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In Italia giungono stranieri da circa 150 Paesi di tutti i continenti: questo implica una confluenza non soltanto di culture, religioni e stili di vita, ma anche di potenziali vulnerabilità, assetti genetici (ad es., in considerazione di malattie ereditarie rare) e quindi predisposizioni costituzionali e capacità di adattamento del tutto differenti.

Nel modulo 1 era stato tracciato un quadro generale dello stato di salute che, come si era affermato, può essere considerato nel suo complesso buono.

In realtà, prima di approfondire in maniera più dettagliata il tema delle patologie più diffuse e la conseguente prescrizione di farmaci, sono opportune alcune considerazioni.

Se l'effetto migrante sano è ancora oggi valido per chi sceglie di affrontare l’onere economico e lo stress psicofisico che comporta il trasferimento in un Paese straniero, questo non si applica necessariamente a profughi, sfollati, rifugiati e a tutti coloro che si trovano costretti a scappare da gravi situazioni politiche, da guerre o persecuzioni.

In secondo luogo l'”effetto del migrante sano” tende ad attenuarsi e a perdere la propria rilevanza man mano che l'immigrazione si stabilizza nel Paese ospite e subentra la cosiddetta stratificazione demografica.

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Dopo una prima fase di vulnerabilità per le condizioni di vita, infatti, tende a prevalere la possibilità di un’interazione con i servizi del Paese ospite e subentra la capacità di identificare ed esternare i propri bisogni di salute, parallelamente al percorso di adattamento del sistema sanitario del Paese ospite alle peculiari necessità di questi nuovi utenti.

Il fenomeno del migrante sano, tuttavia, non sempre è riscontrabile negli stranieri il cui progetto migratorio è tracciato, semplificato o agevolato da parenti o amici.

Infine è bene tenere in considerazione che lo stato di salute dei migranti può risentire negativamente dell’intervento di fattori sanitari, ambientali e sociali legati al Paese ospite: il disagio psicologico, la mancanza di lavoro, la precaria disponibilità e autonomia economica, il degrado abitativo, l’adattamento a un clima e a uno stile alimentare e di vita diversi, la mancanza del sostegno familiare, il coinvolgimento in attività lavorative rischiose e non tutelate e gli eventuali ostacoli di accesso ai servizi sanitari nonostante le leggi sono soltanto alcuni esempi che devono far riflettere sulle molteplici eventualità che possono concorrere a determinare una condizione di “sofferenza sanitaria” del migrante indipendentemente da un buon profilo di salute iniziale.

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Un ulteriore ambito di intervento è quello che riguarda la medicina preventiva, che ha sempre visto l’Italia attivamente impegnata.

Alcune ricerche, peraltro confinate a singole realtà territoriali e quindi non in grado di fornire una lettura sufficientemente completa su scala nazionale, hanno per esempio riportato un rischio elevato di parti distocici e di sofferenza perinatale e per i bambini, soprattutto nel contesto della popolazione zingara, e un ritardo o l’incompletezza della copertura vaccinale.

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Le malattie che hanno suscitato maggiore interesse nella popolazione immigrata sono le malattie sessualmente trasmissibili, compresa l'infezione da HIV con AIDS conclamata, e la tubercolosi, che sono ritenute, ancora oggi, nell'immaginario collettivo, i pericoli più gravi e immediati per la salute degli italiani.

Malgrado i numerosi progressi, le malattie sessualmente trasmissibili rappresentano tuttora un problema di salute pubblica.

Nei Paesi più avanzati l’introduzione di tecniche diagnostiche raffinate e di protocolli terapeutici validi efficaci, anche grazie alla disponibilità di nuove molecole, ha agevolato la diagnosi, il decorso e la prognosi, riducendo anche il gravoso carico di implicazioni psicologiche, mentre nei Paesi in via di sviluppo la situazione riserva ancora ampi margini di criticità a fronte delle scarse risorse economiche destinabili all'esecuzione di pratiche diagnostiche precise e attendibili e all’impiego di farmaci di ultima generazione.

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Per quanto riguarda l’AIDS, nell’intervallo 1992-09 sono stati diagnosticati in Italia 48.550 casi nei maggiorenni, di cui poco più di 4800 hanno riguardato cittadini stranieri.

La percentuale di stranieri affetti da AIDS è salita dal 2,6% nel 1992 al 24,5% nel 2009, tuttavia il numero di nuove diagnosi tra gli stranieri di sesso maschile, dopo un aumento iniziale tra il 1992 e il 1995, si è stabilizzato, mantenendosi al di sotto dei 200 casi/anno (con la sola eccezione dei 212 casi registrati nel 2008).

Nelle donne, invece, il numero di diagnosi ha segnato un progressivo incremento fino al 2005 (parallelamente a un aumento di 5 volte della popolazione straniera osservato nel medesimo periodo), attestandosi intorno a 120-130 casi/anno.

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I tassi di incidenza a partire dal 1996, grazie alla disponibilità di trattamenti più efficaci, sono in costante diminuzione in entrambi i sessi (in particolare negli uomini). Questa tendenza si è mantenuta anche negli anni successivi.

Questi dati confermano che l’incremento della percentuale di stranieri affetti da AIDS rispetto a tutti i casi diagnosticati in Italia non esprime un aggravamento dell’epidemia, ma è dovuto all’aumento della popolazione immigrata, insieme a una riduzione più marcata dell’infezione negli Italiani.

Inoltre l’andamento dei tassi di incidenza indica che il contenimento del fenomeno negli stranieri è correlabile alla loro possibilità di accesso a trattamenti antiretrovirali efficaci, offerti dal Servizio Sanitario Nazionale.

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Va poi osservata la persistenza, ancora nel 2009, di una differenza significativa della prevalenza tra gli stranieri (residenti) e gli italiani: 4:1 (10,8 e 2,6 per 100.000 rispettivamente) per gli uomini, 11:1 (6,9 e 0,6 per 100.000) per le donne.

La possibilità di accesso ai servizi è fondamentale per contrastare la vulnerabilità degli stranieri al contagio e alle complicanze dell’AIDS: la popolazione immigrata, infatti, si imbatte spesso in ostacoli di natura linguistica, culturale e socio-economica che impediscono l’applicazione di valide misure di prevenzione e cura.

Per tale ragione sono prioritarie l’informazione e l’educazione sanitaria su un versante, unitamente al test di screening, e sull’altro la promozione dell’accesso alle cure nonché della compliance ai protocolli terapeutici.

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La tubercolosi è una patologia diffusa tra gli individui caratterizzati da un basso livello economico e quelli che, per cause esogene o endogene, presentano un calo delle difese immunitarie.

Negli Stati Uniti gli incrementi della mortalità per tubercolosi sono risultati correlati alle diverse ondate di immigrazione, in particolare tra le persone costrette a vivere in condizione di emarginazione.

Il rischio di contrarre la tubercolosi nel Paese di immigrazione, inoltre, aumenta in rapporto a situazioni socio-economiche precarie e diventa ancor più rilevante in coloro che provengono da aree geografiche caratterizzate da elevata endemia, soggetti peraltro a maggiore rischio di antibiotico-resistenza.

La tubercolosi deve essere quindi considerata una malattia della povertà e dell'emarginazione sociale.

L'“effetto migrante sano” concorre indubbiamente a mitigare i presunti rischi per il Paese ospite, soprattutto se dotato di un sistema sanitario adeguatamente sviluppato che assicuri sorveglianza e trattamento tempestivo.

Al contrario potrebbero essere proprio le condizioni di degrado ambientale e sociale subite dagli immigrati a determinarne un rischio globale di malattia e contagiosità tubercolare addirittura superiore a quello dei concittadini nel Paese di origine.

Eventuali deficit nutrizionali, squilibri dietetici, infezioni intercorrenti e lo stress globale possono amplificare il rischio di riattivazione endogena, mentre la promiscuità abitativa in ambienti malsani moltiplica il rischio di prima infezione e di reinfezione esogena.

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Il numero dei casi di tubercolosi notificati in Italia nel periodo 2003-09 è rimasto stabile, con circa 4500 casi/anno, ma con una progressiva riduzione dell’incidenza in linea con l’andamento degli ultimi 15 anni: da 8 casi/100.000 abitanti nel 1995 a 7 casi/100.000 nel 2009.

Nel medesimo intervallo di tempo la popolazione residente in Italia ha registrato un incremento di poco più del 5% (in media, meno dell’1% l’anno), mentre la popolazione straniera residente, nello stesso periodo, è aumentata in alcune zone fino a raddoppiare (aumento medio di circa il 20-25% l’anno), con differenze importanti tra una regione e l’altra.

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Negli ultimi anni in Italia è invece aumentato in maniera significativa il numero di casi di tubercolosi in persone nate all’estero, parallelamente all’incremento della loro numerosità: dal 2003 al 2009, il numero dei casi di tubercolosi registrati in cittadini nati all’estero è infatti salito dal 37% al 48% del totale dei casi notificati dalle regioni.

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Nel 2009 la percentuale di casi di TBC negli stranieri ha superato quella registrata negli italiani.

In conclusione la tubercolosi è in Italia un problema di sanità pubblica prioritaria per il quale la componente legata alla popolazione immigrata costituisce un aspetto di assoluto interesse, senza però destare di per sé motivi di allarmismo sociale, anche in considerazione della rara trasmissione dell’infezione dagli immigrati alla popolazione residente.

È tuttavia fondamentale mantenere una sorveglianza attiva in tutte le regioni, uniformandone possibilmente l’operatività al fine di garantire diagnosi e trattamento precoci.

Infine è necessario favorire l’accesso ai servizi sanitari da parte degli immigrati attraverso un’informazione capillare e la sensibilizzazione degli operatori sanitari.

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Nel periodo 2004-10 sono pervenute al Sistema Epidemiologico Integrato dell’Epatite Virale Acuta (SEIEVA) 7914 notifiche di casi di epatite virale acuta, dei quali il 14% riguardante cittadini stranieri. Tale percentuale è aumentata negli anni, salendo dal 10,9% nel 2004 al 17,9% nel 2010.

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Maggiormente rappresentate sono le epatiti A e B, ma le percentuali più elevate si sono registrate per i casi di epatite non A-non C.

La quasi totalità dei casi osservati negli stranieri (97%) proveniva da Paesi a forte pressione migratoria (PFPM) e soltanto un’esigua minoranza (35 casi) da Paesi a sviluppo avanzato (PSA).

Relativamente all’area geografica la maggior parte dei casi si è verificata in cittadini dell’Europa dell’Est (41,6%) e dell’Africa (29,3%), regioni a più elevata pressione migratoria verso l’Italia.

I casi di epatite A sono stati notificati prevalentemente in cittadini africani, mentre quelli di epatite B e C, a trasmissione parenterale, in individui provenienti per lo più dall’Europa dell’Est, dove il livello endemico raggiunge il suo picco nel nostro continente, in particolare per l’epatite B.

Per quanto riguarda il tipo di epatite diagnosticata oltre l’81% dei casi negli stranieri è attribuibile ai virus A e B, mentre soltanto il 4% all’epatite C contro quasi il 9% riscontrato nella popolazione italiana.

Nei cittadini provenienti da PSA l’epatite A è la più frequente (77% dei casi): l’epatite A, infatti, è endemica nei PFPM, cosicché gli individui provenienti dai PSA sono in genere sprovvisti di anticorpi protettivi contro il virus epatitico A.

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Dei 449 casi di epatite A diagnosticati negli stranieri 422 provenivano da PFPM e 178 dal Marocco (42%).

In entrambe le popolazioni l’incidenza ha mostrato nel tempo una riduzione progressiva, da circa 3 per 100.000 nel 2004 a meno di 2 per 100.000 nel 2010.

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Nel medesimo periodo i casi di epatite B sono stati 455, a carico di stranieri provenienti soprattutto dall’Europa dell’Est e in particolare dalla Romania (128 casi).

L’incidenza di epatite B negli immigrati da PFPM è più elevata rispetto alla popolazione generale, ma la differenza ha registrato una riduzione nel tempo a fronte di una diminuzione dei tassi di malattia negli stranieri.

Tale riscontro potrebbe essere spiegato dal fatto che l’Italia è stata la prima nazione ad attuare la vaccinazione di massa anti-epatite B (legge n. 165/1991), mentre altri Paesi hanno intrapreso questo percorso successivamente, beneficiando tardivamente dei benefici della profilassi.

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L’Italia, inoltre, ha adottato una vaccinazione in parallelo dei neonati e dei dodicenni – con la conseguente induzione di un’immunità di gruppo – e molti stranieri, risiedendo in Italia dalla nascita o comunque dall’età di 12 anni, possono aver beneficiato della vaccinazione obbligatoria.

Dei 652 casi di epatite C notificati tra il 2004 e il 2010, 44 (6,7%) riguardavano stranieri provenienti da PFPM e il 59% dei casi dall’Europa dell’Est.

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Le epatiti acute negative ai test per la ricerca dei virus dell’epatite A, B e C (non A-non C) o di origine ignota nel periodo 2004-2010 sono state complessivamente 162.

Per quanto riguarda in particolare l’epatite acuta Delta, la quasi totalità dei casi proveniva dall’Europa dell’Est.

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Questa slide riporta alcuni aspetti importanti che dovrebbero essere tenuti in considerazione a livello di politica sanitaria e organizzazione dei servizi assistenziali per i cittadini immigrati.

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I dati relativi ai ricoveri degli stranieri, acquisiti dall’archivio nazionale delle Schede di Dimissione Ospedaliera (SDO) del Ministero della Salute, offrono numerose informazioni sia sull’impatto del fenomeno migratorio sulle ospedalizzazioni sia sull’assistenza sul territorio e sulle patologie.

Nel 2010 i ricoveri dei cittadini stranieri sono stati circa 560.000, pari al 5% del totale, e nel 93% dei casi hanno riguardato cittadini provenienti da PFPM.

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Il 75% è stato effettuato in regime ordinario.

Per quanto riguarda il regime di Day Hospital i ricoveri totali hanno registrato una riduzione a partire dal 2005 e nel 2010 sono stati poco più di 3 milioni.

Tra gli immigrati da PFPM i ricoveri sono aumentati fino al 2008 e successivamente sono diminuiti attestandosi intorno a 130.000.

I dati relativi al 2010 confermano l’elevata variabilità dei ricoveri degli stranieri da PFPM nelle varie regioni italiane, correlata al numero di stranieri presenti nelle singole aree del Paese.

Tra i cittadini provenienti da PFPM l’ospedalizzazione delle donne risulta sempre maggiore rispetto a quella degli uomini per entrambe le tipologie di ricovero per ragioni legate alla riproduzione (gravidanza, parto e abortività volontaria).

I tassi dei pazienti PFPM denotano in ogni caso un loro ridotto accesso alle strutture ospedaliere.

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L’analisi per diagnosi principale alla dimissione conferma ulteriormente nei maggiorenni il ricorso frequente all’ospedale da parte delle donne provenienti da PFPM per motivi legati alla riproduzione.

In regime ordinario i parti delle donne da PFPM condizionano tassi di 1,6 volte più elevati rispetto a quelli delle cittadine italiane.

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In regime di Day Hospital le differenze tra PFPM e italiane si correlano a un differente ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza (i tassi sono di 2,4 volte più elevati nelle straniere PFPM rispetto alle italiane).

Seguono per frequenza le infezioni dell’apparato genitourinario, sia in regime ordinario (6,5%) che in Day Hospital (12,4%), probabilmente a causa di condizioni di vita precarie e scarsa igiene.

Negli uomini i traumatismi (18,5% dei ricoveri in regime ordinario) rimangono la causa più frequente di ricovero, seguiti da malattie dell’apparato digerente (14,7%), soprattutto a carico del tratto intestinale, e da malattie del sistema circolatorio (12,3%).

Analoga realtà caratterizza i ricoveri in Day Hospital, con una maggior frequenza di malattie dell’apparato digerente (12,4%, prevalentemente interventi di ernia addominale), seguite da malattie dei sistemi osteomuscolare e connettivo (11,6%).

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I dati al 2010 confermano un utilizzo dei servizi ospedalieri inferiore da parte degli immigrati rispetto agli Italiani, e per ragioni essenzialmente legate alla fisiologia della riproduzione o a cause accidentali come i traumi.

Si registra tuttavia un incremento delle malattie croniche (tumori, malattie cardio-circolatorie, broncopneumopatie ostruttive e asma) parallelamente all’invecchiamento della popolazione immigrata e all’adozione di stili di vita del Paese ospite, con tutti i fattori di rischio correlati.

L’elevato ricorso alle interruzioni volontarie di gravidanza giustificherebbe interventi ad hoc per la promozione di una procreazione responsabile.

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L’impiego dei farmaci offre lo spunto per analisi di notevole interesse, sia sull’accesso ai servizi assistenziali, sia sulle ragioni prescrittive (malattie e sintomi più frequentemente affrontati) nonché sulle modalità di impiego e quindi sull’appropriatezza.

Grazie alla collaborazione di varie istituzioni e società scientifiche, tra cui la Società Italiana di Farmacia Ospedaliera (SIFO), la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), CINECA, Consorzio Mario Negri Sud e Istituto Superiore di Sanità, è stato possibile creare una banca dati delle prescrizioni farmaceutiche, nella quale sono raccolti i dati relativi alla popolazione di 32 ASL italiane (le ASL afferenti al progetto Arno coordinato dal CINECA e le ASL della Regione Umbria) nell’ambito di un progetto di analisi della prescrizione farmaceutica nella popolazione immigrata.

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Una prima analisi di queste informazioni è stata pubblicata nel Rapporto sull’uso dei farmaci in Italia nel 2011 a cura dell’Osservatorio nazionale sull’impiego dei Medicinali (OsMed), nel quale sono stati riportati i dati relativi a circa 600.000 assistiti.

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Alla luce dei dati acquisiti si può evincere che:

• il 50% della popolazione immigrata e il 58% di quella italiana hanno ricevuto almeno una prescrizione nel corso dell’anno, con un’età mediana degli utilizzatori (35 anni) e un rapporto uomini/donne (0,84) sovrapponibili;

• nella fascia d’età 15-65 anni le donne immigrate mostrano un maggior consumo di farmaci rispetto agli uomini;

• nei bambini la prevalenza di impiego è di circa il 60% per italiani e stranieri;

• i farmaci antibatterici sono la categoria terapeutica con i maggiori livelli di esposizione (la prevalenza d’uso è rispettivamente del 33% e del 38% negli immigrati e negli italiani), seguiti dai farmaci gastrointestinali (rispettivamente 13% e 12%) e respiratori (rispettivamente 11% e 15%), la cui prescrizione viene effettuata per problematiche acute;

• in categorie terapeutiche con utilizzo cronico, come per esempio i farmaci cardiovascolari, la prevalenza è del 7% negli immigrati e dell’8% negli italiani, con 435 dosi per utilizzatore negli immigrati e 474 dosi negli italiani.

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Gli immigrati hanno un livello di esposizione superiore agli italiani per quanto concerne i farmaci antidiabetici, gastroprotettori e antinfiammatori.

Differenze non sostanziali riguardano il trattamento dell’ipertensione e dell’ipercolesterolemia, mentre gli italiani mostrano una maggiore prevalenza d’uso di farmaci utilizzati nella prevenzione dei sintomi dell’asma e della BPCO e una prevalenza doppia di antidepressivi.

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Ulteriori dati di interesse sono stati presentati recentemente in un convegno dal titolo “Prescrizione farmaceutica nella popolazione immigrata”, presso l’Istituto Superiore di Sanità.

Il rapporto si è basato su un’indagine su 710.879 immigrati PFPM nati all’estero o in Italia regolarmente residenti nelle ASL partecipanti (pari al 16% della popolazione immigrata residente in Italia, età mediana 33 anni, sesso femminile 53% del totale).

Sono stati analizzati i dati della prescrizione farmaceutica territoriale del Servizio Sanitario Nazionale effettuata prevalentemente da medici di medicina generale e pediatri di libera scelta e la prescrizione nella popolazione immigrata è stata posta a confronto con quella di un campione della popolazione italiana appaiato per età e sesso.

Sono inoltre stati effettuati confronti fra le popolazioni di immigrati in base al Paese di origine e analisi della variabilità geografica.

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Il 52% della popolazione immigrata e il 59% di quella italiana hanno ricevuto almeno una prescrizione di farmaci nel corso del 2011, con una spesa farmaceutica media a carico del Servizio Sanitario nel corso dell’anno di 72 euro per un cittadino immigrato e di 97 euro per un cittadino italiano.

L’uso dei farmaci nelle donne è risultato maggiore che negli uomini: hanno ricevuto almeno una prescrizione il 58% delle donne immigrate e il 65% delle italiane, e tra coloro che hanno ricevuto prescrizioni la durata di trattamento è risultata sovrapponibile (rispettivamente 232 e 237 dosi di farmaco per utilizzatrice).

La popolazione immigrata pediatrica esaminata è stata di 134.000 bambini, dei quali il 76% nati in Italia.

Di questi ultimi, il 54% ha ricevuto almeno una prescrizione di farmaci nell’anno rispetto al 60% dei bambini italiani: in media ciascun bambino immigrato ha ricevuto 2,4 confezioni rispetto a 2,6 degli italiani.

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Negli immigrati è risultata maggiore la percentuale di utilizzatori, rispetto agli italiani, di farmaci antidiabetici (1,6% rispetto a 1,1%), gastroprotettori (10,3% vs 8,7%) e antiinfiammatori (11,3% vs 8,3%), mentre la popolazione italiana ha registrato una maggiore quota di utilizzatori di antipertensivi (7,6% vs 6,5%), ipocolesterolemizzanti (2,4% vs 1,9%), antibiotici (36,6% vs 31,9%), antiasmatici e farmaci per la BPCO (12,2% vs 8,1%); infine, la prevalenza d’uso di antidepressivi è risultata circa doppia nella popolazione italiana (3,9% vs 2,0%). i minori livelli di utilizzatori di farmaci sono stati osservati nelle popolazioni di origine cinese o kosovara (solo il 36% dei cittadini ha ricevuto almeno una prescrizione da parte del Servizio sanitario nel corso del 2011). I risultati hanno così evidenziato che il Servizio sanitario nazionale è in grado di rispondere ai bisogni di salute della popolazione immigrata, che incide poco in termini di consumo di risorse: benché gli immigrati regolari nel 2011 abbiano rappresentato il 7,5% della popolazione, infatti, hanno assorbito soltanto il 2,6% della spesa farmaceutica.

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