettico della realtà umana”2.

Pierro per molti anni fu collega di Jovine, e proprio da lui il nostro recepisce l’amore

per il dialetto e la sua importanza culturale, dando alla luce la sua prima produzione

in vernacolo nel 1970, “Lu Pavone”3, che deve essere inteso come un tentativo di

integrazione tra cultura dominante e cultura subalterna contadina. Nella sua ricerca di

un idioletto in grado di integrarsi con la cultura moderna Jovine troverà diversi

insegnanti, quali Gramsci che aveva iniziato i suoi studi sul Folklore, e maggiormente

Pier Paolo Pasolini che intendeva l’attacco contro le culture subalterne un autentico

genocidio. Vi sono però delle differenze importanti tra Pasolini e Jovine: laddove il

primo intende il dialetto come la ricerca di un linguaggio inedito “sottratto all’uso

quotidiano”4, per Jovine è invece un portatore di valori culturali. L’amore viscerale

che Jovine nutre per la sua terra molisana e per il suo paese Castelmauro, necessita

del linguaggio puro contadino, il linguaggio di quel popolo protagonista assoluto dei

suoi scritti, dei suoi pensieri. Ma non si tratta solo di copiare le parole pronunciate

dalle persone con cui egli si intratteneva nella piazza o nelle cantine: è la ricerca

costante di una modernizzazione dell’idioletto non solo castelmaurese, ma anche

molisano. Ricordo ora un aneddoto di Jovine che mi vede protagonista. Lo avevo da

poco conosciuto e gli avevo chiesto di recensire qualche mio scritto, confessandogli

successivamente che anche a me sarebbe piaciuto cimentarmi con qualche verso in

dialetto. Gli chiesi dunque dei consigli su come e dove poter trovare un lessico 2 “La poesia di Albino Pierro” – Edizioni Il nuovo Cracas - Roma 1966 3 “Lu Pavone” – Edizioni Enne -Campobasso 1983 4 LUIGI BONAFFINI - “Premio Nazionale di Poesia Giuseppe Jovine” -Pag.82 – Edizioni Enne - 2000

5

abbastanza importante per poter dar vita alla mia idea. Mi chiese di aspettare

dirigendosi verso la sua libreria e tornò indietro con in mano un libro. Pensai che si

trattasse di una raccolta da lui fatta sui termini dialettali (allora non avevo ancora a

mente la sua produzione letteraria), ma quando lessi il titolo del tomo rimasi senza

parola “Vocabolario ragionato del dialetto di Casacalenda”. Al che gli dissi che il mio

intento era quello di scrivere in dialetto castelmaurese, ma lui serafico “Devi

imparare a scrivere in dialetto molisano; e solo allora sarai in grado di esprimerti nel

dialetto di qualsivoglia paese”. Per Jovine il dialetto è lo status di una regione intera,

ancor prima di esserlo per un singolo borgo. Lui crea con il suo dialetto una koinè

particolare, cerca di fondere tutto il saggio sapere degli antichi in un linguaggio che

possa risultare comprensibile all’intero popolo molisano. Ecco perché spesso negli

scritti di Jovine un castelmaurese stenta a riconoscere la propria parlata, in quanto lui

cerca di dare ad ogni frase una dimensione universale e di vita. In “Cento proverbi e

detti di Castelluccio Acqua Borrana”5 ce n’è uno di cui non si trovano riscontri in

altri testi e che probabilmente Jovine ha inteso direttamente da qualche contadino in

una delle sue consuete passeggiate. “La grannela za recanosce ‘ncopp’all’uocchie e le

magliuole”. Tradotto verrebbe pressappoco così: la grandine si riconosce sopra gli

occhi e i germogli della vite. Ma come detto per Jovine il dialetto è trasmissione di

valori culturali ed umani, espressione di un linguaggio universale non solo letterario

ed estetico, ma maggiormente esistenziale, per cui nel suo intento egli voleva far

comprendere come i colpi del tempo (vecchiaia) si riconoscono sulla propria

5 Edizioni Enne – Campobasso - 1991

6

esistenza. Se si vuole comprendere a pieno la produzione joviniana, sia essa in lingua

o in vernacolo, non ci si deve fermare al processo estetico o letterario, ma entrare a

fondo nel suo animo, nel suo modo di intendere la quotidianità.

La produzione di Jovine in dialetto risente molto del tema della morte che viene

inteso dal popolino come profondo momento di comunione fraterna. Le liriche in

dedica ai genitori mostrano tutta la padronanza del poeta verso una realtà cruda della

vita. Ne “Lu Pavone” sono notevoli le liriche che raggiungono picchi altissimi di

commozione, ma anche di ingenua naturalezza verso un fenomeno insito nel nostro

essere uomini dal primo momento della nostra vita. Jovine sarà un poeta dialettale

autentico, capace di mettere per iscritto i sapori reali della sua terra, le sue

tribolazioni, i suoi pregi, i suoi difetti. Amore che troverà il suo culmine in “Benedetti

Molisani” un saggio sulle reali condizioni della regione.

Certo la poesia di Jovine è incentrata non solo sulla consapevolezza della morte, ma

anche sulla identica consapevolezza che comunque ad ogni attimo la vita si rinnova; e

maggiormente al seguito di eventi tristi e difficili. “La vita sempre za rennova. / E’

murte tata / e iè penze a la giacchetta nova / che mmeia mette mò che vvè l’estate.

(La vita sempre si rinnova. È morto mio padre, ed io penso alla giacchetta nuova che

devo mettermi adesso che vien l’estate)6”. E lo stesso concetto che si trova in questo

vecchio proverbio castelmaurese . “Me so cadute le nielle ma le detera stanne ancora

all’ampiede (Mi sono caduti gli anelli ma mi restano ancora le dita)7”. Anche se le

ricchezze sono andate perdute ci resta la possibilità di poterle riconquistare di nuovo:

6 “Lu Pavone”- La vita – Pag.50 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983 7 “Cento proverbi e detti di Castelluccio Acqua Borrana” - Pag.46 n°94- Edizioni Enne – Campobasso- 1991

7

la morte, come qualsiasi altra disgrazia ha un unico valore per Jovine; è solo alla

morte non vi è rimedio. Nella vita vi sono gioie e dolori che conosciamo da sempre e

che dovremo essere in grado di affrontare. Questo è il suo monito maggiore. Quando

un uomo riconosce i propri limiti allora egli è veramente uomo capace di affrontare

ogni tipo di avversità e di vivere serenamente la propria esistenza. Il suo è quindi un

linguaggio universale che riesce a cogliere le varie sfaccettature di un realismo

assoluto che immette nei suoi versi, come nota lo stesso Tullio De Mauro nella

prefazione a “Lu Pavone”, in cui il dialetto è testimonianza viva di un mondo reale,

che vive delle sue emozioni e tramite la sua lingua. Scrivere in dialetto non vuol dire

necessariamente scrivere di cose metafisiche: le genti, i luoghi, i sentimenti di Jovine

sono reali. Tutti possono andare nel piccolo borgo molisano e chiedere di “Cinzinille

che faceia lu murte pe pazzia”8 o di qualche suo nipote; o sentire parlare dei

discendenti di “Surgetille”: <<Ta recurde cumpà de Surgitille?/ - Se mma recorde!

Coma stì cumpà?>>9( Ti ricordi, compare, di Surgetille?/ - Se mi ricordo! Come stai,

compare?), e via via tutti i poveri contadini che hanno avuto un minuto di gloria

all’interno della poesia joviniana. Il dialetto però è una lingua colorita, spesso

aggressiva, che però il nostro nel suo linguaggio tende a volte ad ammorbidire per

non cadere in una forma di espressionismo che potrebbe farne perdere il senso del

reale. Lo stesso cedere a volte a densità foniche per rendere più melodiosa la sua

poesia, fatta comunque di gesti rudi e pensieri grotteschi ed a volte volgari, come i

8 “Lu Pavone” – Cinzinille – Pag.58 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983 9 “Lu Pavone” – La grannela e la mazza – Pag.84 - Edizioni Enne – Campobasso – 1983

8

racconti della Sdrenga”10, è un peccato veniale che gli si può perdonare. Lo stesso

Belli riconoscerà al poeta molisano di utilizzare il dialetto senza alcun tipo di

artificio, in maniera semplice e lineare. “Na parola! Che gghie’ na parulella! / Basta a

fa luce e stuta lu turmiente (Una parola! Che cos’è una paroletta! / Basta a far luce e

spegne il tormento)11”.Ma questo legame viscerale che lega Jovine alla parola

dialettale, ha delle radici profonde, che si trovano racchiuse nella sua autenticità di

scrittore nazionale ed internazionale (“Lu pavone” e “La sdrenga” hanno visto la luce

anche in una edizione americana)12. Dunque si diceva la parola; un’arma misteriosa

che serviva a Jovine per rimettere in riga la realtà del mondo, della vita in generale.

Quell’esistenza che pesa come un macigno sulle spalle della povera gente e che

invece scorre liscia, per via di sotterfugi e finezze, per coloro che detengono il

bastone del comando. Ed è così che in alcuni scritti, utilizzando proprio la parola

come un’arma, il nostro prende le difese delle classi misere bacchettando, senza

esclusione di colpi, coloro che ne approfittano. Nemmeno le cariche ecclesiastiche

vengono risparmiate dalla sua arguzia e dai suoi moniti. A tal proposito ricordo le

parole di Monsignor Ferrara, intervenuto a Castelmauro per una commemorazione

del poeta, in cui lesse un brano preso da “Viaggio d’Inverno”13, ultima fatica poetica

di Jovine prima della sua scomparsa14. “[…] Ma tu Madonna tendici una mano, /

purchè non apri le porte del cielo / ai Caporali e ai Monsignori / che in Trono fanno

10 “La Sdrenga” – Edizioni Enne – Campobasso- 1989 11 “Lu Pavone” – La cundanna – Pag.30 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983 12 “The Peakock/ The Scraper” Edizioni Peter Lang. Gli scritti di Jovine sono stati tradotti presso la casa newjorkese da LUIGI BONAFFINI nel 1993 13 “Viaggio d’inverno” Edizioni Enne – Campobasso – 1999, pubblicao postumo dal figlio Carlo 14 “Gente alla Balduina” – Edizioni Marsilio – Venezia. Fu pubblicato postumo nel 2005 ad opera del figlio Carlo e raccoglie delle storie di abitanti di Roma, nel quartiere della Balduina, dove il poeta aveva la sua abitazione.

9

banco e in Concistoro / e si fanno il segno della croce / come un rapido giuoco di

prestigio / o un laido passamano sottobanco15”. Monsignor Ferrara gettò via con un

gesto di stizza il libro e poi si lasciò andare ad un profondo ricordo di quell’uomo

capace con la sola forza della parola di abbracciare tutto il mondo, in virtù di quel

desiderio di giustizia che, sin da piccolo, lo aveva spinto a ristabilire l’equilibrio tra

gli uomini, donando un paio di scarpe al suo compagno di giochi che non ne aveva.

Nel 1972 pubblica “La luna e la montagna” una raccolta di racconti che avevano

visto la luce negli anni tra il 1948 e il 1950 e che sono apparsi già su “Paese Sera” nel

1951. Anche qui egli segue la strada dei suoi personaggi, cogliendo i luoghi della sua

terra, imprigionando nei suoi versi le emozioni, i canti, i sapori del suo Molise. Ma il

suo realismo non è lo stesso che aveva animato il Verga o Francesco Jovine, <<la cui

occasionale propensione alla prosa d’arte era una tentazione da evitare>>, come

scriverà il Bonaffini. Jovine vuole l’immediatezza dell’espressione, quella

espressione in cui, sempre secondo il Bonaffini, <<si avverte il sostrato dialettale, il

sapore, la cadenza, la corposità, la vitalità e potenza espressiva del dialetto>>16. Il

linguaggio di Jovine resterà sempre ancorato al contesto sociale in cui opera,

cercando di dare una seria determinazione storica ai suoi racconti ed alle sue ricerche

sul dialetto che non terminano mai. Quando nei capitoli successivi affronteremo

organicamente il problema del dialetto, ci renderemo conto che la koine joviniana

presenta un continuo percorrere nuove strade, una continua ricerca nei calanchi e

nelle crepe della sua regione. Prendiamo ad esempio “L’alluvione”: Jovine non si 15 “Viaggio d’inverno” - Il narratore ambulante – Pag.48 – Edizioni Enne – Campobasso- 1999 16 LUIGI BONAFFINI - “Premio Nazioale di Poesia Giuseppe Jovine” - Pag.87 – Edizioni Enne - 2000

10

perde dinanzi ad una situazione drammatica, ma cerca di cogliere non solo la crisi del

momento, ma anche di stabilire un rapporto tra realtà narrativa e realtà storica in

modo che poi il lettore sia in grado non solo di riconoscerlo ma anche di accettarlo

come realmente accaduto. Non sono gli argomenti più sensibili come la guerra,

l’omosessualità, il fratricidio a mettergli un freno in quanto essi rappresentano il

mondo reale dei suoi racconti. In questo possiamo affermare che Jovine è più realista

di Verga e dell’autore de “Le terre del sacramento”17.

Nel 1975 vede la stampa la sua prima opera in lingua “Tra il Biferno e la Moscova”

con una raccolta di poesie scritte tra il 1950 e il 1960 in cui egli prende le distanze

dalle posizioni dominanti degli ermetici e della neo-avanguardia dando alla luce un

libro con un diffuso condizionamento letterario, suo primo omaggio alla poetica

dannunziana che proprio le correnti letterarie del periodo volevano mettere in

secondo piano. Reiterazioni anaforiche e lunghi cataloghi di immagini immergono

Jovine dentro la poetica del vate abruzzese, pur mantenendo chiara la sua missione di

rendere protagonista delle sue poesia la gente normale, come accade in “Suor

Bianca”18

Io busso ogni mattina ad una porta

di fronte al tuo convento, in una via…

in Via, ahimè, delle Botteghe Oscure.

per voi, per voi, sorelle castigate

17 Cfr Francesco Jovine 18 “Tra il Biferno e la Moscova” - Cartia Editore – Roma 1975

11

quella porta è la porta dell’inferno!

Jovine si riferisce in questo passo alla sede centrale del partito comunista che viene

visto dalle monache come la porta dell’inferno; ma proseguendo nella poesia egli

quasi sussurra <<Suor Bianca, orsù, prendiamoci per mano>>19, chiaro segnale di una

possibile riconciliazione tra l’ideologia cristiana e la filosofia marxista. Questa

raccolta di poesie è di certo anche un impegno sociale per il poeta molisano che cerca

non solo di preservare le classi meno abbienti dalle grinfie degli industriali in uno

slancio di autentico comunismo:

Vampiri d’Italia

se avete sete

andate a bere il sangue ai petrolieri

che comprano i Ministri a peso d’oro,

ma non bevete il sangue proletario.20

continuando poi a difende la sua molisanità confrontandola con quella di un altro

Castelmaurese illustre, Padre Giovanni Boccardi, astronomo di indubbia fama:

[…] Alfa Andromeda resta quindici ore

sull’orizzonte prima di svanire,

ma non sai dirmi quanto resta il sole

sul balconcino ove le notti insonni

contemplavi le stelle ad occhio nudo […]

19 “Tra il Biferno e la Moscova” - Suor Bianca – Pag.69 - Cartia Editori – Roma - 1975 20 “Tra il Biferno e la Moscova”- Brescia '74- Pag. 139 Cartia Editori – Roma - 1975

12

[…] Sai quanto pesa Marte e quanto Giove

ma sai tu dirmi il peso degli affanni

che opprime la tua gente di Borrana21?

[…] Nell’equinozio d’autunno la luna

dall’equatore celeste, tu dici,

dista all’ingrosso cento ottanta gradi,

ma quanto dista il cuore di un barone

dalla pelle rugosa di un cafone?

[…] Oh! L’oro delle lampade dei vichi

del tuo paese antico abbandonato

l’hai ritrovato in qualche via del cielo?22

Jovine è deluso dal comportamento del suo concittadino che tempo prima aveva

scelto il Piemonte per dimora e, nonostante i tributi della sua terra, si era rifiutato di

rimettere piede in Castelmauro. L’ultima strofa è una richiesta autentica da parte di

Jovine che non ha mai smesso di correre alle antiche sorgenti, a percorrere gli antichi

sentieri, a considerare come sua la terra in cui aveva avuto i natali. Ma in ogni passo

di questa poesia il tema non riguarda tanto l’emigrazione del Padre e la sua volontà di

non far ritorno al suo paese, ma quello di rinnegare le proprie origini, ritenendo di

essere superiore per il solo fatto di vivere a Torino. Jovine si sente grande perché

grande è l’aiuto che riceve dalla sua terra: senza i personaggi infimi di cui tratta,

senza i sentieri e gli odori da raccontare della sua terra egli non sarebbe nessuno. 21 Jovine si riferisce al vecchio nome di Castelmauro che ai tempi dei duchi di Canzano, era denominato Castelluccio Acqua Borrana 22 “Tra il Biferno e la Moscova” - Alfa Andromeda - Pag.89 – Cartia Edizioni – Roma - 1975

13

Ecco perché tutta la produzione joviniana è un incessante ringraziamento alla sua

terra.

Nel 1979 vede la luce “Benedetti Molisani” un saggio, come detto, sulle condizioni

del Mezzogiorno d’Italia, e sulla sua regione in particolare, che egli definisce “Il

Mezzogiorno del Mezzogiorno”. Sin dalla nota introduttiva Jovine si esprime in un

linguaggio diretto e deciso, teso certamente a far comprendere come la comprensione

della sua fatica si possa avere solo guardando al problema di fondo nella giusta

prospettiva. Stilisticamente questa prosa ha una difficoltà interpretativa per il

semplice fatto che alla fine si presenta come un insieme di appunti scritti in momenti

disparati e riuniti poi per dargli forma di saggio. Ciò che Jovine vuole dare è un

messaggio chiaro e veritiero sulla condizione dei molisani ai quali però non rivolge

solo parole di conforto ma anche frecciatine taglienti come quando li paragona al

Biferno << … I molisani sono come il loro fiume, il Biferno, che scorre talmente

lentamente, che sembra non arrivi mai al mare”23>>. Egli affronta sempre situazioni

di carattere sociale e politico, insistendo sul fatto che i molisani devono essere i primi

a volere una rinascita, distaccandosi dalla loro tradizionale propensione a farsi

sfruttare. Un richiamo duro anche ai galantuomini e alle sfere clericali, ai proprietari

terrieri che ostacolano la civilizzazione del territorio. Ricordiamoci che ci troviamo

nel 1979 e la popolazione del sud Italia è in massima parte analfabeta. Ed è proprio la

mancanza di cultura e di storia che pone il Molise in una condizione di inferiorità

dinanzi alle grandi problematiche dello stato. Basti pensare che tuttora la Bifernina,

23 “Benedetti Molisani” - Pag.62 - Edizioni Enne – Campobasso - 1979

14

arteria principale della viabilità bassomolisana, presenta delle notevoli carenze di cui

Jovine parlava nel lontano 1973 in occasione di un viaggio affrontato insieme con

Tommaso Fiore24; sin da allora Jovine aveva chiesto maggiore celerità per dare anche

all’area bassomolisana una strada percorribile. Non manca poi di omaggiare la

tradizione narrativa molisana prendendo in esame scrittori come Francesco Jovine,

Lina Pietravalle, Sabino D’Acunto, Vincenzo Rossi, Franco Ciampitti, Felice del

Vecchio e Giose Rimanelli.

Nel 1990 infine vede la luce la raccolta di racconti anonimi molisani “La sdrenga”25,

una serie di storielle, con sfondo piccante, che gli anziani raccontavano dinanzi ai

fuochi accesi e che il nostro raccoglie con meticolosa cura e li trasforma in

quotidianità. Alcuni di questi racconti hanno come protagonisti anche delle persone

reali, alcune delle quali ancora in vita nel piccolo borgo.

Nel 1992 invece vede la luce “Chissà se passa u Patraterne” ossia la traduzione in

dialetto molisano di Orazio, Marziale e Montale per riproporre <<in chiave

sperimentale la fondamentale universalità dell’esperienza umana>>26.

Ultima fatica è un opuscolo intitolato “Fascismo ed antifascismo alla luce degli

accadimenti e delle componenti culturali nazionali e regionali”, composto nel 1995,

una analisi sulle contraddizioni delle diverse categorie sociali presenti nel territorio

molisano.

24 “Benedetti Molisani” - Viaggio nel Molise con Tommaso Fiore (1973) – Pag. 39– Edizioni Enne- Campobasso - 1979 25 Sdrenga è termine dialettale molisano che indica il raschietto, ma nel nostro caso indica metaforicamente il membro maschile. 26 LUIGI BONAFFINI - “Premio Nazionale di poesia Giuseppe Jovine” - Pag.94 - Edizioni Enne- Campoabasso - 2000

15

Prima di chiudere questo breve cenno sulla sua vita, ricordiamo la sua scesa diretta in

politica nel 1979 quando si candidò prima alla regione e poi alla Camera, ed i suoi

insistenti viaggi all’estero come conferenziere. Molto importante fu per lui la figura

di Tommaso Fiore, che lo fece interessare alla precaria condizione dei suoi

corregionali. Membro del direttivo del Sindacato Nazionale Scrittori nel 1998 si fa

promotore della fondazione dell’Unione omonima. Jovine muore improvvisamente

all’età di 76 anni il 29 Agosto del 1998 nella sua casa di Castelmauro; da poche ore

era rientrato da Roma.

Nel 1999 ad opera del figlio Carlo vede la luce l’ultima raccolta in lingua “Viaggio

d’inverno”, che comprende poesie scritte tra il 1975 e il 1998; mentre sempre per

opera del figlio nel 2005 esce “Gente alla Balduina” , un ritratto simpatico di alcuni

conoscenti che abitavano, insieme a lui, nell’omonimo quartiere romano.

16

CAPITOLO 2

Jovine e la religione

Madonna, Tu ritorni al nostro villaggio dal convento che veglia i nostri

morti, quando le quaglie volano tra gli orzi,

e tutti tornano a Borrana.

Tornano i vivi e tornano i morti e i vivi e i morti ti fanno da scorta

tra suoni di trombe e luci di bengala.

Ecco nostra Madonna di Borrana torniamo alla poesia della capanna,

dopo l’orgia dei folli grattacieli, delle cupole pari alle colline

e il suon delle sirene scorderemo,

ci sveglieremo all’alba al suon delle campane, ogni morte e ogni nascita

udremo salutare da un rintocco,

qui sarà dolce vivere e morire.

Sulle montagne e i boschi d’abete il legno prenderemo per le bare,

e nelle valli il vino per la messa,

porteremo il grano nei sepolcri,

il farro, l’uva, il miele in processione

e dinanzi all’altare Madonna

ascolterai la voce di coloro che si portano dentro pel mondo il tuo paese.

Oggi la nostra patria è questa valle,

all’ombra dell’antico campanile.

17

Qui resteremo Madonna appagati

lucideremo il rame sulle soglie con la rena gialla ed il sambuco,

l’appenderemo alle pareti per chiamare il sole nelle stanze.

E quando sarà venuta l’ora nostra,

se udienza ci darai e perdonanza

Madonna, col Tuo nome sulle labbra

e negli occhi il colore azzurrino del Tuo manto

al Tuo soglio verremo col nostro corpo pieno di cicatrici e lividure

ma Ti rendiamo l’anima pulita

come un’acqua bianca di sorgiva. 27

Solo chi nasce a Castelmauro sa cosa significa avere amore per la Madonna della

Salute, che tutti gli anni si festeggia dal 7 al 10 di settembre. È questo il regalo più

grande che jovine fa alla sua terra, scoprendo il suo amore per la Vergine della Salute

che richiama al suo santuario tutti i figli che sono sparsi per il mondo. Ed ancora

torna il tema della morte che sembra essere legato al nostro poeta con un filo doppio,

ed anche i morti che sorvegliano la sua dimora nel santuario accanto al cimitero, egli

li sente lasciare le loro dimore eterne per seguire la fiaccolata chilometrica che la sera

del sette settembre accompagna la statua alla chiesa madre di San Leonardo

Confessore. Abbandonare per quei pochi giorni tutto ciò che la vita ci offre per

perdersi in un crogiuolo di emozioni che non si possono trovare altrove, quando si

rivedono a Castelamuro un nugolo di emigrati provenienti dai più disparati paesi.

27 Dalla poesia Il canto dell’emigrante inserita nella raccolta “Tra il Biferno e la Moscova” ma che è giunta nelle mani dei suoi lettori castelmauresi singolarmente, ultimo regalo del poeta prima di morire.

18

“Qui sarà dolce vivere e morire” ed ancora “ Sulle montagne e nei boschi d’abete il

legno prenderemo per le bare” fa pensare alla morte come un qualcosa che ci

appartenga da sempre. Il comunista Jovine crede nella Vergine della Salute, la madre

di tutti i castelmauresi: una preghiera che solo un cuore profondo poteva far partorire.

Una immagine dei tempi della sua infanzia, quando si lucidavano le suppellettili di

rame e si appendevano ai muri in punti precisi per permettere loro di carpire la luce

del sole che entrava dalla porta o dalle piccole finestre. “[…] ogni nascita ed ogni

morte udremo salutare da un rintocco […]” un ritorno all’antico che riprende lo

scandire del tempo da parte delle campane che ricordano a coloro che lavorano nei

campi la presenza di Cristo nella loro vita. “Prenderemo […] nelle valli il vino per la

messa” è una chiaro richiamo alle funzioni religiose alle quali lui partecipava in

silenzio nel profondo del suo cuore. E poi la preghiera finale in cui rimette il suo

spirito nelle mani della Vergine chiedendo perdono per le sue colpe, e la sua colpa

più grande è forse quella di averla amata sempre in silenzio.

E’ un rapporto particolare quello che lega Jovine alla religione: un rapporto

turbolento nei confronti delle istituzioni. Non siamo dinanzi ad un poeta di occasione,

ma dinanzi ad un artista che accoglie nel suo animo le emozioni e le sensazioni più

profonde per trasformarle poi in versi sempre incisivi e mai banali. Ecco perché le

sue sentenze fanno si del male, mettono in crisi i loro destinatari, ma hanno anche il

merito di portarli a riflettere sulle parole. La sua invettiva non si smentisce nemmeno

quando si tratta di tirare in ballo il Santo Padre, non tanto per remore nei suoi

confronti, ma solo per mettere in evidenza il grado di lascivia che c’era, ai suoi tempi,

19

all’interno delle istituzioni ecclesiastiche: “[…] o del papa belante alla finestra/ che

lancia gli anatemi e froda il fisco,/ orologio a cucù lubrificato/ con l’olio santo e

l’olio della Cia, / che segna l’ora dell’apocalisse / per le turbe reiette di Cafarnao/ e

dell’ingrasso per i Farisei […]28. Una critica che, usando il linguaggio dialettale,

sembra essere ancora più pungente:

A ventequattrore

la chiesa de Santa Lunarde

pareia nu castielle affatturate.

[…] <<Arrescente le diavule na chiesa!

Tienne le pide tunne coma palle>>.

Diceiene a chell’ora nu paiese

le guagliune che l’uocchie speretate.

Iè m’acciuccave

e pe la scetta de la Porta Santa

vedeie nu zeffunne scure scure

coma ffunne de cutture.

Iè ma penzave

ca na chiesa ce stevene le Sante

E lla vucella arrachita arrachita:

<<Zitte zitte, nen parlà,

lu iurne ce stanne le Sante

28 “Tra il Biferno e la Moscova” – Mosca – Pag.133 - Cartia Editori – Roma - 1975

20

e la notte ce ballene le diavule>>29.

(A ventiquattore/ la chiesa di San Leonardo / pareva un castello incantato. /[…]

<<Appaiono i diavoli in chiesa!/ Hanno i piedi tondi come palle>>. / dicevano a

quell’ora nel paese / i ragazzi con gli occhi spiritati. / Io mi chinavo e attraverso la

crepa della Porta Santa / vedevo un vuoto scuro scuro / come il fondo di un caldaio. /

Io pensavo / che nella chiesa ci stessero i Santi / e quella vocetta arrochita arrochita: /

<<Zitto zitto, non parlare, / il giorno ci stanno i Santi / e di notte ci ballano i

Diavoli>>.) Non ci troviamo dinanzi ad un ateo che non ha rispetto per la religione o

per coloro che ad essa credono: siamo dinanzi ad un uomo che avverte la presenza

dell’Eterno a suo modo, non legato necessariamente a quelle credenze popolari che

hanno accompagnato gli uomini per secoli. La sua verve si acuisce in un passo de “La

sdrenga”. Protagonista è un tale Cianè che si era recato in ospedale per chiedergli di

accorciargli il membro. Anestetizzato i dottori si interrogano su quanti centimetri

debbano tagliare e non riuscendo a trovare un accordo mandano a chiamare una

monaca, suor Teresa, cugina del paziente.

<<Suor Teresa!… Ch’emma fa?.

Suor Teresa cannaliatte lu sagnule de Cianè, ze mettette le mane

‘nnante’all’uocchie e arespunnette. “Le canosche le canosche llu sagnule!… E’

nu peccate assemà tanta grazia de Ddie!”.

“ E allora ch’emma fa? – Decette lu miedeche cchiù giovene.

29 “Lu Pavone” - Le diavule na’ chiesa – Pag.133 - Edizioni Enne – Campobasso - 1983

21

Suor Teresa arecannaliatte llu sagnule, tamendette lu miedeche e sbuttatte:

“Allungateglie le cosse e lu cippe z’aretire”30

(“Suor Teresa!… Che dobbiamo fare?” Suor Teresa guardò il sagnuolo di Cianè, si

mise le mani innanzi agli occhi e rispose: “Lo conosco lo conosco quel sagnuolo!…

E’ un peccato accorciare tanta grazia di Dio!”. “ E allora che dobbiamo fare?” – disse

il medico più giovane. Suor Teresa tornò a guardare il sagnuolo, guardò il medico e

sbottò: “Allungategli le gambe e il cippo (membro) si ritira”. ).

Jovine non perde la sua arguzia nemmeno quando si tratta di modellare alcuni

racconti che forse aveva sentito nelle piazze, o addirittura da bambino dalle numerose

persone che lavoravano a palazzo. E magari ha anche conosciuto personalmente i

personaggi in questione. E non è un dettaglio insignificante per un poeta realista

autentico come lui, quello di poter verificare direttamente le sue storie. Jovine

trascorreva nella piazza del paese e tra i campi tantissime ore, a parlare con contadini

e perdigiorno. Passava il tempo nelle osterie e si fermava a parlare con chiunque.

La formazione religiosa di Jovine nasce da radici profonde, da lui mai rinnegate in

vita, ma mai espresse chiaramente per via di quella concezione politica dapprima

socialista e poi comunista che aveva nell’ateismo un caposaldo essenziale. Ed allora

lo Jovine uomo affida la sua voglia di eternità allo Jovine poeta, che resta lontano dai

legami convenzionali, e può esprimere senza veli il suo stato d’animo. Lontano dai

giochi di potere, il poeta riesce ad esprimere tutto se stesso, lasciando a quei fogli

bianchi il compito di imprimere nel tempo il suo pensiero. Ho già accennato alla

30 “La sdrenga” - L’uprazione – Pag.47 - Edizioni Enne – Campobasso - 1989

22

poesia “Il narratore ambulante”31, dedicata allo “scianachì” Pierluigi Giorgio32, in cui

chiede alla Vergine di non precludere ai poveri diavoli le porte del Paradiso. È facile

vedere in questo passo uno Jovine comunista, ma ad ogni modo la sua richiesta di

aiuto la rivolge alla Vergine. Il rapporto con la religione per Jovine diventa un dare

ed avere, una sorta di baratto che il Padreterno dona agli uomini per condurre la

propria vita secondo il libero arbitrio:

Cianè teneia la bboggia.

Ze ne menia da Foggia,

na vesazza vine e pane,

pe ‘na grazie a Caburrane.

‘Na matine da la loggia,

a vvedè Santa Lurenze,

ze palpatte la crescenza.

<<Patrannostre o prucessione>>.

Ie decette nu preitone.

<<Nce sta grazie pè le bbogge;

Cianè ce vo pacienza,

che ppò fa Santa Lurenze

se nen vò lu Capaddozie?

Pure d’aventre’a le sciamme d’infirne 31 Cfr nota numero 15 32 Pierluigi Giorgio era lo schianachì del Molise, ossia il cantastorie. Letteralmente scianachì vuol dire “colui che sa le cose”.

23

Cianè, chi tarde arriva male alloggia>>.

Cianè scacchiatte l’uocchie e pù sputatte:

<<Ma nen ce sta nu ccone de cuscienza?

Che z’è fatte nu mamuozie

loch’a llà lu Patraterne?

Ioca a palle che le bbogge?

Allora chille c’aveme arrenneme.

Vù sapè, ne ll’aie che ttè, Santa Lurenze,

ndo ce sta guste nen ce sta perdenza>>.

E sparatte ‘na crona de gasteme

ca cirte le sentettere a Celenza.

<<Quisse è lu patrannostre de le scigne!>>.

Alluccatte ‘llu preitone.

<<Criste chiagne e lu diavule aregregna>>.

Cianè scacchiatte l’uocchie e aresputatte:

<<E che chiagnesse! Senza ruspe ‘ncurpe

me sente ligge coma ‘n’ostia santa.

Tu vvù sapè, fatte lu tante e quante

iè meglie a iesse diavule ca sante>>33.

33 “Lu Pavone” – Lu patrannostre de le scigne – Pag.101 - Edizioni Enne – Campobasso 1983

24

(Cianè teneva l’ernia./ Si metteva in cammino da Foggia/ in bisaccia pane e vino,/ per

una grazia a Caborrana./ Una mattina dalla loggia, / nel vedere Santo Lorenzo, / si

palpò la sua crescenza./ <<Paternostro o processione>>. / gli disse un grosso prete/

<<Non c’è grazia per le bogge (l’ernia), / Cianè ci vuole pazienza, / che può fare San

Lorenzo / se non vuole il capobanda (Dio)?/ Pure dentro le fiamme dell’inferno /

Cianè, chi tardi arriva male alloggia>>. / Cianè sbarrò gli occhi e poi sputò: /<< Ma

non c’è un poco di coscienza? / Che s’è fatto, un ragazzino / nell’al di là il

Padreterno? / Gioca a palle con le bogge? / Allora quello che abbiamo rendiamo; /

vuoi sapere, non l’ho con te, Santo Lorenzo, / dove c’è gusto non c’è perdenza>>. / e

sparò una tal corona di bestemmie / che certi lo sentirono a Celenza/ <<E questo è il

paternostro delle scimmie>> / - gridò quel grosso prete - / <<Cristo piange e il

diavolo digrigna>>. / Cianè sbarrò gli occhi e risputò. / << E che piangesse! Senza

rospi in corpo / mi sento leggero come un’ostia santa. / Tu vuoi sapere, fatto il tanto e

quanto / è meglio essere diavolo che santo>>). Come sempre accade con Jovine, il

linguaggio dialettale rende tutto più acuto, più vivo, più umano. Così il gioco che lui

sostiene con la religione si veste a volte di situazioni grottesche ed ogni pretesto da

occasione di mettere a nudo i propri pensieri. Nella poesia precedente lo spunto viene

dato da un’ernia. Il protagonista, Cianè, cerca una grazia per risolvere il suo malanno

e chiede aiuto a San Lorenzo. Un prete gli dice che non è colpa di San Lorenzo “ che

po’ fa Santa Lurenze se nen vo lu Capaddozie?” Dio governa ogni cosa e questo

Jovine inconsciamente lo sa, ma si domanda il perché a volte Dio resta in silenzio

dinanzi ad un richiesta così semplice come il far guarire da un’ernia. E jovine cosa

25

fa? Non chiama in ballo la Provvidenza, o il disegno divino, ma immagina il

Padreterno tornato fanciullo: “Che z’è fatte nu mamuozie, loch’a lla lu Patraterne?

Ioca a palle che le bbogge?” L’arguzia del poeta non è mai banale ed unita alla sua

fervida fantasia riesce ad elaborare delle storie in cui la vena polemica dell’uomo

politico si fonde con le sue radici popolari. Tutto quello che Jovine dice nella sua

poesia sembra però essere in preparazione della frase finale. “Tu vu sapè, fatte lu

tante e quante, iè meglie a iesse diavule ca sante”. Sarebbe errato voler scovare nella

sua chiusa finale uno scarica barile da parte del nostro, che andrebbe a scegliere la

strada più breve e comoda. Per lui la situazione è identica: per guadagnarsi un posto

in Paradiso si deve fare molta fatica (secondo una concezione cristiana) e lo stesso

vale anche per l’inferno “Pure daventr’a le sciamme d’infirne Cianè, chi tarde arriva

male alloggia”. Non siamo dinanzi ad un Don Giovanni novecentesco che non crede

ne al Cielo ne all’Inferno, come direbbe Sganarello34 del suo padrone. Jovine infatti

crede nell’eterno, nel sovrannaturale. Diciamo anche che crede in Dio, ma non in

quel Dio, direbbe lui <<castigamatti>> creatosi con le credenze medievali, ma come

la parte di assoluto che ognuno ha dentro di se. Come detto il suo è un modo di fare

burlesco, grottesco anzi, e lo si evince già dal titolo che egli sceglie per questa poesia

“Lu patrannostre de le scigne” (Il paternostro delle scimmie) volendo alludere ad una

bestemmia.

34 Sganarello è il servo di Don Giovanni nell’omonima opera di Moliere. Parlando con il servo di Donna Elvira, egli presenta il suo padrone come uno che non ha rispetto ne per il cielo ne per la terra.

26

Il contrasto tra il credere e non credere raggiunge così l’apice in un altro

componimento dialettale, un ricordo turbolento dei suoi genitori, un sogno affannoso

di ogni notte in cui lui vede le loro figure, o le loro anime, sbiadite:

[…] Ie vulesse arefà la facce e ll’uocchie

gn’a ddù pupazze spierte a ‘nu curnicchie

o ddù sante scurdate ‘nda ‘na nicchia,

ma me ze squaglie la creta e me lasse

le mane senza sanghe e ragnecose

ca vularrie struzzà lu Padraterne

o pregà gna nu pazze pe sapè

che gghie che gghie stu gliommere ‘mbrugliate,

‘sta matasse d’ardiche de lu munne.35

([…] Vorrei rifargli la faccia e gli occhi / come a due pupazzi sperduti in un

cantuccio / o due santi dimenticati in una nicchia/ ma la creta mi si squaglia e mi

lascia / le mani esangui e rattrappite / sicché vorrei strozzare il Padreterno / o pregarlo

come un pazzo per sapere / che cos’è che cos’è questo gomitolo arruffato / questa

matassa d’ortiche che è la vita). Nei confronti del grande mistero della vita e della

morte Jovine non compie una scelta, ma resta quasi a guardare impotente ciò che Dio,

35 “Lu Pavone” – Ogne notte –Pag.67 - Edizioni Enne – Campobasso 1983

27

o semplicemente il caso, hanno scelto per noi. Quello che colpisce di Jovine è <<il

suo pensare per immagini… lo snodarsi dei sentimenti>>36.

Il carattere tipicamente burlesco e popolare lo ritroviamo in un racconto de “La

Sdrenga” dal titolo “Preiete e sacrastane”37. Il cafone Cola dice a Michele il

sagrestano che il prete, Don Felice, è stato visto uscire dal pagliaio dove era entrata la

moglie. Dapprima egli cerca di denigrare il suo avversario : “Don felice è n’ome? E

cchiu brutte de lu diavule sott’a San Michele (Don Felice è un uomo? E’ più brutto

del diavolo che sta sotto a San Michele); poi decide di vendicarsi rubando al prete un

maiale. Don Felice si adira per il maiale scomparso e confessa tutto il paese per

trovare il colpevole, che però non viene trovato. La burla, che tende a smascherare i

vizi di qualsiasi uomo, nasce quando Don Felice si accorge che l’unico a non essersi

confessato è proprio il suo sagrestano e lo invita a farlo.

A ventunora Michele steia ‘ngenucchiate annant’a rattacasce ‘mbaccia a Don Felice.

“Dimme la veretà, Miche! . facette Don felice - […] M’i frecate lu purcille?”

“Che ddice Don Felì!”

“Si ssurde?… M’i frecate lu purcille?”

“Nze sente niente Don Felì”

“e vva bbune!… Faceme a cagna puste” – decette Don Felice – “Ie da fore e tu

daventre.”

36 LUIGI VOLPICELLI – Alcuni giudizi della critica, su “Lu Pavone - Edizioni Enne – Campobasso 1983 37 “La Sdrenga” - Preiete e sacrastane –Pag.69 - Edizioni Enne – Campobasso 1989

28

Michele z’assettatte arret’a rattacascee e ze decette : <<Michè! Nu luche de

cumbessone pure se pungeche lu preiete t’i raggione>> e addumannatte a Don Felice:

“Don Felì! Me le frecate tu mugliereme?”

“Hi raggine tu Michè! “ – arespunnette Don Felice – “Nze sente niente! Pruprie

niente!”.

(A ventunora Michele stava inginocchiato dinanzi alla grata del confessionale, di

fronte a Don Felice. “Dimmi la verità Michele!” – fece Don Felice – […] M’hai

rubato tu il maiale?”. “Che dici Don Felice?” . “Sei sordo?… M’hai rubato il

maiale?” . “Non si sente niente Don Felice!” . “E va bene!…Cambiamo posto” –

disse Don Felice - !Io di fuori e tu di dentro!” . Michele si sedette dietro la gratella e

si disse <<Miche! In confessione pure se dici male del prete hai ragione>> e chiese a

Don Felice “Don Felice! Me l’hai rubata tu mia moglie?” . “Hai ragione tu Michele!”

– rispose Don Felice – “Non si sente niente. Proprio niente)”. Jovine utilizza il gioco

per rivisitare alcuni racconti popolari che nascondono sempre un fondo di verità. Il

suo intento però non è solo quello di mettere a nudo le debolezze di un prete, o come

nel caso di Suor Teresa, di una suora, per innescare una invettiva, ma proprio per far

comprendere a coloro che egli identifica nel passo de “Il cantastorie” come <<i

monsignori>> che la natura umana è debole. Sono loro che devono comprendere che

ogni uomo, e loro sono uomini, possono commettere degli errori: la religione non

deve opprimere la povera gente lasciando correre i peccati di coloro che la religione

la rappresentano. Jovine vuole che venga lasciata da parte della chiesa e delle sue

29

istituzioni ad ogni uomo l’autonomia di vivere la propria religione, in maniera

personale. Ossia, ciò che egli ha fatto sin dall’infanzia.

30

CAPITOLO 3

Un tema ricorrente: la morte.

“La morte nen z’accorde che l’argiente; la morte paghe tutte le cambiale” Giuseppe Jovine

Per comprende il valore che Jovine da alla morte, riprendo la frase che lui mi disse

qualche anno fa: “Ti accorgi degli anni che passano quando inizi a salutare più gente

tra i morti che tra i vivi”. Per Jovine la morte è la meta finale dello scorrere del

tempo, è il traguardo che ci viene assegnato al momento della nascita e verso cui

dobbiamo correre. Ecco perché Jovine vive la morte intendendola come parte

essenziale ed integrante della vita.

Le poesie che Jovine dedica a questo tema sono numerose: la morte come meta finale

dell’esistenza, come premio per l’esistenza. La morte è anche l’imput dei ricordi: gli

affetti più cari, gli amici fraterni che non ci sono più. E come sempre accade con le

sue poesie, sono i componimenti dialettali a rendere al meglio il suo pensiero. Ciò

che è legato profondamente alla morte è la concezione del tempo:

E’ Ventunora!

Lu sole stenne la mureia

attira attira per lu vosche.

‘Na casarella a mezza costa

31

sente e guarda e nen ze move,

come pell’aria passasse ‘nu murte.

E nu murte passa:

passa lu tiempe!38

(E’ ventunora! / Il sole stende l’ombra / lungo tutto il bosco./ Una casetta a mezza

costa / sente e guarda e non si muove, / come se per l’aria passasse un morto. / Ed un

morto passa: / passa il tempo!). Il tempo che passa è paragonato alla morte per via del

silenzio osservato da tutto ciò che la circonda. Da qui deve partire lo studio della

morte nel panorama joviniano. Dall’idea del tempo. Si è detto: Jovine intende la

morte come il traguardo finale della vita. La vita, nel suo insieme di emozioni e

sfaccettature, altro non è che uno scorrere di tempo. Così il legame tra la vita e la

morte diviene il ricordo ricorrente per la figura dei suoi cari, di amici o di semplici

conoscenti che hanno lasciato una traccia nella sua esistenza.

La vita sempe za rennova.

E’ muorte tata

e iè penze a la giacchetta nova

che mmeia mette mo’ che vvè l’estate39.

38 “Lu Pavone” – Ventunora –Pag.36 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 39 “Lu Pavone” – La vita – Pag.50 - Edizioni Enne – Campobasso 1983

32

(La vita sempre si rinnova. / E’ morto mio padre / e io penso alla giacchetta nuova /

che devo mettermi adesso che viene l’estate).

Non è indifferenza al dolore che vuole esprimere qui il poeta, ma è la coscienza di

essere dinanzi ad un destino ineluttabile, che in quanto uomini ci appartiene. Jovine

ha un rispetto profondo per la morte e per i morti. Vi sono altre due poesie, una in

lingua e l’altra in vernacolo, che fanno notare come sia sì aspro, ma anche sincero,

questo suo rispetto:

Nuvimbre!

Negghia e fridde apprisse!

Castagne e grane allisse!

<<Cuocce de murte>> appise

a lume de cannele

ze guardene nu viche a porta a porta.

Ze rire e ze pazzeia che la muorte40.

(Novembre! / Nebbia e freddo appresso! / Castagne e grano lesso! / <<Teste di

morto41>> appese / a lume di candele / si guardano nel vico a porta a porta. / Si ride e

si scherza con la morte).

Qui il tono di Jovine è sereno, quasi scherzoso: ma è l’ultima frase che deve portarci

a riflettere. Vi sono occasioni in cui si può anche scherzare con la morte, ma non si 40 “Lu Pavone” – Nuvimbre –Pag.63 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 41 La tradizione di halloween è radicata anche in Molise, quando la notte tra il 1° e il 2 Novembre i ragazzini vanno in giro per le case portandosi dietro una zucca incavata e riempita con delle candele accese.

33

deve mai eccedere. A volta sembra quasi che il nostro si rivolga ad essa come ad una

sorella o ad una persona che non sa come comportarsi.

[…] e tu morte non t’avvedi

che cio che tocchi strenuamente vive

e fai dolce ed ingannevole la vita […]42.

Un fare rispettoso ovviamente, quasi a ricordare ad essa che comunque la sua

funzione è crudele e mal sopportata dagli uomini. Così quando egli diventa nonno ed

accoglie nel suo cuore l’affetto del piccolo Riccardo, scrive per lui una serie di

consigli da tenere a mente, dove il cammino della vita che conduce necessariamente

alla morte viene messo in risalto in maniera pacata e con molta discrezione.

[…] E se tempo verrà che avrai più amici

tra i morti che tra i vivi, fai che il cuore

batta sempre tenace come un maglio.

E se allo specchio scoprirai le rughe

per la scalata raddoppia lo slancio […].

[…] e con fili di seta, rame e acciaio

trama la vita ed inventala ogni giorno,

addentala vorace la tua vita

42 “Viaggio d’inverno” - Due novembre – Pag.66 -Edizioni Enne –Campobasso 1999

34

come la tigre addenta la gazzella

e guarda il sole anche se l’aria è scura […].

[…] Si dice nella terra dei Frentani:

la morte non s’accorda con l’argento,

la morte paga tutte le cambiali […].

[…] Ma forse anche tu dirai

come i bifolchi della frentania,

la muorte è ‘na pazziella de quatrare.

(La morte è un gioco da bambini)43.

Sembra a volte che Jovine quasi invochi la morte, che la cerchi, che ne avverta la

mancanza al suo fianco:

Sono stanco di dipingermi.

La tavolozza gremita di tinte

non ha il colore del tocco finale44.

È in questa poesia intitolata Il tocco finale che Jovine ammette la superiorità della

morte sulla vita. Il colore che manca è il nero della morte, e manca perché solo questa

sa quando viene l’ora di dare il tocco finale. È una superiorità che non viene mai

messa in discussione dal poeta, ma qui per la prima volta Jovine veste la morte dei sui

43 “Viaggio d’inverno” – Consigli al nipotino Riccardo – Pag.35 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 44 “Viaggio d’inverno” – Il tocco finale – Pag.63 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

35

veri abiti. La morte si fa attendere: si fa attendere per portare con se l’anima nell’al di

là, nell’eterno. Jovine è ateo, lo abbiamo ribadito più volte, ma il senso dell’eterno in

lui è molto sentito, ed è sempre il filo dei ricordi il saldo legame tra la vita e la morte.

Mio nonno fumava la pipa di coccio,

io fumo la pipa di coccio,

figlio!

Fuma la pipa di coccio.

Questo gesto

segna il sentiero dell’eterno45.

Il sentiero dell’eterno! Il lungo sentiero dove, dopo la morte, ognuno di noi ritrova

quello che ha perso nel passaggio finale dalla vita. La pipa è il ricordo tangibile del

legame tra nonno e nipote che si tramanderà di generazione in generazione.

Saranno poi molti i componimenti che riguarderanno gli amici casi, come Marcello

de Notariis, Saverio Trincia, Nino Fratamico, Franco Amicarelli, ma anche persone

comuni, quei bifolchi di frentania che lui incontrava per i borghi e le contrade e che

sono stati l’ingrediente segreto della sua sfrenata fantasia. È sentito e scherzoso il

ricordo di Pasquale Guancione, uno dei tanti personaggi con cui si fermava a parlare

per strada. Egli era noto a Castelmauro col nomignolo di Capparella: un pover’uomo

45 “Viaggio d’inverno” – La pipa di coccio – Pag.93 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

36

che aveva sempre svolto piccoli lavori per le famiglie agiate ricevendo un minimo

compenso per le sue giornate di fatica. Jovine lo consola affermando:

[…] Lu cacciune mocceche a ‘stu munne

sempe a chi te rutte li calzune […]46

([…] Il cane morde a questo mondo / sempre a chi ha rotti i calzoni).

In una sorta di “livella” decurtissiana, egli mette a confronto la morte di un

personaggio importante con il povero Capparella.

Quanne murette Don Cicce,

a lu “libbere me Domine”

ballavene le vrite e le cannele,

lu catafalche pareia nu bastemente;

l’orghene ‘ntrunava

le recchie a le cafune.

[…] lu tavute pareia ‘na casciaforte

mizz’a quattre carbuniere

che la sciabbula e pennacchie

e la campana grossa spandecava

come lu jurne de Sabbete Sante […]47.

46 “Lu Pavone” – Lu murte – Pag.51 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 47 Ibidem

37

(Quando morì Don Ciccio / al “libera me Domine”/ ballavano i vetri e le candele, / il

catafalco pareva un bastimento, / l’organo intronava le orecchie ai cafoni […] La bara

pareva una cassaforte / in mezzo a quattro carabinieri / con la sciabola e il pennacchio

/ e la campana grossa spasimava / come il giorno di Sabato Santo).

Torna poi al suo amico Capparella:

Capparè! Se tu sapisse!…

Mo che lu preiete t’ha cantate

‘ncim’a la chiazza lu requiemmaterne

a abbaiate sule nu cacciune.

Se vedisse lu tavute che t’ha fatte lu cummune!

‘Na cascia, Capparè, de cuntrabbanne […]48.

(Capparella, se tu sapessi!… / Adesso che il prete ti ha cantato / in cima alla piazza il

“requiem aeternam” / ha abbaiato solo un cane. / Se vedessi la bara / che ti ha fatto il

comune! / Una cassa, Capaprella, di contrabbando! ).

48 Ibidem

38

Il contrasto è notevole, ma fortunatamente la morte appiana ogni cosa, dona agli

uomini la medesima dignità, elimina le classi sociali ed opera secondo giustizia non

preferendo i ricchi ai poveri.

Troppa gente hi salutate Capparè,

troppa volte t’hi cacciate lu cappille,

p’ù padrone hi llisciate li muscille.

E vva bbune, chi sci ccise,

si nu mariule, nu chiappe de mbise,

si nu galiote, ‘na crema de fogna,

ma ndò vì nen ce sta nu ticchie de cristiane

ca te vè prisse e t’arrenne lu salute?49

(Troppa gente hai salutato, Capparella, / troppe volte ti sei tolto il cappello, / per il

padrone hai lisciato i gattini . / E va bene, che sia ucciso, / sei un ladro, un farabutto, /

un galeotto, una crema di fogna, / ma dove vai non c’è un pezzo di cristiano / che ti

vien dietro e ti rende il saluto?).

Jovine crede nella giustizia della morte e sa che li anche il suo amico Capparella

verrà rispettato per quello che in realtà è: ossia un uomo. Quanti si sono tolti il

cappello dinanzi a Don Ciccio per rispetto dell’uomo e quanti invece per riverenza

49 Ibidem

39

alla sua posizione sociale? Qui sta la vittoria del povero nei confronti del ricco: con la

morte, quando tutti diventano uguali, con l’eliminazione delle classi sociali il povero

non farà fatica a stare insieme al ricco, mentre per il ricco sarà un tormento stare

insieme al povero:

Perciò stamme a sentì nun fa u restive.

Suppuorteme vicine che t’emporte:

sti pagliacciate e ffanne sule e vive,

nuje simme serie, appartenimm’a morte.50.

Possiamo così concludere che per Jovine la morte comporta necessariamente

un’attesa:

Nella sala dei miei avi

sul grande tavolo di quercia

mio padre nella bara

in marsina di vigogna!

Così morire, al canto delle rondini una sera,

adagiato nella bara

sul grande tavolo di quercia

50 (Per questo stammi a sentire, non fare il restio, sopportami vicino, cosa t’importa ormai: queste pagliacciate le fanno solo i vivi, noi siamo seri, apparteniamo alla morte) è questa la strofa conclusiva della Livella di Antonio de Curstis, in cui due anime, quella del Marhcese di Belluno e del netturbino Gennaro Esposito si ritrovano vicini con le loro bare. Il Marchese si sdegna di avere un vicino che non è del suo rango, ma il netturbino con profonda pazienza e filosofia gli fa intendere che una volta varcato il cancello del cimitero tutti gli uomini diventano uguali.

40

nella sala dei miei avi!

E intorno

il silenzio dei contadini

che portano nelle scarpe

l’erba dei prati51.

Il rito della morte è radicato nella famiglia di Jovine: nel palazzo dei duchi di

Canzano a Castelmauro vi è una sala dove trovano posto le salme della famiglia per

ricevere l’ultimo saluto. Jovine vi entrò il 29 Agosto del 1998, appena rientrato da

Roma. Il legame stretto con la morte consentì al poeta non solo di superare, non senza

tedio, dei momenti difficili, ma anche di sentire quando ormai la tavolozza stava per

trovare quel colore in grado di dare alla sua esistenza il tocco finale:

Ho appreso a morire. Viene il momento

che ti guarda fissa la morte

senza parlare e non la vedi,

perché si maschera

con volto delle cose ancora vive,

quando ti prende continui a non vederla.

Dinanzi sino all’ultimo avrai

51 “Tra il Biferno e la Moscova” – Così morire – Pag.43 - Cartia Editore – Roma 1975

41

le cose e soltanto le cose

come quando a letto

leggi il giornale e il sonno ti prende.52.

20 agosto 19998

Questa fu la sua ultima poesia!

52 “Viaggio d’inverno” – Morire –Pag. 115 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

42

CAPITOLO 4

Gli affetti

4.1 I genitori

Sono diverse le poesie che Jovine compone per la sua famiglia, in particolare per i

genitori, e come sempre accade in questi casi la figura predominante nei ricordi del

poeta è la madre. Adele Gallina fu importante per la formazione del nostro, a lei si

associano in futuro i migliori ricordi dell’infanzia. Commovente il ricordo di un

viaggio che il poeta compie con la madre, di ritorno dal collegio per le festività

natalizie:

Una sera nebbiosa di dicembre,

tornando dal collegio al mio paese,

nella corriera in sosta alla taverna

che raccoglieva gente dagli scali

agl’incroci di strade di montagna,

vidi mia madre sola avvoltolata

nel suo pellicciotto di capra cinese […]53.

Si nota un certo distacco da parte del poeta, dovuto non ad una mancanza di affetto,

ma ad un atteggiamento di riverenza ed ubbidienza. A volte si restava in collegio

53 “Viaggio d’inverno” – Viaggio d’inverno – Pag.13 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

43

anche per anni senza mai tornare a casa, di sicuro gli affetti non mutavano, ma

restava comunque un po’ di soggezione:

[…] Facemmo insieme il viaggio nella notte

seduti l’uno accanto all’altro muti,

legati da sorrisi d’altro luogo,

da straniti stupori senza oggetto

e dalla pena di scoprirci spogli

di sensi inavvertiti o disarmati

nel volgere dei nostri chiusi esili […]54.

Non riesce a trovare le giuste emozioni. Il desiderio di abbracciare la madre è forte,

ma non osa in quanto essa mantiene un atteggiamento severo. La madre ha lo stesso

desiderio del figlio, ma al mancato slancio affettivo da parte del piccolo Giuseppe

ella non sa come comportarsi e mantiene intatta la sua compostezza:

[…] E dura ancora quel viaggio d’inverno!

Sempre più fredda e bianca è quella neve,

sempre più scura e fitta è quella nebbia

e l’ombra di mia madre si dirada,

uccello ad ali spente che dirupa,

54 Ibidem

44

non come al tempo dei gabbiani

che mi librava sul canto del mare,

strascico nero che un fiume trascina

o il vento che nel turbo lo raggira

e ti sta sempre sul collo a soffiarti

quella parola quieta che non dice55.

La poesia Jovine la compone quando la madre Adele ormai è morta. Nel capitolo

precedente abbiamo spesso verificato che la morte e il ricordo sono legati nel

pensiero del poeta. Egli riesce ad entrare, tramite i ricordi, nelle scene impresse nella

sua memoria quasi a poterle cambiare. Solo a distanza di anni egli si rende conto di

quante e quante parole sono state dette durante quel viaggio, ma sfortunatamente si

sono perse nel silenzio. Lui allora rivive nei suoi ricordi quel viaggio, modificandolo

in continuazione, scrivendo e riscrivendo quel lungo dialogo che in quella occasione

era andato perduto.

Questo dialogo mancato con la madre è un sogno ricorrente nelle notti del poeta, un

sogno che diventa quasi un tormento:

Nella notte, madre,

è come quando alla luce del sole

avevo il tempo di parlarti

55 Ibidem

45

e tenni chiuso in petto ogni parola.

Allora almeno avevo la speranza

di dirti in una volta tutto quello

che per pudore non ti dissi mai.

Oggi in un guscio di noce mi chiude,

mi soffoca l’angoscia insostenibile

del mare d’ombra in cui dilaga

il silenzio di allora e quello d’oggi56.

Il pensiero come sempre a quel viaggio in carrozza dove potevano essere dette molte

cose e non fu detto nulla; dove poteva far comprendere alla madre tutto il suo affetto.

La vita a volte offre più di una occasione, ed a volte non ne riserva nemmeno una;

ma noi sappiamo che Jovine conosce a fondo la vita, sa che il suo traguardo è trovare

il “tocco finale” sulla tavolozza e dopo, con i ricordi, tutto è possibile. Da questa

concezione nascono le poesie in dialetto, che nell’asprezza dei termini rende il

momento dell’addio qualcosa di incommensurabile ed impalpabile.

Quanne si mmorta chella sera , mà,

mmizz’a la chiazza sunava la bbanda

e iè m’addecreiave nen chiagneie

ca’ me pareia la muorte ‘na canzona

56 Ibidem

46

ca te porte lu viente dall’are

o ‘na sera d’estate ca nen sì

pecchè pe tante tiempe tu taminde

la volta arescarate da lu ciele

ca ten trona le recchie gna ‘na stanza

spiccia ca pare chiena de cichele […]57.

(Quando sei morta quella sera, mamma, / in mezzo alla piazza suonava la banda, / ed

io mi rallegravo e non piangevo / che mi sembrava la morte una canzone/ che ti porta

il vento dall’aia / o una sera d’estate che non sai / perché per tanto tempo tu

contempli / la volta chiara del cielo / che ti rintrona le orecchie come una stanza /

vuota che pare piena di cicale).

Jovine è ancora un ragazzo quando la madre muore ed ancora, come tutti i ragazzi,

non si rende conto di che cosa vuol dire morire. Gioca il poeta. È un giorno di festa e

lui non sa perché gli altri non sono a divertirsi come lui. Solo il silenzio lo scuote,

quello stesso silenzio che durante quel viaggio in carrozza aveva tenuti lontano madre

e figlio. A poco a poco allora il piccolo Peppe inizia a rendersi conto della situazione.

Pecch’esse, doppe morte, che le vracce

t’eie stritte forte coma ‘na tenaglia

e pprime aveie paure de vasciarte […]58.

57 “Lu Pavone” – Quanne si mmorte chella sera, mà – Pag.25 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 58 Ibidem

47

(Per questo, dopo morta, con le braccia, / ti ho stretta forte come una tenaglia / e

prima avevo paura di baciarti).

I ricordi iniziano così pian piano a cogliere la quotidianità, tutta la varie cose che la

madre faceva durante il giorno, sente ancora, come ai tempi di Natale in mezzo alla

neve.

[…] lla vucella

ca m’arechiama ancora: Peppe, Pè…[…]59.

(… quella vocetta/ che mi richiama ancora. Peppe, Pè…).

Poi parte lo sconforto, nel suo io inizia a capire che non rivedrà più la madre ed allora

la vorrebbe tutta per se come mai aveva avuto prima la possibilità:

Pecch’esse, mà, nen pozze arepenzà

a cchille mane sdreuse de cafune

che z’arrangavene gna ssierpe o sciamme

atturne a lu tavute a strapurtarte

gna ‘na quatrara arrannecchiate na cunnela

o ‘na some de mmaste che traccheia

59 Ibidem

48

nnanza e arrete a la scesa e alla ‘nghianata

e fa ciò ciò fine all’utema svota

mizz’a sciure de miendre e spinapoce […]60.

(Perciò, mamma, non posso ripensare/ a quelle mani storte di cafoni / che

s’inerpicavano come serpi o fiamme / attorno alla bara a straportarti / come una

bambina rannicchiata nella culla / o un soma di basto che traballa / innanzi e indietro

all’ascesa e alla salita / e fa capolino fino all’ultima svolta / tra fiori di mandorli e

biancospino).

Non può Jovine permettere che la madre venga profanata da gente che forse non

l’aveva mai conosciuta; lui deve averla per se perché solo lui sa rispettarne il riposo e

il silenzio. Come il silenzio che aveva rispettato in quel viaggio di ritorno a Natale.

Così in questo suo profondo rispetto, il poeta non riesce nemmeno a rientrare a casa,

dove la madre era solito attenderlo:

Pecch’esse, mò, nen pozze ‘ntrà na casa

mo’ ca sule le vespe ce cantene

nchille cavute nere de palomme

e ‘nfrocene ne mure le spripingule,

ma tu nen ti la scopa pè sfraccarle

60 Ibidem

49

e nen stute la luce pe la stanze

pe faie vedè la luna na fenestra

e na scurdia aresentì la cuccuvaglia61.

(Perciò, mamma, non posso entrare in casa / adesso che solo le vespe ci cantano / in

quelle buche nere di colombi / e cozzano contro i muri i pipistrelli / ma tu non hai la

scopa per schiacciarli e non spegni la luce per le stanze / per fargli vedere la luna

nella finestra / o risentire il gufo nello scuro).

Il poeta ricorda commosso le piccole azioni quotidiane che la madre compiva, sono le

piccole cose infatti che gli mancano, è li che corre il ricordo di Jovine. C’è un

qualcosa che ormai cambia nella sua vita: non la presenza della madre che resterà

viva nel cuore di Peppe, ma le cose materiali che rimandano ad essa. Quei momenti

particolari che forse egli amava rubare alla madre di nascosto. I pensieri continuano

ad accavallarsi, tornano gli anni dell’infanzia come falshback. Vi affiorano anche dei

lievi rimorsi.

Quanta volte eie lassate mamma sola

pe chille stanze spicce

ca parevene cisterne[…]62.

61 Ibidem 62 “Lu Pavone” – Quanta volte eie lassate mamma sola -Pag.25 - Edizioni Enne – Campobasso 1983

50

(Quante volte ho lasciato mamma sola / per quelle stanza vuote / che parevano

cisterne).

Sono momenti che ricorda di aver carpito alla madre come quando scorgeva

[…] la bella capellere

a recumponne chille trecce lustre

e ‘lla faccella ghianca ‘na specchiera! […]63.

(…la bella capelliera / ricomporre quelle trecce lustre / e quella faccetta bianca alla

specchiera!).

O di quando scorge nella stanza la madre che dorme e vede adagiati sul tavolino i

suoi occhiali, ed altri oggetti muti ed immobili che rendono la figura della madre

“Gna nu recurde de ‘na mamma muorte (come il ricordo di una mamma morta)64”.

Forse qui per la prima volta Jovine ha paura della morte.

A lu scure currive ‘na stanzetta

e mamma ze sbegliatte pe le vasce.

me parette ‘na morta ravvevata65.

63 Ibidem 64 Ibidem 65 Ibidem

51

(Al buio corsi nella stanza / e mamma si svegliò per i baci./ Mi parve una morta

ravvivata).

Come credo accade per ognuno nella vita, il distacco dalla madre è duro, ma Jovine

ha una profonda ammirazione anche per il padre Carlo, il suo maestro di vita, il suo

esempio quotidiano. Un uomo però che non lasciava trasparire sino in fondo il suo

amore per i figli, legato ad una istruzione severa ma giusta e ad un affetto per la

famiglia comunque composto. Non era eccessivamente severo, perché la sua severità

era atta ad inculcare nell’animo dei figli il senso della giustizia: Jovine avrebbe

voluto conoscere il padre più a fondo, ma non gli fu possibile. Allora prova a farlo

con una poesia:

Sarai sempre padre

la voce muta di quell’oboe chiuso

in un astuccio dentro la vetrina

nella sala degli avi che profuma

di polvere, di spigo e pergamene.

Come avrei padre voluto sondare

il lago perso della tua solitudine

quando scrutavi il corso della luna

e ti chiedevi che c’era nel fondo

della parola fioca della fiamma

nella gola brunita del camino,

52

presentando dai refoli e le fusa

dei gatti sulla cenere la neve!

E quando mi prendevi per la mano

alle mie fragili membra chiedevi

la forza che mancava alle tue fibre?

La mia innocenza prensile ed inerme

era forse per te una guida e un’arma.

Il tuo pallore mi accendeva l’ira

come un’esca e penavo nel vederti

riarsa foglia riaprirti alla mia linfa.

Solo quando cantavi la tua voce

alzava le montagne fino al cielo

e tra un turgore e l’altro di tue vene

il mio orgoglio pulsava come un cuore.

In un breve giro d’orizzonte

si è consumato un destino di naufrago,

di re senza corona, di poeta

senza carmi, d’armigero senz’armi;

arreso tra le mura del tuo mastio

guardavi il cielo stretto tra cimase

come dal pozzo un annegato, e l’albero

che dal chiuso dirama della corte.

53

Per vele avevi rauche pergamene

e il frullo delle rondini alla gronda;

e ancora padre ti vedo vagare

in un paese strano senza sole.

Senza canto mi volgi le tue spalle

e sto qui ancora a darti la mia forza

perché riprenda fiato, inutilmente66.

La figura del poeta stanco non è isolata, Camillo Sbarbaro per primo dedicò un

componimento al genitore, che troviamo in “Pianissimo 1914”, inaugurando un filone

nuovo nel quale con questa poesia si inserisce anche il poeta maurese. Il distacco dal

padre di solito non è doloroso come quello dalla madre. La morte della madre riporta

il poeta nel passato, ai ricordi tangibili, a quella quotidianità che perde dei momenti

salienti ed essenziali. La morte del padre ha in Jovine l’effetto opposto, lo proietta nel

futuro, segno quasi di un passaggio di consegne; lui diviene ormai simbolicamente

l’uomo di casa, colui che dovrà condurne le redini.

La vita sempe z’arennova.

È murte tata

e ie penz’a la giacchetta nova

che meia mette mo’ che vvè l’estate67.

66 “Viaggio d’inverno – Padre – Pag.21 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 67 “Lu Pavone” – La vita -Pag50 - Edizioni Enne – Campobasso 1983

54

(La vita sempre si rinnova. / E’ morto mio padre/ ed io penso alla giacchetta nuova /

che devo mettermi adesso che viene l’estate).

Al momento di scrivere questa poesia Jovine ha già raggiunto la maturità del suo

pensiero e con esso la sua concezione della morte come premio finale della vita. Ma

noi sappiamo che la poesia del nostro che meglio esprime il suo stato d’animo è

quella in vernacolo. Ora anche per la figura del padre vale il ricordo che arriva

quando il poeta nell’armadio contempla le cravatte che il padre gli lascia, e prosegue

così.

[…] A ogne nude de chille cravatte

ievene sciure le mane de tata,

a ogne nude de chille cravatte

‘nnanz’a lu specchie ‘na stanza lucente

sunavene lle mane nu struminte!

Tutte chille cravatte culurate

mo’ parene sturminte senza fiate68.

(Ad ogni nodo di quelle cravatte / erano fiori le mani di mio padre/ ad ogni nodo di

quelle cravatte / innanzi allo specchio nella stanza luminosa / suonavano quelle mani

68 “Lu Pavone” – Le cravatte de tata – Pag. 47 - Edizioni Enne – Campobasso 1983

55

uno strumento! / Adesso tutte quelle cravatte colorate / sembrano strumenti senza

fiato).

Un’armonia che si perde nel ricordo lontano, di quando il poeta osservava il padre

nella meticolosa opera di annodarsi la cravatta. La grazia con cui Carlo compiva

queste azioni fa venire in mente al poeta un maestro che accordava il suo strumento.

Come abbiamo detto in precedenza la poesia di Jovine è composta per immagini, e

quella più bella lo accompagna tutte le notti nel buio della sua stanza

Ogne notte arepenze a mamma e tata.

Le vede com’arrete a ‘na tendina

o pettate né mure de la stanza

coma chilla fegure ‘mgiallanite

e tutte pezze e crepe e ciammaragne

né lamie de ‘na chiesa addò ce cantene

le grille e le cichele.

Ie vulesse arefà la facce a ‘ll’uocchie

gna ddù pupazze spierte a ‘nu curnicchie

o ddù sante scurdate ‘nda ‘na nicchie,

ma me ze squaglia la creta e me lasse

le mane senza sanghe e ragnecose

ca vularrìa struzzà lu Patraterne

56

o pregà gna ‘nu pazze pè sapè

che gghiè che gghiè su gliommere ‘mbrugliate,

sta matasse d’ardiche de lu munne69.

(Ogni notte ripenso a mamma e papà. / Li vedo come dietro a una tendina / o dipinti

sui muri della stanza / come quelle figure ingiallite / e tutte pezze e crepe e ragnatele /

sulle volte di una chiesa dove ci cantano / i grilli e le cicale./ Vorrei rifargli la faccia e

gli occhi / come a due pupazzi sperduti in un cantuccio / o due santi dimenticati in

una nicchia / ma la creta mi si squaglia e mi lascia / le mani esangui e rattrappite /

sicché vorrei strozzare il Padreterno / o pregare come un pazzo per sapere / cos’è

cos’è questo gomitolo arruffato / questa matassa di ortiche che è la vita).

4.2 Jovine padre e nonno

Gli affetti non si limitano ovviamente solo alla figura dei genitori, che sono le più

importanti. Nelle sue poesie ha parole di affetto e commozione anche per i figli e,

maggiormente, per i nipoti. Nelle vesti di nonno il poeta sente di tornare bambino.

Nel quarantesimo giorno di sua vita

Le tue parole sono per ora

il tuo faccino affondato nel cuscino,

i tuoi occhietti fissi ai geroglifici 69 “Lu Pavone” – Ogne notte –Pag. 67 - Edizioni Enne – Campobasso 1983

57

della tenda fiorita della stanza.

Io ho consumato tutte le parole.

Le tue manine come alghe d’acquario

mi ricompongono nel muto lettino

della mia nuova ed ultima infanzia

e fringo e rido e annaspo e mi assopisco

tuo docile compagno e tuo gemello70.

Roma 3/7/92 Nonno Peppe

La nascita della piccola Silvia porta nella vita del poeta una forza vitale nuova.

Insieme col piccolo Riccardo formano il filo conduttore del tempo che lega il passato

al futuro, ed in questo lasso di tempo Jovine si pone come il presente. Le parole che

egli dedica loro fanno in modo che essi mai e poi mai possano dimenticarsi delle loro

origini, delle loro radici molisane.

Ti ho rivista Silvia

correre tra le spighe di grano del Molise

gridavi nonno, nonno ho visto un grillo!

E per sempre quel grido irripetibile

di felice scoperta avrò nel petto

quando avrà passo di danza o di fuga la tua corsa

70 “Viaggio d’inverno” – A Silvia – Pag.33 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

58

al di là delle spighe fatate

dove più vedrò le tue manine

nuotare in sì dolce mareggiata d’oro

che ti portava alle mie braccia tese.

E tu sarai le nipotina di sempre,

la nipotina che sulle stoppie del Molise gridava

nonno, nonno ho visto un grillo!71

Sarebbe troppo lungo riportare qui la bellissima poesia che Nonno Peppe scrive al

piccolo Riccardo, una serie di consigli di cui nei capitoli precedenti abbiamo colto

alcuni passi. Ne prendiamo qui altri che hanno un significato molto toccante

Ora tu guardi come un puledrino

la brughiera infinita che spaura

ed ogni oggetto bruchi come un sorcio

e non sai quale nome e senso dargli.

Non sarà così diverso il mondo quando

comincerai “ad inciampare nell’uomo”

e duro gioco sarà compitare

l’alfabeto dell’essere e non essere,

e non saprai se avrai torto o ragione

71 “Viaggio d’inverno” – 14 agosto 1998 – Pag.34 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

59

e scoprirai che un’esile farfalla

può sapere più cose che gli uomini non sanno72.

Questa è una poesia diversa dalle altre, in quanto Jovine associa a versi nuovi alcuni

dei proverbi da lui raccolti in “Cento proverbi e detti di Castelluccio Acquaborrana73.

Sogna lontani approdi e resta fermo,

abbarbicato al suolo come quercia

che i succhi della terra sugge e lancia

nelle ramaglie pieghevoli e ferme

al sole, al vento, all’acqua e alle bufere74.

Il desiderio del poeta, resta sempre quello di vedere i suoi figli ed i suoi nipoti amare

la sua terra di Molise allo stesso modo che l’amava lui.

Percorrerai la terra dei tuoi avi,

la rude terra dei Pentri e dei Frentani,

vedrai la valle del pigro Biferno

che sembra non arrivi mai al mare,

e la valle romita del Cervaro

dove bevono i morti alle peschiere, 72 “Viaggio d’inverno” – Consigli al nipotino Riccardo – Pag.35 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 73 Edizioni Enne – Campobasso 1991 74 Ibidem

60

vedrai boschi color aragosta,

e fughe delle volpi sulle nevi,

nelle colline danze di puledri,

le forche tra la pula d’oro al sole

vedrai la quercia del Pontone che da secoli vive

e più di te vivrà nei secoli

e scoprirai dalle voci dei vichi

che il tarlo ti sotterra e non la morte.

Il tarlo è ruggine che mangia il ferro75.

Il culto della patria è profondo in Jovine, e come abbiamo visto nella splendida poesia

alla Vergine della Salute egli dirà “ Oggi la nostra patria è questa valle”76. Ma

bisogna anche essere in grado di affrontare la vita nelle diverse situazioni: importante

per il nostro è restare fermi sulle proprie idee senza mai comportarsi come bandiere al

vento.

Sarai quarzo e non stoppia di conocchia

o ruscelletto torpido e tortuoso

che come il solco gli fai poi si rigira.

[…] fa che la verità sia come l’olio

che venga sempre luminosa a galla!

75 Ibidem 76 “Tra il Biferno e la Moscova” – Il canto dell’emigrante – Pag.81 - Cartia editore – Roma 1975

61

Non dire come la mosca sul collo del bove:

anche oggi abbiamo arato insieme.

[…] Gli occhi non stanno in fronte alle ginocchia,

guarda dritto negli occhi della gente.

[…] E se tu perdi gli anelli ricordati

che le tue dita stanno sempre in piedi77.

Prima ancora di scrivere questi versi per i nipoti Jovine aveva indicato, come un buon

padre, la strada da seguire per i figli.

Vi guardo da lontano

fiori inermi tremanti alle raffiche

col rimorso di avervi piantati

in un giardino brullo senza sole,

ma mi crescete in petto ogni ora,

inespresso mio grido, e già vi sento

garrire al vento candide bandiere78.

Jovine ha un solo obiettivo, quello di insegnare ai figli e ai nipoti, ponendosi egli

stesso come esempio, l’importanza della famiglia, l’amore per la propria terra.

Quell’amore profondo e viscerale che lo costringeva, anche da vecchio, a tornare da

77 Ibidem 78 “Viaggio d’inverno” – Ai miei figli Carlo e Lucia –Pag.27 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

62

Roma per assaporare la fine brezza mattutina dall’alto del suo terrazzo, dove

dominava la valle del Cervaro e dove, come da lui confidatomi, sono nati molti dei

suoi versi.

Manca ormai solo la figura del marito per completare lo Jovine uomo; egli si mostra

come sempre dolce ed affettuoso, ma anche pragmatico, predicendo quasi alla moglie

la sua prematura scomparsa.

Tornerai lungo i sentieri dei boschi

ove i ragazzi colgono le fragole

e uccidono le serpi ed i ramarri,

ritornerai sull’erba del cortile

tra i muri tiepidi della mia casa

ove il fiato dei miei morti arriva

dalla valle romita del Cervaro

col quieto odore della genzianella.

E tenderai le mani sulle siepi

e voleranno i passeri sui fili.

L’uno nell’altro ogni giorno entreremo

come nell’ombra tranquilla di un viale

e tra cima e cima all’imbrunire

nell’odore dei fieni e degli erbai

e tra i vapori lenti di marcite

63

sarai quiete dorata di cielo79.

Con questi versi della poesia alla moglie Franca si chiude la panoramica sugli affetti

di Jovine. Quello che si evince dalle varie poesie e dai piccoli frammenti presi in

considerazione è un amore profondo verso la famiglia, verso la sua casa, verso la sua

terra. E queste poesie hanno proprio questo filo conduttore: in ognuna di esse il

nostro vuole imprimere la sua molisanità e vuole trasmetterla agli altri. “Si indovina,

talvolta, un’enfasi epica di queste poesie, che nasce dalla consapevolezza celebrativa

ma, attenzione, mai retorica del ruolo comunque classico del poeta” scriverà

Francesco D’Episcopo nella prefazione a “Viaggio d’inverno”. Le parole sono il

succo vitale per il poeta: con esse costruisce i suoi sogni, le sue emozioni, le sue grida

di gioia e di dolore.

79 “Viaggio d’inverno” – Lettera a mia moglie –Pag.25 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

64

CAPITOLO 5

“Il poeta e la sua terra”80

I temi ricorrenti della produzione joviniana sono quattro. Le religione, la morte e la

famiglia hanno trovato spazio nei capitoli precedenti. Ci resta ormai da trattare solo

della sua terra di Molise, che lui ha sempre portato nel cuore. Jovine pensa in

continuazione a coloro che sono stati costretti ad abbandonare Castelmauro, e lui è

uno di questi, che però a differenza sua non potevano tornare con una certa

frequenza. È forte nelle sue produzioni l’idea della sua molisanità.

Non so chi pietra su pietra ha composto

la mia casa grigia come il fango,

so che le crepe aperte nel suo fianco

sono ferite vive nel mio corpo.

[…] Qui torno a rannicchiarmi come i cani

che vedevo agli angoli dei muri

solo alla cuccia prima di morire:

qui la vita ha gli stessi stupori,

ha le stesse impazienze della morte

che ti prende per mano e ti conduce

80 “Il poeta e la sua terra” fu il titolo di un convegno – ricordo tenutosi a Castelmauro nel 1999

65

dove tu vuoi sull’antico sentiero

che mena al piano di Santa Lucia

tra il verde dei vigneti e il canto fioco

delle peschiere muschiate degli orti

dove corrono i morti a rinfrescarsi.

Qui torno amaro dopo ogni sconfitta

per non desistere dal denso esistere

col cuore d’esule senz’altro arredo

che il canto dei mattini e ogni sconfitta

torna a splendermi come una vittoria.

[…] Qui ogni albero ha il suo vento,

ogni rovo il suo lamento

ogni radura il suo silenzio.

Qui nasce la mia storia,

qui ciò che penso è mio.

Dal cuore della terra che è il mio cuore

vedo dai botri con l’erba novella

la verità rifiorire sorella81.

Castelmauro è il luogo dove Jovine trova conforto, ricarica la spina. Qui riprende le

forze rivivendo le emozioni passate della sua vita. E' legato con un filo doppio alla

81 “Viaggio d’invenro” – Le mie radici – Pag.14 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

66

sua terra, ne sente i lamenti persino nella sua dimora capitolina. Il poeta però porta

nel cuore la sua terra, ed allora gli basta chiudere gli occhi per perdersi nel suo

mondo fatato

[…] E ci tornavano in sogno le notti

il canto dei pollai,

le stanze odorose di strame,

le stanze odorose di spico,

la luna d’argento sull’aia,

il fermento del mosto nei tini,

l’erba fresca e la lingua degli agnelli,

l’acqua riccia dei ruscelli,

la spuma dei torrenti,

le raganelle del Sabato Santo,

la fuga delle volpi sulle nevi,

il canto degli ubriachi,

gli organetti nelle valli,

l’afrore delle fiere,

le forche tra la pula,

il vento tra gli ulivi,

l’oro sabbioso delle stoppie,

i lumi dei treni sui colli

67

nell’ora che annega il paese

in un mare di grilli,

i boschi color d’aragosta

e le radure tepide di sulla82.

Come abbiamo visto in precedenza questa poesia Jovine la dedicò a Pierluigi Giorgio,

un uomo che come lui amava profondamente il suo Molise, che lui cantava alla

maniera joviniana, con ardore e ricorrendo talvolta alla burla, girovagando con la sua

carovana per i vecchi borghi della regione.

Importante per Jovine però è la casa dove vede i natali, quel palazzo che la sua

famiglia acquistò dai duchi di Canzano e che si erge in Piazza Municipio, proprio a

ridosso della piazza principale del paese, da dove poteva dominare tutta la valle del

Cervaro sino al mare. Qui trascorre la sua infanzia, qui muove i primi passi dentro la

poesia, qui torna ogni tanto da Roma per ritrovare il suo essere. A rivedere il colore

dei suoi boschi, a sentire la brezza mattutina, e dove tornò a prendersi l’ultimo saluto

[…] Casa che invecchi

come invecchia il mio corpo,

con le stesse rughe della mia pelle,

con gli stessi tonfi misteriosi,

gli stessi silenzi,

82 “Viaggio d’inverno” – Il narratore ambulante –Pag. 48 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

68

le stesse ombre,

gli stessi nascondigli,

con lo stesso battito del tempo,

la stessa voce della vita e della morte

dolci avventure…83

Il palazzo di Castelmauro diviene il nascondiglio perfetto, dove tiene custoditi tutti i

suoi ricordi, che sono il tramite con i suoi avi. Ricordo che mi ripeteva sempre,

quando ripartiva per Roma, che era importante il ritorno da Roma; l’idea del ritorno

doveva essere un tarlo che ti rodeva il fegato. Quel vecchio detto del “partire è un po’

morire” vale nella realtà jovinana, solo che poi il poeta tornava a riprendere linfa

vitale alle sue radici. Per lui tornare significa rinascere. “Ci rodeva la nostra sorte

d’esuli” recita la poesia Ritorno a Borrana.84 Come sempre però le emozioni

maggiori si colgono leggendo le sue poesie dialettali, in cui maggiormente esprime il

ricordo per i luoghi della sua infanzia, una infanzia certamente priva di orpelli,

semplice.

Ancora mo’ ne Sanguinette

ce sta ‘na casarella fore d’use,

la stessa fenestrella sempe chiusa!

Ci iettavame turze, scorce e prete,

83 “Viaggio d’inverno” – La mia casa – Pag.108 - Edizioni Enne – Campobasso 1999 84 “Viaggio d’inverno” –Pag.17 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

69

ma nesciune arespunneia.

coma tanta timpe arrete

ancora mò tenesse la gulia

de tuzzà ‘lla fenestrella scunzulate,

pu penze: è cchiù bella barrecate:

se z’arrapre z’encanta la malia85.

(Ancora adesso alle Sanguinette / c’è una casetta fuori d’uso, / la stessa finestrella

sempre chiusa! / Vi lanciavamo torzi, scorze e pietre / ma nessuno rispondeva. /

Come tanto tempo addietro, / ancora adesso ho voglia / di bussare a quella finestrella

sconsolata, / poi penso: è più bella chiusa; / se si apre si incanta la malia).

Sono i luoghi dell’infanzia abbiamo detto, dove trascorre le giornate insieme con gli

amici.

[…] Che gghiva allora lu Chianitte!

Coccia rotte, gasteme, llucche e chiante!

Lu sole aveia paura de le prete

e annascuse pur’isse pazzeiava

tra fronna e fronna coma nu quatrare.

Ma pe chella maramaglia

nu mirche ‘n fronte o ‘na chiazza de sanghe

85 “Lu Pavone” – La fenestrella –Pag.35 - Edizioni Enne – Campobasso 1983

70

era coma ‘na medaglia86.

(Che diventava allora il Pianetto! / Teste rotte, bestemmie, urla e pianti! / Il sole

aveva paura delle pietre / e nascosto anche lui giocava / tra foglia e foglia come un

bambino. / Ma per quella marmaglia / un marchio in fronte o una chiazza di sangue /

era come una medaglia).

Ancora più sentita la poesia dedicata al giorno della fiera, una ricorrenza molto

sentita negli anni dell’infanzia del poeta, da considerarsi quasi un giorno di festa.

Tutti i contadini tornavano dalle loro masserie per vendere i loro prodotti o gli

animali, vi erano persone dai paesi vicini e si faceva conoscenza, e tutto era un

fermento.

Addore de zoche e de tumaie

de scapece, de sive e de fumiere!

Nuvele de zucchere filate

e provele de mandre e afa!

Ma tutte punte e virgule e rizzille,

cappille a sguince e culle ‘mpusemate

e varva lisce e zizza de pacchiana,

lu Barone z’appoia a nu bastone

86 “Lu Pavone” – Lu Chianitte –Pag.39 - Edizioni Enne – Campobasso 1983

71

cu lu maneche d’argiente,

e ‘n zenghera smurfiosa

i’adduvine la ventura.

Trumbette e sunagline,

guagliune e cacciunille,

scupine e ciaramelle

tutte quante a sguagnalià!

Pu nu core de mizzeiurne

z’arraia la campane de lu Turche

e ‘nchell’aria infucata e senza vinte

c’addore de lacce e de vrasciole

fanne feste le ssierpe e lu sole87.

(Odore di corde e di tomaie / di scapece, di sego e di letame! / Nuvole di zucchero

filato / e polvere di mandre e afa! / Ma tutto punto e virgola e ingalluzzito / cappello a

sguincio e colletto inamidato / e barba liscia a mammella di villana / il Barone

s’appoggia a un bastone / col manico d’argento / e una zingara smorfiosa / gli

indovina la ventura. / Trombette e sonaglini, / bambini e cagnolini, / sonagli e

zampognette / tutti a miagolare. / Poi nel cuore del mezzodì /si arrabbia la campana

del Turco / e in quell’aria infuocata e senza vento / che odora di sedano e braciole /

fanno festa le serpi ed il sole).

87 “Lu Pavone” – Iurne de firie –Pag.41 - Edizioni Enne – Campobasso 1983

72

Ancora oggi il giorno della fiera è un brulicare di persone; nella visione data da

Jovine manca solo la buonanima del Barone che s’appoggia al bastone col manico

d’argento. Questa poesia è una perfetta composizione di immagini che Jovine

comunque ha vissuto sino agli ultimi giorni della sua vita. Un’altra serie di immagini

è la poesia Lu Paradise di cui prendiamo solo alcuni passi

[…] Quant’è bbille ‘llu paiese!

Ze sbelava acchiane acchiane

e la terra arehiatava

gna nu lievete de pane:

fume e ‘ncinze ‘ncera a ssole!

[…] tutte l’uocchie a cchella via

a sunnà le nevelelle

‘ncima ‘ncima a lu Calvarie,

le coste de Genuarie,

lu Campusante e le Murgette…

[…] E ‘llu talurne d’azze

nu core de mezzeiurne?

[…] Eppù a n’ora de notte che la luna!

Luciacappelle luciacappelle!

E le trascurze che le stelle?

73

Che tta cride, che gghiè lu Paradise?

E ‘na staggiona spierte

sunnate a uocchie apierte88.

(Quanto è bello quel paese! / Si liberava dalla neve pian piano / e le terra rifiatava /

come un lievito di pane: / fumo ed incenso innanzi al sole! / […] tutti gli occhi a

quella parte / a sognare nuvolette / in cima in cima al Calvario, / le coste di Genuario,

/ il Camposanto e le Morgette…/[…] E quella nenia d’azze nel cuore di

mezzogiorno? / […] E poi a un’ora di notte con la luna! / Lucciole lucciole. / E i

discorsi con le stelle? / Che credi, che cos’è il Paradiso? / E’ una stagione perduta /

sognata ad occhi aperti).

Quando torna al suo paese Jovine scopre una forza sconosciuta, che lo trattiene, lo

avvinghia

Mi trattengono i secoli, è difficile

riemergere dal tempo e ripartire89.

Continua poi con altri versi che, come sempre, richiamano i suoi avi

Lascio i miei morti e le viole intristire

88 “Lu Pavone” – Lu Paradise –Pag.60 - Edizioni Enne – Campobasso 1983 89 “Viaggio d’inverno” – Ritorno al paese –Pag.111 - Edizioni Enne – Campobasso 1999

74

sotto la neve senz’altro tepore

che un lume di lanterna che trapela?

[…] Lascio incompiuta la mia valle bianca,

un quadro che ogni giorno il tempo stinge

ed ogni giorno a dipingere torno.

Ma chi può dire come dolcemente

nella tormenta si incanti il paese

nel lucore di un sole d’alabastro

che intiepidisce i morti a Somasella?90

Il suo essere molisano e castelmaurese lo spinge anche ad un rimprovero profondo

nei confronti dell’astronomo castelmaurese Padre Giovanni Boccardi che, emigrato a

Torino, non volle più rimettere piede sul suolo del suo paese natio

[…] Alfa Andromeda resta quindici ore

sull’orizzonte prima di svanire,

ma non sai dirmi quanto resta il sole

sul balconcino ove le notti insonni

contemplavi le stelle ad occhio nudo

ed ora accenna un gambo di geranio.

Sai quanto pesa Marte e quanto Giove,

90 Ibidem

75

ma sai tu dirmi il peso degli affanni

che opprime la tua gente di Borrana?

[…] Nell’equinozio d’autunno la luna

dall’equatore celeste, tu dici,

dista all’ingrosso cento ottanta gradi,

ma quanto dista il cuore di un barone

dalla pelle rugosa di un cafone?

[…] Padre Giovanni, vivi in Alfa Andromeda!

[…] Oh! L’oro delle lampade nei vichi

del tuo paese vivo abbandonato

l’hai ritrovato in qualche via del cielo?91

Sono parole pesanti quelle che il poeta rivolge, in un finto dialogo, alla memoria del

padre castelmaurese, senza però mai mancare di rispetto. Facendo notare che anche

nel suo piccolo borgo vi è vita, e vi sono persone che vivono, e che negli anni non lo

hanno mai dimenticato. Quando Jovine scrive questa poesia Padre Giovanni è già

morto, ed è già una istituzione all’interno dell’astronomia. Castelmauro non ha mai

dimentica il suo figlio, anche se questi non gli ha mai voluto riconoscere la maternità.

Sono modi di vivere, certo. Per Jovine abituato a correre a Castelmauro ad ogni

richiamo della sua terra, la scelta del padre astronomo è sembrata davvero senza

senso. Il poeta e la sua terra, si è detto: un connubio indissolubile nel tempo.

91 “Tra il Biferno e la Moscova” – Alfa Andromeda – Pag.89 - Cartia Editore – Roma 1975

76

CAPITOLO 6

Jovine saggista

La poesia è per Jovine non un passatempo, ma il modo di allontanarsi dal mondo

della capitale che sente stretto, un modo per tornare, almeno con lo spirito, a

percorrere i suoi boschi, a girovagare nei vicoli del suo borgo molisano; per tornare a

scambiare chiacchiere e risate con i suoi compaesani. Jovine però, come abbiamo

visto, è costantemente alla ricerca di un qualcosa, e come uomo e come poeta. Oltre

alla poesia, egli si dedica anche alla narrativa.

Come sempre il fulcro principale delle sue ricerche risulta essere la sua terra di

Molise e i suoi abitanti. La prima opera portata a termine è il “Saggio sulla poesia di

Albino Pierro”, uno dei maggiori poeti dialettali del secolo, << un cesello di analisi

estetico/ sociale nel quadro mitografico del nostro Sud>>92. Lo stampo erotico della

poesia dialettale del sud rientra a pieno titolo sia nei lavori di Pierro che ovviamente

in quelli di Jovine, come ritroveremo anche ne “La sdrenga”, unica produzione

saggistica di Jovine in vernacolo. Osservando attentamente questa sua produzione

notiamo il meticoloso lavoro di ricerca che il poeta compie per giungere alla fine

della sua fatica, passando ore ed ore per le campagne del suo paese ad interrogare i

suoi compaesani. E non ci si dovrebbe nemmeno meravigliare se una buona

percentuale delle storie raccontante siano autentiche. Noi sappiamo che Jovine

innanzi tutto è un poeta autentico, che mira al sodo, che non risparmia mai le parole.

92 Da Gradiva - “Homage to Giuseppe Jovine”- Pag66 - di GIOSE RIMANELLI – International Journal of Italian Literature – New York 1999

77

Ma è in questi contesti, diciamo frivoli, che il poeta castelmaurese da il meglio di se.

Ed è anche con grande maestria che riesce a trasformare i personaggi di queste

piccole commediuole in autentici attori capaci di imbastire una trama interessante ed

avvincente. Come in tutti i racconti, tutto ruota intorno alla battuta finale, quella per

la quale di solito si ride. Ma essa coincide anche con la frase che ne indica la morale.

Jovine è moralista come poeta e resta moralista anche come scrittore di saggi, nella

ricerca sfrenata di situazioni particolari come quelli de “La Sdrenga”. Nel racconto

“Preiete e sacrastane”93 notiamo la ripresa della solita tenzone con le cariche

ecclesiastiche, in cui si vuole mettere a nudo la debolezza carnale di un prete che non

riesce a resistere dinanzi ad una donna. Le sue parole finali non solo ci fanno

sorridere, ma ci inducono a riflettere. Siamo in un periodo in cui la religione continua

ad essere inattaccabile, si guarda agli uomini di chiesa con riguardo, e lo Jovine

comunista viene etichettato anche come mangiapreti. Ma noi siamo consapevoli che

quando il poeta prende in mano la penna per scrivere le sue storie, per riportare i

racconti dei suoi paesani, per imprigionare sui fogli i suoi versi, egli non è altro che

un uomo immerso nel suo mondo che ha i colori verde e marrone dei prati e dei monti

del Molise.

Lo stesso vale se prendiamo in considerazione il racconto “L’uprazione” in cui Suor

Teresa è costretta a tornare indietro negli anni quasi confessa un peccato di gioventù

che ormai non le appartiene dopo la scelta compiuta. La vergogna la riporta nella sua

93 “La Sdrenga” – Edizioni Enne – Campobasso 1989

78

dimensione umana, dove si possono commettere degli errori, dove sbagliare è,

appunto, umano.

Tutti i racconti nascondono la sagacia della terra molisana in un infinità di doppi

sensi, che mostrano storie vere raccontate come favole e favole che si possono anche

considerare storie vere.

Di ben altra natura invece il saggio “Benedetti Molisani” in cui il poeta si spinge sino

a toccare il fondo della sua terra con le mani, dove ne mette a nudo i pregi ed i difetti.

Un saggio ricercato, dove cerca di dipanare la matassa imbrogliata della sua regione,

che non riesce ad uscire da un carattere di vassallaggio nei confronti delle regioni

limitrofe in grado di trovare al proprio interno le risorse necessarie per uscire dalla

situazione stantia del dopoguerra.

Un Molise che lui gira tutto in compagnia di Tommaso Fiore nel 1973, cercando di

puntare il dito sulle sue reali condizioni, soffermandosi su quella che dovrebbe essere

la sua arteria principale, la Bifernina, a tutt’oggi un eterno cantiere, dove i politici si

arricchiscono alle spalle di una comunità ancora in preda all’analfabetismo. Conosce

però le reali potenzialità dei suoi corregionali e si lagna della loro misera voglia di

rivalsa, del loro mancato tentativo di uscire dal torpore in cui è riversa. “I Molisani

amano più il Cristo in croce che il Cristo risorto”94 è una frase che coglie in pieno il

carattere del molisano, che non è in grado di compiere il gesto del suo riscatto e resta

aggrappato alla sua condizione di contadino che però difende sempre con orgoglio e

con abnegazione. Continua Jovine “Il Cristo in croce è insomma il Cristo ufficiale,

94 “Bendetti Molisani” - I Molisani e la politica (1979) – Pag.31 – Edizioni Enne – Campobasso 1976

79

emblematico, della voluttà o della consuetudine della sofferenza o della tradizionale

condizione di emarginazione sociale delle popolazioni meridionali; gli altri Cristi

d’occasione sono modellati sui tipi ricorrenti nel caleidoscopico spettacolo della vita

regionale. Cristo è di casa in Molise: ora è un piccolo marioncello acchiappacore;

com’è definito nei canti popolari, ora un gaudente fratacchione che fa scricchiolare i

pagliericci, ora un maldicente canterino che invoca l’infradiciatura delle salsicce del

compare spilorcio, ora il magano che guarisce col concubito l’isteria. Ogni molisano

si sveglia la mattina con un Cristo sotto il cuscino, tanto che i giovani novizi

francescani si chiedono quale Cristo debbano presentare ai fedeli”95. Ma la

prosecuzione della frase si spegne in un laconico “ […] è con tutti e benedicente,

meno che con i comunisti”96. Anche Jovine ha il suo Cristo nascosto sotto il cuscino,

un Cristo al quale lui si lega a suo modo, con il quale discute sulle reali condizioni

della sua terra, che tiene lì come un confessore personale con il quale confidare le

sensazioni alla fine di una giornata di lavoro. La rudezza del molisano, quella che gli

permette di guardare “[…] Dio in faccia, senza scomporsi, lo bestemmia anche se non

ci crede, perché vorrebbe che esistesse solo per rifargli i connotati e rinfacciargli i

suoi torti”97 è anche il freno allo slancio verso il passaggio ad una condizione

migliore. Jovine dice “I molisani sono come il loro fiume, il Biferno, che sembra non

arrivi mai al mare”98, mettendo a nudo il loro punto debole. Non è incapacità a

ribellarsi della propria condizione di inferiorità: è semplicemente pigrizia. Il molisano

95 Benedetti Molisani – Pag.31- Edizioni Enne – Campobasso 1976 96 Ibidem 97 Ibidem 98 Ibidem

80

è pigro, pensa sempre che sarà qualcuno a provvedere per lui. Non si ritiene un uomo

d’azione, ma crede di essere una semplice comparsa.

Se la poesia, maggiormente quella dialettale, è l’arma che Jovine sceglie per mettere

a nudo le debolezze delle persone in maniera ironica, il saggio Benedetti Molisani è

un’aspra ramanzina verso gli abitanti della sua terra. Quegli abitanti che hanno il

difetto di accettare senza controbattere qualsiasi situazione. Ma la dedica che Jovine

fa nel suo libro alla sua gente “ Ai molisani con rabbia e con amore”, oltre ad ispirare

ricordi di ovidiana memoria, tende quasi a scagionare i suoi corregionale deviando le

colpe della loro gravosa situazione su altri. E questi altri sono i politici, molisani e

non, che non si interessano della piccola regione del Molise in quanto non ha le

dimensioni adatte per essere appetibile. Egli segue da vicino, pur alloggiando nella

capitale, le vicende non tanto politiche, ma sociali della sua regione. Egli crede

fortemente nella rivalsa sociale della sua gente, visto che seguendo la strada politica

la situazione non si evolve. Un credo dovuto alla conoscenza diretta della sua gente,

che lui considera ben capace di giungere alla rinascita definitiva. Ha solo bisogno di

una guida che la distolga dal torpore e dalla pigrizia. Con Benedetti Molisani Jovine

compie un giro completo nel panorama regionale, andando a far visita anche a coloro

che per disparati motivi hanno dovuto non solo abbandonare la regione ma anche la

nazione. Importante il viaggio compiuto a Mosca, a scopo di studio, dove Jovine

viene a contatto con una popolazione diversa rispetto a quella che le fazioni fasciste e

comuniste avevano messo nelle piazze e nei loro comizi. Forse la forma di

comunismo autentico Jovine in Russia la trova davvero, ma resta affascinato

81

dall’amore che i russi nutrono nei confronti del suo antenato Francesco Jovine, di dui

amano ricordare i testi e i luoghi da lui narrati nei suoi testi. Ecco allora che al

momento di rientrare in Italia Jovine, che vive della nostalgia per la sua terra di

Molise, riesce a perdonare un arrotino di Frosolone arrestato sul Don e mai più

rientrato a casa dalla moglie, ora addetto alla molatura elettrica di coltelli in una

fabbrica nei dintorni di Mosca, o il suo “comprovinciale di Petrella Tifernina”99

incontrato a Zagorsk dove suonava il tromboncino in una banda specializzata in

musica leggera che non aveva mai sentito la nostalgia per il suo piccolo villaggio

molisano. Quello del molisano a Mosca è solo uno dei capitolo che Jovine dedica agli

emigrati molisani: Svizzera (1970), Belgio (1977), Germania (1980) sono solo alcuni

dei viaggi che il poeta compie per portarsi a contatto con i suoi corregionali

all’estero. Egli nota la profonda differenza tra coloro che sono emigrati e i molisani

che ancora vivono nella loro regione: l’ospitalità, la tenacia sono sempre radicate in

loro ma hanno smesso quella loro veste diciamo contadina, legata alla terra. Come

ricorda nel suo viaggio in Svizzera, l’amico presso il quale dimora era nella sua

regione un umile contadino, mentre ora nella sua nuova patria si occupa di prodotti

chimici in una grande azienda, conosce la storia di Vercingetorice e le imprese di

Cesare in Gallia, pur conservando tutti i caratteri che distinguono un molisano da uno

svizzero. Chi ha il coraggio di mettersi in gioco, in Molise, deve farlo

necessariamente lontano dai suoi affetti, lontano dalla sua patria. E questa situazione

da fastidio al poeta che vorrebbe che i suoi corregionali mettessero a frutto le loro

99 “Benedetti Molisani” – Un molisano a Mosca (1967) – Edizioni Enne – Campobasso 1979

82

idee all’interno della loro regione, che si impegnassero a coinvolgere quanta più

gente possibile. Benedetti Molisani, come abbiamo visto, parla della politica, del

sociale, della religione e dei giovani, ma punta il dito maggiormente su ciò che

l’arretratezza della regione a livello di mentalità ha creato. Se chi di dovere avesse

deciso di investire sulla propria terra, magari puntando sul turismo, unica risorsa vera

sfruttabile del Molise, adesso molti, se non tutti, di quei molisani sparsi per il mondo

starebbero a godersi le magie della loro terra.

Jovine conosce profondamente la vita dell’emigrante, in quanto anche lui per lavoro è

costretto a stare lontano dai suoi boschi, a respirare il cemento della città. Ma non

perde mai occasione per tornare nella sua Castelmauro. L’altro saggio in cui Jovine

mette a nudo la sua straordinaria capacità di entrare nella psiche dell’uomo è “Gente

alla Balduina”100, uscito postumo nel 2005. Qui egli traccia un perfetto identikit

psicologico di alcuni conoscenti che abitano con lui nel quartiere romano, andando a

ravanare nei loro intenti reconditi, cercando di carpire dai loro gesti quelle che sono

le loro reali emozioni. “Qui a Roma le menti e le coscienze sono atrofizzate… Ogni

parola ci arriva in ritardo, come la luce di una stella morta da millenni…Sentiamo il

suono, ma non la parola… una parola quand’è parola è una boa, un’ancora, un faro in

mezzo a un mare infido…”101. Jovine bussa ad ogni porta ed ogni porta gli viene

aperta, entra all’interno delle case e delle vite umane, ne coglie lo spirito e le modella

creando delle favole per i suoi scritti. Jovine nasconde abilmente l’identità delle

persone reali dietro i costumi ed i vizi dei suoi personaggi, in una saggio particolare

100 “Gente alla Balduina” – Edizioni Marsilio – Roma 2005 101 GIUSEPPE JOVINE – Note a Gente alla Balduina – Edizioni Marsilio – Roma 2005

83

che vuole dimostrare la mortalità di ogni uomo. “Un quartiere diventa metafora di

una società con le sue laceranti contraddizioni, con la continua ricerca di significati e

valori nel rapporto tra la città eterna e l’eterna provincia”, scriverà il figlio Carlo nella

prefazione all’opera. L’intento del poeta è sempre quello di mettere in risalto la

medesima condizione di ogni uomo dinanzi al proprio destino. La nobiltà è per

Jovine solo una convenzione tra gli uomini, e non un tratto di distinzione che tenda a

mettere ogni pregio ed ogni virtù nelle mani dei nobili e tutti i difetti ed i vizi nelle

azioni dei poveracci. Egli si sente sempre vicino alle sue origini comunali, è un uomo

di provincia e non lo nasconde; anzi, cerca di mostrare la sua provincia alle persone

che incontra nella sua vita, le invita a trascorrere con lui delle giornate nella sua

Castelmauro. Vuole mettere a contatto il nobile metropolitano con il bifolco molisano

per dimostrare che nobile e bifolco non sono altro che due vocaboli del nostro

parlare, e che non hanno nulla a che fare con gli uomini. Vi sono uomini fortunati e

meno fortunati, ma dinanzi alla morte, e noi sappiamo la morte cosa rappresenta per

il poeta, sono tutti uguali. Ogni scritto di Jovine, anche quando si interessa come in

questo caso di personaggi squisitamente cittadini, conduce ad un raffronto con la sua

terra e con i suoi corregionali, i suoi scritti sono una continua difesa delle sue radici

contadine e molisane, ma sono anche un monito che lui vorrebbe giungesse alle

orecchie dei molisani e che prendessero da esso lo spunto per poter attuare quella

rivalsa sociale che era il sogno nel cassetto del poeta.

Un ultimo sguardo va dato anche all’opera di traduzione che il poeta compie sugli

scritti di Marziale, Orazio e Montale. Egli compie un viaggio all’interno della

84

produzione dei due poeti latini e del poeta romano, traducendo i loro versi con grande

sagacia e con un pizzico di quella matrice piccante che ha sempre caratterizzato la

produzione vernacolare del poeta molisano. “Chissà se passa u Patraterne”102 è il

titolo di questo gioco che Jovine vuole compiere ponendo una trasposizione di

Orazio, Marziale e Montale a Campobasso. E’ questa un’opera che dichiara la

volontà di Jovine di trasmettere quel messaggio di “rifiuto nei confronti delle

megalopoli emarginanti e disumanizzanti, il ripudio delle meccanicità e della

ripetitività irriflessa di un costume di vita che idealizza e mitizza i beni materiali e il

potere demoniaco del denaro, il vagheggiamento di una realtà popolare semplice e

genuina, fondata su gratificanti relazioni amicali e amorose e il recupero delle

esigenze interiori”103; le stesse idee che si ritrova in tutta la cultura moderna e

contemporanea, partendo da Marx e sino a Marcuse, Adorno ed Horkeimer. Jovine

sceglie questi tre scrittori antichi per compiere questo nuovo esperimento per il tema

comune che essi sviluppano, ovvero, prosegue Jovine, “l’elogio della vita semplice,

del ritorno al paese, della fuga verso la campagna, del rifiuto del consumismo, della

contestazione delle metropoli”104. Se prima con “Benedetti Molisani” aveva messo a

nudo le reali condizioni della sua regione, e se con “Gente alla Balduina” tende ad un

confronto tra metropoli e provincia, in “Chissà se passa u Pataterne” egli completa la

sua opera mettendo a confronto il parlare colto con quello popolare facendo notare la

perfetta resa estetica dell’uno e dell’altro.

102 “Chissà se passa u Patraterne” – Edizioni Il Ventaglio – Roma 1991 103 “Chissà se passa u Patraterne” - Nota di MARIALUISA SPAZIANI – Edizioni Il Ventaglio – Roma 1991 104 Ibidem

85

CAPITOLO 7

Un poeta vivo nel ricordo

7.1 Giuseppe Jovine uomo del suo e del nostro tempo di Gaetana PACE

“Grande affabulatore, amico sincero; capace di indignarsi dinanzi alla mediocrità e al

falso perbenismo, tenace nel difendere la sua fede politica; valente critico letterario e

polemista”105. La Pace sente, leggendo il poeta, la sua grande attenzione per la sua

terra, il suo sentirsi emigrante a Roma, ma anche tenace nell’andare alla ricerca di

“quel patrimonio originario che lo faceva sentire parte integrante del suo paese”106. Si

sente la forza della sua parlata dialettale, di cui lui si serve per portare a conoscenza il

“mondo del quotidiano”107 con le sue mille sfaccettature. “Una poesia, quella di

Jovine, che ha le componenti della musica, dell’immagine, del sentimento; che ha il

discorso gnomico alle spalle, convinto come era che fosse possibile produrre poesia

solo se dietro c’è anche un profondo pensiero”108.

7.2 Letteratura come racconto campagna/città, dialetto/lingua di Giose

RIMANELLI

Jovine è il tempio della parola, quella parola dialettale vincolo profondo che lo lega

alla sua terra di Molise. Nel racconto di una telefonata con il poeta, Rinanelli ne

105 Gaetana Pace – I Belli, Quadrimestrale di poesia e di studi sui dialetti – Edizioni dell’Oleandro – Aprile 1999 106 Ibidem 107 Ibidem 108 Ibidem

86

tratteggia gli interessi intorno alla scelta dello stile riguardo alla poesia dialettale. Noi

sappiamo cosa sia per Jovine la parola; e Rimanelli lo stimola proprio su questo

argomento. Un argomento che il poeta molisano condivide con il genovese Franco

Loi. Egli, come Jovine, lascia il suo piccolo borgo per andare a vivere in città, dove

continua la sua produzione vernacolare. Il punto è però sullo stile: basso o aulico? La

risposta Jovine la da con “Chissà se passa un Patraterne”, con le traduzioni in dialetto

molisano di Marziale, Orazio e Montale. Così, per bocca dello stesso Jovine,

Rimanelli scioglie ogni dubbio sulla questione <<[…] non si può misconoscere il

rapporto sotterraneo ed osmotico tra cultura “aulica” e cultura “popolare” al di la dei

presunti processi di “italianizzazione” del dialetto>>109. Ecco allora qual è la vera

poetica joviniana, la ricerca incessante della parola, lo studio dei testi, un lavoro

psicologico da compiere su ogni idioma.

7.3 Il mio amico D’Artagnan di Giose RIMANELLI Da Nuovo Oggi Molise Venerdì 4 settembre 1998

<<Pareva fatto di fili di ferro intrecciati e durissimi più che di vene, ma aveva la gran

vena dell’aneddoto comico e finemente licenzioso, di tipo rabelaisiano; della risata

paesana strillata, mista a carezze e sarcasmo, e la scrittura veloce e senza

cancellature; quella tale scrittura propria del mnemonico ingegno che assorbe a volo

libri di ogni tipo e cultura, filosofia e politica, linguistica e letteratura>>. E tali

caratteristiche accomunano Jovine ad Albino Pierro, grande poeta dialettale

meridionale. <<Sempre convergente al rapporto Pierro/ Jovine un’altra indagine di 109 Come detto sopra, qui lo scrittore italoamericano si riferisce ad una conversazione avuta al telefono con il poeta molisano. Da Studi Italiani 20 – Edizioni Cadmo 1998

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struggente importnaza andrebbe fatta: e riguarda l’aspetto eroico di speciale icasticità

che essa offre, e uno in grado di evocare il timbro lirico della poesia arabopersiana,

che è oscuratamente morbido. La cosiddetta psicoerotomachia, sempre evidente in

Jovine e in genere nella poesia dialettale del Mezzogiorno, viene con Jovine infitta di

un linguaggio/ metafora ricco di “connotativi”, appunto perché in esso si radica la

struttura semiologica del dialetto dentro la quale filtrano voci di altri linguaggi,

riconducibili per lessicali analogie>>.

7.4.1 Giuseppe Jovine cinque anni dopo di Giose RIMANELLI con nota di Mario LUZZI

Da Il Quotidiano del Molise Lunedì 8 settembre 2003

<<Ma ora tu mi sei venuto a mancare con dolore che dentro si scava sempre più coi

minuti che passano, perché mi preservavi ancora il Molise con la tua vita baronale e

contadina, coi tuoi racconti licenziosamente sapienti, e con quella tua poesia con la

lacrima e la favola, il rintocco di campane nel sortilegio delle ore, la bellezza e la

paura nella landa molisana assiepata di sterpi e desolato verde. Questo Molise era e

resta il Primo Luogo della tua e della mia vita, concluso già nel farsi dentro di noi e

quindi sacro al di la del travaglio, l’estraniamento, l’emigrazione>>. Rimanelli

conclude, in questo struggente ricordo del suo amico fraterno, tratteggiando le due

qualità migliori della personalità di Peppe: <<La profondità del pensiero che

l’induceva a interrogarsi sulle cose della vita, ch’egli sapeva rappresentare con

indiscusso talento letterario; e la vitalità travolgente con cui sfidava le malinconie in

agguato con una gioia di vivere a tratti addirittura contagiosa>>.

88

7.4.2 Le radici di Jovine di Mario LUZZI

Il maggiore poeta italiano ricorda il poeta molisano nel quinto anniversario della sua

morte scegliendo un tema a lui caro: la sua terra e le sue radici. Prendendo come

esempio alcune poesie del poeta Molisano “Le mie radici”, “Le cose”, “La mia casa”,

Luzzi le nota “pregnanti di significati” ne “Le cose” attraverso “l’elencazione di cose

ed oggetti anche banali e quotidiani rendendole vive e depositarie di significati

profondi ed universali” e ne “La mia casa” esasperando “il sentimento della perdita”

e facendo emergere “un senso di grande umanità e profondo intelletto”.

7.5 Jovine vivo di Domenico FRATIANNI Da Nuovo Oggi Molise Venerdì 11 settembre 1998

<<Sanguigno, passionale, tumutluoso, mordace, idillico, ironico: Peppe Jovine era

tutto questo messo insieme>>. Così apre il suo ricordo il maestro Domenico

Fratianni, pittore campobassano, e fraterno amico del poeta. <<Ecco cos’era per me

Peppe Jovine! Una presenza sempre gioiosa anche quando, a volte, montavano i

furori e gli sdegni per viltà ricevute! Un “Don Chisciotte” moderno, gentile, affabile,

disponibile che non si arrendeva mai di fronte alle avversità della vita e che si

divertiva a sbeffeggiare la morte di continuo, quasi a volerla esorcizzare>>.

7.6 In memoria di Giuseppe Jovine110 di Mons Vincenzo FERRARA 110 La commemorazione viene pubblicata in due puntate dal quotidiano molisano. La seocnda parte, uscita Mercoledì 21 ottobre 1998, reca il titolo “Signore nella parola e nella vita”.

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Da Novo Oggi Molise Martedì 20 ottobre 1998

Mons. Ferrara, sottosegretario al Dicastero per il culto e i Sacramenti in Vaticano,

declama la sua commemorazione funebre nella parrocchia “Santa Maria Stella

Mattutina” a Roma. Spesso, come lo stesso Jovine amava dire, i due “incrociavano le

spade” sulle pagine della critica storica e letteraria. Jovine aveva interesse letterario

per l’analogia tra fede e poesia di cui Mons Ferrara aveva accennato in una lettera del

Natale del 1965 indirizzata al poeta. Ma quello che poteva sembrare solo in interesse

poetico si trasforma per Mons Ferrara anche in interesse religioso; con l’intento di

cogliere il luogo nascosto della fede nell’animo di un uomo come Giuseppe Jovine.

Mons Ferrara seguirà gran parte della produzione joviniana in quanto il poeta amava

conoscere i giudizi del prelato, in grado ovviamente di inquadrare i suoi scritti anche

all’interno del pensiero cattolico.

7.7 “Il poeta e la sua terra”111 di Pierluigi GIORGIO

<<Mi tornano in mente l’impeto creativo, lo sfavillio ironico degli occhi, la postura,

l’incisività, il piglio sanguigno, l’espressione>>. Perluigi Giorgio era anch’esso un

profondo amico del poeta, al quale viene dedicata una bella poesia sul suo mestiere

di narratore ambulante. Jovine considera Giorgio come lo scrigno prezioso in cui

sono racchiuse tutte le tradizioni della sua terra Molisana.

7.8 Molise orfano di poesia di Pierluigi GIORGIO 111 E’ Questo il titolo di un incontro – ricordo promosso dal sottoscritto per commemorare il primo anno della scomparsa del poeta, tenutosi a Castelmauro presso il palazzo dello scomparso poeta, organizzato con l’aiuto dell’Associazione Culturale Padre Giovanni Boccardi

90

Da Nuovo Oggi Molise Sabato 5 settembre 1998

Parlando del riguardo che il poeta aveva nei confronti del suo lavoro di scrittore e

cantastorie, Giorgio ricorda quando si fermava a parlare in via Macrobio a Roma “o

tra i compaesani in Molise, che lo fermavano e che fermava ad ogni istante,

interloquendo, impastando, scandendo e gustando il suo dialetto” Era sempre intento

a cogliere la “molisanità”, ovvero l’ingrediente segreto della sua gente. “Vita e morte

convivevano in lui in serena coscienza e lo affascinavano, così come passione e

tenerezza struggente”. Il comune denominatore tra Giorgio e Jovine è l’amore per i

segreti della loro terra con l’unica differenza che Jovine li immortala nei suoi scritti e

Giorgio li armonizza nella magia delle sue rappresentazioni sceniche.

7.9 Il Molise segreto di Giuseppe Jovine di Giulio de Jorio FRISARI Da il Tempo venerdì 29 novembre 2002

“La dura pena del vivere è mezzo di arcani significati e strumento che ha permesso

all’immaginazione dell’uomo di costruire segreti e spazi ove proteggere i momenti di

felicità ove nascondere i propri dolori”. Ecco cosa coglie Frisari nella poesia

joviniana, con la quale egli ritrova “Tra le mura delle masserie molisane una

immemorabile ricerca di sogno e di felicità” . Ogni immagine del poeta castelmaurese

lo vede ritratto con lo sfondo della sua terra, aggrappato alle sue radici. “Il senso della

fatica, il senso della sopravvivenza che si dispera e gode è stato avvertito nella

costruzione biblica del messaggio poetico di Giuseppe Jovine in cui il confronto con

la morte non ha mai ceduto alla lusinga estetizzante ma ha composto le parole con la

91

saggezza che soltanto il senso della responsabilità civica nei rispetti della storia e

dell’umanità poteva dare: esso si configura come un raro riferimento educativo”.

7.10 Se n’è andato l’ultimo poeta di Antonio SORBO

“Un tramite importante tra il Molise e la cultura nazionale, grazie al suo lavoro (come

collaboratore a Paese Sera) e ai suoi contatti (come il sodalizio con Tommaso

Fiore)”.

7.11 Roma ricorda Giuseppe Jovine di Massimo NARDI Da Nuovo Oggi Molise Venerdì 15 ottobre 1999

“Fuor di metafora, Giuseppe Jovine non poteva considerarsi certo un poeta romano,

tanto la sua vena poetica era pervasa dall’identificazione con le radici del suo Molise,

con i suoi colori, i suoi odori, il rintocco di campane perdute, eppure la sua molisanità

racchiudeva un significato universale che ha lasciato un segno profondo anche

nell’ambiente culturale della capitale. Perché del mondo culturale romano Giuseppe

Jovine era, a tutti gli effetti, un protagonista”.

92

APPENDICE

Conobbi personalmente il Prof. Giuseppe Jovine nel 1995, per una intervista su un

foglio cittadino intitolato “Che c’azzecca”. Trascorsi con lui un piacevole

pomeriggio, discutendo di poesia e di Molise. Uscendo dal Palazzo, sulla piazza del

paese, lo vedevo affaccendato con chiunque, sempre pronto alla battuta mordace e

licenziosa, senza però mai scadere nel volgare. Tempo dopo, per via di una lettera che

correggeva alcuni errori presenti nella sua intervista, iniziammo una corrispondenza

che si interruppe drasticamente nell’estate del 1998.

Così volli ricordarlo all’incontro – memoria che si tenne nel Palazzo nel novembre

del 1999, intitolato “Il Poeta e la sua terra”.

ODE A GIUSEPPE JOVINE

E quel raggio di sole giallo, misto d’un caldo azzurro cielo, bagnava di splendore la vita, là, in quell’eterno paese or ora acceso di un rosso infuocato, or ora tinto di un verde speranza. E così, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente il poeta: così, mentre un uomo sudava il suo pane, una donna l’amor dell’amato, un bimbo l’affetto di una madre. È lontano ormai quel tempo; distante come un volo di gabbiano tra onde e onde, come un volo d’aquile tra cime e cime. E la montagna dorme sommessa

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mentre, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua terra il poeta. E tu, vecchio amico d’infanzia mancato; e tu, maestro di tanti ricordi e di sogni, che unisci l’argilloso e impavido futuro al glorioso e ferreo passato, ascolta il mio pianto. I prati in fiori sorridono mentre, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente il poeta. Con spade di ferro e petali di rose, per nemici e fratelli, alzava gli occhi al cielo turchino di quell’eterno paese: or canto libero d’un poeta, or affannosa e desiosa preghiera d’un uomo. Infinito è il risveglio della natura mentre, tra un misto di colori; volgeva lo sguardo alla sua terra il poeta. Qual angelo in seno crescesti, Casteluccio mia?; quale pensiero formasti al suo grido misto d’incommensurabil amore, e di fraterno odio? E così, nell’amore e nell’odio, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente il poeta. E ora che tu, cielo, t’imbianchi e che porti dipinto d’azzurro il suo nome, sento nel cuore uno struggente ed eterno tintinnio di campane; e il pensiero mi porta lontano, tra valli sperdute di viti e d’acqua di sorgenti, a svelare la sua nuova dimora ai suoi sogni. E così un ricordo si tuffa impaziente nell’animo mentre, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua terra il poeta. E non solo l’eterno e sconfinato mormorio del passato rimpiange le or meste or pesanti parole; e quel lieve raggio di sole già guarda nei suoi occhi lo spuntar della luna. E così trascorre la vita mentre, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente il poeta. Ricordalo ora, tu, uomo che sudi il tuo pane; ricordalo ora, tu,

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donna che cerchi l’amore dell’amato; ricordalo ora, tu, bambino che cerchi un affetto di madre. Ricordalo ora, tu, mio cuore, padrone dei più lunghi sospiri: ricorda il suo genio, ricorda la sua arte; or cerca l’uomo, ora il poeta. E così una lacrima scende mentre, tra un misto di colori, volgeva lo sguardo alla sua gente il poeta. Or piangi morte nemica, che strappasti al sua voce alla sua terra; tormentati nell’affanno del tuo vile coraggio, tu che prendesti, furtiva, il suo cuore. Ahi! piangete piccole e misere stelle mentre, tra un misto di colori, da lassù, volge lo sguardo alla sua gente il poeta. Gianluca Ricciardi 17/10 1998 al prof. Giuseppe Jovine

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BIBLIOGRAFIA E PUBBLICAZIONI

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Opere dell’autore

Sezione A -Poesia dialettale -

1. Lu Pavone – Edizioni Enne – Campobasso 1983

2. Chissà se passa u Patraterne – Edizioni Il Ventaglio – Roma 1992

3. The peackok and the scraper – Edizioni Peter Lang – New York 1993

Sezione B -Poesia in lingua -

1. Tra il Biferno e la Moscova – Cartia Editore – Roma 1975

2. Viaggio d’inverno – Edizioni Enne – Campobasso 1999 (postumo)

Sezione C –Racconti-

1. La luna e la montagna – Adriatica Editore – Bari 1972

2. La sdrenga -– Edizioni Enne – Campobasso 1989

3. Cento proverbi e detti di Castelluccio Acquaborrana – Edizioni Enne –

Campobasso 1991

Sezione D - Saggistica -

1. La poesia di Albino Pierro – Il nuovo Cracas – Roma 1965

2. Benedetti Molisani – Edizioni Enne – Campobasso 1979

3. Gente alla Balduina – Gli specchi Marsilio – Roma 2005 (postumo)

Sezione E - Articoli su giornali e riviste -

Da “Il Paese”

1. A colloquio con Pejerfitte 24/05/1949

2. Su Paul Gogain 21/02/1950

97

3. Morte del diavolo 07/05/1950

4. Notturno romano 13/12/1950

5. Le prime edizioni giornalistiche 11/07/1951

6. Il gusto del canto e della poesia nel Molise 06/02/1952

7. Indagini su Leonardo 07/06/1952

8. Nascita e condanna del “Santo” di Fogazzaro 21/08/1952

9. Florilegio “atlantico” 07/11/1952

10. I canti molisani 25/02/1954

11. L’oboe prigioniero 12/11/1954

12. Donne e costumi di altri tempo 24/12/1954

13. Il simbolismo 27/01/1955

14. Umanità di Wilde 14/02/1955

15. Un duello celebre 22/03/1955

16. Lawrence d’Arabia 18/10/1955

17. La pedagogia di Makarenko 07/11/1955

18. Il dramma di Kierkegaard 24/04/1956

19. L’opera di Igino Petrone 14/05/1956

20. Sigmund Freud 06/06/1956

21. Le crudeltà storiche 22/06/1956

22. Un poeta molisano 26/06/1956

23. Viaggio nel Molise 27/09/1956

24. Una biografia di Kafka 22/02/1957

98

25. La chiesa di Canneto 30/05/1957

26. Roger Pejerfitte 13/06/1957

27. Il cavallo di Don Tito 12/01/1958

28. La poesia di Pierro 04/03/1958

29. La sogliola 25/06/1958

30. Il cappello verde 10/10/1958

31. Atlantismo 12/02/1959

32. Leopardi e la luna 21/02/1959

33. Il romanzo italiano 10/06/1960

34. Poeti molisani 02/09/1960

35. Le vicissitudini vaticane del “Santo” di Fogazzaro 31/03/1961

36. Lingua e dialetto di Ippolito Nievo 26/04/1961

Da “Paese Sera”

1. La nostalgica poesia di Pierro 07/09/1976

2. L’antica festa della radeca 06/11/1976

3. Indimenticabile scorribanda nel Molise con T. Fiore 30/12/1978

4. Un romanzo di Giose Rimanelli 14/01/1979

5. Futuristi e crepuscolari 20/02/1979

6. La poesia di Cerri 04/09/1979

7. Per lui il sesso non era tabù 20/03/1981

8. Simboli di un potere 27/11/1983

9. L’amore abruzzese è vino da nulla 08/12/1983

99

10. Il moralismo di Francesco Jovine 18/02/1984

11. L’ira sacra di Tommaso Fiore 18/02/1984

12. Cofelice non si nutre più di dialetto 20/06/1984

13. Tornar di notte come un grillo 09/05/1984

14. Il molisano cantò l’amore l’emigrazione… 17/07/1984

15. Più il liceale deve ignorar la poesia più… 05/09/1984

16. Le lotte contadine nel secondo dopoguerra 22/10/1984

17. Morte del dialetto, viva il dialetto 28/01/1985

18. Romaccia dal corpo malato 17/01/1985

19. Il compromesso tra lingua e dialetto 28/01/1985

20. Un metodo per girare Roma stando all’ombra 04/08/1985

21. Agrigento discute di Pirandello 29/12/1985

22. Fate luce sul poeta dialettale 27/03/1986

23. Una storia d’amore e rivoluzione 04/04/1986

24. Il meridione tra riso e dolore 15/07/1986

25. Grillandi lo ricordo così 08/01/1986

26. La piuma sul tetto 30/08/1988

Da “Momento Sera”

1. Casa romana dell’Acquaiolo 07/09-1949

2. Lo spadone di Zurlino 16/11/1978

Da “La Repubblica”

1. La poesia di Ungaretti 05/02/1949

100

Da “La Fiera Letteraria”

2. Amore di terra anno 49 n°32 12/08/1973

3. Poeti toscani anno 50 n° 13 31/03/1974

4. Casa Repaci anno 51 n° 16 20/04/1975

5. Orazio Belli anno 52 n° 63 14/03/1976

6. Un romanzo di D’Acunto anno 52 n° 67 11/04/1976

7. Poesie di Renzo Barzacchi anno 53 n° 108 26/09/1976

8. L’ultimo Pierro 20/02/1977

Da “Il Risveglio del Mezzogiorno”

1. Love story best seller n°2/1971

2. Poesie dal carcere n°3/1971

3. La poesia dialettale molisana n°4/1971

4. Mosca n°4/1971

5. La psicologia del fascismo n°5/1971

6. La filosofia della reazione n°6/1971

7. Una giornata di Ivan Demisovic n°6/1971

8. La cultura meridionale n°3/1972

9. Capire la Cina n°6/1972

Da “Critica Letteraria”

1. Poesia romanesca n°12 pag.613/1976

2. Graffiti di G. Rimanelli n°20 pag.628/1978

3. Meridionalità e magia nella poesia di Pierro n°22 pag99-116/1979

101

4. Nascita della poesia dialettale di A. Piero n°90 pag.429-469/1996D

Da “Crisi” l’uomo della letteratura

1. Ricordo è amore n°19-21 aa.11° G-Dic1971

Da “Misure Critiche”

1. L’avventura umana e letteraria di Giose Rimanelli n°65-67 aa17-18 pag.19

Da “Produzione e cultura”

1. Dibattito precongressuale anno I n°4 pag.66/1986

2. La difesa del dialetto anno IV pag.60-63/1990

3. Piattaforma politica 16° Congr. Naz anno V n°1-2 pag. 5-16/1991

4. Intervento 16° Congr. Naz anno V n° 3-4 pag.26/1991

5. Questioni di dialetto anno VII n°3-4 pag.34/1993

6. Le sorti del libro a Roma e in Italia anno VII N°5-6 PAG.20/1993

7. Sulle traduzioni anno VIII n° 1-2 pag.43/1994

8. Verso il congresso del S.N.S. anno VIII n°3-4 pag.8 /1994

9. Giallo a Stoccolma anno VIII n°5-6 pag.28 /1194

10. Dialettalità della poesia: Pierro annoIX n°1-2 pag. 12-13/1995

11. Il premio Nobel e altro a Stoccolma anno IX n°4-5 pag.36-37/1995

12. Dell’eleganza anno IX n°4-5 pag.23-24/1995

13. Un caso di persecuzione burocratica anno IX n°2-3 pag.7-8/1997

14. Tra Stoccolma e l’Italia anno X n°2-3 pag.7-8/1997

15. Sulle condizioni dello scrittore in Italia anno X n°4 pag.36-37/1997

102

Da “Nord e sud”

1. L’avventura umana e letteraria di F. Jovine anno 37°n°4,pag.59-74/1990

2. Albino Pierro. Ricordo di un poeta anno42°pag.92-100/1995

Da “Volume Tradizioni popolari, Atti 1° Congresso Internazionale

1. Rapporto tra arte popolare e arte colta Metaponto Lido23-24/05/1986 pag.63-68

Da “Nuovo Mezzogiorno”

1. Essere se stessi anno15°n°10 pag.24-24/1972

2. Cultura e società molisana anno23° n°9 pag.25-28/1980

Da “Rassegna delle Tradizioni Popolari”

1. In difesa del dialetto anno4°n°2 pag.15/1991

2. Ricordo di A. Dommarco anno 10°pag.16/1997

3. Benedetti Molisani anni 10° pag16-17/1997

4. Legge l’Etrusco attraverso l’Albanese anno4°pag7/1991

5. Chissa se passa u Patraterne anno5° n°4, pag.2-6/1992

Da “Molise”

1. Benedetti Molisani anno 1° n°1 pag.48-56/1977

Da “Molise Oggi”

1. Tra gli immigrati molisani in Belgio 25-10/1981

2. Tra gli immigrati molisani in Germania 01/08/1982

3. Avventura a Gadames n°31-32 pag.11/1981

4. Spettacolo e scienza da Termoli a Roma 16/06/1985

Da “Mediterraneo”

103

1. Complementarità delle culture linguistiche n°5pag.20-23/1989

Da “IL vetro” Convegno di Chianciano 1995

1. Creatività del dialetto vol.1-2pag154/1996

Da “Atti 1° Convegno Espressione Latina. Su quali valori ricerca l’uomo…

2. Complementarità delle culture linguistiche pag.44-48/1986

Da “La Lapa”

1. Danze a Castelmauro pag.23-24/1955

Da “IL Risveglio del Molise”

1. Su Igino Petrone 1964

2. Fuoco alle batterie 1966

3. Vergogna! 1966

4. Crucifige, Crucifige 1967

4a. In viaggio nell’Unione Sovietica 1967

5. Isernia, capoluogo di provincia 1967

6. Ricordo di C. Marinelli 1968

7. I Bulgari nel Molise 1968

8. Il Canto dell’Emigrante 1968

9. I cicalamenti di San Vincnezo 1968

10. Benedetti Molisani 1969

11. Il Molise nelle indagini di Felice Del Vecchio 1969

12. La luna e la provincia 1969

13. Viaggio in Molise con Tommaso Fiore 1969

104

14. Pierro in Alaska 1970

15. Amico Borrelli… 1970

16. Ricordo di G. Cerri 1970

17. Discorso sulla poesia dialettale molisana 1971

18. Ricordo di T. D’Amico 1972

19. Tra gli emigranti molisani in Svizzera 1972

20. La vessata questione dell’Università Molisana 1973

21. Guglionesi e la chiesa di San Nicola 1973

22. Il mondo antico di R. Tullio 1977

23. Il Convento 1977

24. Invito a conoscere il Molise 1977

25. Cultura e società molisana 1982

26. Ricordo di M Marracino 1982

27. I giovani molisani e la cultura 1982

28. L’uomo e l’artista (M Scarano) 1986

29. Il P.C.I. allo specchio 1986

30. Ritorno di G. Rimanelli 1987

31. Un castello per la cultura 1987

32. Il mito di Roma nei poeti e scrittori 1988

33. Cupini, da medico a scrittore 1988

34. Cara Italia, tuo Molise 1988

35. Moliseide di G. Rimanelli 1991

105

36. La pittura di D. Fratianni 1992

Da “Socialismo democratico”

1. La pena dei ricordi… 1964

2. Gli scrittori e il romanzo sceneggiato 1965

- Altri scritti-

1. Non ci sta - Il cavallo di Troia 1982

2. Coraggiosa maestra di Campagna – L’Unità 1988

3. È possibile ridare autorità al sapere? – Tuttoscuola 1980

4. Insegnamento confessionale e non - Scuola e didattica 1981

5. Informaitca e scuola – Computer 1990

6. L’orologio del Pincio – Lares 1982

Da “Letteratura italiana del 900: Il ritorno di Giose Rimanelli –pag.1063-1069- Editore Marzoratti 1989 Da “Il Tempo Molise”

1. Morire è peccato 2/11/1993

2. Mani pulite in Molise 08/10/1993

3. Le tre povertà del Sud in crisi 03/1994

Bibliografia critica

- Antologie - 1. GABRIELE DI GIAMMARINO, Il dialetto di Jovine, “ L’atrio delle Muse” –

Edizioni Fratelli Conte, Napoli 1969

106

2. ANDREA CALARCO – GABRIELE DI GIAMMARINO – MARIO TICCONI , Momenti, “Antologia italiana per le scuole medie” – Vol.1° - Edizioni Fratelli Conte, Napoli 1972

3. ANDREA CALARCO -GABRIELE DI GIAMMARINO – MARIO TICCONI, Comunicare con… “Antologia italiana per le scuole medie” – Vol.2° - Edizioni Fratelli Conte, Napoli 1980

4. GABRIELE DIGIAMMARINO – MARIO TICCONI, Mille pagine - Edizioni Loffredo, Napoli 1988

5. R MAGHERESCU, Scrittori del Messaggio, “Antologia Autori Italiani e Romeni” –Edizioni Istar, 1995

6. Spazio totale, “Antologia del 3° reading di Poesia Contemporanea” – Edizioni Tracce

7. FRANCO LOI - DAVIDE RONDONI, Il pensiero dominante, “Antologia Poesia Italiana” – Edizioni Garzanti 2001

- Dizionari – 1. LUIGI BONAFFINI, “Dictionary of Literary Biography” – Vol.128 – New York

1992 2. LUIGI BONAFFINI, Twentieth – Century Italian Poets, “Dictionary of Literary

Biography” – Second series – New York 1992 3. VINCENZO ROSSI, Giuseppe Jovine, “Dizionario dei poeti del 2000 – Edizioni

Latmag, Bolzano 1993 - Giornali e riviste – 1. P. ALTOBELLI MASCIANGELI, Le traduzioni in dialetto di Giuseppe Jovine,

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di Reggio” – 5/10/1965 3. SABINO D’ACUNTO, Un saggio di Jovine su Pierro, “La Tribuna del Molise” –

Roma, 31/07/1965 4. GIULIANO MANACORDA, Un libro su Pierro, “Paese sera” – 06/08/1965 5. FRANCO SIMONGINI, Un saggio su Pierro, “Socialismo Democratico” –

Roma, 27/02/1966 6. EMILIO CECCHI – NATALINO SAPEGNO, Storia della letteratura italiana, “Il

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Adriatica – Bari, 1970 9. TOMMASO FIORE, Un autentico poeta, “Il Risveglio del Mezzogiorno” – Bari –

Marzo-Aprile 1970

107

10. SABINO D’ACUNTO, Un libro di Jovine sul Molise, “Molise Oggi” – Campobasso, 20/02/1970

11. MASSIMO GRILLANDI, La Poesia di Jovine, “Il Risveglio del Mezzogiorno” – 22/06/1970

12. SABINO D’ACUNTO, Lo stilnovismo di Jovine, “Echi d’Italia” – Roma 1971 13. GIANNI BARRELLA, La vocazione del romanzo, “Il Giornale d’Italia” –

08/11/1972 14. TOMMASO FIORE, Prefazione a La Luna e la Montagna, Edizioni Adriatica –

Bari 1972 15. PAOLO GIOVANNELLI, Giuseppe Jovine narratore, “Attraverso l’Abruzzo” –

Pescara – Ottobre 1972 16. WALTER MAURO, Dove va la cultura meridionale?, “Scrittori del Sud” –

Edizioni Nuovo Mezzogiorno – Roma, Ottobre 1972 17. MASSIMO GRILLANDI, I racconti di Giuseppe Jovine, “Il Ponte” – 31/03/1973 18. IRENE MARUSSO, I racconti di Jovine, “Il Faro” – Palermo 03/10/1973 19. SALVATORE MOFFA, I racconti di Jovine, “Il Risveglio del Molise” – Roma –

Marzo 1973 20. MASSIMO GRILLANDI, Prefazione a Tra il Biferno e la Moscova, “Tra il

Biferno e la Moscova” - Edizioni Cartia – Roma 1975 21. MARIO LUNETTA, Linea meridionale della poesia di Jovine, “L’Unità” –

15/12/1975 22. LUIGI VOLPICELLI, Premessa a Tra il Biferno e la Moscova, “Tra il Biferno e

la Moscova” - Edizioni Cartia – Roma 1975 23. MARIO POMILIO, La narrativa del Molise, “Il Tempo” – 27/06/1975 24. TITINA SARDELLI, “Narratori Molisani” – pag.165 – Edizioni Marinelli –

Isernia 1975 25. GIANNI BARRELLA, Il Molise emblematico di Giuseppe Jovine, “Il Giornale

d’Italia” – 16/03/1976 26. TITINA SARDELLI, “Poeti Molisani” – pag.55 – Edizioni Marinelli – Isernia

1977 27. UGO REALE, Benedetti Molisani, “Nuovo Mezzogiorno” – Maggio 1979 28. ANDREA DE LISIO, Benedetti Molisani, “Oggi e Domani” – Pescra, 08/08/1979 29. PITRO CIMATTI, Premessa a Benedetti Molisani, “Benedetti Molisani” –

Edizioni Enne – Campobasso 1979 30. VINCENZO FERRARA, Benedetti Molisani, “Molise Oggi” – Campobasso,

23/03/1980 31. FRANCESCO D’EPISCOPO, Benedetti Molisani, “Critica Letteraria” – n°29 –

Napoli 1980 32. TOMMASO FIORE, Gli studi di Jovine su Pierro, “Lettere ad Albino Pierro”

curate da Aldo Rossi e Paola Sgrilli su “Poliarma” Edizioni Cappelli, 1980 33. MARIO GABRIELE, I racconti di Jovine, “Poeti del Molise” – Edizioni Forum –

pag.46 – Forlì 1981 34. MARIO GABRIELE, La poesia di Jovine, “Poeti del Molise” – Edizioni Forum –

pag. 7 – Forlì 1981

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35. ANTONIO MOTTA, Omaggio a Pierro, - pag.22 – Edizioni Licata – Manduria 1982

36. TULLIO DE MAURO, Premessa a Lu Pavone, “Lu Pavone” –Edizioni Enne – Campobasso 1983

37. STEFANO GENSINI, La poesia in molisano di Jovine, “Paese Sera” – 01/07/1984

38. SALVATORE MOFFA, La poesia di Jovine, “Nuova Dimensione” – Isernia 1984 39. NICOLA IACOBACCI, Lu Pavone, “La Scuola Molisana” – Campobasso –

03/06/1985 40. P SERARCANGELI, La Poesia di Jovine, “Il Calandrino” – Roma – 21/08/1985 41. FRANCESCO D’EPISCOPO, Il racconto poetico di Jovine, “Nuovo

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Scarano – Cassino, 20/09/1985 43. RENZO BRESCIANI, La lezione di Jovine, “Il Giornale di Brescia” – 29/10/1985 44. FRANCO SIMONGINI, La pittura di Marcello Scarano, “Il Tempo” 07/03/1986 45. GILDA ANTONELLI, Lu Pavone, “Il Tratto d’Unione” – Brindisi – 1986 46. UGO REALE, Undici poeti del Sud, “Nuovo Mezzogiorno” – 07-04/1986 47. ORAZIO TANELLI, La poesia di Jovine, “Nuova Dimensione” – Isernia –

Ottobre 1986 48. ETTORE PARATORE, Il Convegno di Tursi, “Il Tempo” – 30/06/1986 49. PIETRO TRIVELLI, Incontro con Jovine, “Il Messaggero” – 08/03/1988 50. CARLO LAURENZI, Narrate la nostra storia, “Il Giornale” – 29/10/1990 51. NICOLETTA PIETRAVALLE, La Sdrenga, “Il Tempo” – 17/05/1991 52. M DI TOMMASO, La Sdrenga, “Molise Oggi” – Campobasso – n°28 –

20/07/1991 53. RENATO CIVELLO, Se Orazio e Marziale parlassero in dialetto, “Il Secolo” –

17/05/1992 54. FRANCESCO D’EPISCOPO, La Passione e la Parola, “Oggi e Domani” –

Pescara 1992 55. FRANCESCO DESIDERIO, Le Traduzioni in dialetto di Jovine, “Oggi e

Domani” – Pescara 1992 56. CARMELA DI SOCCIO, L’ennesima avventura di Jovine, “Corriere del Molise”

– 16/04/1992 57. ROSANNA JACOVINO, Il Molise di prestigio, “Forche Caudine” – 27/02/1992 58. MICHELA MASTRODONATO, Lu Pavone, la Perla del Molise, Bologna 1992 59. MARIO GRAMEGNA, La poesia di Jovine, “Letteratura Dialettale Molisana” –

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“Rassegna delle Traduzioni Popolari” – pag. 30. – Gravina di Puglia 1993 61. GILDA ANTONELLI, Lu Pavone, “Il Ponte Italo Americano” – 1993 62. LUIGI BONAFFINI, Introduzione a The Peacock – The Scraper, “The Peacock

and The Scraper” – Edizioni Peter Lang – New York 1993 63. DARIA GRIMANI, Il Molise che non va, “Forche Caudine” – 1993

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64. LUIGI BONAFFINI, Introduzione a Poesia dialettale del Molise, Edizioni Marienelli – Isernia 1993

65. IRENE MARUSSO, La poesia di Jovine, “Il Giornale di Sicilia” – 09/04/1993 66. SEBASTIANO MARTELLI, I racconti di Jovine, “Letteratura delle Regioni

d’Italia – Molise” pag. 46,51,52,55,56,70,71,139,233,235 – Edizioni La Scuola – Brescia 1994

67. Al bar con lo scrittore Jovine, “Il Tempo Molise” – 08/12/1994 68. F. DE NICOLA – GIULIANO MANACORDA, Poesia in Italia nel 1995, “I

Limoni” – pag. 153- Edizioni caramanica – 1995 69. LUIGI BONAFFINI, Worl Literature Today, “A Literary Quarterly of The

University of Oklahoma” – pag. 281-282, 287-288 – Maggio 1997 70. FRANCO LOI, Versi scaturiti tra i sassi e gli sterpi, “Il Sole 24 ore” –

05/01/1997 71. ANTONIO SORBO, Se n’è andato l’ultimo poeta, “Nuovo Molise” –

Campobasso - 30/08/1998 72. PITRO CORSI, Peppe jovine se n’è andato, ricordo di un amico, “Nuovo Molise”

– Campobasso – 01/09/1998 73. SERGIO BUCCI, Quel Benedetto Molisano, “Nuovo Molise” – Campobasso –

01-09/1998 74. GIOSE RIMANELLI, Il mio amico D’Artagnan, “Nuovo Molise” – Campobasso

– 04/09/1998 75. RITA FRATTOLILLO, Peppe picaro e gentiluomo, “Nuovo Molise” –

Campobasso – 04/09/1998 76. PIERLUIGI GIORGIO, Molise orfano di poesia, “Nuovo Molise” – Campobasso

– 05/09/1998 77. DOMENICO FRATIANNI, Jovine vivo, “Nuovo Molise” – Campobasso –

11/09/1998 78. GIOSE RIMANELLI, Omaggio inedito, “Nuovo Molise” – Campobasso –

11/09/1998 79. VINCENZO FERRARA, In Memoria di Giuseppe Jovine, “Nuovo Molise” –

Campobasso – 20/10/1998 80. VINCENZO FERRARA, Signore nella parole e nella vita, “Nuovo Molise” –

Campobasso – 21/10/1998 81. MASSIMO NARDI, Gli amici dell’UNS ricordano Giuseppe Jovine, “Notiziario

dell’Unione Nazionale Scrittori” – anno1°, n°24 –Novembre 1998 82. CARLO JOVINE, Un ricordo di mio padre, “Nuovo Molise” – Campobasso –

19/11/1998 83. FRANCA MARTINO, L’Ultimo viaggio di Giuseppe Jovine, “Musa Romana” –

anno 1°, n° 2 – Novembre 1998 84. ANTONIO PASQUALE, Quel Benedetto Molisano di Jovine, “Musa Romana” –

anno 1°, n°2 – Novembre 1998 85. GIOSE RIMANELLI, Letteratura come racconto, campagna- città, dialetto-

lingua, “Studi Italiani” – pag.155-182 – anno X – Edizioni Cadmo 1998

110

86. GIOSE RIMANELLI, A Peppe jovine tra canto ed aneddoto, ovvero frammenti di un discorso in corso… , “Gradiva” – Vol.7, N°1 – Pag.63-85 – 1999

87. GAETANA PACE, Giuseppe Jovine, un uomo del suo e del nostro tempo, “Il Belli” – pag.75-76, n°1 – Aprile 1999

88. S FOLLIERO, Ricordando Giuseppe Jovine, poeta e narratore, “Pomezia Notizie” – pag.5 – Aprile 1999

89. IVO DAVID, Poeti molisani contemporanei, “Il Ponte Italo – Americano” – pag.5-6, anno 10°, n°3 – Maggio 1999

90. VINCENZO FERRARA, In Viaggio d’Inverno, lo Jovine…cristiano, “Nuovo Molise” – Campobasso – 25/06/1999

91. VINCENZO FERRARA, Finalità pedagogiche della poesia di Jovine, “Nuovo Molise” – Campobasso – 02/07/1999

92. VITTORIA TODISCO, Un premio nazionale di poesia intitolato a Peppe Jovine, “Nuovo Molise” – Campobasso – 30/05/1999

93. CARLO JOVINE, Mio padre Giuseppe Jovine, poeta per stile di vita, “Il Tempo” – 13/10/1999

94. MASSIMO NARDI, Roma rende omaggio alla poesia del Molise, “Il Quotidiano del Molise” – Campobasso – 19/10/1999

95. MASSIMO NARDI, Roma ricorda Giuseppe Jovine, “Nuovo Molise” – Campobasso – 15/10/1999

96. Il Premio Nazionale di Poesia in memoria di Giuseppe Jovine, “Nuovo Molise” – Campobasso – 06/08/2000

97. I vincitori del premio Jovine, “Il Messaggero” – 25/08/2000 98. Il Premio Jovine, “Il Mattino” – 22/08/2000 99. Assegnato il Premio Jovine, “L’Avvenire” – Roma 22/08/2000 100. I vincitori del Premio Jovine, “Il Tempo Molise” – Campobasso – 26/08/2000 101. Assegnato il Premio Jovine, “Il Quotidiano del Molise” – Campobasso –

27/08/2000 102. FRANCESCO D’EPISCOPO, Nel labirinto delle passioni, “Il Quotidiano del

Molise” – Campobasso – 27/08/2000 103. CARLO JOVINE, Mio padre, poeta per stile di vita, “Il Quotidiano del

Molise” – Campobasso – 27/08/2000 104. Il Premio Jovine, “Il Tempo Molise” – Campobasso – 27/08/2000 105. Ricordando il poeta gentiluomo, “Nuovo Molise” – Campobasso – 03/09/2000 106. MARIO DI NUNZIO, Giuseppe Jovine, o della passione e della pietas,

“Novecento Molisano” – pag.133-143 – Edizioni Palladino – 2001 107. La poesia dialettale, “Il Quotidiano del Molise” – Campobasso- 18/08/2002 108. CAMILLO VITI, Il Premio Jovine, “Il Tempo” – 01/09/2002 109. GIULIO DE JORIO FRISARI, Ricordando lo scrittore Giuseppe Jovine, “Il

Tempo Molise” – Campobasso – 20/11/2002 110. GIULIO DE JORIO FRISARI, Il Molise segreto di Giuseppe Jovine, “Il

Tempo” – 29/11/2002 111. MARIO LUZZI – GIOSE RIMANELLI, Giuseppe Jovine cinque anni dopo,

“Il Quotidiano del Molise” – Campobasso – 08/09/2003

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A mio padre Vincenzo e mia madre Teresa che non mi hanno mai fatto mancare il

loro sostegno, a nonna Maria Donata che ha trepidato insieme a me ad ogni esame.

A Giulia, Simona e Caterina, preziose collaboratrici in terra d’Abruzzo; ed

Annamaria Iorio che non mi ha mai negato la propria ospitalità nelle vigilie

importanti.

A Vincenzo Iuliano, futuro e promettente architetto, che mi ha aiutato a superare

l’esame più difficile, quello di Storia dell’Arte.

Un saluto particolare a Bonfitto Michelina e Straniero Enrico che mi hanno fatto

sorridere in un momento non proprio felice.

A tutti coloro che mi hanno sopportato non facendomi mai mancare amicizia e

comprensione.

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