in questo numero - Familiaris Consortio / AMI · Guarire significa riportare alla luce della...

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Foglio di formazione e informazione per i volontari dell’Associazione Maria Immacolata Anno VII - n.21 SETTEMBRE 2007 Sped. Abb. Post. D.L. 353/2003, conv. L. 46/2004, art.1, c.1 DCB Milano Reg. Tribunale Milano N.941 del 16 dicembre 2005 In caso di mancato recapito restituire al mittente C.M.P. Roserio - Milano, detentore del conto in questo numero EDITORIALE L a guarigione è una meta ben presente all’uomo. Basta incontrarlo nella malat- tia per vederlo frustrato, inutile, vittima di ingiustizia. La cronicità della malattia è per- cepita – credo da tutti - come una disgrazia, al più da subire con rassegnazione. Il suo “valore” non è immediatamente manifesto. Occorre fare un lungo percorso sotto buona guida per approdare a qualche significato. Lo scopo della vita è “conoscere, amare e servire Dio e goderlo nell’altra vita”, dice il Catechismo. Che cosa può significare que- sto se non che quel pieno godimento può essere anticipato in parte nel modo di affrontare gli eventi della vita, riscoprendo un rapporto interpersonale con Lui? È la felicità che motiva ogni fatica dell’esistenza. La ricerca della guarigione è connessa con la ricerca della felicità attraverso la terapia riabilitativa del corpo e dello spirito. Il contesto in cui viviamo si chiama società. E il nostro disagio nasce anche da una socie- tà malata. Non si può pensare al proprio benessere senza mettersi in relazione con la realtà soffocante di questo mondo. Il nostro corpo è un’unità e ogni sua parte partecipa alle sue gioie e ai suoi dolori. Così siamo noi nella società, frammento di un’unità che rivendica il diritto di stare bene contribuen- do al benessere totale della società “La mor- te di un bambino è la morte del mondo inte- ro” (Nuerid Elhanan). Guarire significa riportare alla luce della memoria le ferite della nostra società per curarle e sanarle. Se si sbaglia diagnosi, se si coprono certe magagne per pietismi diversi o ottusità ideologiche, la società non potrà essere né curata e tanto meno guarita. Affondiamo il bisturi della verità nelle pia- ghe purulente del vivere quotidiano. Davanti alle denunce per immagini o per commenti giornalistici non creiamo assue- fazione e senso di impotenza o rassegnazio- ne. Ma tutta l’opinione pubblica, sostenuta dai suoi rappresentanti istituzionali, dovrebbe operare interventi coraggiosi. La politica non può barattare l’uomo per esi- genze di mediazione. E non si nascondano i sintomi e tanto meno non si demonizzino quelle voci coraggiose e profetiche che offrono la verità salutare per poter interve- nire, curare e guarire. Il male non va nasco- sto sia esso fisico, psicologico, morale e sociale. La nostra società deve finalmente risvegliarsi dal sopore del perbenismo, del lasciare fare e lasciare dire. Le coscienze individualistiche, che non si mettono in sin- tonia con l’unità perché vedono solo il pro- prio piacere e interesse, negano la comples- sità della ricerca del bene comune. Mi augu- ro che gli uomini che sono preposti alla gui- da o occupano posti di rilievo sappiano far- si interpreti del bisogno di salute del corpo sociale e con opportuni interventi raggiun- gano qualche obiettivo. La nostra società ha bisogno di uomini che seminino, portino, offrano speranza. Per questo chiediamo di guarire dalla follia della guerra, delle guerre, dai meccanismi perversi che trascinano nella morte milioni di persone di ogni età soprattutto indifesi, donne e bambini, anziani e povera gente. Che cosa cerca chi governa? Chiediamoglie- lo: perché ti sei fatto eleggere? Solo per occupare un posto in parlamento o in qual- siasi ambito di responsabilità politica o amministrativa? Perché la corsa ad accapar- rarti il primo posto? Noi vorremmo che tu ci offrissi come credenziali l’intelligenza della mente, la sapienza del cuore e la capa- cità di cercare e proporre il bene comune e quindi la pace. Ti chiediamo di vegliare sul- le fragilità umane. Ogni decentramento del potere sia per raggiungere meglio l’uomo nel suo bisogno di giustizia. Credo che occorra proclamare il valore di coscienze ben formate perché sappiano operare in maniera eticamente corretta e competente. Allora guarire significa allontanare gli scan- dali, gli abusi, gli interessi privati e farsi ser- vi del bene comune. don Carlo Stucchi Nel prossimo numero Le malattie mentali: la depressione

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Foglio di formazione e informazione per i volontari dell’Associazione Maria Immacolata

Anno VII - n.21 SETTEMBRE 2007

Sped. Abb. Post. D.L. 353/2003, conv. L. 46/2004, art.1, c.1 DCB Milano Reg. Tribunale Milano N.941 del 16 dicembre 2005In caso di mancato recapito restituire al mittente C.M.P. Roserio - Milano, detentore del conto

in questo numero

EDITORIALE

La guarigione è una meta ben presenteall’uomo. Basta incontrarlo nella malat-

tia per vederlo frustrato, inutile, vittima diingiustizia. La cronicità della malattia è per-cepita – credo da tutti - come una disgrazia,al più da subire con rassegnazione. Il suo“valore” non è immediatamente manifesto.Occorre fare un lungo percorso sotto buonaguida per approdare a qualche significato.Lo scopo della vita è “conoscere, amare eservire Dio e goderlo nell’altra vita”, dice ilCatechismo. Che cosa può significare que-sto se non che quel pieno godimento puòessere anticipato in parte nel modo diaffrontare gli eventi della vita, riscoprendoun rapporto interpersonale con Lui? È lafelicità che motiva ogni fatica dell’esistenza.La ricerca della guarigione è connessa conla ricerca della felicità attraverso la terapiariabilitativa del corpo e dello spirito.Il contesto in cui viviamo si chiama società.E il nostro disagio nasce anche da una socie-tà malata. Non si può pensare al propriobenessere senza mettersi in relazione con larealtà soffocante di questo mondo. Il nostrocorpo è un’unità e ogni sua parte partecipaalle sue gioie e ai suoi dolori. Così siamo noinella società, frammento di un’unità cherivendica il diritto di stare bene contribuen-do al benessere totale della società “La mor-te di un bambino è la morte del mondo inte-ro” (Nuerid Elhanan).Guarire significa riportare alla luce dellamemoria le ferite della nostra società percurarle e sanarle. Se si sbaglia diagnosi, se sicoprono certe magagne per pietismi diversio ottusità ideologiche, la società non potràessere né curata e tanto meno guarita.Affondiamo il bisturi della verità nelle pia-ghe purulente del vivere quotidiano.Davanti alle denunce per immagini o percommenti giornalistici non creiamo assue-fazione e senso di impotenza o rassegnazio-ne. Ma tutta l’opinione pubblica, sostenutadai suoi rappresentanti istituzionali,

dovrebbe operare interventi coraggiosi. Lapolitica non può barattare l’uomo per esi-genze di mediazione. E non si nascondano isintomi e tanto meno non si demonizzinoquelle voci coraggiose e profetiche cheoffrono la verità salutare per poter interve-nire, curare e guarire. Il male non va nasco-sto sia esso fisico, psicologico, morale esociale. La nostra società deve finalmenterisvegliarsi dal sopore del perbenismo, dellasciare fare e lasciare dire. Le coscienzeindividualistiche, che non si mettono in sin-tonia con l’unità perché vedono solo il pro-prio piacere e interesse, negano la comples-sità della ricerca del bene comune. Mi augu-ro che gli uomini che sono preposti alla gui-da o occupano posti di rilievo sappiano far-si interpreti del bisogno di salute del corposociale e con opportuni interventi raggiun-gano qualche obiettivo. La nostra società habisogno di uomini che seminino, portino,offrano speranza. Per questo chiediamo di guarire dalla folliadella guerra, delle guerre, dai meccanismiperversi che trascinano nella morte milionidi persone di ogni età soprattutto indifesi,donne e bambini, anziani e povera gente.

Che cosa cerca chi governa? Chiediamoglie-lo: perché ti sei fatto eleggere? Solo peroccupare un posto in parlamento o in qual-siasi ambito di responsabilità politica oamministrativa? Perché la corsa ad accapar-rarti il primo posto? Noi vorremmo che tuci offrissi come credenziali l’intelligenzadella mente, la sapienza del cuore e la capa-cità di cercare e proporre il bene comune equindi la pace. Ti chiediamo di vegliare sul-le fragilità umane. Ogni decentramento delpotere sia per raggiungere meglio l’uomonel suo bisogno di giustizia. Credo cheoccorra proclamare il valore di coscienzeben formate perché sappiano operare inmaniera eticamente corretta e competente.Allora guarire significa allontanare gli scan-dali, gli abusi, gli interessi privati e farsi ser-vi del bene comune.

don Carlo Stucchi

Nel prossimo numero

Le malattie mentali:la depressione

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ASCOLTami n.21 - settembre 2007 - pag. 2

parliamo di...

Nel 2006 si è tenuto a Bologna un con-vegno di grande importanza dal tito-

lo "Pace e Psicanalisi". Non potete ricordar-vene: nessun giornale italiano ha ritenutodi darne notizia! Eppure fra i relatori dirilievo c'era Nuerit Peled Elhanan* che, dal"regno sotterraneo" dei bambini morti,ebrei e palestinesi, vuole riportare alla lucedella memoria le storie di vita interrottedall' atroce conflitto medio-orientale.I suoi ricordi (non è una oratrice, ma quan-do parla fa venire i brividi), la sua vocestraziata che piange per i figli, i figli uccisidi tutte le madri, l'hanno spinta a fondareun Centro di Riconciliazione insieme conIzzat Ghazzawi, padre di un ragazzo pale-stinese ucciso sulla linea di confine.Ci sembra cosa buona portare all' attenzio-ne e alla riflessione di tutti, alcune sue con-siderazioni, gridate con passione, dedicatea tutte le madri per rafforzarne la voce eper ricordare che "la morte di un bambinoè la morte del mondo intero".Questa la sua voce che ha colmato i vuotidi disattenzione, di disimpegno, del nostroessere precario. A Bari, nel novembre 2002ha detto: "... La maternità è l'unico e comu-ne denominatore che vince sulla nazionali-tà, sulla razza, sulla religione. Le madrisono le sole che riescono a far fronte aipolitici e ai generali e ci sono sempre riu-scite, fin dai tempi biblici, quando le mogliebree riuscivano a spuntarla sul faraone,sfuggendo al suo ordine di uccidere i neo-nati. ... Le madri sono le migliori insegnan-

IL LINGUAGGIODEL “NOI” Per guarire

ti del mondo. Difatti non fallisce unamadre nell'insegnare ai propri figli, qua-lunque possa essere l'handicap del suobambino. Questa è la ragione per cui lemadri possono essere le agenti principalidi un cambiamento nell' educazione.Ma l'educazione della madre è "stravolta"da agenti educativi "altri" che, attraverso illinguaggio, alterano i comportamenti cor-retti. Così"... ai bambini israeliani è presen-tato un concetto di "noi" che li separa dailoro vicini con cui dovrebbero invece con-dividere la quotidianità...". I nostri bambi-ni non imparano come parlare all' altro (ilbambino palestinese) non sanno dialoga-re... il dialogo infatti è il luogo in cui le dif-ferenze di potere, di saperi e di principi, ledifferenze di desideri, vengono costante-mente negoziate."Le persone che non accettano le differenzee non sono ancora pronte ad aprire se stes-se ad ogni tipo di conoscenza e valore, nonpossono parlare all' altro. Possono conti-nuare a prendersi in giro, ingannarsi e

umiliarsi reciprocamente, ma non riusci-ranno a parlare con l'altro"."I nostri bambini muoiono perché cresconosecondo principi di discriminazione trasangue e sangue. Nel dialogo, nessunaparola è così ideologicamente ed emotiva-mente carica come la parola "noi".Quando dico "noi", non intendo gli ebrei ogli israeliani. Intendo la gente che vede lavita come la vedo io. E alcuni tra questagente sono segnati dalla morte per sempre.Quando dico "noi" intendo i miei amiciisraeliani che hanno giurato di fronte alletombe aperte dei loro figli che nonostanteavessero perso i loro bambini non avrebbe-ro mai perso la testa"..."Mi riferisco alle madri che si rifiutano didesiderare la vendetta per la morte dei lorofigli uccidendo i figli di un' altra donna"."Noi siamo coloro che devono dire al mon-do che la morte di un bambino, qualsiasibambino, in Palestina o in Israele, in Afga-nistan o in Cecenia, è la morte del mondointero"."Dunque siamo quelli che dovrebbero direal mondo che l'unico modo per l'umanitàdi sopravvivere è di unirsi per gridare que-sta antica voce, che è sempre stata lì, lavoce della maternità, gridarla fino a cherenda sorde tutte le altre voci" ."Noi siamo coloro che devono chiedere cheil mondo ridefinisca i propri valori e prio-rità, ridefinisca il crimine, la colpa, i dirittidei bambini e i doveri degli adulti e quindiridefinisca l'educazione e la giustizia"."Noi siamo quelli che dovrebbero finire laguerra, perché sappiamo che non importaquale bandiera è posta su quale montagna,non importa chi guarda "dove" quandoprega, e sappiamo che niente è più impor-tante del rendere sicura la strada che per-correrà una ragazza andando a lezione didanza."Noi siamo coloro che hanno pianto con lapoetessa russa Anna Achmatova, checonosceva lo stesso dolore, quando abbia-mo guardato la nostra piccola bambina o ilnostro piccolo bambino per l'ultima volta,prima di girare le spalle e lasciarli nellemani di estranei. Perché quella striscia disangue ha lacerato il petalo della tuaguancia?".

Fonte: Ettore Masina, giornalista e scrittoreTesto curato da Giulia Oteri ed estratto da “Annali della Carità”n°3. 2007

QUESTA RUBRICA RIPORTA DUE CONTRIBUTI CHE, CON TAGLIO DIVERSO E DI DIVERSO ORIZZONTE, HANNO COMEDENOMINATORE COMUNE LA RESPONSABILITÀ CIVILE E UMANA DI FRONTE A CIÒ CHE ACCADE ATTORNO A NOI.

L’INDIFFERENZA FAVORISCE IL DILAGARE DELLA VIOLENZA E DEL MALE IN GENERE. PER CONTRASTARLO BISOGNAOSARE QUALCHE REAZIONE. LA PAURA FA RINTANARE IL BENE E RINGALLUZZIRE LA PREPOTENZA DEL MALE.

* Nuerit Peled Elhanan è docente universitaria di'linguaggio ed educazione" e traduttrice, scrittri-ce e madre israeliana. Si attiva per la pace fraPalestina e Israele nonostante l’assassinio di unasua bambina in un attentato terroristico. Nel2001 ha ricevuto dal Parlamento Europeo il pre-mio Sakarov per i diritti umani.

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EDUCARE ALLA RELAZIONECON IL PROSSIMO

Esistono azioni contrarie alla legge e allaconvivenza sociale che non possono

essere chiamate semplicemente reati, per-ché non è possibile stigmatizzarle né cata-logarle e metterle nel calderone della sem-plice, quotidiana delinquenza, dove tuttosta, senza ulteriori fremiti. Persino in unagalera, dove è molto difficile indignarsi,esiste un'inaccettabilità radicale a quelsistema antagonista al vivere civile: non èmai ammissibile, nemmeno per i carcerati,usare violenza sulle donne e sui bambini.Troncare la vita di una donna che attendeun figlio, percuoterla per giorni, mesi, fin-ché come un fiore si recide il gambo. Pla-giare e violentare i bambini, arrenderliall'infamia più grande. Innanzi a questigesti orribili diventa urgente la nostraattenzione, la presenza: ciò che corrode laragione e la coscienza collettive, quandoesplodono tragedie di questa natura, stasoprattutto nella mancanza di responsabi-lità sociale dei più.È difficile pensare a una violenza trasmes-sa e praticata giorno dopo giorno, maancor più difficile, se non incomprensibile,è il non accorgersi della devastazione cheincombe «nell' orto del vicino». Sarà laliceità con cui ciascuno evita la collisionecon se stesso, il menefreghismo, il conside-

rare tempo perso quello speso a costruirerelazioni solidali con chi è vicino di casa,vicino a noi. Oppure perché è più facile sbalordirci escandalizzarci a cose fatte, piuttosto cheintervenire prima con la ragione delleparole e dei sentimenti.E tuttavia pare strano non accorgersi delleinciviltà altrui, del rumore che causa la vio-lenza, perché la violenza non è muta, non èriguardosa della libertà altrui, la violenzaprotratta, perseverante, è una bestia feroceche non se ne sta rintanata, bensì ottusa-mente aggrappata alla sua pratica. Donnedilaniate dalla prepotenza maschile, bam-bini piegati di lato dall'urto con la miseriaumana, anziani messi da parte dalle prete-se filiali che esigono tutto e subito, e a tuttii costi: queste realtà portano a una convi-venza che disconosce l’educazione dellimite, l’educazione al rispetto del prossi-mo, l’educazione al valore della famiglia.Con l'aiuto degli altri, invece, anche 1a sof-ferenza può riportarci a galla e farci trova-re dentro di noi la capacità di trarre daivalori l'energia per diventare personemigliori.

Vincenzo Andraous

(Da “Avvenire” giugno 2007)

visti e letti per voi

Che cosa intendiamo per “guarigione”?Certo, prima di tutto guarigione del corpo.Tutti l’abbia-mo sperimentata in occasione di lievi malattie senzasoffermarci troppo a riflettere su questo evento bene-fico. È solo nel caso di malattia grave, fonte di grandisofferenze e forse mortale che la guarigione diventa unevento straordinario, ma anche misterioso.Il primo libro che vi propongo è di Giovanna TilcheNociti, Salto di corsia (Rizzoli, 1985): di fronte alla dia-gnosi di sclerosi multipla l’autrice rifiuta di rassegnarsi einizia la sua battaglia alla ricerca di una cura fino all’in-contro con un medico e alla sperimentazione di unanuova terapia che finalmente blocca il male e le per-mette di iniziare il cammino verso la guarigione.Ma quando non ci sono cure efficaci? “Guarigione” puòessere allora accettazione, discernimento, condivisione:portare gli uni i pesi degli altri. È il percorso compiutoda Chiara M (Crudele dolcissimo amore, ed. San Paolo,2005), che la porta non solo ad accettare e a convive-re con la propria malattia, ma a comprendere cheanche lei ha un compito da svolgere: “Ho capito che(noi malati) dobbiamo aiutarvi ad aiutarci. Voi nonsapete come fare e noi non abbiamo il coraggio di par-larvi, perché convinti di essere scartati a vita da unmondo che premia solo l’attivismo, la carriera, la salute,la bella presenza”.Come la malattia, anche la guarigione assume unavalenza diversa a seconda della storia personale. Peruna riflessione più ampia sul tema segnalo il saggio diChristelle Javary, La guarigione. Quando la salvezza pren-de corpo (ed. Queriniana, Brescia, 2005), in cui l’autriceprende in esame i vari aspetti del fenomeno, quale sipresenta oggi ai cristiani: una interessante rilettura delVangelo, ma anche un’analisi delle guarigioni miracolo-se, del rapporto tra malattia e peccato, tra guarigione egrazie nella guarigione interiore. Affido a lei, a una suaproposta, la conclusione di questi numeri del giornalededicati alla guarigione: “Cristiani e pagani desideranoguarire. E guariscono o non guariscono per lo più senzaconoscerne la ragione. Per questo il dialogo tra i cristia-ni e la cultura contemporanea può assumere la formadi una lotta comune per la vita, la vita da accogliere, lavita da onorare e da accompagnare fino alla morte”.

Sara Esposito

Quercia spezzataCome ti hanno, albero, spezzato,Come stai dritto nella tua stranianza!Mille volte hai sopportatoFinché furono in te tenacia e volontà!Io ti somiglio, con le mie ferite,non ho tradito la vita offesaE ogni giorno dalle asprezze subiteAlzo ancora la fronte nella luce.Quanto c’era in me di dolce e delicatoIl mondo l’ha ferito a morte,Ma la mia natura è indistruttibile,Sono appagato, soddisfatto,Paziente metto nuove foglieSul ramo spezzato mille volte,E a dispetto del dolore restoInnamorato in questo pazzo mondo.

Poesia tratta da Il canto degli alberi di Hermann Hesse,ed. Guanda, 2001.

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il volontariato raccontaPer avere la forza di guarire bisognafissarsi una meta: devo guarire per i

miei figli (è forse una delle motivazionipiù forti); devo guarire per i miei genito-ri, devo guarire perché la mia missionenon è compiuta, devo guarire per me.Ecco, quanti si dicono: devo guarire per

me?Se pensiamo alla guarigione solo come

una vittoria sulla malattia, tutte questemete sono comprensibili. Ma possiamopensare alla guarigione come meta di unpercorso travagliato, come meta di unavita sbagliata, come recupero di unaidentità, di un debito da pagare allasocietà.

Sto facendo volontariato in un carcere:una esperienza che consiglierei a moltiper le considerazioni che nascono difronte a una realtà tanto crudele. Credendo fermamente nella giustizia,

siamo portati a pensare che chi sta in car-cere sconta una giusta punizione e chequindi l’isolamento è un modo di pro-teggere la società.

Avvicinarsi ai carcerati è però moltocomplesso.

La convenzione ci porta a immaginareche chi ha commesso dei reati debbariflettere, anche fisicamente, le crudeltào le perversioni o i delitti di cui si è mac-chiato. Invece ci si trova accanto a per-sone che sono esattamente come i nostrivicini di casa, come coloro che incontria-mo in metropolitana, al mercato, al cine-ma e con i quali spesso possiamo scam-biare commenti e opinioni.

GUARIRE,TRAGUARDO DI UNA VITASBAGLIATA

Questo, per me, è stato il primo turba-mento.

Il secondo turbamento è stato vederequesti uomini e queste donne vivere incondizioni di estremo disagio. Celle pic-cole nelle quali sono stipati in quattro osei persone. Se una si muove l’altra devemettersi sulla branda perché il postonon è sufficiente. Pensare che giorni,mesi, e anni il loro spazio vitale è quello,è angoscioso. Nessuna intimità, nessunapossibilità di rimanere in silenzio con sestessi.

Ma il turbamento più sconvolgente melo ha dato un uomo, sui quarantacinqueanni, che mi ha raccontato la sua storiacon il bisogno di parlarne senza falsi

pudori, anzi con molta semplicità. Eroun’amica sconosciuta, capitata là di pas-saggio.

Ma lui si rendeva conto delle enormitàche mi raccontava? O averle commessegliele rendeva “normali”? Mi ha parlato del suo percorso. Incolpa-

to di un orribile delitto (del quale sidichiara innocente), è passato dalla fasedi ribellione, che gli faceva rifiutare ognicontatto e ogni rimedio per vivere un po’meglio, all’avvicinarsi alla bibliotecadove ha trovato dei libri di Tolstoi. Dallalettura è passato al commento dei libristabilendo dei paralleli con la sua vita.Ha iniziato a scrivere, su quaderni che sifaceva portare dalla famiglia, a metterein risalto i suoi errori, a esaminare i per-ché di tanti errori, e dei rapporti non rea-lizzati, delle reazioni inutili. Attraversola scrittura ha cominciato a liberarsi del-le rabbie e dei rancori. Un giorno si è detto: cosa mi può dare la

preghiera? E ha partecipato alla messa eha parlato con il cappellano. Gli incontri,non facili, sono diventati sempre più fre-quenti e più profondi.

Oggi quest’uomo ha riempito cento-quarantadue quaderni e si sta costruen-do un progetto per quando uscirà.L’obiettivo è raccontare la sua esperien-za e dedicarsi al recupero dei ragazzidifficili o abbandonati dalle famiglie.Quest’uomo ha saputo porsi la “meta”. Ogni momento della nostra vita ci chie-

de una “meta”. Dove stiamo andando? Ecome? È tanto difficile rispondere. L’esempio di quest’uomo recluso che ce

la sta facendo ci potrebbe dire: aiutiamo-ci a guarire per aiutare anche lui.

Maria Grazia Mezzadri

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la voce dei familiariEravamo molto amiche, io e Flora,anche se le nostre vite avevano pre-

so strade diverse. Io mi ero sposata pre-sto e avevo avuto subito tre figli. Lei, aventisei anni, dipingeva e illustrava consuccesso libri per bambini e viveva conun ragazzo molto benestante e molto“libero” che insegnava vela a Caprera esi dilettava a cambiare arredamento allasua bellissima casa. Io traducevo libri e Flora li illustrava.Era, il nostro, un sodalizio, ma ancheun’amicizia intensa e affettuosa. Leiadorava i miei bambini e aveva per lorosempre qualche regalino o sorpresa. Eio godevo della sua vita piena di fanta-sia e di spensieratezza, così lontana dal-le mie preoccupazioni e affanni.Ma un giorno lei arrivò da me pallida etrafelata: “Mi devi aiutare” implorò.“Paolo non lo vuole e io non so… noncapisco… forse neanch’io…”Capii al volo. Avevo in braccio la più pic-cola dei miei bambini e mi pareva impos-sibile, assurdo, mostruoso, che una don-na giovane, sana, libera e innamoratapotesse rifiutare una maternità. Ricordoche ebbi un moto di rabbia e un gesto dirifiuto. “Non chiedere aiuto a me. Sai chesarei sempre disponibile per te, ma nonper questo. Io non posso. Credimi, nonposso.” Piangevo senza accorgermene ela vidi andarsene senza una parola. Neigiorni seguenti le telefonai più volte. Onon si faceva trovare, o rispondeva amonosillabi. Andai da lei per un libro.Era un giorno freddo di febbraio e la tro-vai spettinata, ancora in vestaglia alleundici di mattina. Le tremavano le mai.“Vado domattina” mi disse. “Alla Man-giagalli.” Lasciai il libro sul tavolo e, pri-ma di andarmene, la abbracciai. “ Io nonposso” le sussurrai tra i capelli. Per lescale piansi e piansi anche la notte, dor-mii a malapena due ore e alle sei telefo-nai alla baby sitter. Alle sette chiamai untaxi e presto fui alla clinica. Nella salettac’erano quattro ragazze. una giovanissi-ma con una madre arcigna e, tra le altretre, lei. La guardai in silenzio e mi sedettiaccanto alla sua sedia senza dire unaparola. Non vidi Paolo e lo considerai unvigliacco, anche se non mi piaceva spa-rare giudizi, ma in quel caso ...Le fecero firmare dei fogli. Pareva unautoma. A un tratto mi prese la mano e

GUADAGNARE LA MÉTA

me la strinse forte. Chiamarono la pri-ma ragazza: era grassa e aveva un belviso, ma un’espressione disfatta e gliocchi allagati.“Flora” le dissi piano,”vieni via con me.Ti aiuto io, ma non qui. Non ora. Lo tiria-mo su insieme. Te lo prometto. Te lo giu-ro. Avrai i tuoi tempi, i tuoi spazi. Per me,tre o quattro, che differenza fa? Hai il tuobel lavoro e Paolo sarà un altro discorso.Deciderai poi. Questo è il mio aiuto. Tie-ni tuo figlio amica mia. Te ne prego.”Quando chiamarono il suo nome erava-

mo già al bar, davanti al cappuccio e allabrioche e lei mi sorrideva tra le lacrime.

Ai giardinetti, mentre aspettavo Flora,con i mie tre diavolini che scivolavanoe si arrampicavano, facevo dondolarepiano piano la carrozzina di Marco chestava per addormentarsi. Lo guardavocome fosse stato un regalo che la vitaaveva fatto proprio a me, un traguardoguadagnato, la mia méta.

Adriana Giussani K.

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l’ascolto della sofferenza

Riflettere sul nostro destino, sulla morte(l’”ultima meta”) può essere un modo per non

arrivare a quell’evento -così importante per ciascu-no di noi- impreparati. Saggiamente osservavaSeneca:”Ogni giorno moriamo, ogni giorno citoglie una parte di vita… Fino a ieri ogni attimopassato è morto: quest’oggi stesso - che ora stiamotrascorrendo - lo dividiamo con la morte…L’ultimaora, in cui cessiamo di essere, non fa da sola la mor-te, ma la compie: arriviamo ad essa, ma da temposiamo in cammino (Seneca, Epistole 14, 20).

Oggi si ha paura a parlar di morte. (…) Megliotacere l’argomento, meglio rimuoverlo. Eppu-re il discorso sulla morte fa bene a tutti, piccolie grandi. Lo stesso Freud, il noto padre dellapsicanalisi, confidava: “Penso alla morte ognigiorno: è un buon esercizio”.Se oggi la “gente” è in continuo aumento,mentre gli “uomini” sono in continua diminu-zione, una ragione è anche questa: oggi ilbambino sa tutto su come il fratellino arriva interra e non sa nulla di dove va la nonna chemuore!L’argomento “morte” è complesso. Quivogliamo affrontarlo da un punto di vistamolto circoscritto: quello della necessità diparlare del morire agli adolescenti.

GLI ADOLESCENTI E LA MORTEÈ un dovere parlare del morire ai giovani

Intanto va detto che, soprattutto nell’adole-scente (tra gli undici e i diciotto anni) è beneparlar di morte. Infatti , mentre il bambino siaccontenta del dato, l’adolescente cerca ilsignificato. Un esempio per chiarire: il bambi-no prende atto che la zia è morta; l’adolescentesi domanda:”Perché si muore?” Ebbene, a taledomanda occorre rispondere. Ciò che oggi,raramente, avviene. (…)Lo psichiatra Vittorino Andreoli nota chequando domanda a giovani che hanno com-piuto un omicidio “Che cos’è per te la morte?”,rimane quasi sempre colpito dalle loro rispo-ste: “Non lo so”, “Ma che domanda mi fa?” (..)Non è un caso che il suicidio, dopo gli inciden-ti stradali (che a volte sono suicidi mascherati)sia diventato la seconda causa di morte degliadolescenti. Dunque parlare di morte sia ascuola sia in famiglia è un dovere. Non possia-mo far finta che la morte non esista! È l’unicacosa certa della vita: non è lecito ignorarla,non appena –con l’adolescenza- si ha l’intelli-genza per coglierne la natura. Fin qui, forse, il lettore, può facilmente concor-dare. I problemi nascono quando si tratta ditrovare il modo di parlare della morte. Vedia-mo. Che parole usare? Sintetizzerei il discorsoin quattro punti.

All’adolescente dico che la morte non può esse-re uno spettacolo. Purtroppo la televisione e igiornali, con il loro continuo stillicidio di mor-ti, con il loro continuo richiamo a uccisi e ucci-sori, possono portare gli adolescenti a pensarealla morte come ad una vetrina per mettersi inmostra, come a una via per attirare l’attenzio-

ne su di sé. In Italia i suicidi “dimostrativi”non sono rari. È urgente che i ragazzi venganoa sapere che la morte non è uno spettacolo: lamorte è una realtà seria e, sovente, terribile.Altro è vedere morire sullo schermo, altro èvedere morire realmente.

All’adolescente dico, inoltre, che la morte nondeve essere la soluzione dei problemi. Molti ragaz-zi oggi non si piacciono. Non amano il lorocorpo in trasformazione. A volte si sentonorifiutati. A loro volta rifiutano un mondo diffi-cile da affrontare. Ed allora possono pensarealla morte come ad una porta per entrare inun luogo migliore, più vivibile. A questo pun-to spetta all’educatore dire che i problemi nonsi risolvono fuggendoli, ma affrontandoli.Spetta all’educatore far capire al ragazzo cheun problema, una difficoltà, un’esperienza perquanto difficile e negativa non sono il tuttodella vita. Il giovane che vuole buttarsi sotto iltreno perché la fidanzata lo ha lasciato confon-de un elemento – sia pure molto importante a15 -18 anni – con l’intero. La vita non è tutta inquel problema. È compito affidato all’educato-re preparare il ragazzo alle difficoltà.

All’adolescente dico, con molta sincerità, che“lo stiamo tradendo”. Che cosa, infatti, offriamooggi ai nostri ragazzi? Diciamo che è un pec-cato avere le ascelle sudate, l’alito cattivo, l’au-tomobile sorpassata… Proponiamo saponi,dentifrici, pillole, riviste di grido… Non è que-sto un declassarli come “persone”? Non èdisonesto proporre loro di agganciarsi a coseche in un attimo crollano e deludono?

All’adolescente dico, infine, che la vita ha sem-pre un senso. Dare un senso alla vita: questo cisembra il compito più urgente, trattandosi diadolescenti. Chi ha un “perché” può sopporta-re ogni “come” . Chi ha trovato una ragionealla propria vita, tiene duro, anche se il solepicchia forte.

Sono solo alcune riflessioni che andrebberoabbondantemente ampliate. Non hanno lapresunzione di spiegare. Riflessioni che abbia-mo ritenuto opportuno scrivere in punta dipenna, con la speranza di evitare nuovi dolorie lacrime di genitori affranti.

Tratto da un articolo di Pino Pellegrini(a cura di Michela Alborno)

HANDICAPNon posso andare avanti come vorrei, con duegambe che saltano, corrono, volano per i campi,come due gazzelle che sfiorano il verde dei prati, persentire l’ebbrezza del solletico sotto i piedi.

Sembro un albero piegato dal vento destinato amangiare il putridume amaro della polvere dellastrada.

Non voglio però assomigliare a un salice piangente,che succhia il sangue agro dell’amarezza.

Ecco allora che la mia mente si immerge nella pro-fondità di un’ardita meditazione, capace di superarel’altezza di una montagna e bucare la durezza di unaroccia.

I limiti non sono che sputi portati via dal vento, esono come un uomo che scopre lo scrigno per lacosa più vera e originale che esista, dove l’unica per-fezione è la bramosia e la voglia di scoccare le frec-ce dell’amore.

Elio Pascottini ** Elio Pascottini è un giovane che abita a Gemona del Friuli.Colpito fin da tenera età da tetraparesi spastica, traendo spuntodalla propria esperienza, poco più che ventenne incomincia ascrivere poesie caratterizzate da grande carica emotiva. Chi desi-derasse leggerne altre può contattare la Redazione (Michela).

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ASCOLTami n.21 - settembre 2007 - pag. 7

il punto di vista

In un lontano paese d’Oriente, un principesceglie il dono da offrire alla principessa

sua promessa sposa, nell’imminenza delmatrimonio: uno splendido vaso di cristallo,che fa da prisma alla luce del sole e dellaluna, diffondendo letizia e bellezza.Ma mille miglia separano il suo castello daquello della promessa sposa e in mezzo siestende una foresta fittissima e piena di insi-die. Chi potrà consegnare il vaso di cristallo,assicurando che arrivi integro a destinazione?La scelta cade sul migliore dei suoi cavalieri:questi compirà senz’altro la missione a qua-lunque costo ed efficacemente.Il nobile cavaliere intraprende il cammino.Si immerge nella foresta e più volte lo aggre-discono pericoli mortali: le belve, le sabbiemobili, gli intrichi delle piante ... Ma sempre

LA PARABOLADEL VASO

DI CRISTALLO SPEZZATO

riesce a superarli e a preservare il vaso dicristallo nella sua integrità.Finalmente esce dalla foresta e al suo oriz-zonte si profila l’imponente castello dellaprincipessa alla quale il dono è destinato.Qui tutto è pronto per riceverlo. Nella salapiù ricca i dignitari fanno corona intornoalla principessa seduta sul trono. Magnifi-che vetrate istoriate riempiono l’ambiente diuna luce gioiosa.Il cavaliere è pieno di felicità. Si è affaticatosenza risparmiarsi, ma la sua missione ècompiuta ed una limpida pace gli pervade ilcuore mentre sale gli scalini per deporre ilvaso di cristallo nelle mani della principessa.Tuttavia ... un’impercettibile increspaturanel tappeto che copre l’ultimo scalino lo fainciampare e il vaso di cristallo cade a terra,

frantumandosi in una miriade di pezzi!Sembrerebbe che, dopo tanto soffrire, la suafatica sia stata uno sforzo inutile e l’ultimaparola sia quella, spietata, del fallimento ...Ma nello stesso momento dalle finestre pio-ve un raggio di sole che si poggia propriosul cumulo dei cristalli in frantumi, facendo-ne rifrangere una luce meravigliosa.La principessa osserva la luce che scaturiscedal cristallo spezzato ed esclama stupita:“Non avrei creduto che potesse brillare cosìtanto!”.

La “parabola del vaso di cristallo spezzato” ècitata da Padre Francesco Neri in uno studiosul mistero della sofferenza in don Tonino Bel-lo, pubblicato con il titolo “Collocazione prov-visoria”.“È facile intendere il senso della parabola e appli-carla a don Tonino Bello”, commenta Padre Neri.“Se il vaso di cristallo trasmetteva luce allorchéera integro, ancora più luce trasmette dopo esserestato spezzato.Così è stato di Cristo [...], così dev’essere del cri-stiano [...]. Così è stato di don Tonino. Egli haaffascinato tantissimi quand’è stato nel pienodella sua prestanza, sorretto da una non comuneabbondanza di doni di natura e di grazia; ma per-ché fosse una vera immagine di Cristo, è statonecessario che si immergesse nell’abisso del dolo-re. E una volta spezzato dalla ferita della croce,ha diffuso ancora più luce”.(Cit. da: Don Tonino Bello, Parabole, Introdu-zione di Renato Brucoli, ed. Il Messaggero,Padova, 2006).

a cura di Sara Esposito

Dedichiamo la nota di quest’ultimo numero sullaguarigione all’impegno di don Tonino Bello per lapace.Non è possibile riassumere in poche righe le ini-ziative e gli interventi svolti dall’autunno del1985, quando fu eletto alla guida del movimentoPax Christi, fino alla marcia di Sarajevo pochimesi prima della morte.Ci limitiamo qui a ricordare la definizione chedon Tonino ha dato della pace.“La definizione più bella della pace bisogna anda-re a cercarla nel cuore della Trinità. [...] Nel cielotre Persone uguali e distinte vivono così profon-damente la comunione che formano un soloDio. [...] La stessa espressione con cui possiamodescrivere il mistero Trinitario serve anche perdescrivere la pace: convivialità delle differenze. [...]Pace non è la semplice distruzione delle armi;non è neppure soltanto l’equa distribuzione deipani a tutti i commensali della terra: pace è man-giare il proprio pane a tavola insieme con i fratel-li.Convivialità delle differenze, appunto”.(da: Benedette inquietudini, ed. San Paolo, 2001)

a cura di Sara Esposito

-Ascolt 21 30-07-2007 11:53 Pagina 7

ASCOLTami n.21 - settembre 2007 - pag. 8

Tutti nella vita ci poniamo una meta,anche perché il fissarci una meta è,

in un certo senso, dare uno scopo allapropria vita. Ecco perché, nel numerodel Giornale che conclude il tema dellaGuarigione, ci soffermiamo a rifletteresulla guarigione come meta. L’impegnoal suo raggiungimento ci dà la forza dicombattere, il coraggio di affrontare ledifficoltà e di sopportare la sofferenza: èvero “Chi ha un “perché” può sopporta-re ogni “come”. Chi ha trovato unaragione alla propria vita, tiene duro,anche se il sole picchia forte.” (da:L’ascolto della sofferenza).Certo il mondo con cui veniamo in con-tatto noi volontari è quello della malat-tia e del dolore, dove l’unica meta a cuisi tende è la Guarigione. Però gli articolidi questo numero mi hanno portato avedere la guarigione in un contesto piùampio, facendomi riflettere sulla condi-zione dell’uomo nei suoi aspetti indivi-duali e relazionali nella società di oggi.Rileviamo spesso la frustrazione, ilmalessere in cui l’uomo di oggi viveschiacciato dai suoi mali e dai mali dellasocietà. Pensare di risolvere tutti i pro-blemi è impossibile. Lo constatiamoanche noi nella nostra vita, nelle nostrefamiglie, nelle nostre comunità e neiluoghi dove svolgiamo il nostro volon-tariato. Con quale spirito ci collochiamodentro i rapporti difficili e le situazioniconflittuali? Credo che occorra esserecapaci di trovare e suggerire obiettivi epercorsi di “guarigione”.Se guardiamo al nostro volontariato noiincontriamo e incrociamo uomini e don-ne alla ricerca di una riabilitazione delcorpo e dello spirito. L’uomo, imprigio-nato nella malattia, ha un solo obiettivo:

memorandun

fototeca

LE NOSTRE SEDISEDE CENTRALE: Milano, Pio Albergo Trivulzio, via Trivulzio 15, tel. 02 4035756,tel. e fax 02 4071683, cell. 338 1314390, e-mail: [email protected] http://spazioinwind.iol.it/amiwebVIMODRONE: Istituto Redaelli, via Leopardi, 3, tel. 02 25032361, cell. 347 8107498MILANO: Ospedale San Raffaele, Via Olgettina 60,tel. 02 26432460, fax 02 26432576,cell. 338 1704429CERNUSCO S/N: Casa Mons. Biraghi,Via Videmari 2, tel. 02 929036, fax 02 9249647

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BRASILE

Adottami a distanza

guarire. Intanto vive il suo stato in unatteggiamento di inutilità, di frustrazio-ne, di ingiustizia. Vittima di tutto quelloche lo circonda. E’ molto difficile quindiin questo stato saper cogliere il valoredella malattia. “Nella mia vita non hofatto altro che lavorare onestamente.Non ho fatto del male a nessuno. Perchéquesto castigo?” Lo sfogo di questoammalato mi sembra incarnare la figuradel cavaliere nel racconto del vaso di cri-stallo (cfr. Il punto di vista).Il cavaliere dopo aver affrontato inim-maginabili peripezie per portare il pre-zioso dono alla principessa, proprio nelcastello inciampa e il vaso si fa in millepezzi. In un attimo sfuma il valore dellafatica lasciando dentro di sé uno spieta-to senso di fallimento. Ma un raggio disole fa rifrangere i mille pezzi in una

luce meravigliosa, lasciando la princi-pessa in un gioioso stupore. Ciò che pernoi è fallimento si rivela invece grandesuccesso. Sul piano della fede cristiana èil rapporto tra croce e risurrezione.Nostro compito quindi deve esserequello di far scoprire al malato la luceanche nella sofferenza. Offrire loro unameta come molla per affrontare i lunghitempi della malattia. Suscitare il deside-rio e la speranza della guarigione chenon può riguardare solo l’aspetto fisicoma anche la dimensione spirituale.(Questo tema l’abbiamo trattato nell’an-no 2004-2005 del nostro Giornale –“Ogni volontario sappia scrutare il cor-po per arrivare all’anima”).Per svolgere questo compito il volonta-rio deve avere nel suo bagaglio quellache ritengo sia una dote indispensabile:la sensibilità verso tutto ciò che gliaccade intorno. Sensibilità che non puòesaurirsi nella lamentela ma che dovreb-be vegliare affinché non si crei, ancheinconsciamente, assuefazione al doloree alla malattia, così da impedirci diavvertire la vera domanda di aiuto delmalato/ospite. Per questo è necessarioattuare il metodo dell’ascolto – propriodel nostro volontariato –. Saremo cosìcapaci di ascoltare il muto messaggiodel malato che non ha il coraggio di par-lare perché si sente emarginato da unmondo che sa valorizzare solo ciò cheproduce in termini estetici, materiali eformali.Vorrei terminare con una frase diAndraous: “Con l’aiuto degli altri anchela sofferenza può riportarci a galla e far-ci trovare dentro di noi la capacità ditrarre dai valori l’energia per diventarepersone migliori”. Ed è in questa luceche leggo l’articolo: “La voce dei fami-liari” dove proprio l’aiuto degli altri(l’amica) solleva dalla disperazione e fanascere la vita.

Marina Di Marco

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