in questo numero - Familiaris Consortio / AMI · Alessandro Pronzato “Si diceva di un famoso uomo...

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Foglio di formazione e informazione per i volontari dell’Associazione Maria Immacolata Anno VII - n.19 MARZO 2007 Sped. Abb. Post. D.L. 353/2003, conv. L. 46/2004, art.1, c.1 DCB Milano Reg. Tribunale Milano N.941 del 16 dicembre 2005 in questo numero EDITORIALE U na parola per guarire e guarire la paro- la: è parte viva della nostra esperienza. Si ascoltano volentieri parole autorevoli, belle e sostanziose. Ci rigenerano. Come d’altronde infastidiscono le parole vuote, un parlare non coinvolgente. Se poi è volga- re, siamo portati a pensare che chi parla è un insicuro che tenta di imporsi o di scari- carci addosso un po’ del disgusto della sua amara esistenza. E sappiamo altresì che prendere posto in mezzo alle parole è disa- gevole. In certi contesti si ha paura di sba- gliare. Paura di non riuscire a sostenere le nostre ragioni in maniera convincente o almeno seria. Si è così ricacciati in una con- dizione di frustrazione. Penso a chi la parola è stata negata, violata, falsata per motivi ideologici. A chi è stata tolta la stima di sé, perché considerato infe- riore, buono a nulla “taci tu che …”, lascian- dolo nella più umiliante insicurezza, sfidu- cia. C’è chi poi usa la parola come sfogo personale. Per molti l’aprire bocca significa buttar fuo- ri parole senza pensarci, senza rendersi conto delle conseguenze devastanti sul pia- no della realtà, della verità, della bontà, della correttezza, della relazione. Scrive Alessandro Pronzato “Si diceva di un famoso uomo politico francese: «Non dice quello che pensa e non pensa a quello che dice»” e “La voce severa del Crocifisso del- l'altar maggiore ammonisce don Camillo: «Se invece di parlare e poi pensare a quello che hai detto, tu prima pensassi a quello che devi dire e poi parlassi, eviteresti di pentirti di aver detto delle sciocchezze». (o.c. pag 117). Certe parole calunniose sono come sassi scagliati da un cavalcavia o come una palla di neve che diviene valan- ga. Inarrestabili. Penso a chi la parola l’ha persa per trauma delle corde vocali causato da ictus: la voce totalmente spenta o frammentariamente afasica, inceppata, stizzita. Cosa vuol dire l’impotenza del non poter dire, comunicare, difendersi, chiedere, spiegare il proprio pensiero. Defatigante è ancora lo sforzo di emettere qualche segnale con lo sguardo o l’espressione facciale! La disciplina della logoterapia riaccende però la speranza di ritornare almeno alla comunicazione essen- ziale. Da essa si attende come la manna dal cielo proprio quella parola che in tempi nor- mali è sprecata, perché tanto c’è. Come l’ac- qua in montagna. Che dire, in genere, di una persona malata e/o vecchia che si trova in una condizione di fragilità, di dipendenza? Non si sente più persona, ne è ridotta la sua identità, le sem- bra di non contare più di tanto. E’ allora che vedi il paziente raccogliersi con un’alzata di spalle come per dire fate quello che volete, accettando ciò che gli altri capiscono delle proprie esigenze. Sono gli altri ad interpre- tare i suoi bisogni – e ciò potrebbe essere ancora passabile – ma quando impongono il loro modo di vedere, di sentire, di reagi- re… è come se la parola gli venisse sottratta e lui si sentisse indifeso, alla mercé del suo interlocutore. Allora si mette da parte e accetta quello che gli altri gli offrono. Viene in mente la frase pronunciata da Gesù a Pie- tro “Quand’eri più giovane, ti mettevi da solo la cintura e andavi dove volevi; ma io ti assicuro che quando sarai vecchio, tu sten- derai le braccia, e un altro ti legherà la cintu- ra e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18). Quanta profezia e drammatica attualità! Pensiamo alla forza di quelle parole – che poi sono dei volti, delle persone – che han- no sostenuto le nostre esistenze nei momen- ti più duri e difficili e ci siamo chiesti in un tempo successivo “Come ho fatto a reggere, a trovare una via di uscita, a superare così bene quella difficoltà? Non avrei mai imma- ginato di farcela”. Credo che proprio questa sia la forza delle parole e soprattutto della Parola. don Carlo Stucchi Nel prossimo numero La Guarigione: il Tempo - La parola umana è un dono di cui fare buon uso, domanda umilmente di diventare dono vicendevole per edificarci. Siamo tutti responsabili gli uni per gli altri. - La parola di Dio è una parola mai vuota, ma assolutamente e necessariamente pensata per noi. “Le parole che vi ho detto sono spirito e vita” (Gv 6,63) per guarire la parola, per guari- re con la parola, per lasciarsi salvare dalla Parola. Ascolt 19 28-02-2007 11:32 Pagina 1

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Foglio di formazione e informazione per i volontari dell’Associazione Maria Immacolata

Anno VII - n.19 MARZO 2007

Sped. Abb. Post. D.L. 353/2003, conv. L. 46/2004, art.1, c.1 DCB Milano Reg. Tribunale Milano N.941 del 16 dicembre 2005

in questo numero

EDITORIALE

Una parola per guarire e guarire la paro-la: è parte viva della nostra esperienza.

Si ascoltano volentieri parole autorevoli,belle e sostanziose. Ci rigenerano. Comed’altronde infastidiscono le parole vuote,un parlare non coinvolgente. Se poi è volga-re, siamo portati a pensare che chi parla èun insicuro che tenta di imporsi o di scari-carci addosso un po’ del disgusto della suaamara esistenza. E sappiamo altresì cheprendere posto in mezzo alle parole è disa-gevole. In certi contesti si ha paura di sba-gliare. Paura di non riuscire a sostenere lenostre ragioni in maniera convincente oalmeno seria. Si è così ricacciati in una con-dizione di frustrazione. Penso a chi la parola è stata negata, violata,falsata per motivi ideologici. A chi è statatolta la stima di sé, perché considerato infe-riore, buono a nulla “taci tu che …”, lascian-dolo nella più umiliante insicurezza, sfidu-cia. C’è chi poi usa la parola come sfogopersonale.

Per molti l’aprire bocca significa buttar fuo-ri parole senza pensarci, senza rendersiconto delle conseguenze devastanti sul pia-no della realtà, della verità, della bontà,della correttezza, della relazione. ScriveAlessandro Pronzato “Si diceva di unfamoso uomo politico francese: «Non dicequello che pensa e non pensa a quello chedice»” e “La voce severa del Crocifisso del-l'altar maggiore ammonisce don Camillo:«Se invece di parlare e poi pensare a quelloche hai detto, tu prima pensassi a quelloche devi dire e poi parlassi, eviteresti dipentirti di aver detto delle sciocchezze».(o.c. pag 117). Certe parole calunniose sonocome sassi scagliati da un cavalcavia ocome una palla di neve che diviene valan-ga. Inarrestabili. Penso a chi la parola l’ha persa per traumadelle corde vocali causato da ictus: la vocetotalmente spenta o frammentariamenteafasica, inceppata, stizzita. Cosa vuol direl’impotenza del non poter dire, comunicare,difendersi, chiedere, spiegare il propriopensiero. Defatigante è ancora lo sforzo diemettere qualche segnale con lo sguardo ol’espressione facciale! La disciplina dellalogoterapia riaccende però la speranza diritornare almeno alla comunicazione essen-ziale. Da essa si attende come la manna dalcielo proprio quella parola che in tempi nor-

mali è sprecata, perché tanto c’è. Come l’ac-qua in montagna. Che dire, in genere, di una persona malatae/o vecchia che si trova in una condizionedi fragilità, di dipendenza? Non si sente piùpersona, ne è ridotta la sua identità, le sem-bra di non contare più di tanto. E’ allora chevedi il paziente raccogliersi con un’alzata dispalle come per dire fate quello che volete,accettando ciò che gli altri capiscono delleproprie esigenze. Sono gli altri ad interpre-tare i suoi bisogni – e ciò potrebbe essereancora passabile – ma quando impongonoil loro modo di vedere, di sentire, di reagi-re… è come se la parola gli venisse sottrattae lui si sentisse indifeso, alla mercé del suointerlocutore. Allora si mette da parte eaccetta quello che gli altri gli offrono. Vienein mente la frase pronunciata da Gesù a Pie-tro “Quand’eri più giovane, ti mettevi dasolo la cintura e andavi dove volevi; ma io tiassicuro che quando sarai vecchio, tu sten-derai le braccia, e un altro ti legherà la cintu-ra e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18).Quanta profezia e drammatica attualità!Pensiamo alla forza di quelle parole – chepoi sono dei volti, delle persone – che han-no sostenuto le nostre esistenze nei momen-ti più duri e difficili e ci siamo chiesti in untempo successivo “Come ho fatto a reggere,a trovare una via di uscita, a superare cosìbene quella difficoltà? Non avrei mai imma-ginato di farcela”. Credo che proprio questasia la forza delle parole e soprattutto dellaParola.

don Carlo Stucchi

Nel prossimo numero

La Guarigione:il Tempo

- La parola umana è un dono di cui farebuon uso, domanda umilmente di diventaredono vicendevole per edificarci. Siamo tuttiresponsabili gli uni per gli altri.- La parola di Dio è una parola mai vuota,ma assolutamente e necessariamente pensataper noi. “Le parole che vi ho detto sono spiritoe vita” (Gv 6,63) per guarire la parola, per guari-re con la parola, per lasciarsi salvare dalla Parola.

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parliamo di...Questa rubrica si avvale di tre contributi:il primo (da Piccoli Passi Verso l’Uomo Gri-baudi pagg 115-120) e il terzo (da Vangeli sco-modi Gribaudi pagg 131-136), sono di Ales-sandro Pronzato, sacerdote e uomo del nostrotempo, di sensibilissima cultura, che narra constile asciutto, scattante e moderno; il secondo(da Parola alla Chiesa, Parola alla Città EDBpagg 66-68) è del cardinal Martini.

PENSAREIL VALORE DELLA PAROLAParecchi individui si sottraggono total-mente alla fatica di pensare in proprio efiniscono per disattivare il cervello ricevu-to in dotazione, per delegare al giornale,alla radio, alla televisione, alla piazza, allamentalità corrente, al partito, al gruppo, ilcompito - troppo impegnativo - di pensareal loro posto.Circolano a piede libero maestri, soventeabusivi e improvvisati, che si incaricano difornire i pensieri, le idee, i giudizi sui variavvenimenti: prefabbricati, pronti all'uso eall'abuso, soltanto da mettersi in bocca.L’unico fastidio è quello di tirar fuori il fia-to e muovere le labbra per ripetere le ideealtrui, elaborate "altrove" (…)Qualche volta mi capita di dover ricorrereal tecnico specializzato per riparare unelettrodomestico che si è rotto. L’esperto

UNA PAROLAPER GUARIRE

quasi sempre mi fa presente confidenzial-mente che quell'arnese si è rotto perchénon l'ho usato abbastanza, l'ho tenuto pertroppo tempo inattivo. Lo stesso guaio puòverificarsi a riguardo del cervello. (…)I suggeritori che ti sussurrano o ti urlanoquello che devi pensare e pretendono dimetterti sulle labbra le parole da pronun-ciare? No, grazie! Il Creatore mi ha già for-nito un aggeggio prezioso per cui riesco acavarmela da solo. Si fatica un po' ma dopotutto è una gran bella soddisfazione. E poic'è il vantaggio di non essere costretto adapplaudire a comando. (…)Ma io sogno che il progresso presto ci for-nisca un marchingegno grazie al quale sipossano respingere al mittente le idee, le

idiozie, i messaggi pubblicitari che ci ven-gono rifilati dalla televisione. (…)E il mucchio delle cose "respinte al mitten-te" - libri, riviste, giornali, idee, articoli difondo che sono un pozzo senza fondo dipresunzione e di ipocrisia, propagandapolitica, pubblicità commerciale - dovreb-be essere accompagnato da un biglietto fir-mato da “uno che appartiene alla categoriadegli apoti”, ossia di coloro ai quali non lasi dà a bere.Anche il cristiano, se non vuol rimanereimprigionato nella melassa della mentalitàcorrente, sparire nella palude dell'insigni-ficanza, essere inghiottito dai gorghi del-l'istupidimento generale, ma rimanere un"resistente" contro le mode e gli ammicca-menti degli idoli dominanti oggi, ossia ilpotere, l'apparire, il successo, il denaro,deve ritrovare il gusto di pensare in pro-prio, oltre che riattivare il collegamentocon la coscienza, troppo spesso soffocata equasi brutalizzata dal gran fracasso che cicirconda.

«DI' SOLTANTO UNA PAROLA...»È illuminante l'episodio del centurioneromano, che chiede a Gesù la guarigionedel servo caduto in una malattia mortale(Mt 8, 5-13). Gesù si offre di andare in casasua, ma l'ufficiale espone una argomenta-zione ricca di una fede. cosi intensa, chestrappa il consenso ammirato di Gesù. Ilcenturione prende lo spunto dall'efficaciadella parola umana: quando egli ordinaqualcosa a un subalterno, la sua parola dicomando produce qualcosa attorno a sé, fasì che il subalterno vada o venga secondol'ordine ricevuto.A maggior ragione la parola di Gesù, nellaquale la fede del centurione riconosce pre-sente la potenza stessa di Dio, saprà opera-re, anche a distanza, la guarigione miraco-losa del servo. Viene qui adombrato ilmistero della parola umana con la sua ric-chezza e la sua povertà. Nella parola ilnostro essere profondo si manifesta; lanostra libertà sprigiona le sue capacitàoperative; la nostra umanità va in cercadella umanità degli altri, cerca un contattocon loro, genera consensi, costruisce comu-nità umane, interviene sulle cose del mon-do. Vita, speranza, gioia, impegno, opero-

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sità, amore, luce di verità sono misteriosa-mente depositati nel fragile involucro dellaparola.Ma la parola umana è anche povera. Quan-te volte balbetta impotente dinanzi amisteri che non riesce a penetrare. Quantevolte non sa comunicare il senso che essaracchiude. Quante volte non raggiunge gliesiti desiderati. Quante volte, anziché rive-lare amore di vita, luce di verità, comunio-ne interpersonale, produce odio, menzo-gna e discordia.Nella povertà della parola si rivela lapovertà del nostro essere. Noi non siamototalmente identici con la vita, la gioia,l'amore, la luce della verità. Questi benisono presenti in noi, ma sono anche lontanida noi. Noi li andiamo cercando come beniassenti, spinti da quelle parziali forme dipresenza che essi hanno in noi.Quando noi non riconosciamo questa pre-senza-assenza della vita, della verità, dell'amore e pretendiamo di essere noi stessi,in un modo totale ed esaustivo, la vita, laverità, l'amore, inganniamo noi stessi e lenostre parole producono la morte, la men-zogna e la discordia. Dovremmo, a questopunto, dare un nome più preciso alla vita,alla verità e all'amore. Non possiamo per-correre qui gli ardui sentieri che si adden-trano nel mistero della realtà.Basterà dire che, mediante una intuizione,che è depositata da sempre nel cuore del-l'esperienza umana e che può e deve assu-mere anche 1'andamento di una rigorosaargomentazione riflessiva, l'intelligenzaumana arriva a comprendere che la pie-nezza della vita, della verità e dell'amorestanno in una realtà che, pur rendendosipresente nell’uomo, è al di là dell'uomo edè chiamata Dio.L’uomo allora si scopre come presenza delDio assente, come segno di Lui, comeespressione in cui Egli si manifesta, puressendo l'inesprimibile. L’uomo in questosenso è parola di Dio e nel parlare umanoviene alla luce questa radicale caratteristi-ca dell'uomo.Allora la parola e l'essere dell'uomo sono

creativi, ma solo in quanto obbediscono, inun atteggiamento di attesa, di disponibili-tà, di fedeltà, a quello che Dio dice in loro.Che cosa Dio possa dire all'uomo, conquanta intensità, con quale forza comuni-cativa non può essere anticipato, determi-nato, deciso dall'uomo. L'unica anticipa-zione, l'unica decisione, che competeall'uomo, è quella del silenzio pieno diattesa, di rispetto, di obbedienza. Qualiimprevedibili forme di comunicazione Dioha deciso di attuare nel suo amore infinito?L'imprevedibile è accaduto in Gesù diNazareth.

LE CONDIZIONI PER GUARIRE La parola di Dio è una parola creatrice. Dioha creato il mondo con la parola. « Sia fattala luce... ».Dio ha salvato il mondo (seconda creazio-ne) inviando sulla terra il suo Verbo, la suaParola. «La Parola si è fatta carne e ha pian-tato le sue tende in mezzo a noi» (Gv 1,14).Una Parola che contiene in sé un germe divita.. Differenza sostanziale dalle paroleumane. Quando ascoltiamo la parola degliuomini, cerchiamo di assimilarla, di farlanostra, di inserirla nel tessuto vivo dellenostre conoscenze, di procurare che facciacorpo con noi. Non così la Parola di Dio.Essa possiede in sé un principio vitalecapace, se assecondato, di operare trasfor-mazioni, miracoli, insomma di creare. Noinon possiamo annetterci la Parola. Possia-mo e dobbiamo soltanto assecondare quel-la forza vitale che è in essa, fornendo gliumori che procurino lo sviluppo e il ger-moglio.Il nostro atteggiamento di fondo neiriguardi della Parola è, dunque, questo:essere disponibili, docili, vigilanti. Nonopporre difese, resistenze di nessun gene-re. (…)Purtroppo assomigliamo al terreno dovecampeggiano le spine. Un terreno giàoccupato. Occupato soprattutto da noistessi. Dai nostri pregiudizi. Dai nostrimodi e schemi di pensare abituali. Daquello che ci ostiniamo a chiamare buon-senso. Per cui la Parola viene soffocata.La collochiamo in una ben precisa caselladella nostra mente. Ci sforziamo di inserir-la, di farla quadrare con i nostri modi abi-tuali di pensare e di giudicare. Non ciarrendiamo senza condizioni a essa, comesarebbe doveroso, ma tentiamo di adattarlaa noi. Per questo Gesù parla del dovere ditornare fanciulli. Una cosa tanto difficile.Il fanciullo ha la mente sgombra da catego-rie mentali, da abitudini che lo impaccia-no. Accoglie la Parola con piena disponibi-lità, senza riserve (...)La colpa, quindi, non va ricercata nellanostra poca cultura (Gesù ha scelto i dodicinon certo fra i più colti, non ha preteso lalaurea). E neppure nella nostra indegnità(Gesù ha rivelato una verità di cui era gelo-

sissimo nientemeno che a una donna dimalaffare, la Samaritana: «Sono io il Mes-sia, io che ti parlo»).. La causa profonda varicercata, come abbiamo visto, in un nostroatteggiamento di fondo che è errato. Il cuo-re duro, appunto. Il terreno già occupato:da noi stessi, dai nostri schemi, dai nostripregiudizi, dal nostro buonsenso. (…)Se prendessimo sul serio la Parola! Se latraducessimo nella vita. Abitualmente.Allora, con quella Parola diventata Vita,saremmo cooperatori anche noi dellaseconda creazione del mondo. Perché, nondimentichiamolo, quella è una Parola checrea.Allora non apparirebbe poi tanto strano ilgesto pazzo del seminatore che getta ilseme anche sulla strada, anche in mezzoalle pietre, anche in mezzo alle spine.La Parola di Dio, con la nostra collabora-zione, è capace di compiere il miracolo: farfiorire il deserto. Far germogliare il semeanche in mezzo all'arida pietraia di questomondo.

a cura didon Carlo Stucchi

“Lo scrittore e romanziere Luigi Santucci (1918-1999), cui ero legato da amicizia fin dai tempi delmio seminario, osservava con pungente ironiache oggi esiste «un' enorme industria mobilitatacontro quell'umiliante emicrania che è il pensie-ro... Mentre le case farmaceutiche sfornano com-presse sempre più portentose per far sparire lacefalea, i mass-media sono fra loro in gara a libe-rarci dal malessere di pensare».Ironia a parte, resto convinto che l'unica possibi-lità di guarigione per la nostra cosiddetta civiltàsta nel recuperare, proteggere, impedire che siestingua quella fastidiosa ma salutare emicraniache è il pensiero.”

(Alessandro Pronzato, op. cit.)

“Un episodio tratto dal romanzo di BruceMarshall: A ogni uomo un soldo. Armelle, che si èingolfata in una cattiva strada, muore all'ospeda-le nel dare alla luce una bambina. Accorre l'aba-te Gaston. Il medico, miscredente, gli domanda:- E la bambina? Beneficenza pubblica, immagino...- Neanche per sogno. Penso io alla bambina.- È una cosa un po' insolita, no?- Il cristianesimo, infatti, è insolito. È questo il suoprincipale inconveniente...Pensiamo: non abbiamo forse contribuito anchenoi a rendere «insolito» il Vangelo? Mentre dove-vamo renderlo abituale, comune, nella vita diogni giorno, in mezzo al mondo, di fronte a qual-siasi situazione...Quale dramma. E quale responsabilità, special-mente per noi. Il Vangelo (dico la pratica delVangelo) che diventa un fatto straordinario, inso-lito, che desta stupore le poche volte che vienemanifestato nella vita.”

(Alessandro Pronzato, op. cit.)

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il volontariato raccontaSono una milanese “doc” e ho seguitoil cardinale Carlo Maria Martinidurante gli anni del suo mandato a

Milano. In quel periodo ho cercato, perquello che mi è stato possibile, di parteci-pare a molti degli incontri che lo hannovisto come animatore. Ammetto di nonessere una fanatica degli scritti del Cardi-nale, che sono tantissimi; tuttavia sul temadella ‘parola che parla’ e che viene in soc-corso all’uomo di oggi, non posso nonricordare “Sette dialoghi con Ambrogio”(edizione Centro Ambrosiano) che Martiniha scritto sottoforma di lettera natalizia -per tutti- nell’anno pastorale 1996-97, inoccasione del XVI centenario commemora-tivo di Ambrogio, vescovo di Milano. Tra questi dialoghi, che vedono protagoni-sti varie figure rappresentative (una fami-glia, un giovane, un malfattore ecc.), ricor-do l’intensità del settimo che allora mi col-pì e ancora oggi sento attualissimo, dalmomento che le parole pronunciate dal‘volto triste’ potrebbero essere proprioquelle di uno di noi o -ancor più- di unodei tanti malati e anziani che incontriamogiornalmente nelle corsie del PAT. Oh sì,come sono attuali quelle parole! Come toc-cano il cuore! Dopo una breve introduzione troviamo, inalcune battute, lo sfogo di un uomo triste e,di seguito, l’accorata risposta del VescovoAmbrogio, attraverso le parole del cardinalMartini. (Pia, una volontaria)

UN VOLTO TRISTE SI FECE AVANTI……della tristezza non è facile conoscerel’età: un volto triste di bambino sembraquello di un vecchio e il vecchio triste halacrime e sospiri di un bambino. E quandola tristezza stringe il cuore non saprestidistinguere il povero dal ricco. Sul voltotriste rintracci le ferite di una malattia del-l’anima o del corpo. O le interminabili oredi una solitudine cercata e subita, temuta evoluta, o le macerie di una storia complica-ta che di tanti peccati ha lasciato solo ilrimorso e di tante esperienze ha spremuto- sembra - solo amarezza.Quante cose racconta un volto triste!Eppure rimane indecifrato il suo mistero ele ragioni di una pena che deprime sem-brano a un altro cosa da nulla.

E dal volto triste venne una parola per ilvescovo Ambrogio:“Vescovo Ambrogio, invoco una parola diconsolazione: come una malattia mi impri-giona la tristezza. Ho dimenticato la gioiadi vivere, la voglia di lottare, la cura di mestesso. Tutto mi sembra un peso da portaree il tempo mi sembra interminabile; anchele premure di cui mi circondano gli altri,quando si ricordano, sono per me più unfastidio che motivo di gioia: così che allafine si stancano e mi lasciano solo. Forseanche Dio è stanco delle mie preghiere e

CI PARLAAMBROGIO

dei miei lamenti. Vescovo Ambrogio, dim-mi una parola di consolazione ”.

Ambrogio: “C’è una certezza che non mi ha lasciatomai: Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio è miosalvatore, è il salvatore di tutti: a noi vienedal Padre, e al Padre fa ritorno. Egualeall’eterno Padre, si è rivestito dell’umiltàdella carne e con il suo instancabile vigorerinvigorisce la nostra debolezza.A Gesù quindi affido la mia debolezza e latua, fratello che soffri. Perché questa è lasalvezza che viene da Dio: (…) la vita degliuomini è tutta salvata dalla comunione conGesù.Se tu sei solo e ti lamenti di essere statoabbandonato, puoi credere con certezzache ti sta cercando Colui che tutti abbando-narono nella notte del tradimento, e forse iltuo lamento sarà aiutato a trasformarsi inpreghiera per dire - come disse Gesù -‘Padre !’. E forse la tua solitudine sarà con-dotta a farsi dono, invece che tristezza, afarsi attesa, invece che disperazione.Se sei ferito da una malattia che non guari-sce e ti morde le carni un dolore che nonlascia tregua e ti opprime il cuore l’umilia-zione di una dipendenza, ti si avvicina nel-

le lunghe notti insonni in più bello dei figlidell’uomo ridotto a una maschera di dolo-re e ti prende per mano e ti stringe forte.(…) Se sei inseguito dai rimorsi, confusoda troppi tradimenti e, disperando di poteressere migliore, stai per lasciarti andare,come chi scivola senza appigli in un panta-no, allora ti trafigge il cuore il Suo sguardoamico: e tu, che stai chiuso in casa con latua tristezza, ti accorgi di poter ospitareuna festa; e tu, che ti sei nutrito di disprez-zo, puoi avvertire quale forza doni l’esserestimato; e tu, che non sai dare nome allatua inquietudine, puoi ricevere grato laconsolazione del perdono; e tu che hai pen-sato soltanto a te stesso, raccogli dallamano tesa di chi ti supplica la rivelazioneche persino tu sei capace di commuovertie di amare.

Così salva il Signore, il mio Salvatore: tra-sforma i lamenti in preghiera, il soffrire insacrificio, il cuore inquieto in un cuorepentito, un volto triste in un figlio amato incui risplende l’immagine sua e dimora lagloria di Dio: perché Gesù è il Signore ! ”.

Michela Alborno

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La mia attenzione si ferma, nello scorrere le pagine delQuotidiano, su un commento alla Madonna Sistina e rice-vo, via posta, in contemporanea, le fotocopie di due pagi-ne di diario. L’articolo e il diario hanno in comune “gliocchi” che sembrano chiedermi di diventare auguri diPasqua.Spiego: nel mio “lavoro” non posso essere indifferenteagli “occhi”. Spesso sono l’unico elemento di contattocon la persona. E quindi potete immaginare quanta partedella relazione “gli occhi” abbiano. Il mio sforzo è inter-pretarne le mozioni interiori per rivolgere una parola chetenti di essere vera e di raggiungere il cuore. Gli occhi,ben lo sappiamo, sono lo specchio dell’anima e manifesta-no la profondità dello spirito.Così gli occhi del Bambino Gesù, dell’immagine sopraesposta – particolare del dipinto di Raffaello dellaMadonna Sistina conservato al museo di Dresda –,esprimono la lucida consapevolezza di un destino, comequelli dei bambini volati in cielo che, come diceva lamamma di Giorgio, brillano come stelle.“Quello sguardo triste e pensieroso (…) rivela un desti-no. I volti della madre e del figlio sono mansueti e dolen-ti.Vedono forse la collina del Golgota, la strada pietrosa

e polverosa, l’orrenda,corta, pesante e rozzacroce che opprimerà quellapiccola spalla ora riscaldatadal tepore del seno mater-no. Lei e suo figlio siamonoi”(… )“Una Madonna ‘imago’ delle madri che… videromorire i figli”. Scrive Grossman citato da Marco Roncalli.Proprio come ci ha descritto, nella lettera pubblicata nel-l’ultimo numero di “Ascolt’Ami”, la mamma di Giorgiomorto tragicamente a 29 anni il 13 maggio 1994. E’ unamadre addolorata che esprime il suo dolore con la ric-chezza dei suoi sentimenti materni e della sua fede genui-na (confronta i due testi riprodotti nei due box).Per me il dipinto e la testimonianza di questa donna sonola rivelazione del mistero di morte e risurrezione che fadella Pasqua l’evento fondamentale della nostra fede.Se “la nostra epoca, osservando la Madonna Sistina, viriconosce il proprio destino” e se “anche nelle epochepiù terribili la distruzione della vita non significa la suasconfitta” vuol dire che possiamo scambiarci gli auguricon la certezza che in Cristo la speranza non muore mai,è oltre ogni limite anche quello della morte.

GLI OCCHI DI PASQUA

15 febbraio 1995 ore 4 del mattino

Caro Giorgio. Buon giorno.Trent’anni fa a quest’ora tu nascevi. Mi avevi resafelice! Ed è stato tutto un crescendo. Quando siama nel Signore è sempre così. Lui, nei suoi dise-gni divini, ti aveva destinato a questa mamma, findall’eternità. Ti ho accolto come dice Lui: “Chiaccoglie uno di questi piccoli accoglie me”. Tiaccudivo, ti vegliavo, ti nutrivo proprio come

fosti stato Gesù. Eri infatti il mio Gesù Bambino.Alla sera, prima di coricarmi, guardo in Cielo,cerco fra le stelle la più vicina, la più piccola, lameno appariscente. Amo pensare che sei tu…Eri discreto, tesoro mio. Amo pensarti in unastellina.Dillo al Signore Gesù che lo amo e che nonpotrò mai ringraziarlo abbastanza per avermidonato Te.

La tua mamma

Domenica 19/6/94 ore 11,45Già, guardando il cielo dove ticerco, e ti trovo, oltre le stel-le, ti rammento – quandodovevi nascere e c’era chi nonti voleva – io, la tua mamma,pensavo “se uccido questacreatura con le mie mani,spengo due stelle che sono ituoi occhi. Anche per questo,tu lo sai ora che non l’hofatto…Ora tu sei lì,Angelo mio e delSignore Iddio. Dì a Lui che,anche per questo se è neisuoi disegni, non spenga l’in-telligenza che mi ha dato. Edio la userò per servirlo, finchévivo!Grazie Tesoro. La tua ma’.

Ore ventiquattro.Buona notte

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�� LA BUCADELLE LETTERE

Lettera apertaPax! Milano, 13.7.2006

Rev. don Carlo,sono una delle sei novizie che vivono nel monastero di suor Bernarda, in via Bellotti, e a nome di tutte esprimo la gratitudine perl’accoglienza calorosa con cui si è fatto prossimo alla nostra consorella.Sette anni fa, in questo stesso periodo, era ricoverata lì al Trivulzio mia nonna paterna, per problemi di respirazione e io venivospesso a trovarla. Era entusiasta della cappella, voleva sempre essere portata a Messa, e di conseguenza anch’io ho pregato moltevolte nella vostra chiesa, specialmente davanti alla culla di Maria bambina.Credo sinceramente che l’estate del 1999, trascorsa a Milano facendo la spola tra casa e il Trivulzio, sia stata decisiva per me, per-ché in quei mesi ho compreso con chiarezza la mia vocazione; e nel dicembre 2000 sono entrata nel monastero di S. Benedetto.Eccomi ora giunta alle soglie della Professione Perpetua: non posso fare a meno di comunicare questa lieta notizia a Lei e a tutticoloro che frequentavano la vostra chiesa, ringraziando con voi il Signore che l’ha resa un luogo veramente “santo” (forse perchéabitato dal dolore e dalla sofferenza silenziosa di tanti anziani, e dalla carità umile e discreta di molte persone buone e generose).Per me il 7 ottobre prossimo sarà il giorno più bello e radioso della mia vita; quello dell’offerta totale e definitiva al Signore, per ilbene e la gioia di tutti i suoi figli.Vi domando il dono di pregare per me e la mia consorella Maria Luisa perché possiamo sempre rispondere sì ad ogni invito delSignore.Per ora Le invio i miei affettuosi saluti, assicurandoLe che la presenza tra voi della nostra suor Bernarda è segno del ricordo e dellavicinanza dell’intera Comunità del Monastero di San Benedetto a tutti voi.

Suor Maristella dell’Annunciazione

Parole dettate dal cuoreEcco che cosa scrive Linda – una volontaria AMI – all’amica Miriam che le ha chiesto di conoscere più a fondo quali motivazionil’abbiano spinta, già da diversi anni, ad impegnarsi con tanta assiduità in questo tipo di servizio.

Cara Miriam,svolgo la mia missione – così si può dire – in un ricovero per anziani. Mettermi a loro disposizione è per me naturale; è qualchecosa che ho dentro. Io per prima, nel farlo, provo piacere e gioia, e ogni giorno mi sento più motivata ad andare avanti. È un cam-mino di crescita che nasce dall’amore verso chi soffre; dovrebbe essere uno stile di vita, che dovremmo avere tutti. Il desiderio dimettersi a disposizione dell’altro – malato e sofferente – ciascuno dovrebbe averlo nel DNA…E’ basilare aiutare altri a vivere meglio… ma, ahi me, non tutti la pensano così! E’ un’esperienza che mi arricchisce ogni volta di più.

Siamo una piccola comunità di volontari (l’associazione si chiama AMI) ben integrati tra noi. In questa piccola comunità ho trovatoun’altra famiglia. Ci giuda don Carlo; lui ci consiglia e ci sprona nelle difficoltà che a volte si creano nello svolgere questo compito.Spesso accompagniamo gli anziani nel loro ultimo cammino, il tramonto: è così che io lo chiamo la morte. Camminiamo insieme, cisforziamo di far loro capire che non sono soli, che noi gli siamo vicini. Quando qualcuno di loro muore, sento sempre che ha lascia-to un segno, qualche cosa di sé in me, qualche cosa di positivo. Per questo gliene sono grata.

Noi volontari ci mettiamo, o meglio, ci sforziamo di metterci in relazione con gli ospiti (anziano e malati). Quando poi s’instaurauna certa confidenza, si aprono e ci raccontano il loro passato, le gioie e i dolori del loro vissuto. Cerchiamo, con tanto affetto, difar loro superare quel senso di malinconia – che sempre li pervade – con una stretta di mano o un abbraccio.Alcune volte ho pian-to anch’io insieme a loro …e non me ne vergogno! Commuoverci fa parte della nostra vita.Altre volte ai loro sfoghi non c’è rispo-sta (è così difficile colmare il vuoto dell’anima!): in questi casi il silenzio è nostro amico. L’importante è stare lì vicino a loro, e farsentire la nostra presenza.

Ho notato quanto poco calore umano esiste in corsia: sembrano tutti indaffarati per una serie di attività: medicine, cambio del pan-nolone, distribuzione dei pasti da parte del personale… ma, eseguiti questi compiti, non c’è altro. Alcune volte penso che gli ope-ratori sanitari avrebbero bisogno di aggiornamenti e corsi di amore e rispetto verso chi soffre, perché forse – strada facendo –molti se li sono dimenticati! Quello che mi colpisce, quando sono con le mie nonnine, è la tristezza che hanno negli occhi; lo smarrimento, l’isolamento, ladepressione in cui si trovano. La certezza di non avere più un futuro lo leggi nei loro sguardi; capisci come è difficile accettarla.Questi ricoveri per anziani sono luoghi di sofferenza: lo senti nell’aria, lo senti sulla pelle, traspare, ma – nonostante tutto – io quan-do sono qui mi sento serena, ricevo tanto. Proprio noi, per primi, abbiamo bisogno di queste persone!

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Ringrazio Nostro Signore di avermi indicato la strada giusta per costruirmi un futuro migliore, senza sprecare il mio tempo in cosesuperflue.Fare volontariato è non aspettarsi nulla in cambio. Non ci sono premi, non occorre un titolo di studio… è solo amare il prossimo.Si tratta di una ricchezza che completa la nostra esistenza. E’ un patrimonio che dobbiamo usare per l’altro.Concludo con una considerazione: mi sento un granello di sabbia… ma tanti granelli formeranno una montagna.Abbiamo bisognodi tante montagne perché il mondo possa essere migliore! Con parole mie, forse troppo semplici, ho voluto far capire che cosa significa, per me, essere volontaria, che cosa sento nel cuore,quali sentimenti mi spingono a farlo, quale emozione provo sempre.Spero di esserci riuscita… In questo cammino troverò degli ostacoli, ma il Signore è vicino a me, lo sento, non mi ha mai abban-donata: ecco perché sono serena dentro di me. Grazie di avermi ascoltata.

Linda

Cara Linda, siamo noi a ringraziare te perché attraverso parole tanto spontanee ci hai offerto una grande quantità di spunti che ci impegnia-mo ad approfondire e a valorizzare nei nostri prossimi incontri tra volontari. La mia speranza è che anche altri lettori e lettrici desiderinocomunicarci le loro personali esperienze, così da poterci confrontare e compiere passi avanti in questo cammino che ci accomuna.

Michela

Gli appunti di BrigitteSono Brigitte. Da tempo tengo più che un diario un libretto nel quale, di tanto in tanto, faccio annotazioni, prendo appunti, scrivopensieri –anche brevi – che riguardano le persone che ho incontrato e conosciuto in reparto. Il mio reparto è il Vassalli al PioAlbergo Trivulzio, anche se ho trascorso alcuni anni al Barnovano.Alcuni ospiti sono qui da diversi anni, altri sono arrivati da poco,altri ancora sono arrivati e con estrema velocità ci hanno lasciato, aggravandosi nel loro stato di salute o non riuscendo ad adat-tarsi alla struttura. Ciascuno di loro è o è stato importante nel mio percorso da volontaria. Non voglio dimenticarli, è per questoche conservo per iscritto i miei ricordi.Ho messo a disposizione della vostra Redazione queste mie brevi annotazioni per condividere con voi le mie sensazioni e le sto-rie di alcune di queste persone. Mi piacerebbe molto che altri facessero altrettanto così da mettere insieme un comune patrimo-nio di esperienze. In fondo ospiti e volontari siamo come parte di una medesima grande famiglia!

05.09.2006La signora Adriana era un’insegnante a Brera. Ci tiene a dirlo, se le chiedi qualcosa del suo passato. Piccina piccina, fragile, ha avutoun impatto con la struttura sotto certi aspetti drammatico. La prima volta che mi avvicinai a lei vidi che tremava, era spaventata.Il suo stato, tuttoggi, è peggiorato dal fatto che vede male da lontano e malissimo da vicino. “Mi sento spaesata” è una delle frasiche ripete più di frequente e che effettivamente riassume bene il suo stato. Già, sono passati alcuni anni, ma come il primo gior-no ti dice, ogni volta ”mi sento spaesata….”. Quando le faccio visita più che discorrere cerco di starle vicino, prendendo le suemani tra le mie, per rassicurarla. Questo contatto la calma, si sente un po’ più protetta. Qualche volta è proprio lei che ti chie-de “Signorina, mi abbracci!”. “Lei è una persona buona” mi disse la prima volta. Sono ritornata da lei dopo pochi giorni e mi hapresto riconosciuto. Mi ha tanto raccomandato di svegliarla nel caso avessi intenzione di venire altre volte al suo capezzale el’avessi trovata addormentata. “Ho tanto tempo per dormire e poco per comunicare con le persone. Qui mi sento isolata.Quando viene ancora?”.Adriana e gli altri ospiti vogliono da noi vicinanza, affetto, ascolto, comprensione per il loro disagio nonsolo fisico ma anche morale.

04.11.2006Rosa è morta. La sua morte ci ha sorpreso perché improvvisa; duegiorni prima, quando l’ho vista, stava abbastanza bene. Mi ha lasciato ungrande vuoto. Mi ero soffermata a lungo a parlare con lei, e nulla pote-va far presagire che le cose potessero precipitare così.Mi ci vorrà un po’ di tempo per farmi passare la malinconia, il dispiace-re della sua scomparsa, il magone che mi ha preso. L’uomo a cui leivoleva bene, poco tempo prima si era ammalato gravemente e, lei sape-va che non sarebbe più potuto venirla a trovare. Credo quindi, cheRosa si sia lasciata andare, cominciando a non mangiare più. Lui eratutto ciò che le importava ancora.Il più dolce dei sentimenti – l’amore – li univa. Quel filo che li tenevauniti si è spezzato, e così la vita di Rosa.

Le “donne della redazione” di Ascolt’Ami si presentano.Dopo circa quattro anni di intenso rapporto con i lettori, diventato per noiun rapporto anche d’amore, ci piace “svelarci”. Nell’ordine siamo Sara,Marina, Michela, Adriana e Maria Grazia.

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La quota d’iscrizione all’AMI come volontari o soci e le eventuali offerte per l’Associazione o per il giornale tri-mestrale “ASCOLT’AMI” possono essere effettuate direttamente presso la segreteria di Via Trivulzio oppure tramite bol-lettino postale n° 69454767 oppure con bonifico alla Banca Regionale Europea sul c/c n° 33295 ABI 06906 e CAB01793 intestati a:ASSOCIAZIONE MARIA IMMACOLATA – A.M.I. – onlus.

Vi preghiamo di segnalarci persone o gruppi che gradirebbero ricevere il nostro periodico gratuitamente, compilandoil tagliando e spedendolo all’indirizzo della sede redazionale. Qualora non vi venisse recapitato per disservizio postale,segnalatecelo.Vi spediremo i numeri rimasti fino all’esaurimento delle copie.Aiutateci a diffonderlo e a farlo leggere.È questo il ringraziamento alle nostre fatiche.

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CORSI DI FORMAZIONE

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ASCOLTami n.19 - marzo 2007 - pag. 5

la voce dei familiari

La Sorella è il romanzo scritto nel 1946da Sándor Márai, il grande scrittoreungherese autore de Le Braci e di

molti altri romanzi noti ai lettori italiani.Il tema è insolito rispetto a ciò che abbia-mo letto finora: l’uomo di fronte a unagrave malattia e la riflessione conseguen-te: qual è il senso della malattia?Nella storia che Marai ci racconta non sipronuncia mai il nome del male comenon si pronuncia mai il nome del malato:sono universali, ci vuol dire lo scrittore.

Lo sfondo storico è il periodo che precedela seconda guerra mondiale. Una trage-dia annunciata ma non ancora esplosa. Ilviaggio che il protagonista, Z, affronta intreno, si svolge ancora in un’apparentesensazione di benessere e di privilegio. Zè un celebre pianista e va a Firenze per unconcerto. Non è certo un caso la scelta della cittàsimbolo della bellezza contrappostaall’immagine della distruzione che siprofila all’orizzonte.Quella sera d’autunno Z suonerà a Palaz-zo Pitti, pronto a donare bellezza in quel-la “celebrazione” che è il concerto. Ma dopo il concerto Z sta male.E qui Márai entra nel racconto dellamalattia, conoscendone i percorsi, le cru-deltà, le angosce. Il dolore che assale al mattino, si trasfor-ma durante il giorno (con la luce cheincoraggia a lottare), e diventa subdolola notte (col buio e il silenzio).«Così anche il dolore si acquatta, perché ilmalato raccoglie tutte le sue forze e urlacontro il carnefice che ne ha abbastanza,che deve smetterla…Ora bussa da questaparte, ora abbassa una maniglia un po’più in là. Gli interessa tutto, gli occhi, leorecchie, lo stomaco, la regione cardiacaAlla fine si annoia e per un po’ scompare.Come se fosse andato via. Dove sinasconde in questi momenti?…».

Sono entrata in questo libro con amore esofferenza. Come non amare pagine tan-to intense e drammatiche su una condi-zione che ho conosciuto bene?La malattia di Carlo: l’Alzheimer mi hatenuta legata per quattordici anni facen-dosi accettare come “normalità”, come“ordine”, nel ripetersi dei gesti, dellecure, dell’assistenza. Infine la mia malat-tia, il tumore, esploso come un tuono

LA SORELLAquando l’ “ordine” ormai si era stabilitocon le altre malattie.«La malattia non è altro che un’offesaall’ordine cosmico» dice un medico a Z«La malattia è una condanna». Dio si èallontanato dall’uomo. Mi ribellai alla “condanna” e non capiil’abbandono di Dio. Cosa voleva ancora la vita da me? Si eraaffrettata a togliermi la serenità conqui-stata con fatica, mi aveva dato la malattiadi mio marito, la mia malattia e volevache accettassi la condanna? E non poteva, invece, la malattia, essereun grido di dolore, una invocazione a Dioper dire «Basta, non posso più sopporta-re, la misura è colma?»Come è difficile darsi delle risposte senzaqualcuno che ti aiuti ad accettare!

Z rimane a lungo in una confortevolestanza d’ospedale ma che non gli permet-

te di guardare fuori: c’è un muro di cinta.L’arte di Firenze, pur così vicina, non puòsoccorrerlo neppure facendosi spiare.La malattia è gabbia, solitudine, è la finedella “menzogna”, la fine di quella “rap-presentazione” che è la vita. Giù l’abito discena. C’è solo la verità.«Il pudore può esistere soltanto dove cisono desiderio e senso di colpa» e lamalattia soffoca sia l’uno che l’altro. «È possibile una situazione più confiden-ziale, più assoluta, più sincera di quella diun corpo davanti a quelle quattro donne,nel suo stare tra la vita e la morte?» Z è assistito da quattro suore, le Sorelleappunto. «L’intimità che si crea fra il cor-po del malato grave e chi se ne prendecura…». «Ma il corpo malato non hasegreti…».

Come non ripensare al mio essere “Sorel-la” accanto a Carlo? Al suo corpo, chetanto avevo amato, abbandonato al biso-gno di essere curato e assistito? Quantevolte, quando lo sollevavo dai cuscini,l’ho pensato come il Cristo nelle bracciadi sua Madre. Quante volte, la pietà perquel corpo mi ha spinta a baciarlo, acca-rezzarlo, stringerlo e profumarlo.

Conosco l’essere Sorella, conosco quelsondino di gomma infilato impietosa-mente nel naso per obbligare quel corpo anutrirsi, a vivere. Conosco il colore diquel liquido denso color cannella chedoveva obbligare quel corpo a non arren-dersi.Márai mi ha riportato a tutto questo conla forza della sua straordinaria capacitànarrativa.«E quella lotta, o marcia, non era la malat-tia ma la vita intera.» Questo pensa Zsicuro di voler morire. Ma c’è una voce femminile, una delleSorelle (ma quale delle quattro?), che glidice: «Non voglio che lei muoia». E luipensa che sia una energia femminile chesta lottando per lui. E non può resisterle.Quell’energia è più possente del suo desi-derio di morire.

È stata la mia energia a tenere Carlo invita per tanti anni, a non permettergli diarrendersi alla devastazione? Non lo so.Certo è che anch’io gli dicevo:«Nonvoglio che tu muoia». E lui non è mortofino al momento in cui ho capito che nonpotevo più chiedergli tanto sacrificio etanto eroismo.«Perché vivere è una grande responsabili-tà. Ma ci pensi: vivere tra la gente!…Sonomolti quelli che non ce la fanno. Quantiinteressi! La noia, la vanità, l’ambizione, isensi, e dietro ogni cosa si nasconde lamorte…Chi riesce a sopportare tutto que-sto rimanendo sano in ogni momento?»

Maria Grazia Mezzadri

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ASCOLTami n.19 - marzo 2007 - pag. 6

l’ascolto della sofferenza

Aveva avuto molti spaventi, molta sof-ferenza, molto dolore. Ma dopo unlutto non trovava rimedi né pace. Le

dicevano: “Ora è nella luce, ora vede Dio”.Citavano per lei S. Agostino “Coloro che cihanno lasciati non sono degli assenti, sonodegli invisibili. Essi tengono i loro occhi pienidi gloria fissi nei nostri, pieni di lacrime.”Non c’erano parole risanatrici, nessun balsa-mo veniva dal mondo vicino.E non le bastavail silenzio della notte, né quello della natura.Cercava un altro silenzio, qualcosa che letenesse le labbra serrate e le aprisse il cuorecosì chiuso e freddo..Sentiva soprattutto il bisogno di una comuni-tà che l’accogliesse senza troppe spiegazioni

IL SILENZIO: DOVE NASCE LA PAROLA VERA

né parole, le sarebbe bastato uno spazioridotto. Le famose quattro mura dovenascondere e far sedimentare il suo dolore.Pensò ai boschi del Casentino dove un’estateera stata per qualche giorno, incantandosidavanti a quella natura ancora intatta e pro-tetta, Là aveva veduto l’eremo di Camaldoli acui spesso aveva pensato come a un rifugio.Così scrisse, telefonò e chiese.Sì, c’era una foresteria e una voce cortese lediede tutte le informazioni..“La nostra ospitalità è possibilità d' incon-tro con una dimensione riservata e silenzio-sa, è spazio al cui interno vive una comuni-tà monastica, con i suoi ritmi, i suoi percor-si, la sua vita.

Potrebbe diventare per te occasione per unpiccolo momento di respiro: un incontro conte stesso.”

Passò qualche giorno e un’amica le parlò diBose. una comunità monastica ecumenicaformata da casupole color pastello e da set-tanta religiosi, uomini e donne. Il fondatoreera un monaco dallo sguardo acuto e profon-do e la cui voce era tra le più ascoltate dellaspiritualità cristiana.

“La comunità non ti chiede nulla, ma ti invitaa compiere passi di disponibilità: mentre sei aBose, abbandona le tue preoccupazioni, tra-sformale in sollecitudine e persegui la pace:hai l’occasione di fare qui una revisione dellatua vita, di conoscere la lode gratuita a Dionella preghiera della comunità, di ascoltareDio che ti ha attratto a questo luogo indisparte, questo silenzioso deserto spirituale,per parlarti al cuore, e hai anche la possibilitàdi confrontare con altri il tuo impegno nellechiese e nel mondo. Forse, nelle ore del gior-no in cui i membri della comunità lavorano,potrai sentirti solo: è l’occasione di un incon-tro con Cristo nella pace e nel silenzio…

Non temere i tempi di solitudine: la chiesa è atua disposizione per pregare silenziosamen-te; nel cortile c’è anche una stanza di nomeEmmaus: è una sala di lettura dove trovialcuni libri per il tempo del tuo soggiorno. Tisiamo grati se ci aiuti a custodire il clima disilenzio della comunità…

Qui troverai cristiani di confessione, di ten-denza e di sensibilità diverse, uomini noncredenti a volte preoccupati della situazionesociale e politica, e anche uomini o donne conun tipo di vita che forse non approvi: cerca divedere in essi il volto di Cristo, non ferire mainessuno e cerca di ascoltare tutti fino a capireciò che più brucia nel loro intimo. Sono tuoifratelli, uomini come te: se li ascolti, non litroverai tanto diversi da sentirli avversari.”

Non le restava che scegliere. Poi la vita ripresea vorticare e non ne fece più nulla, Ma ormaisapeva dove andare. Ci sarebbe stato un luogodove il silenzio avrebbe avuto cura di lei.

Adriana Giussani K.Foto

Ser

gio

Rao

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ASCOLTami n.19 - marzo 2007 - pag. 7

il punto di vistaLa preghiera scelta per questo numerodel giornale è tratta dal libro di DonTonino Bello Alla finestra la speranza

(ed. San Paolo, 1988) . Per introdurla ripor-tiamo alcune frasi dalla Presentazione diDavid M.Turoldo:

[...] caro fratello vescovo [...]Grazie del tuo coraggio. Grazie delle cosee del modo in cui ci parli; questo stile cheusiamo anche nella preghiera, nel dialogocon Dio; uno stile che ci rende più sincerie umani. Grazie per questo tuo incederenel fiume della vita, a mani distese, a sen-timenti dispiegati come bandiere; e nelcontempo, con nulla di forzato, nulla diretorico [...]Vorrei ringraziarti perché “non benedicimai”, ma dici bene di tutti i poveri. Perchéfinalmente sei un vescovo che non ama “laletteratura edificante”. Perché ad ognipagina riesci a folgorarci sulle nostre bana-lità e a scuoterci dalle nostre distrazioni,dal “belvedere delle nostre contemplazionipanoramiche”; e ci inviti a “metterci inascolto del futuro”; dopo aver denunciato“la croce che pende dal collo, ma non sullenostre scelte”.Ed ecco la preghiera di Don Tonino Bello:

“Voglio ringraziarti, Signore, per il donodella vita.Ho letto da qualche parte che gli uominisono angeli con un’ala soltanto: possonovolare solo rimanendo abbracciati.A volte, nei momenti di confidenza, osopensare, Signore, che anche tu abbia un’alasoltanto. L’altra, la tieni nascosta: forse per

DAMMI, SIGNORE, UN’ALA DI RISERVA

farmi capire che anche tu non vuoi volaresenza di me.Per questo mi hai dato la vita: perché iofossi tuo compagno di volo.

Insegnami, allora, a librarmi con te.Perché vivere non è “trascinare la vita”,non è “strappare la vita”, non è “rosicchia-re la vita”.Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano,all’ebbrezza del vento.Vivere è assaporare l’avventura della libertà.Vivere è stendere l’ala, l’unica ala, con lafiducia di chi sa di avere nel volo un part-ner grande come te!

Ti chiedo perdono per ogni peccato controla vita.Anzitutto, per le vite uccise prima ancorache nascessero. Sono ali spezzate. Sonovoli che avevi progettato di fare e ti sonostati impediti. Viaggi annullati per sempre.Sogni troncati sull’alba.Ma ti chiedo perdono, Signore, anche pertutte le ali che non ho aiutato a distendersi.Per i voli che non ho saputo incoraggiare.Per l’indifferenza con cui ho lasciato razzo-lare nel cortile, con l’ala penzolante, il fra-tello infelice che avevi destinato a navigare

nel cielo. E tu l’hai atteso invano, per cro-ciere che non si faranno mai più.

Aiutami ora a planare, Signore.A dire, terra terra, che l’aborto è un oltrag-gio grave alla tua fantasia. È un criminecontro il tuo genio. È riaffondare l’auroranelle viscere dell’oceano. È l’antigenesi piùdelittuosa. È la “decreazione” più desolan-te.Ma aiutami a dire, anche, che mettere invita non è tutto. Bisogna mettere in luce. Eche antipasqua non è solo l’aborto, ma èogni accoglienza mancata. È ogni rifiutodel pane, della casa. Del lavoro, dell’istru-zione, dei diritti primari.Antipasqua è la guerra: ogni guerra.Antipasqua è lasciare il prossimo nel vesti-bolo malinconico della vita, dove “si tira acampare”, dove si vegeta solo. Antipasquaè passare indifferenti vicino al fratello cheè rimasto con l’ala, l’unica ala, inesorabil-mente impigliata nella rete della miseria edella solitudine. E si è ormai persuaso dinon essere più degno di volare con te.Soprattutto per questo fratello sfortunatodammi, o Signore, un’ala di riserva.

Sara Esposito

L’azione pastorale e gli scritti di don Tonino Bellosono segnati dalla scelta radicale per i poveri, fre-quentemente incontrati, amati, serviti, accolti.Nella sua biografia Don Tonino, fratello vescovo (ed.Paoline, 1994) Claudio Ragaini scrive che “i poveridon Tonino se li portava nel cuore, li aveva messisullo stemma all’ingresso del vescovado, erano alcentro del progetto pastorale che aveva pubblica-to nel dicembre del 1984 con il titolo: Insieme allasequela di Cristo sul passo degli ultimi”.Incisiva è stata l’azione pastorale che don Toninoha svolto, tra le varie forme di povertà, a favoredei sofferenti. Ha assistito personalmente i primiammalati di AIDS; ha sollecitato i responsabilidella pastorale della salute a intensificare l’operadi umanizzazione dei servizi sanitari; ha promos-so l’attività del “Centro volontari della sofferen-za”, associazione fatta di ammalati e che vedenell’ammalato un soggetto di apostolato, non uncristiano di seconda categoria.Tra gli scritti, la “Lettera a coloro che soffrono nelcorpo” (Insieme per servire, n.26, 1995) è unaforte meditazione sulla realtà della Croce, intrec-ciata con le storie di alcuni sofferenti incontrati eaccolti

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ASCOLTami n.19 - marzo 2007 - pag. 8

La nostra carta d’identità è “volonta-riato per l’ascolto”. L’ascolto nella

relazione è reciproco: parole, gesti emimiche. Decodificati creano la comuni-cazione. La parola, quando si cala conessenzialità nelle situazioni di bisogno edi sofferenza, dà speranza e sollievo.1° A questo punto ci chiediamo qualedeve essere la nostra parola, come deveessere usata, a quali risorse può ricorre-re. Lo dice il card. Martini quando affer-ma che la parola umana è un insieme diricchezza e povertà. È in essa che “lanostra umanità va in cerca dell’umanitàdegli altri, cerca un contatto con loro,genera consensi, costruisce comunitàumane, interviene sulle cose del mondo.Vita, speranza, gioia, impegno, operosi-tà, amore, luce di verità sono misteriosa-mente depositati nel fragile involucrodella parola”.Mi chiedo se la parola è anche per voiveicolo di umanizzazione dei rapporti,se, come dice Pronzato, è l’espressionedi un “pensare in proprio”, critico difronte a chi ci propina, in maniera sub-dola, un suo modo di pensare che soffo-ca la nostra coscienza.2° La parola, se sperimenta il senso delmistero e quindi un senso di inadegua-tezza davanti a un volto cupo, non puòsottrarsi a interagire. “Quando la tristez-za stringe il cuore, non sapresti distin-guere il povero dal ricco. Sul volto tristerintracci le ferite di una malattia dell’ani-ma e del corpo”. Che cosa puoi dire senon una parola che nasce dalla fede,come la esprime “il vescovo Ambrogio”affermando che c’è una certezza: la vitadegli uomini è tutta salvata dalla comu-nione con Gesù. Il suo sguardo amico,rassicurante, ti fa avvertire quale forzadoni l’essere stimato.Quando l’esercizio del tuo volontariatoti ha fatto incontrare l’uomo “raggomi-tolato nel suo dolore”, come hai affronta-

memorandun visti e letti per voi

fototeca

Silenzio.Nella Grande Chartreuse di Grenoble i monaci osser-vano la regola del silenzio. La loro vita è divisa tra lemansioni quotidiane e le ore di preghiera. Qui il silen-zio non è un terribile deserto, bensì attesa che si riem-pie di Dio e della sua Parola.(Il grande silenzio, documentario di Philip Groning, oradisponibile in DVD).Ascolto.“Ascoltare non è prestare l’orecchio. E’ farsi condurredall’altro là dove la parola conduce. Se poi, invece dellaparola, c’è il silenzio dell’altro, allora ci si fa guidare daquel silenzio. Nel luogo indicato da quel silenzio è datoreperire, per chi ha uno sguardo forte e osa guardarein faccia il dolore, la verità avvertita dal nostro cuore esepolta dalle nostre parole.(Umberto Galimberti, cit. da Luciano Manicardi, Nelletenebre una luce, CVS, p.9)Servizio.Le vicende di Maria, lette in chiave di accoglienza e ser-vizio alla vita, sottolineano alcuni aspetti preziosi per ilnostro volontariato:- lo stupore: San Benedetto raccomandava ai suoimonaci di ascoltare “attonitis auribus”, con orecchiomeravigliato, “perché l’altro capisca che la sua storia èper me interessante”;- l’accoglienza: intesa come volontà di comprendere ecapacità di instaurare un dialogo vero;- il servizio: non servitù, ma partecipazione alla realizza-zione del progetto di Dio.(Ermes Maria Ronchi, Bibbia e pietà mariana, ed.Queriniana, 2002)

Sara Esposito

LE NOSTRE SEDISEDE CENTRALE: Milano, Pio Albergo Trivulzio, via Trivulzio 15, tel. 02 4035756,tel. e fax 02 4071683, cell. 338 1314390, e-mail: [email protected] http://spazioinwind.iol.it/amiwebVIMODRONE: Istituto Redaelli, via Leopardi, 3, tel. 02 25032361, cell. 347 8107498MILANO: Ospedale San Raffaele, Via Olgettina 60,tel. 02 26432460, fax 02 26432576,cell. 338 1704429CERNUSCO S/N: Casa Mons. Biraghi,Via Videmari 2, tel. 02 929036, fax 02 9249647

Direttore responsabile don Carlo StucchiDirettore di redazione Michela AlbornoGruppo redazionale Marina di Marco, Sara Esposirto, Adriana Giussani K., Maria Grazia MezzadriFoto Archivio AMI, pag. 6 Sergio RaoImpaginazione e Grafica Raul MartinelloStampa NAVA SpA, Via Breda 98, 20136 Milano

DANZA

É primavera.

to la situazione? Hai saputo dimostrarevicinanza, e in questo caso come, o il tuolinguaggio ti ha fatto scivolare sopra?3° Il racconto de La sorella riconducedentro la riflessione di una inspiegabili-tà e insopportabilità di certe malattie chehanno il senso della punizione e dellacondanna come se derivassero da un Diolontano e giudice.È possibile avere una parola per chi spe-rimenta situazioni percepite come con-dizioni limite? L’immagine della sorellati suggerisce qualcosa che possa rientra-re nella tua azione di volontariato?4° Nella storia del cristianesimo il sorge-re di comunità monastiche ha insegnatoa riscoprire il valore del silenzio noncome “deserto desolato ma luogo diattesa che si riempie di Dio e della suaParola”, come qualcosa che “tiene le lab-bra serrate e apre il cuore”. È questo ilsilenzio che si prende cura dell’uomoche soffre.Vorrei ora con te interrogarmi sul postoche occupa il silenzio nella nostra vita; sesentiamo il bisogno di avere momenti disilenzio; se non abbiamo mai avutonostalgia del silenzio, di fare esperienzadi quel silenzio ricco di risorse per lanostra vita personale e per il nostro cam-mino di volontari AMI. Ricordo che èstato trattato in una giornata residenzia-le (forse 1999) e nel primo numero diquesto giornale “Ascolt’Ami”.Al volontario AMI, infatti, è assegnatoun compito importante riguardo la paro-la nella sua valenza di povertà e inade-guatezza, ma anche di grande risorsasoprattutto quando nell’interioritàdiviene Parola che sana e ricrea. È questa“la parola dono per l’edificazione reci-proca che ci rende responsabili gli uniper gli altri”. La parola che guarisce è silenzio, ascoltoe servizio.

Marina Di Marco

Ascolt 19 28-02-2007 11:32 Pagina 8