In occasione dell’anniversario dei “150 anni dell’Unità d...

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In occasione dell’anniversario dei “150 anni dell’Unità d’Italia ” noi alunni dell’ Istituto Comprensivo “Angelo Musco” di Catania abbiamo voluto approfondire la conoscenza di fatti e vicende che hanno contribuito a creare la storia del nostro Paese. L’o- biettivo della nostra Redazione era quello di coinvolgere la Scuola attraverso diverse iniziative volte a stimolare la rifles- sione sui “percorsi della storia”, che hanno costituito, in questi ultimi 150 anni, l’Unità d’Italia. A nostro avviso, era importante avviare una tale riflessione che ha coinvolto in vario modo tutta la scuola, con articoli, ricerche, disegni, perché abbiamo ritenuto di primaria importanza recuperare lo spirito unitario e una cittadi- nanza consapevole, fondata anche sui valori che il Risorgimento ci ha traman- dato insieme alla Costituzione. Cogliamo l’occasione per ringraziare la nostra Preside, Dott. ssa Cristina Cascio, e le prof.sse Anna Scuderi, Alessandra Bryant-Barrett, Rita Castiglione e Claudia Urzì insieme a tanti insegnanti della nostra scuola, che con molta pazienza ed entusiasmo, ci hanno stimolato ed aiutato a curare la re- alizzazione di questa edizione speciale dedicata ai 150 anni dall’Unità d’Italia. Vi auguriamo una buona e piacevole lettura! La Redazione Coordinamento di Redazione e Progetto Grafico: Prof.ssa Anna Scuderi

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In occasione dell’anniversario dei “150 anni dell’Unità d’Italia ”

noi alunni dell’ Istituto Comprensivo “Angelo Musco” di Catania

abbiamo voluto approfondire la conoscenza di fatti e vicende

che hanno contribuito a creare la storia del nostro Paese. L’o-

biettivo della nostra Redazione era quello di coinvolgere la

Scuola attraverso diverse iniziative volte a stimolare la rifles-

sione sui “percorsi della storia”, che hanno costituito, in questi

ultimi 150 anni, l’Unità d’Italia.

A nostro avviso, era importante avviare una tale riflessione che ha coinvolto

in vario modo tutta la scuola, con articoli, ricerche, disegni, perché abbiamo

ritenuto di primaria importanza recuperare lo spirito unitario e una cittadi-

nanza consapevole, fondata anche sui valori che il Risorgimento ci ha traman-

dato insieme alla Costituzione.

Cogliamo l’occasione per ringraziare la nostra Preside, Dott.

ssa Cristina Cascio, e le prof.sse Anna Scuderi, Alessandra

Bryant-Barrett, Rita Castiglione e Claudia Urzì insieme a

tanti insegnanti della nostra scuola, che con molta pazienza

ed entusiasmo, ci hanno stimolato ed aiutato a curare la re-

alizzazione di questa edizione speciale dedicata ai 150 anni

dall’Unità d’Italia.

Vi auguriamo una buona e piacevole lettura!

La Redazione

Coordinamento di Redazione e Progetto Grafico: Prof.ssa Anna Scuderi

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Il tricolore rappresenta per ciascun italiano la libertà e l'identità nazionale ed è protagonista di una storia lunga più di duecento anni. Nato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, nell'Italia allora

dominata da Napoleone, accompagnerà tutte le imprese risorgi-mentali. Adottato come proprio simbolo sia da repubblicani mazzi-niani sia dai monarchici favorevoli ai Savoia, il tricolore ha attraver-sato la storia d'Italia sino ai giorni nostri. l'articolo 12 della Costitu-zione italiana stabilisce, infatti, che :"La bandiera italiana è il Trico-lore italiano: verde, bianco e rosso, a bande verticali e di uguali dimensioni".

Il nostro tricolore nasce come variante della bandiera francese, ai tempi della Rivoluzione, con la sostituzione della banda verticale blu con il verde. Fu utilizzata per la prima volta, in forma ufficiosa, dai patrioti italiani di ispirazione giacobina nell’ottobre del 1796 nei combattimenti contro l’Austria. La data ufficiale della sua consacra-zione come simbolo delle libertà repubblicane è il 7 gennaio 1797, come bandiera di Stato della Repubblica Cispadana (che riuniva le città di Reggio, Modena, Ferrara e Bologna), utilizzata per la prima volta nella sala del Consiglio di Reggio Emilia. Questo primo tricolo-re aveva, però, le bande orizzontali. Con Napoleone, ritorna il ves-sillo tricolore a bande verticali, come bandiera della Repubblica Cisalpina, utilizzata dalle divisioni militari e della milizia cittadina di Milano nel 1798. Nel 1848 il tricolore sostituì l’emblema azzurro di Casa Savoia come simbolo del regno di Sardegna, con al centro lo scudo sabaudo. Nel 1861, alla proclamazione dell’Unità d’Italia, questo tricolore fu adottato come bandiera nazionale. Continuò ad essere la bandiera italiana anche dopo il 1946, con l’eliminazione dello scudo di Casa Savoia.

A partire dal 1997, ritenuto il secondo centenario del tricolore, il 7 gennaio è stato proclamato giornata nazionale del tricolore. Una legge del 1998 impone l’obbligo di esporre la bandiera italiana in-sieme a quella dell’Unione Europea, su tutti gli edifici pubblici: palazzi comunali, provin-ciali, regionali, ministeri, università e scuole.

Manuela Belladonna

REPUBBLICA CISALPINA

1797-1802

REGNO D’ITALIA 1861

1946

ANNA MESSINA

FRANCESCA ILLUMINATO VB

L’ITALIA DOPO IL CONGRESSO DI VIENNA (1815)

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MARTINA VB

FRANCY VB

La bandiera tricolore

Ti dà forza e amore.

Il verde è la speranza

Che rallegra i nostri cuori e

danza

Il bianco è la purezza

Che ci fa lottar con destrez-

za

Il rosso è il sangue versato

che la libertà ci ha assicura-

to.

La bandiera tricolore

Ti scalda il cuore.

CLASSI IV A, III B

I SIMBOLI DELL’IDENTITA’

NAZIONALE

Ogni bandiera ha una propria sto-

ria, un significato e, a volte tante

modifiche alle spalle, che rispec-

chiano la storia dello Stato che

essa rappresenta. La Bandiera

italiana è nata a Reggio Emilia il 7

gennaio 1797, vessillo della nostra

Repubblica dal 2 giugno 1946.

MIRYAM VEUTRO III B

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Classi III A, B, F

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MONTY VB

Il Risorgimento italiano: mancata rivoluzione agraria o equilibrato processo di unificazione?

Il Risorgimento italiano, inteso come il periodo nel quale il nostro Paese ha iniziato, e portato avanti un cammino volto a “risorgere” dalle angherie subite sotto le dominazioni Spagnola prima, Austriaca dopo, si é visto determinare nel passato entro varie coordinate temporali, finché non si è giunti ad identificarne (è questa attualmente la tesi maggiormente accreditata) la na-scita nel periodo della Rivoluzione Francese e la conclusione nel 1870, quando, presa Roma, si poteva considerare fatta l'Italia. In un modo o nell'altro lo scopo di tanti anni di lotte e teorizzazioni politiche si era realizzato: la penisola era unificata sotto il no-me del Re Carlo Alberto di Savoia. Il periodo i cui avvenimenti hanno poi portato alla svolta effettiva del risorgimento, va identifi-cato, in ogni caso nell'arco temporale che intercorre tra il 1848 e la Spedizione dei Mille. Si tratta di un periodo tutt'altro che cal-mo per i regni della penisola, in cui si alternano alla guida delle masse, differenti esponenti, accomunati da un unico obiettivo: l'indipendenza dallo straniero e la creazione di una “nazione italiana”. L'opposizione di Cavour e Mazzini: due delle figure guida di questo periodo, le quali intendevano raggiungere l'Unita Nazionale con mezzi ben diversi, si è rivelata, conclusivamente ne-cessaria e produttiva, ai fini del loro progetto comune. Un grande lavoro di teorizzazione e burocrazia non sarebbe bastato a raggiungere la nostra unità se da qualche parte, nella penisola, non vi fosse stato anche un gruppo pronto ad agire. Se pur il primo dei punti resi noti al re da parte del primo ministro fu proprio quello di “farla finita al più presto con Garibaldi”, il quale, in nome dei mazziniani aveva organizzato la spedizione dei mille, alla fine Cavour dovette seguire il re nella legittimazione delle sue conquiste. Se pur dovendo divincolarsi dagli opponimenti di Cavour, Garibaldi “non esitò a ordinare che la spedizione prose-guisse”, come ha detto il Mack Smith, il quale ne esalta la figura definendolo “impetuoso nell'azione”, ma “prudente del correre rischi non necessari”. L'aspra critica che storici come il Gramsci hanno mosso nei confronti di Mazzini, il quale è stato accusato di non aver sufficientemente preso in considerazione il fatto che “la questione agraria era la molla per far entrare in moto le gran-di masse” e quindi portare avanti nel modo più efficace uno sviluppo dei progetti nazionalistici cui tanto si aspirava, certo non può essere mossa nei confronti di Garibaldi il quale trovò la forza del suo movimento nella “accozzaglia” (D. M. Smith).

MARTINA NICOTRA E SYRIA DI BASILIO II B

VERSO l’ UNITA’

D’ITALIA

Dal congresso di Vienna (1814-1815), l'Italia fu lo Stato che ne uscì peg-gio. La ripartizione delle terre, ed il ritorno dei vecchi sovrani sui troni, non le aveva creato, per l'appunto, benefici. Essa, era, infatti, ancora divisa in stati e staterelli, tra i quali, c'erano enormi d i f f e r enze s o c i a l -politiche.

A dir il vero, l'Italia non era l'unica nazione interessata all'unità nazionale anche l'Ungheria, la Germania, la Cecoslovacchia avevano intenzione di insorgere. Nel 1948, anno dell'insurrezione italiana, nasce un'epoca: il Ri-sorgimento. Con questo termine, si definisce quella lunga serie d'avveni-menti culturali, politici e militari, che portarono l'Italia a conquistare l'indi-pendenza e l'unità nazionale. I primi fuochi insurrezionali si manifestarono sotto forma di moti, ma con scarso esito.

Furono quindi fondate due società segrete: la Carboneria e la Giovine Ita-lia. La prima, acquisì questo nome perché, per comunicare tra loro, i mem-bri parlavano il dialetto dei carbonari. La seconda, invece, fu fondata da

Mazzini che voleva unificare non solo l'Italia ma anche l'Europa, cosa che sta avvenendo, in parte, solo ora. Vincenzo Gioberti, piemontese esule in Belgio, nel 1843, scrisse un libro invitando il popolo a seguire Mazzini. Secondo lui, però, non esiste un vero e proprio popolo italiano e quindi, bisogna gettare le basi sul cemento del cattolicesimo. Il suo libro in Italia ha un enorme suc-cesso, lo approvano uomini colti come Manzoni, D'Azeglio e Balbo. Grazie a questi uomini, nasce il vero Risorgimento italiano: non più inutili insurrezioni, bensì una riforma culturale, politica ed economica. Ho detto inutili insurrezioni, perché nessuna socie-tà segreta giunse ai propri obiettivi, un po' perché, essendo sconosciute, non trovarono l'appoggio del popolo, un po' perché non avevano neanche loro un traguardo ben preciso e definito. Nel febbraio 1848, si assiste però ad una svolta: il Re di Francia, si ribella e impedisce una riunione d'uomini politici a lui contrari, al popolo, però, bastarono due soli giorni a scacciare Filippo D'Or-leans e proclamare la Seconda Repubblica Francese. In Germania, i patrioti chiedono l'unificazione del paese e, a Berlino, i bor-ghesi, ottengono la costituzione dal Re di Prussia. L'Italia, ispirandosi a questi ed altri paesi, si ribella, almeno per tentare di re-spingere l'Austria, che aveva preso possesso del nord del nostro paese. Venezia, è la prima a ribellarsi, e proclama una repub-blica indipendente. E' poi imitata da Milano, che, in cinque epiche giornate, (18-23 marzo 1848), caccia le truppe del generale Radetzky. Il 24 marzo, il Re di Sardegna, Carlo Alberto, rompe ogni indugio e varca il Ticino, dando vita alla prima guerra d'indi-pendenza.

DIRNEA ROBERT 5D

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Nelle prime fasi la guerra fu favorevole alle truppe guidate da Carlo Alberto di Savoia, Re di Sarde-gna, ma l’ iniziale successo preoccupò gli altri Stati Italiani, la maggior parte dei quali ritirò il proprio appoggio all’impresa, lasciando il solo Piemonte a combattere contro l’ Austria. La prima guerra d’ indipendenza si concluse nel marzo del 1849, con la sconfitta di Novara, cui seguì l’abdicazione di Carlo Alberto in favore del figlio Vittorio Emanuele II. I motivi della sconfitta sono da ricercare anche in quella che Carlo Alberto chiamava “Guerra Reggia”, cioè prettamente sabauda.

Laudani Kevin e Belluso Samuele 1C NOEMI VB

CLASSE IV B

LA PRIMA GUERRA D'INDIPENDENZA

Alla notizia dell'insurrezione di Vienna (poi placata dopo 3 giorni) il Lombardo Veneto si ribellò al dominio austriaco: a Venezia (17 marzo), dove si proclamò una repubblica provvisoria e a Milano ( 18-22 marzo, cinque giornate sanguinose con a capo Casati) la popolazione costrinse gli austriaci ad andarsene. Carlo Alberto, re di Sardegna, decise allora di entrare in guerra contro l'Austria per liberare l'Italia settentrionale dal dominio austriaco. L'esercito piemontese avanzò in Lombardia senza incon-trare resistenza, in quanto le truppe austriache si erano ritirate verso il Quadrilatero, un'ampia zona fortificata tra Mantova, Ve-rona, Legnano e Peschiera del Garda. Qui si ebbe la prima vittoria piemontese, a Pastrengo (30 aprile). In seguito gli austriaci cercarono di effettuare una manovra di aggiramento, per sorprendere i Piemontesi; la manovra però non riuscì per l'intervento dei volontari.

Le cinque giornate di Milano I sovrani italiani avevano concesso riforme e statuti, ma la gioia degli italiani non era condivisa dai loro fratelli lombardi e veneti ancora sotto la dominazione Austriaca, era quindi necessario combattere per la loro libertà.

Di conseguenza nel 1848, anche grazie alle insurrezioni antiaustriache scoppiate in molte città europee, anche Milano e Vene-zia si ribellarono alle truppe austriache.

Tra il 18 e il 22 marzo 1848 nelle strade di Milano infuriarono i combattimenti.

Nelle strade si formarono delle barricate, Giovanni Visconti Venosta, un ragazzo di 17 anni, descrive il coraggio dei milanesi in queste giornate che sono passate alla storia come “Le cinque giornate di Milano”.

Dopo cinque giorni di furioso combattimento in cui i milanesi ebbero la meglio sugli austriaci Giovanni scrive: “seguì un silenzio profondo, ansioso che durò un paio d’ore; poi si sentirono ad un tratto delle grida lontano che parevano degli evviva; poi un rumore nuovo, come di voci allegre, e di gente festosa scoppiava da ogni punto – Che c’è? Che sarà? – esclamammo e cor-remmo rapidamente in strada dove la gente scendeva da tutte le strade.

Non si sentiva più che un grido: Sono andati! Sono andati! Dappertutto sventolavano drappi, tele, cenci di ogni qualità purché fossero bianchi, rossi e verdi; e la gente non cessava di contemplare quei colori, simbolo di tante speranze e di tanti dolori.

Tutti portavano grandi coccarde di ogni tipo, con scritto il motto: Italia libera, Dio lo vuole”.

Francesco Musumeci II E

La morte di Anita Garibaldi

Giuseppe Garibaldi è certamente il protagonista più famoso del Risorgi-mento italiano. Militare abilissimo, fu spesso al comando delle imprese dei patrioti italiani. Nel 1849 era il coman-dante dell’esercito della Repubblica romana. Con il ritorno del papa, Gari-baldi e la giovane moglie Anita fuggiro-no verso nord, desiderosi di continuare la lotta a Venezia. La marcia attraverso l’Italia centrale fu dura e pericolosa, mentre i nemici li inseguivano senza sosta. Anita Garibaldi (1821-1849), compagna di Giuseppe Garibaldi, ne condivise la sorte per undici anni. Morì, probabilmente di febbri malariche, men-tre, in fuga con il marito, tentava di at-traversare le Romagne.

Nel libro Memorie di Garibaldi viene descritto quando Garibaldi e Anita, braccati dal nemico, si rifugiano in una casa nella campagna romagnola. Anita stremata perde conoscenza e viene adagiata su un materasso, dove muore senza dare al medico il tempo di curar-la. LA REDAZIONE

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P

G iuseppe Mazzini nacque a Genova nel 1805, terzogenito di Giacomo medico e di Maria Drago, donna di rigorosi principi morali che ebbe un peso determinante nella crescita del figlio. Ancora giovanissimo Mazzini prese parte attiva ai primi moti rivolu-zionari nella sua città che dal 1815, per effetto del Congresso di Vienna, era entrata a far parte del regno di Sardegna. Si laureò in legge nel 1827 e l’anno successivo entrò nella Carboneria per conto della quale svolse delicate missioni segrete. Arrestato, in assenza di riscontri oggettivi, venne prosciolto dalle accuse mos-segli, ma non accettando di vedere limitata la propria libertà di movimento, decise di lasciare Genova e cercare riparo all’estero. Andò prima in Svizzera, a Ginevra, e poi in Francia, a Lione e a Marsiglia da dove spedì una lettera a Carlo Alberto nella quale invitava il giovane sovrano a mettersi alla testa del movimento della “rigenerazione” italiana. A Marsiglia fondò una società segre-ta “ La Giovine Italia” che aveva come obiettivo l’educazione del popolo in vista di una risoluzione che portasse all’unità d’Italia. Nel corso della sua vita fu costretto più volte a fuggire dall’Italia e a rifugiarsi in Svizzera e a Londra. Nel 1872, sotto il falso nome di dottor Brown trascorse i suoi ultimi momenti di vita a Pisa, circon-dato dall’affetto degli amici a lui più vicini.

CLASSE II D

MARIA GIULIA VB

LA GRECA, CRISAFULLI JANET II E

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Anche le arti (poesia, musica, pittura …) contribuirono in modo significativo al Risorgimento italiano, dando un contributo di grande valore. Basta pen-sare allo straordinario successo delle opere di Giuseppe Verdi, che per decenni unì gli italiani non solo nell’entusiasmo per le sue melodie ma an-che nel consenso per gli ideali politici che gli sapeva trasmettere. Il patriot-tismo di Verdi era così noto che sui muri di Milano comparvero scritte ap-parentemente innocenti, ma che celavano un significato audace, se si pen-sa che la polizia austriaca era molto severa: <<VIVA V.E.R.D.I.>>, signifi-cava <<viva Vittorio Emanuele Re d’ Italia>>.

Nell’ autunno del 1847 lo studente e patriota Goffredo Mameli, allora ven-tenne, scrisse il testo di quello che, a partire dal 12 ottobre 1946, sarebbe diventato l’ inno nazionale d’ Italia.

Goffredo Mameli era nato a Genova il 5 settembre 1827; ancora studente, si iscrisse alla Giovine Italia di Mazzini. Combatté come volontario accanto ai Milanesi durante le Cinque giornate, e poi partecipò alla fondazione della Repubblica romana. Durante l’assedio della città da parte dei Francesi, fu

ferito e morì per la cancrena il 6 Luglio 1849.

Musicato da Michele Novaro, l’inno, per la semplicità della melodia e l’intenso contenuto patriottico, ebbe un immediato succes-so, imponendosi immediatamente sull’abbondante produzione di canti patriottici che si erano diffusi.

Nella prima strofa, che solitamente si canta nelle manifestazioni ufficiali, il poeta invita gli italiani a unirsi (stringiamoci a coorte) nella lotta contro lo straniero: infatti il passato della nostra Nazione è stato sempre grande e illustre, grazie a Roma, capace di inseguire la Vittoria e imporre il suo dominio su tutti gli altri popoli. Roma è stata grande per merito di personaggi coraggiosi come Scipione l’Africano, il vincitore dei Cartaginesi nella battaglia di Zama. A personaggi come lui gli italiani, da secoli oppres-si e divisi, devono guardare per recuperare il coraggio necessario per lottare, anche a costo della morte.

Benjaafar Ghassen III F,Orazio Magrì III E

Fratelli d'Italia L'Italia s'è desta Dell'elmo di Scipio S'è cinta la testa Dov'è la vittoria? Le porga la chioma Ché schiava di Roma Iddio la creò

Stringiamoci a coorte Siam pronti alla morte L'Italia chiamò

Noi siamo da secoli Calpesti, derisi Perché non siam Popolo Perché siam divisi Raccolgaci un'Unica Bandiera una Speme Di fonderci insieme Già l'ora suonò

Stringiamci a coorte Siam pronti alla morte L'Italia chiamò

Uniamoci, amiamoci L'unione e l'amore Rivelano ai Popoli Le vie del Signore Giuriamo far Libero Il suolo natio Uniti, per Dio, Chi vincer ci può?

Spiegazione Qui il poeta si riferisce all'uso antico di tagliare le chio-me alle schiave per distinguerle dalle donne libere che portavano invece i capelli lunghi. Dunque la Vittoria deve porgere la chioma perché le venga tagliata quale schiava di Roma sempre vittoriosa. La coorte era un'u-nità da combattimento dell'esercito romano, decima parte di una legione. Questo riferimento militare molto forte, rafforzato poi dal richiamo alla gloria e alla poten-za militare dell'antica Roma, ancora una volta chiama tutti gli uomini alle armi contro l'oppressore. La Battaglia di Legnano (29 maggio 1176), con cui la Lega Lombar-da sconfisse Barbarossa , qui simbolo dell'oppressione straniera. Francesco Ferrucci , simbolo dell' Assedio di Firenze (2 agosto 1530), con cui le truppe dell' Impera-tore volevano abbattere la Repubblica fiorentina per restaurare la signoria dei Medici. In questa circostanza, il Ferrucci morente venne vigliaccamente finito con una pugnalata da Fabrizio Maramaldo , un capitano di ven-tura al servizio di Carlo V. «Vile, tu uccidi un uomo mor-to», furono le celebri parole d'infamia che l'eroe rivolse al suo assassino. Soprannome di Giovan Battista Pe-rasso che il 5 dicembre 1746 diede inizio, col lancio di una pietra ad un ufficiale, alla rivolta genovese che si concluse colla scacciata degli austriaci, che da alcuni mesi occupavano la città. I Vespri siciliani , l'insurrezio-ne del Lunedì di Pasqua del 1282 contro i francesi este-sasi a tutta la Sicilia dopo essere cominciata a Palermo, scatenata dal suono di tutte le campane della città. An-che la Polonia era stata invasa dall'Austria, che coll'aiu-to della Russia l'aveva smembrata. Il destino della Polo-nia è singolarmente legato a quello dell'Italia: anche nel suo inno ( Mazurca di Dabrowski ) c'è un riferimento agli italiani, e dei soldati polacchi combatterono in Italia con le truppe alleate contro i tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale, partecipando anche all' assalto finale a Montecassino . Un augurio e un presagio: il sangue dei popoli oppressi, che si solleveranno contro l'Austria, ne segnerà la fine.

Stringiamci a coorte, Siam pronti alla morte, L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia Dovunque è Legnano, Ogn'uom di Ferruccio Ha il core, ha la mano, I bimbi d'Italia Si chiaman Balilla Il suon d'ogni squilla I Vespri suonò

Stringiamci a coorte Siam pronti alla morte L'Italia chiamò

Son giunchi che piegano Le spade vendute Già l'Aquila d'Austria Le penne ha perdute Il sangue d'Italia Il sangue Polacco Bevé col cosacco Ma il cor le bruciò Stringiamci a coorte Siam pronti alla morte L'Italia chiamò Sì

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L’INNO D’ITALIA

Dal 1947 "Fratelli d'Italia" o il "Canto degli Italiani", scritto da Goffredo Mameli (Genova 1827 - Roma 1849) nel settembre 1847 e messo in musica due mesi dopo da Michele Novaro (Genova 1822 - ivi 1885), è l'Inno Nazionale Italiano. Il popolo italiano, in tutti questi anni, ha riconosciuto nelle parole e nella musica dell'Inno il simbolo dell'unità nazionale, al pari della bandiera tricolore, con la quale esso for-ma, anzi, un tutt'uno inscindibile. Del resto l'Inno di Mameli (questa la denominazione assunta dall'Inno nella cultura corrente) fu associato alla Bandiera Tricolore come segno della volontà di indipen-denza nazionale fin dai primi moti popolari che precedettero l'esplosione rivoluzio-naria del 1848. E attorno alla Bandiera Tricolore e all'Inno Nazionale si strinsero i milanesi nelle Cinque Giornate del marzo '48. Non meraviglia, quindi, che il primo biografo di Cavour e di Vittorio Emanuele II, Giuseppe Massari, lo abbia definito come il vero e proprio Inno Nazionale italiano. E come tale dovette considerarlo anche Giuseppe Verdi, che lo inserì, accanto alla Marsigliese e all'Inno Nazionale inglese (God Save the King), nell'Inno delle Nazioni, da lui composto in occasione dell'Esposizione Universale di Londra del 1864. Negli ultimi anni parole e musica di questo Inno sono state oggetto di numerose critiche e non sono mancate le proposte di sostituirlo con altre composizioni risorgi-mentali o addirittura contemporanee. Bisogna, però, dire che "Fratelli d'Italia", alta-mente apprezzato da Carducci e dal grande storico francese Jules Michelet, per la sua capacità di coinvolgere emotivamente gli ascoltatori, più di ogni altra composi-zione risorgimentale riesce ad esprimere un forte sentimento di vera unità naziona-le, derivante da una lunga storia comune, che spinge, secondo i princìpi di Mazzi-ni ,verso l'unione e l'amore in vista del conseguimento di un fine comune. E anche il ritornello, la parte più conosciuta, perché eseguita nelle manifestazioni ufficiali, sulla quale si appuntano le critiche più malevo-le, non è manifestazione di pura retorica ma esprime le convinzioni della migliore cultura italiana ed europea dei secoli XVIII e XIX. In questi versi si avverte, infatti, l'eco delle parole scritte da Condorcet nel Quadro storico dei progressi dello spirito uma-no, ove si legge: "Roma ha portato le leggi in tutti quei paesi in cui i Greci avevano portato la loro lingua, le loro scienze e la loro filosofia. Tutti questi popoli, sospesi ad una catena, che la vittoria aveva agganciato ai piedi del Campido-glio..." (CONDORCET, Quadro storico dei progressi dello spirito umano, Introduzione R. GUIDUCCI, Milano, 1989, p. 188). Ma unità e fusione non devono significare piatta conformità o, peggio ancora, soppressione del grande patrimonio ideale che si racchiude nelle diversità regionali: questo è il significato della quarta strofa, nella quale Mameli, con straordinaria concisione (che non era sfuggita a Garibaldi), rievoca i momenti più significativi della storia delle diverse aree dell'Italia. Ed è proprio per questo motivo che nell'Inno "Fratelli d'Italia" si possono trovare i segni distintivi dell'identità nazionale del nostro paese.

Chiara Salanitri, Agata Seminara II B

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Classe IV B Classe III F

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La musica è un linguaggio che l’uomo ha sempre utilizzato per comunicare i suoi stati d’animo. In particolare nel faticoso cammino verso l’Unità d’Italia, essa veniva usata dai patrioti per esprimere speranze, delusioni, passioni.

Il musicista che più di altri è riuscito a rappresentare il desiderio di libertà e di riunificazione dell’Italia è stato Giuseppe Ver-di.

Egli era un compositore nato all’inizio dell’Ottocento in provincia di Parma e con la sua lunga vita ha attraversato tutti i mo-menti più significativi della storia dell’Italia di quel secolo.

Fu autore di moltissime opere liriche, il genere di spettacolo più popolare e vicino ai gusti del tempo e anche della gente meno colta con ritmi netti, incalzanti e irruenti. I teatri erano luoghi di discussione, scambi di idee e di informazioni. Nei pal-chi si chiacchierava e si cospirava senza destare alcun sospetto nella polizia. La sua musica fu quindi un formidabile stru-mento per trasmettere idee e presto egli fu identificato come portatore di idee patriottiche. Fin dalla rappresentazione de I Lombardi alla Prima Crociata i patrioti notarono che la sua musica energica e virile che sembrava creata apposta per in-fiammare gli animi e spingere alla lotta contro i dominatori stranieri.

In realtà Verdi si trovò quasi senza volerlo ad essere considerato un rappresentante del patriottismo. La scritta VIVA VERDI appariva per le strade per esaltare Vittorio Emanuele Re D’Italia, con il nome VERDI utilizzato come acrostico.

Fra tutte le sue opere solo La Battaglia di Legnano presenta dei riferimenti autentici agli ideali del tempo. In altre opere era-no i patrioti stessi a trovare collegamenti con il momento storico che vivevano. Per esempio al successo di Nabucco contri-buì la presenza di un’orchestra robusta e vitale e di grandi cori che rappresentano il popolo ebreo schiavo degli Egiziani. Fu immediata l’identificazione fra gli Ebrei che lottavano per la libertà e i patrioti italiani desiderosi di cacciare gli Austriaci.

Il coro del Va’ pensiero divenne un autentico inno di incoraggiamento alle aspirazioni alla libertà e indipendenza nazionale cantato per le strade.

Classe III F

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NOI DELLA CLASSE 1^ E Ascoltando Va’ pensiero abbiamo espresso con un disegno il messaggio di libertà che questa musica comunica.

GIANFRANCO

INNOCENZO CAMPISI

ROSA CRISAFULLI

ANTHONY CARUSO

MARIO MARLETTA

AURORA MILLESI

GIORGIA SARACENO

GIANLUCA RONSISVALLE

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ANDREA GINESI

Dopo la vittoria Franco-piemontese a Solferino e San Martino e i conseguenti plebisciti, la Lombardia, le popolazioni delle Tosca-na, dell’ Emilia, delle Romagne, di Parma e di Modena passaro-no sotto il controllo dei Savoia. Alcuni mesi dopo, nel 1860, poco più di mille uomini partirono da Genova diretti verso la Sicilia. La speranza dei patrioti era quella di far insorgere le popolazioni del Meridione per portarle verso l’unità nazionale. Li guidava un capo di tutto rispetto: Giuseppe Garibaldi.

Anna Messina V A

Nel 1852 Camillo Benso conte di Cavour diventa primo ministro del Regno di Sardegna. Presto Cavour si accorge che a nessuno stato europeo interessava la situazione del regno sabaudo e allora cerca di accattivarsi le simpatie delle potenze intrecciando alleanze inviando ambasciatori in tutta Europa. Cavour riesce a portare la questione italiana all’ attenzione dell’ imperatore Napoleone III che, però, rimane ancora indifferente alle proposte di alleanza sabaude. Ca-vour riesce a convincere l’ imperatore francese inviando come sua ambasciatri-ce in Francia la donna più bella dello stato la contessa di Castiglione, amante del re Vittorio Emanuele II. Una volta ottenuto il favore francese, il primo mini-stro piemontese formalizza l’ alleanza con un incontro segreto a Plombièrs. Il patto prevede l’ intervento francese solo in caso di aggressione da parte dell’ Austria per liberare tutto il nord dalla morsa austriaca, il sogno di Napoleone III era di prendere Vienna. La seconda guerra d’ indipendenza italiana vede schie-rati da un lato la Francia e il Regno di Sardegna e dall’ altro l’ Austria.Gli eserciti franco-piemontesi, guidati da Napoleone III sconfiggono gli Austriaci nelle batta-glie di Magenta, Solferino e San Martino. Successivamente, però,Napoleone III abbandonò la guerra. Cavour deluso della condotta francese, che non aveva rispettato i patti e amareggiato dall’ umiliazione di ricevere la Lombardia dalla Francia e non direttamente dall’Austria si dimise dall’ incarico di primo ministro.

Laudani Kevin e Belluso Samuele 1^ C

Le mire dei Savoia non si limitavano solo all’ Italia del nord, ma riguardavano l’ intera penisola. Il 5 maggio 1860, Giuseppe Gari-baldi, contro il parere di Cavour,che temeva una risposta france-se, salpò con i Mille da Quarto, vicino Genova, dando avvio alla famosa Spedizione. Il nizzardo Garibaldi, agevolato, oltre che dall’ appoggio di Vittorio Emanuele II e dalla presenza inglese, anche

da gran parte degli ufficiali della marina e dall’ esercito borbonico, già corrotti dal governo piemontese , avanzò rapidamente risalendo lo stivale.

Laudani Kevin e Belluso Samuele 1C

VITTORIO EMANUELE II

ALESSIA VB

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N asce il 10 Agosto del 1810 A Torino, secondogenito del marchese Mi-chele e della ginevrina Adele di Sellon. Cavour, da giovane, è ufficiale dell’esercito poi lascia la vita militare e viaggia per l’Europa. Quando rientra in Piemonte diviene uno degli uomini più ricchi; nel 1847 fonda il quotidiano “Il Risorgimento” con cui inizia il suo impegno politico. Difende la legge Siccardi che voleva la diminuzione dei privilegi del clero, l’abolizione del tribunale ecclesiastico, il divieto per la Chiesa di ricevere donazioni. Viene eletto ministro dell’agricoltura, del commercio e della marina e poi ministro delle finanze, infine è nominato Presidente del Consiglio. Cavour vuole rimo-dernare l’economia piemontese: modernizza l’agricoltura, utilizzando metodi sempre più moderni, facilita il trasporto dei prodotti agricoli, crea e potenzia le fabbriche, stipu-la trattati con Francia, Belgio ed Olanda per favorire il libero scambio. Promuove una politica estera che fa uscire il Piemonte dall’isolamento ed aderisce al programma libe-rale di Mazzini. Nel 1858 incontra Napoleone lll a Plombieres dove viene stipulata un’-alleanza contro l’Austria. Secondo questo trattato se l’Austria avesse aggredito il Pie-monte, la Francia sarebbe intervenuta a fianco di quest’ultimo. In caso di vittoria en-trambi gli Stati avrebbero goduto di acquisizioni territoriali. La Seconda guerra di indi-pendenza porta alla liberazione della Lombardia dal dominio austriaco ma l’improvvi-sa decisione di Napoleone lll di ritirarsi dal conflitto si conclude con l’armistizio di Villa-franca. Cavour, deluso, si dimette per tornare sulla scena politica dopo poco tempo. Nel 1860 grazie alle sue abilità diplomatiche ottiene il consenso delle potenze europee ed invia l’esercito sardo, al comando del re Vittorio Emanuele ll, ad occupare le Mar-che e l’Umbria, che appartenevano allo Stato Pontificio, e a raccogliere il frutto della spedizione dei Mille portata avanti da Garibaldi, il regno delle due Sicilie. Il 17 Marzo 1861 viene proclamata l’unità d’Italia. Cavour muore il 6 Giugno dello stesso anno.

CLASSE II D

Camillo Benso conte di Cavour era un rappresentante eminente del governo pie-montese, si era distinto nel tessere una tela di alleanze tra il regno di Sardegna e la Francia di Napoleone III. Il conte di Cavour era un uomo dalle ottime qualità politi-che. Dotato di intelligenza e coraggio fu uno dei protagonisti indiscussi della II guer-ra di indipendenza, che culminò con l’unità d’Italia.

LA REDAZIONE

La battaglia di Solferino e

San Martino

Cavour era riuscito nel suo intento. La Francia si era legata al piccolo Piemon-te e l’avrebbe aiutato nel caso di un attacco austriaco che puntualmente avvenne poco dopo. L’inizio delle ostili-tà fu favorevole alle truppe franco-piemontesi, ma lo scontro decisivo av-venne solo il 24 giugno 1859 a Solferi-no e San Martino, due piccoli paesi della campagna mantovana. Si dice che l’Italia sia nata sulla collina di San Martino; qui gli italiani furono protagoni-sti di atti eroici, guadagnandosi la stima del nemico in quella che è passata alla storia come la battaglia più sanguinosa del Risorgimento italiano.

LA REDAZIONE

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I l personaggio di cui parleremo ha partecipato attivamente alla realizzazione dell’U-nita d’Italia ed è stato essenziale per la stessa. Giuseppe Garibaldi è nato a Nizza il 4 lu-glio del 1807 ed è morto nell’isola di Caprera il 2 giugno del 1882 a 74 anni. E’ stato un generale,patriota e condottiero d’Italia.E’ considerato insieme a Giuseppe Mazzini, Vittorio Emanuele II e Camillo Benso conte di Cavour, uno dei padri della patria. Il 29 luglio 1807 venne battezzato nella chiesa di san Martina di Nizza ed è registrato con il suo nome com-pleto: Josef, Marie Giuseppe Garibaldi. I genitori avrebbero voluto avviare Giuseppe alla carriera di avvocato,medico o prete. Ma lui amava poco gli studi e prediligeva gli esercizi fisici e la vita di mare. Presto iniziarono i numerosi viaggi marittimi di Garibaldi e fra quelli più importanti ricordiamo quello sul brigantino l'Enea, al cui comando vi era Giuseppe Ger-vino. Partecipò a molti conflitti tra i quali la guerra dei Farrapos, le tre guerre di indipenden-za italiane, la famosa “spedizione dei mille” che guidò e la guerra franco prussiana. Quest’-eroe fece un altro viaggio a Rio De Janeiro alla fine del 1835 e venne accolto dalla piccola comunità di italiani aderenti alla Giovane Italia fondata da Giuseppe Mazzini. La figura di Garibaldi è assolutamente centrale nel Risorgimento italiano ed è stata oggetto di infinite analisi storiografiche,politiche e critiche.

SIMONE PLATANIA,

ERNESTO D’AMICO 1°C

Il marinaio salva tutti

Fin da bambino Garibaldi non sopportava vedere forme di violenza verso le persone deboli o verso gli animali. La sua prima impresa fu il salvataggio all’età di 9 anni di una lavandaia di Nizza che stava per annegare. A 13 anni salvò alcuni amici finiti in mare dopo essere ca-duti dalla barca.

A Roma con il bodyguard

Nel periodo della repubblica romana, l’eroe dei due mondi era ac-compagnato sempre da un attendente nero, Andrea Aguyar, il quale, armato di una lunga lancia, gli stava sempre a fianco per proteggerlo. Garibaldi lo aveva conosciuto in Uruguay e lo aveva liberato dalla schiavitù. Quest’uomo morì proprio a Roma e nella capitale c’è una scalinata che lo ricorda: la scalea Andrea il Moro.

A tavola con il Generale

Garibaldi amava cibi liguri ed era ghiotto di stoccafisso e di un mine-strone con il pesto alla genovese. La moglie di un pastore, Maria Pru-nedda, gli preparava l’agnello cucinato con i legni di ginepro. Gli pia-cevano i formaggi, la ricotta di capra e le marmellate di frutti selvatici.

CLASSE II D

LA BATTAGLIA DI

CALATAFIMI

L’ 11 maggio i Mille di Garibaldi sbar-carono a Marsala e si diressero ver-so Palermo. La reazione dell’esercito nemico non si fece attendere, infatti le camicie rosse furono attaccate. Lo scontro avvenne a Calatafimi il 16 maggio 1860. Nella storia militare la

battaglia di Calatafimi rappresenta un combattimento d'incontro, poco più di una scaramuccia. Pur tuttavia lo scontro ebbe enormi conseguenze sul piano strategico. Il disordinato arrivo della colon-na di Lanzi, con militi stremati dalla fatica e dalla fame, fece una grande impressione sulla cittadinanza palermitana. Garibaldi as-sunse immediatamente, nella fantasia popolare, il ruolo di condot-tiero invincibile, al cui comando unirsi per combattere gli occupanti napoletani.

LA REDAZIONE

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CURIOSITA’ E SORPRESE SUI MILLE

CHE LAVORO FACEVANO?

Proprietari terrieri 205

militari 204

impiegati e scrivani 88

negozianti e commercianti 83

falegnami 36

avvocati e notai 30

marinai e capitani di mare 25

medici 24

agricoltori e braccianti 23

calzolai 21

ingegneri 19

barbieri e parrucchieri 16

osti e albergatori 14

panettieri e fornai 13

farmacisti 9

sarti 9

insegnanti 9

camerieri 6

muratori 5

orefici 5

facchini 5

scrittori 4

portieri 4

tipografi 4

domestici 4

macellai 3

giornalisti 3

imbianchini 3

musicisti 3

trasportatori 2

sacerdoti o ex-sacerdoti 2

armaiuoli 2

cappellieri 2

fotografi 2

spedizionieri 2

sellai 2

filatori 2

poliziotti 2

artisti girovaghi 2

Tra i rimanenti 185 garibaldini (di cui molti di professione ignota o dubbia)c’erano anche un chinca-gliere,un fabbricante di reti,un ra-maio,un argentiere,uno scultore, un tappezziere,un cuoco,un denti-sta,un ebanista,un organaro,un

bottaio,un marmista,un corallaio,un orologiaio,un prestigiatore,un burat-tinaio e… un barone.

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DA DOVE PROVENIVANO?

Nella cartina, le regioni

d’origine dei Mille secondo

i luoghi di nascita riportati

nell’elenco ufficiale del 1878.

Tra i restanti 87 volontari

molti erano di provenienza

ignota o dubbia,ma c’erano

anche quattro ungheresi,due svizzeri,

un boemo,un turco,un greco e un angolano.

QUANTI ANNI AVEVANO?

70 gli anni del più anzia-no,Tommaso Parodi.

11 gli anni del più giova-ne,Giuseppe Marchetti.

UNA DONNA TRA I MILLE

Tra i Mille sbarcati a Marsala

c’era anche una donna , ma travestita da uomo .

Si chiamava Rosalia Montmasson

ed era moglie di Francesco Crispi,

futuro ministro e presidente del

Consiglio del Regno d’Italia.

L’ORIGINE DELLE CAMICIE ROSSE

Pare che Garibaldi si fosse ispirato

ai vestiti tradizionali dei cow-boy,

che vestivano di rosso per rendere

meno visibili le macchie di sangue

delle bestie macellate.

UN FRATE GARIBALDINO

Fra’ Giovanni Pantaleo,come altri frati,

si unì ai Mille diventando il “cappellano”

dei garibaldini.

GARIBALDI: UN UOMO DIETRO L’EROE

Il suo nome all’anagrafe:

Joseph -Marie

Bello e forte, ma non troppo

Garibaldi è stato sempre de-scritto

bello e forte come appare

in molti ritratti :con gli occhi azzurri,

di media statura,

con le spalle larghe e il petto quadrato,

forte come un leone.

In realtà aveva gli occhi ca-stani,

era piuttosto basso,(1m e 66 cm),e

soffriva di reumatismi.

La sua istruzione

Da un prete imparò un po’ d’inglese,

mentre un ex militare napoleonico

gli insegnò l’italiano sui libri di storia.

Il primo atto eroico

A soli 7 anni compì

il salvataggio di una la-vandaia.

L’ultima battaglia

L’ultima impresa militare di Garibaldi

avvenne nel gennaio del 1871,durante la

campagna nei Vosgi (Francia),dove si

oppose ai prussiani.

FRANCESCO MUSUMECI

II E

VINCENZO STRANO

II E

GIUSEPPE GRECO

III E

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Classe II E

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Fondò la Protezione animali

Giuseppe Garibaldi è un mito anche per gli animalisti italia-ni.

Fu, infatti, tra i fondatori della società reale per la protezio-ne

degli animali,antenata dell’attuale ente nazionale protezio-ne animali.

Garibaldi e la cavalla Marsala

Il generale nutrì un’autentica adorazione

per la cavalla Marsala,fedele compagna

durante la spedizione dei Mille e sepolta

con tutti gli onori a Caprera.

IL KIT DELL’EROE

PAPALINA DA BATTAGLIA

Una delle papaline di velluto

appartenute a Garibaldi,

che cominciò a portarle durante

il suo soggiorno sudamericano.

Garibaldi fu ferito

“Garibaldi fu ferito/fu ferito ad una

gamba/Garibaldi che comanda/

che comanda i suoi solda’…”

Questa famosissima canzone,

i cui autori sono rimasti anonimi,

cominciò a circolare tra i simpatizzanti

garibaldini subito dopo il ferimento

dell’eroe dei due mondi

all’Aspromonte,il 29 agosto 1862.

Dove lasciò un orecchio?

Garibaldi perse un orecchio

in Sud America, forse in uno scontro.

Si considerava un agricoltore

Non è un mistero che Garibaldi amasse la natura.

Egli trasformò Caprera in una vera fattoria e quando

poteva seguiva personalmente i lavori agricoli;

introdusse nuove varietà botaniche e si dedicò

con successo all’apicoltura.

Del resto sui documenti ufficiali,

alla voce pro-

ORAZIO MAGRI’ III E

DAVIDE GALLO

II E

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Classe II E

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UN TOCCO DI ELEGANZA

Questo portafoglio da viaggio

veniva usato dal grande condottiero

allacciato intorno alla vita.

EREDITA’ AMERICANA

Un poncho dell’eroe dei due mondi.

Garibaldi aveva iniziato ad usarlo

come esule in Sud America

OMAGGIO DI CASA SAVOIA

La sella da generale, con lo stemma sabaudo,

donata a Garibaldi dal re Vittorio Emanuele II.

COMPAGNA FEDELE

La pistola usata dal generale

in tante battaglie.

PATRIOTA IN JEANS

I jeans che Garibaldi indossò

durante la spedizione dei Mille.

DEBOLE DI SCHERMA

Una sciabola appartenuta a Garibaldi,

che però nelle sue memorie si lamentò

di non aver mai imparato a tirare bene di scherma.

IL RIPOSO DEL GUERRIERO

Il paio di pantofole ricamate donate

dalla moglie di uno dei Mille al generale.

La pubblicità con Garibaldi

Il volto forte e risoluto del generale

fu un potente strumento pubblicitario,

sinonimo di italianità, in

cartoline,calendari,medaglie,

scatolette di tonno,sigari,

gomme da masticare,ecc.

Persino Sandokan, un eroe di Salgari,

ebbe sulla carta il volto di Garibaldi,

mentre molte delle sue avventure

ricordano le gesta del generale e dei suoi Mille.

Aeroporti, ristoranti, piazze e miniere: un nome, una garanzia

In Italia sono migliaia le istituzioni, le scuole, i luoghi pubblici, i ristoranti, le associazioni e persino la prima portaerei italiana varata nel 1983 che portano il nome Garibaldi.

Nel resto del mondo si chiamano così ristoranti e alberghi a Parigi, a Vienna, in Brasile e negli USA; solo restando negli Stati Uniti, portano il nome Garibaldi due miniere e un aeroporto in California, un tunnel e una valle nel Colorado, un parco nel Con-necticut, un cimitero e un ufficio postale nello Iowa, altre miniere nel Nevada e nel Montana e una cittadina dell’Oregon.

CLASSE II E

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Alla completa riunificazione dell’Italia mancavano ancora l’acquisizione del Veneto annesso nel 1866, di Roma annessa nel 1870, di Trento con il Trentino e di Trieste con la Venezia Giulia, annessi tra il 1915- 1919 (prima guerra mondiale). Una spe-dizione di Garibaldi contro lo Stato Pontificio fu fermata dall’Esercito Italiano, che temeva una guerra con la Francia, allora protettrice dello Stato Pontificio. Nel 1866 il Regno si alleò con la Prussia contro l’Austria. La guerra in Italia fu un insuccesso, ma la vittoria prussiana consentì al Regno d’Italia di annettere il Veneto.

Laudani Kevin e Belluso Samuele 1C

La proclamazione del Regno d’Italia Il 27 febbraio del 1861 il nuovo Regno d’Italia veniva solennemente procla-mato dal primo Parlamento italiano. Gli italiani, dopo anni di lotte e sacrifici, avevano raggiunto la sospirata meta. L’Italia unita, indipendente e libera era finalmente una realtà. Tra gli spettatori dello storico evento vi era lo scrittore Alessandro Manzoni, l’autore de “I promessi sposi”, un libro che contribuì a dare una lingua comune alla giovane nazione.

LA REDAZIONE

La proclamazione di Roma capitale La presa di Roma (20 settembre 1870) ebbe come conseguenza l’annessio-ne della città al Regno d’Italia e sancì la fine dello Stato Pontificio e del pote-re temporale dei papi.

Divisa e oppressa d’Italia era finalmente libera, indipendente e unita. Il 27 novembre 1871 Vittorio Emanuele II poteva proclamare Roma capitale del Regno d’Italia.

LA REDAZIONE

La presa di Roma Roma venne conquistata il 20 settembre 1870, quando il principe alleato del pontefice, l’imperatore dei francesi Napoleone III, perse il trono dopo una rovinosa guerra contro la Russia. Solo allora l’esercito italiano, attraverso la breccia di Porta Pia, riuscì a entrare e a farne la capitale del nuovo Regno.

LA REDAZIONE

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VITTORIO EMANUELE ll

Vittorio Emanuele ll nacque a Torino nel 1820. Salì al trono del regno di Sardegna nel 1849, quando suo pa-dre, il re Carlo Alberto, abdicò. Il nuovo sovrano mantenne lo Statuto Albertino e chiamò come presidente del consi-glio del regno Camillo Benso, conte di Cavour. Vittorio Emanuele ll capì che la guerra contro l’Austria , che domina-va sul Lombardo Veneto, era inevitabi-le e così accettò gli accordi di Plomb

ieres stilati tra Cavour e l’imperatore francese Napoleone lll. In seguito a que-sti accordi scoppiò la seconda guerra di indipendenza (1859) che si concluse con l’annessione al regno di Sardegna della Lombardia. Nel 1860 Garibaldi organizzò la spedizione dei Mille e conquistò il regno delle due Sicilie che “consegnò” al re Vittorio Emanuele ll in un incontro a Teano. Il 17 Marzo del 1861 Vittorio Emanuele fu proclamato re d’Italia dal nuovo Parlamento.

CLASSE II D L’ITALIA NEL 1861

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Completamento dell’unita’ d’ItaliaCompletamento dell’unita’ d’ItaliaCompletamento dell’unita’ d’ItaliaCompletamento dell’unita’ d’Italia

Lo Stato Pontificio rimaneva ancora al Papa e comprendeva una buona parte del centro Italia, tuttavia, come già detto, se il Regno d’Italia avesse attaccato lo Stato della Chiesa, la Francia sarebbe intervenu-ta,infatti, nel 1949 Napoleone III venne eletto Presidente della Seconda Repubblica Francese grazie al largo impegno dei cattolici. La Francia si vide tolte l’Alsazia e la Lorena, due zone industriali e ricche di carbone (la rivendicazione di queste ragioni sarà una delle cause della 1° guerra Mondiale). Il 20 settembre 1870 un reparto di bersaglieri creò il famoso varco di Porta Pia a Roma e lo Stato della Chiesa venne conqui-stato. La presa di Roma (20 settembre 1870), nota anche come Breccia di Porta Pia, fu un episodio del Risorgimento in cui Roma fu annessa al Regno d’Italia, decretando la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale dei Papi. L'anno successivo la ca-pitale d’Italia fu trasferita da Firenze a Roma.

Laudani Kevin e Belluso Samuele 1C

L' UNITA' D' ITALIA: RIVOLTE E REPRESSIONI

IN UN' ITALIA CON TANTI STATI

Al congresso di Vienna si fissarono i confini tra gli stati italiani, tenendo conto esclusivamente degli interessi delle grandi po-tenze. L'Italia si trovò perciò ancora divisa in tanti stati tra i quali erano realmente indipendenti solo il Regno di Sardegna, il Regno delle Due Sicilie e lo Stato della Chiesa. Il Lombardo - Veneto era invece sotto il dominio austriaco ed anche i piccoli stati dell'Italia centro - settentrionale (ducati di Parma, di Modena e Toscana) erano legati all'Austria. La divisione in tanti Stati, il dominio austriaco su alcune regioni più ricche e popolate, l'esclusione dal potere creavano molto malcontento tra le popola-zioni ed in particolare tra la borghesia italiana. L'Italia conobbe quindi un processo di graduale riscoperta e sempre più netta rivendicazione della propria identità nazionale. Questo processo, noto come Risorgimento, portò alla formazione dello Stato unitario Italiano, ovvero fece della penisola un organismo politico e indipendente a base nazionale. L'Italia fu perciò uno dei paesi europei in cui le idee nazionalistiche e liberali si diffusero rapidamente. Nel 1820-21 nel Piemonte scoppiarono insurre-zioni che fallirono per l'intervento degli eserciti delle potenze europee (repressione). Tra i patrioti si svilupparono idee diverse: i moderati (tra cui Vincenzo Gioberti) sosteneva che Re e principi d'Italia avrebbero dovuto riunirsi sotto una confederazione con a capo il Papa. Altri moderati ritenevano che l'Italia avrebbe dovuto formare uno stato unitario muovendo con l'esercito piemontese guerra contro l'Austria. I democratici pensavano che solo una rivoluzione popolare avrebbe portato all'unità ed alla formazione di uno stato democratico e repubblicano. Tra costoro vi fu Giuseppe Mazzini: egli fondò un'associazione, la Giovine Italia (1831), il cui programma era pubblico e non segreto; essa diffuse le idee democratiche e repubblicane e cerco di preparare insurrezioni, senza ottenere successi.

Tanto tempo fa, nel lontano 1861, venne fondato il regno d’Italia.

In questo regno c’erano molti regni tra i quali il regno di Sardegna, quello delle due Sicilie ed altri stati più piccoli.

Con il Risorgimento (il periodo storico in cui la nazione italiana ha conseguito la sua unità in un solo stato) tutti gli stati vennero assorbiti in un unico regno, quello d’Italia.

A capo del regno c’era il re Vittorio Ema-nuele II della famiglia dei Savoia che resse l’Italia fino alla nascita della Repubblica.

il 17 marzo del 1861 venne firmata la prima legge del regno d’Italia che definiva la na-scita di questa nuova realtà politica che finalmente avrebbe riunito dentro di sè l’ intera nazione italiana dalle alpi alla Sicilia.

Nel 1870 fu fatta capitale Roma e la fine del regno d’Italia coincide con la nascita della Repubblica italiana. Il 18 giugno del 1946 venne fatto un referendum che stabilì l’abbandono della monarchia a favore della Repubblica: nasce la repubblica italia-na.

Curiosita’: le prime capitali del regno furono prima Torino (1861-1865), poi Firenze (1865-1871).

Giuseppe Gulotta

Francesca Caracciolo

Andrea Cosentino

GIULY VB

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L’UNITA’ D’ ITALIA E IL MERIDIONE

Nel 1870, con la breccia di porta Pia che fa decadere lo stato della Chiesa, Roma diventa capitale d’Italia e, storicamente, si completa, ( o quasi perché mancano ancora le regioni del nord – est), quel processo risorgimentale che ha portato all’unità del paese.

Finito il tempo degli eroismi, bisognava costruire un nuovo stato, affrontare e risolvere una lunga serie di gravi problemi orga-nizzativi, tra i quali quelli relativi alla scuola, ai tribunali, ai pubblici uffici, alle tasse e alle vie di comunicazione, dando priorità prima di tutto alle linee viarie e ferroviarie, riuscendo a riunire i commerci del Nord e del Sud. Peccato che però le linee ferro-viarie e viarie furono messe a nuovo solo fino a Napoli e la distanza geografica tra nord e sud si trasformò, così, in un vero e proprio divario culturale ed economico.

Al momento dell'Unità d'Italia si scopriva che essa era, infatti, divisa in due parti che non avevano i presupposti per integrarsi spontaneamente: il Sud era essenzialmente agricolo e non aveva prodotti che interessavano al Nord, che nell'età giolittiana aveva sviluppato l'industria siderurgica, idroelettrica e meccanica. Al sud la situazione economica era molto grave perché le terre erano ancora in mano dei latifondisti che non sfruttavano a pieno le loro proprietà frenando cosi la produzione agricola, l’unica fonte di lavoro e di reddito della Sicilia. Inoltre, il Meridione non poteva fornire neanche i suoi prodotti agricoli, perché il Nord aveva un'agricoltura ancora più sviluppata. Inoltre la classe politica, che era in buona parte espressione degli interessi di un ceto sostanzialmente omogeneo in cui i latifondisti del Sud e gli agrari del Nord tendevano a mantenere i propri privilegi, non tendeva certamente a migliorare la situazione dei contadini e dei braccianti. Gli stessi partiti di opposizione, infine, erano espressione della classe operaia, nata al Nord con il nascere dell'industria moderna e dei braccianti padani, assai differenti per situazione culturale e sociale da quelli meridionali. Ma la cosa che fece ancora più scontenti i meridionali fu l’aumento della farina a causa di una tassa, voluta da uno stato che cosi rese ancora più complicate le condizioni economiche della povera gente. Ancora più difficile da accettare fu la richiesta dello stato di mandare i giovani a fare dai cinque ai sette anni di militare lontano dalle famiglie. Una cosa del genere avrebbe portato alla fame molte famiglie, perché giovani rappresentavano la forza-lavoro, dato che i genitori dopo essere diventati anziani non ricevevano nessuna pensione e vivevano del lavoro dei figli. Molti giovani, dunque, si rifiutarono dipartire per la leva e si “diedero alla macchia” nascondendosi nell’entroterra siciliano, nei bo-schi della Sila o nelle grotte dell’Aspromonte e molti, ricercati dai gendarmi, diventarono briganti.

La Questione meridionale fu dunque il vero grande problema dell’Italia unita perché il governo sabaudo aveva voluto instaura-re in queste regioni un sistema organizzativo e burocratico simile a quello piemontese, non rendendosi conto delle evidenti differenze. L’abolizione degli usi comuni della terra, la leva obbligatoria, le tasse e la presenza costante sul territorio dei bersa-glieri e dei gendarmi aumentarono il malcontento degli italiani del sud, spesso costretti ad emigrare per sopravvivere. Si mani-festano così gravi fenomeni di “rivolta”contro il nuovo Stato, come il brigantaggio, la mafia, le tentazioni autonomiste ed anche il rimpianto per i vecchi, ma familiari Borboni, che almeno parlavano la loro lingua. Le bande dei briganti cominciarono a vaga-re per le campagne, formate da persone con motivazioni diverse. Lo stato reagì con durezza inviando l’esercito per reprimere il brigantaggio ma furono necessari più di 100.000 soldati, perché i briganti erano appoggiati dal popolo. Dal 1861 al 1865 ci fu una vera e propria guerra con 7.000 morti..

Gabriele Giacalone, Salvo Balsamo e Lucia Bruno III B

CATANIA VERSO LCATANIA VERSO LCATANIA VERSO LCATANIA VERSO L’UNITAUNITAUNITAUNITA’ Nel 1818, anche a Catania, iniziò a diffondersi la Carboneria grazie all’ opera del toscano Bartolomeo Sestini che, nei locali del teatro di palazzo Biscari organizzò le famose vendite carbonare dietro le quali si celava la cospirazione anti borbonica. Nel 1820, scoppiò a Napoli una rivolta per l’ indipendenza della Sicilia dal regno di Napoli.Le città della Sicilia non parteciparono alle insurrezione, ma nonostante ciò le idee indipendentiste si diffuse anche nel centro etneo.

Alla morte di Francesco I, il Regno Delle Due Sicilie fu ereditato dal figlio Ferdinando II. A Catania (città che sostanzialmente era sempre stata filo borbonica), con i Moti del 1837 , repressi dal nuovo re con estrema crudeltà, nacquero formazioni repub-blicane e liberali. Durante questi moti la piazza Duomo e la vicina piazza Università si riempirono di rivoltosi che tolsero e di-strussero tutte le insegne e le statue che ricordavano il potere dei Borboni (le famose statue senza testa che troviamo in via Dusmet e in villa Pacini). Paradossalmente, però, l’anno successivo, in occasione della visita del re Ferdinando II, l‘intera cit-tadinanza, come se nulla fosse successo pochi mesi prima, acclamò e festeggiò il proprio sovrano.

La Sicilia, dal 12 Gennaio 1848, iniziando la rivoluzione risorgimentale italiana, si era ribellata ai Borboni, proclamandosi indi-pendente e aveva dichiarato decaduta la dinastia regnante. La reazione dei Borboni fu feroce: al comando del gen. Filangeri, principe di Satriano, truppe e flotte attaccarono il 5 Aprile la città Etnea, difesa dall’ eroismo dei propri figli (famoso il 5° Batta-glione catanese, detto dei “ cani corsi “) capitanati dal generale polacco Mieroslawsky. I combattimenti si ebbero un po’ dap-pertutto, con incendi, eccidi e stragi. I Borboni ebbero 192 morti e 403 feriti; ben più gravi furono le perdite dei catanesi, che ebbero oltre 2.000 uomini messi fuori combattimento, tra morti e feriti. Catania capitolò ma fu tale l’ eroismo dimostrato dai catanesi, in questa battaglia del 6 Aprile 1849, che il 22 maggio 1898 Umberto I, il re d’ Italia, decorò con la medaglia d’oro al valor militare la città di Catania, con la seguente motivazione :” Per commemorare le azioni eriche della cittadinanza catanese nei gloriosi fatti del 1848 che iniziarono il Risorgimento e la conquista dell’ Unità “. Quando i moti della seconda guerra d’ indi-pendenza (1859), arrivarono in Sicilia attraverso le camicie rosse di Garibaldi, anche Catania si apprestò alla rivolta. Le strade della città divennero, cosi, nuovamente scenario di guerra. Gli insorti catanesi, guidati dal colonnello Giuseppe Poulet, diedero battaglia ai tremila uomini della guarnigione borbonica, comandati del gen. Tommaso Clary; ma, nonostante il loro valore furo-no sopraffatti dal numero e costretti a ritirarsi .Non per questo il loro eroismo è meno mirabile: raggiunsero egualmente lo sco-po, perché il gen. Clary, pur essendo vittorioso, preferì evacuare la città: sebbene la rivolta si fosse risolta con un insuccesso, le truppe borboniche, per paura di essere accerchiate dalle truppe garibaldine lasciarono dopo pochi giorni la città. Alcuni mesi dopo con un suffragio universale, Catania e la Sicilia, entrarono a far parte dell’ Italia dei Savoia. Fra gli episodi dei Moti risor-gimentali quello che più di tutti è entrato nella tradizione popolare catanese riguarda l’eroina “Peppa a cannunera”, la quale, sottratto un cannone ai nemici, riuscì ad opporsi ad uno squadrone di cavalieri borbonici.

Famà Biagio III A

Vaccaro Ernesto III A

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Durante il laboratorio di giornalino abbiamo letto una novella di Giovanni Verga dal titolo “Libertà”. La storia si ispira ai fatti acca-duti nel 1860 a Bronte, un paese sulle pendici dell’Etna, in occasione dello sbarco in Sicilia dei Mille di Garibaldi per liberare l’isola dai Borboni e annettere il Meridione al Regno d’Italia. Infatti i contadini sperando che il cambiamento portasse ad una distribuzione della Terra ai braccianti, al grido di libertà si ribellarono con atti violenti e sanguinosi. Durissima fu la reazione delle truppe garibaldine guidate da Nino Bixio, che ripristinò l’ordine con arresti e fucilazioni in massa dei responsabili della sommos-sa. Questa novella ci ha colpito perché Verga usa parole aspre e dure che testimoniano l’orrore compiuto in nome della libertà. Ci ha colpito particolarmente la morte di Neddu, figlio del notaio che viene ucciso dai rivoltosi con la guancia calpestata dalla folla. Aveva solo 11 anni ed aveva la sola colpa di essere figlio di un “cappello”, ossia di un notaio che rappresentava l’autorità. Come pure ci ha fatto impressione la morte della baronessa che cercava di proteggere il suo bambino neonato dalla folla che avanzava nelle stanze del palazzo. Trovò rifugio in uno dei balconi, inutilmente, poiché dopo averle ucciso il bambino i ribelli la gettarono dalla ringhiera. Il figlio più grande tentò di difendere la madre e il fratello cercando di sbarrare la strada alla violenza della folla finendo poi ucciso a colpi di scure all’entrata del palazzo. Ben presto la folla si rese conto che questa cieca violenza non avrebbe portato da nessuna parte, tanto meno avrebbe fatto raggiungere la tanto agognata “libertà”. I colpevoli furono fuci-lati o arrestati e la popolazione continuò a vivere come prima dell’arrivo dei garibaldini. Questi avvenimenti ci hanno fatto capire quanto sia stato difficile il cammino per raggiungere l’Unità d’Italia, che noi consideriamo come un fatto scontato.

ORAZIO MAGRI’ E VERONICA RANNISI CLASSE III E

DENISE VB SALVO CAMPISI VB

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CLASSE III E

CLASSE V B

Alessia Castrogiovanni VB

MARTINA GIUFFRIDA V B

GIUSY VB

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Ci sono molte differenze tra il nord e il sud e io penso che sia un male. Tuttavia, la colpa di questo non è tutta nostra. Le differenze sono riscontrabili in moltissimi campi: la lingua (è sotto gli occhi di tutti che i dialetti parlati al nord e al sud siano divergenti, inoltre è diverso anche l'utilizzo che si fa dell' italiano...al nord, si modificano le parole e si fa diventa-re il dialetto un italiano mentre al sud, si usano tempi diffe-renti, come il passato remoto che al nord si usa pochissi-mo); la cultura (la cultura differisce sia in campo morale, che in campo gastronomico. Al sud si è molto attaccati alle tradi-zioni e alla famiglia, al nord forse si pensa maggiormente alle opportunità, al nord siamo certe volte un po' freddi, mentre al sud c'è gente molto più solare e aperta. L'immigrazione modifica la cultura. E’ differente l'approccio con la vita, i pensieri, il clima, il livel-lo di industrializzazione, il potere d'acquisto, il lavoro. E' brutto dirlo, ma anche se siamo un solo paese è come se fossimo due paesi diversi. Le origini di questa differenza risalgono a secoli orsono! Il sud e il nord hanno mentalità diverse legate soprattutto al fatto che sono state per anni colonizzate da realtà distinte. La differenza, la diversità tra persone animali e cose esiste solo nella nostra testa. Siamo noi esseri umani che ci creiamo complessi di superiorità, inferiorità e confini per dividere.

Dunque c'è un approccio diverso alla vita: al sud si pone al centro della società la famiglia tradizionale, dunque i valori dell'unione ,si ha una concezione di stato differente, in quanto spesso si sono sentiti abbandonati e c'è una diffusa diffidenza...... questo porta ad un approccio anche differente del lavoro. Al nord, più vicino come posizione geografica all'Europa, c'è una concezione dei diritti e dei doveri molto forte, che ha portato ad una maggiore emancipazione della donna in tutti i campi compreso quello lavorativo, ma ha sgretolato la famiglia tradizionale .

al nord prima trovi un lavoro e poi ti lamenti al sud ti lamenti e non trovi un lavoro al nord studi per farti una posi-zione al sud studi come fregare la posizione a uno del nord al nord con i soldi compri tutto al sud con i soldi paghi le tan-genti.

SHARON TUCCI Classe VD

L'Italia era un Paese prevalentemente agricolo, dove lo sviluppo industriale, già in atto in altri Stati d'Europa, tardò a realizzarsi. Ma il Sud era più arretrato del Nord. Tranne alcune eccezioni, come la Campania e parte della Puglia, il terreno dell'Italia meridionale era povero: la naturale pover-tà era stata aggravata nel Seicento da un notevole tasso demografico, che il dominio spagnolo non aveva saputo affrontare con misure economiche efficaci; anzi, aveva au-mentato le tasse, senza costruire vie di comunicazione; inoltre aveva mantenuto molto basso il livello di istruzione dei sudditi. Ma il male peggiore del sud rimaneva il latifon-do, l'immensa proprietà terriera apparteneva a un unico padrone. Sia i nobili sia i grandi borghesi vivevano in città e si preoccupavano soltanto di ricavare dalle terre il massi-mo rendimento, trascurando investimenti o innovazione che richiedevano capacità tecniche, perciò la presenza del lati-fondo nel Mezzogiorno impediva la nascita di un ceto di imprenditori capace di adattare l'agricoltura al progresso tecnologico.

I piccoli proprietari vivevano in condizioni difficili perché spesso, sopraffatti dai debiti, erano costretti a vendere il loro campo e a trasferirsi in città. I braccianti che lavorava-no nei latifondi erano sfruttati e sottopagati e il potere era nelle mani dei grandi proprietari. Mentre nelle terre si pro-ducevano grano, vino, olio, mandorle e zafferano in molte zone regnava la malaria e un buon reddito era fornito dal-l'allevamento del bestiame (pecore,cavalli,muli), mentre il commercio era bloccato della mancanza di investimenti e di strade.

Noemi Lo Verde e Salvatore Castrogiovanni I D

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CLASSE ID

LA LETTERATURA SICILIANA E L’UNITA’ D’ITALIA Tra le tante differenze (economiche, politiche e sociali)che al momento dell’unificazione dell’Italia dividevano Nord e Sud va ricordata una profonda frattura culturale:il grande movimento di idee del Romanticismo, che alimentò la letteratura, le arti e il processo risorgimentale si era fermato a Firenze. La cultura meridionale si impegna invece, nell’analisi della realtà del Mez-zogiorno, per metterne in luce le caratteristiche e la diversità. In questo quadro ha le sue radici l’esperienza più importante del secondo Ottocento, il Verismo in cui si manifestano alcuni caratteri che saranno costanti nella letteratura siciliana: La consapevolezza della diversità che caratterizza la realtà sociale della Sicilia e quindi una particolare attenzione a rappresen-tarne gli aspetti e le manifestazioni: il mondo contadino o dei pescatori, il lavoro nelle miniere di zolfo, i fasti decaduti delle grandi casate, la vita nelle piazze, nei mercati o nei balconi; tutti elementi di un mondo che vive in stretto rapporto con l’am-biente, il paesaggio ora arido, ora lussureggiante, le ricche architetture barocche o le povere case. L’interpretazione della storia della Sicilia come il susseguirsi di invasioni e di inganni fino all’ultima illusione del nuovo Stato unitario. Alla speranza di una Sicilia ben integrata in uno Stato caratterizzato da buon governo e riforme subentra la constatazione della profonda separazione fra le due Italie. Basta pensare alla vicenda dei Malavoglia di Verga:i pescatori di Aci Trezza sono immobilizzati nella loro condizione di sconfitti, sono lontani rispetto al “continente” e quando vengono a contatto con il progresso, ne diven-tano vittime (si possono ricordare le vicende di’Ntoni e Lia , nipoti di Padron ‘Ntoni). La delusione per il fallimento degli ideali risorgimentali in cui i siciliani nutrivano grande fiducia si evince dai grandi romanzi veristi I Malavoglia(1881) e Mastro Don Gesualdo (1889) ) di Giovanni Verga e I viceré (1894)di Federico De Roberto; op-pure I vecchi e i giovani di Pirandello, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Vittorio Fiducia IIIA, Verzì Salvatore III A

GIOVANNI VERGA E “LIBERTÀ”

Libertà è una novella di Giovanni Verga, ispirata alla sommossa contadina di Bronte, av-venuta dopo l’arrivo dei Mille nel 1860. La novella entra subito nel vivo con l’immagine di un fazzoletto rosso sventolato dal cam-panile del paese, le campane che suonano senza sosta e la gente che grida Viva la liber-tà!.Poi compaiono le scuri che scintillano al sole, nell’attesa di abbattersi contro questo e quel signore. La folla non ha freni: ormai è accecata dal sangue che pare la ubriachi come il vino, e la morte sembra arrivare per ognuno dei cappelli, cioè dei signori, cosiddetti per-ché i contadini portavano invece il berretto. Ognuno ha la sua buona ragione per essere ucciso: i signori che tengono i contadini a pochi soldi ed essi muoiono di fame; il prete, che al popolo succhia l’anima ma poi ha l’amante, i poliziotti che applicano le leggi solo sui più deboli; il guardaboschi che non concede ai contadini neppure la legna per scaldarsi d’in-

verno. La furia omicida travolge tutto, anche gli innocenti come Neddu , il figlio del notaio, travolto dalla folla, che prega per non fare la stessa fine del padre, ma ormai morente, un contadino gli dà il colpo di grazia – Sarebbe stato notaio anche lui! Succhiasangue lui pure! -; e ancora il figlio d’una signora, lo speziale, il padrone di una vigna… sedici persone in tutto, così dice la storia, quella vera, a cui è ispirata la novella. Con l’arrivo della domenica gli animi sembrano placarsi: tuttavia c’è da spartire la terra rimasta senza padroni, e visto che il notaio è ormai morto i contadini sembrano quasi volersi uccidere tra loro, altro che libertà! Nel frattempo però arriva il generale, Nino Bixio: le donne lo accolgono in festa, ma non sanno che la giusti-zia sarà sommaria. Egli infatti fa fucilare alcuni rivoltosi (a caso) al suo arrivo, mentre fa portare altri in città (a Catania) per essere giudicati in tribunale. I contadini in città,vengono sottoposti ad un processo che dura tre anni,fino alla sentenza che punisce con la condanna,la strage che era stata fatta quasi inconsapevolmente, nell’euforia di quella “Liberta’”ansiosamente cercata e mai posseduta, nel desiderio di diventare i padroni di quelle terre su cui avevano sudato….. Così al paese arrivano altri signori e i contadini tornano nella miseria. La rivoluzione di Garibaldi aveva dato ai miseri contadini la speranza di un miglioramento, eppure alla fine tutto era tornato come prima:…E avevano detto che c’era la libertà!…

Bara Michael III A, D’Amico Nico III A

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L’ITALIA NEL 1866

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I Viceré è il romanzo più celebre di Federico De Roberto che ne iniziò la stesura a Milano nel 1894 raccogliendo materiale sulle vicende del risorgimento meridionale, narrate attraverso la storia di una nobile famiglia catanese, quella degli Uzeda di Franca-lanza ( discendente da antichi Viceré spagnoli della Sicilia ai tempi di Carlo V). I componenti della famiglia degli Uzeda sono accomunati dalla razza e dal sangue vecchio e corrotto, dovuto anche ai numerosi matrimoni tra consanguinei. Quanto emerge da questa famiglia è la spiccata avidità, la sete di potere,e gli odi che i componenti nutrono l'uno per l'altro. Ogni membro della famiglia ha una storia segnata dalla corruzione che si evidenzia anche nella loro fisionomia e nelle deformità fisiche che verran-no riassunte dall'autore nell'episodio di Chiara che, dopo aver partorito un feto mostruoso, lo conserva sotto spirito. Ma I Viceré sono anche una rappresentazione di un’importante fase storica: il romanzo è infatti ambientato negli anni tra il 1855 e il 1882, nella quale si svolgono le vicende e le fortune degli Uzeda. Il romanzo è diviso in tre parti: la prima parte inizia con la morte della vecchia principessa Teresa, crudele e dispotica, e termina con la caduta del regno borbonico e con l'elezione a deputato di Gaspare Uzeda; la seconda parte si chiude con la presa di Roma e con la conversione al liberalismo di don Blasco; la terza, con le prime elezioni a suffragio allargato del 1882, in cui l'ultimo discendente di fede reazionaria e borbonica, Consalvo, finge idee di sinistra per mantenere intatto il suo potere, convinto che - al di là di ogni rivolgimento storico - nulla possa veramente cambiare e che i privilegiati debbano adattarsi alle nuove situazioni politiche, come quella successiva all’unità, potendo solo così mantenere intatti dominio e potere. Quando Consalvo, ormai deputato, parla alla "zitellona" zia Ferdinanda, vi è l'intera chiave di lettura del romanzo:

« ... Noi siamo troppo volubili e troppo cocciuti ad un tempo… Io stesso, il giorno che mi proposi di mutar vita, non vissi se non per prepararmi alla nuova. Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine, di simili ostina-zioni nel bene e nel male... Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa. »

Nel 2007 il regista Roberto Faenza ha tratto un film da questo romanzo che abbiamo visto a scuola. Ci ha molto colpito la rap-presentazione dei personaggi e in particolare della figura di Consalvo, un giovane che aveva un’ anima pura, buona e gentile ma che non sfuggiva alla cattiveria della famiglia, come ad esempio quando ha violentato una ragazza, pentendosene subito. Un altro personaggio che mi ha colpito tanto è stato quello di Chiara Uzeda che ha partorito un figlio malformato, dopo aver avuto già altri figli nati morti, la cosa sorprendente è che questa donna ha spinto il marito ad avere un figlio dalla cameriera per poi trattare il bimbo come se fosse suo…. I Vicerè erano abituati a vincere, a costo di sacrificare i sentimenti propri ed altrui.

Irene Moschetto, Sefora Cavallaro e Lucia Vintaloro III B

Melania Saladino III A

Il Gattopardo, scritto tra la fine del 1954 e il 1957, dal principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa tiene presente la tradizione narrativa siciliana: la novella Libertà di Giovanni Verga e I Vicerè di Federico De Roberto, ispirata al fallimento risorgimentale, drammaticamente avvertito proprio in Sicilia, dove erano vive speranze di un profondo rinnovamento. Il titolo del romanzo ha l'origine nello stemma di famiglia dei Tomasi ed è così commentato nel romanzo stesso: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore conti-nueremo a crederci il sale della terra.» Il romanzo inizia con il ritrovamento del cadavere di un soldato nel giardino della casa del Principe Fabrizio Salina, dove abita-

va con i sette figli e la moglie Maria Stella. Don Fabrizio è testimone del lento decadere in quel periodo del ceto dell'aristocrazia, legata ai Borboni, di cui è rappresentante. Infatti, con lo sbarco in Sicilia di Garibaldi e del suo esercito, si afferma una nuova classe, quella dei borghesi, che il principe come tutti gli aristocratici disprezza. Il nipote di don Fabrizio, Tan-credi, pur combattendo nelle file garibaldine cerca di rassicurare lo zio sul fatto che alla fine le cose andranno a loro vantaggio. Il principe e la sua famiglia trascorrono un po' di tempo nella loro residenza estiva a Donnafugata dove il nuovo sindaco è Calogero Sedara, un uo-mo di modeste origini, un borghese. Non appena Tancredi vede Angelica, la figlia del sinda-co, si innamora perdutamente di lei. La ragazza non ha perciò i modi degli aristocratici ma affascina tutti con la sua bellezza, tanto che Tancredi finirà per sposarla, attratto oltre che dalla bellezza anche dal suo denaro. Arriva il momento di votare per un importante plebiscito per decidere l'annessione della Sicilia al regno d’Italia, a quanti chiedano al principe un pare-re su cosa votare, il principe dice di essere favorevole a questa entrata. I voti del plebiscito alla fine vengono comunque truccati dal sindaco Sedara, e si arriva perciò all'annessione. Dopo questo, un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley offre a don Fabrizio la carica di senatore del Regno d'Italia ma il principe rifiuta l'incarico in quanto egli si sente un vero e proprio aristocratico e non vuole sottomettersi alla caduta del suo tempo. Nel dialogo con Chevalley, il principe di Salina spiega ampiamente il suo spirito della sicilianità; egli lo spiega con un misto di cinica realtà e rassegnazione. Spiega che i cambiamenti avvenuti nell'isola più volte nel corso della storia, hanno adattato il popolo siciliano ad altri "invasori", senza tuttavia modificare dentro l'essenza e il carattere dei siciliani stessi. Così il presunto migliora-mento apportato dal nuovo Regno d’Italia, appare al principe di Salina come un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché in realtà nell’isola nulla è cambiato.

Come dice Tancredi: “ Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”. Coco Francesco III A

Granata Francesca III A

GIULY VB

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FELICE VB

ORIZZONTALI

1) GUIDO’ LA SPEDIZIONE DEI MILLE

8) L’ATTUALE CAPITALE D’ITALIA

10) VERDI LO ERA DELLA MUSICA

11) LO STATO LO DIVENNE NEL 1861

12) I COLORI DELLA BANDIERA

13) NINO, AMICO DI GARIBALDI

14) IL TERZO BONAPARTE

15) LA PRIMA CAPITALE D’ITALIA

16) IL TEORICO LIBERALE CHE PENSO’ LA CONFEDERAZIONE DEGLI STATI ITALIANI

VERTICALI

1) LA ….. ITALIA FONDATA DA MAZZINI

2) LA COMPAGNA DI GARIBALDI

3) PERIODO DELLA STORIA DELL’UNITA’ D’ITALIA

5) INSORSERO NEL PERIODO DEL RISORGIMENTO

6) PRINCIPALE NEMICO DEL PIEMONTE

7) FAMIGLIA REALE PIEMONTESE

9) SBARCARONO A MARSALA

Giuseppe Gullotta, I C con la collaborazione della Prof. ssa Giuseppa Gambera

SOLUZIONI

CRUCIVERBA SU

UNITA’ D’ITALIA

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D opo l’unità d’Italia si avverte la necessità di creare un’unica cultura

nazionale. Nel 1859 per la prima volta è prevista l’istruzione elementare gratuita

con la legge Casati, che si rivolge prima al Piemonte ed alla Lombardia, e poi

viene estesa al resto del paese. Questa legge prevede di uniformare i programmi

scolastici e l’obbligatorietà dell'insegnamento primario ( 2 anni di scuola elemen-

tare). Un periodo di studio di due anni in realtà non può consentire l’apprendi-

mento della lingua italiana in una nazione che nel 1861 conta ancora il 75% di

analfabeti. Nel 1877 è approvata la Legge Coppino che prevede l’istruzione pri-

maria gratuita e obbligatoria per tre anni (dai 6 ai 9 anni di età), ma ancora a fine 1800 molti non vanno a scuola. Nel 1910

gli analfabeti sono diminuiti fino ad essere il 38% della popolazione, ma ci sono differenze nell’istruzione elementare tra Nord

e Sud Italia, e nel meridione l’analfabetismo è molto più diffuso che al Nord.

L’apprendimento della lingua italiana e l’unificazione linguistica sono avvenuti grazie agli insegnanti all’interno della scuola e

anche, dagli anni cinquanta in poi, per effetto della televisione. In quegli anni inoltre, l'immigrazione all’interno del paese e la

crescente rete autostradale, intensificano gli spostamenti da una regione all'altra e rendono necessaria una lingua comune

che permetta a tutti di intendersi.

Angela Torrisi 1C

La lingua italiana, all'epoca del plebiscito del 1861, aveva tra gli abitanti del nuovo regno d'Italia una scarsissima diffusione. Secondo il linguista Tullio De Mauro, gli italofoni della penisola, coloro cioè che parlavano correntemente l'italiano come pri-ma lingua, costituivano appena il 2,5% del totale dei suoi abitanti. Il documento che segue testimonia la scarsa conoscenza della lingua italiana tra la popolazione.

Il patrimonio linguistico e letterario che diversi indicavano come uno dei principali legami tra i popoli della penisola era una questione che riguardava solo fasce ristrettissime di persone colte.

Si può supporre che, a quell’epoca oltre al ristrettissimo gruppo di italofoni, ci fosse una più larga percentuale di persone capaci di usare l’italiano parla-to, grazie a una loro capacità di capire l’italiano scritto; tuttavia questa per-centuale non può essere stata di molto superiore al numero degli alfabeti, che nel 1861 risultò pari al 22% del totale della popolazione; tra questi, colo-ro che erano in grado di apprezzare Dante e Machiavelli dovevano essere una percentuale certamente di molto inferiore.

Tutti gli altri facevano uso del dialetto, o di una lingua straniera, come per esempio il francese in Piemonte.

La questione era da tempo perfettamente chiara anche agli occhi di persone assolutamente concordi con i nuovi ideali nazionali.

In una lettera del 10 Aprile 1859 al figlio Emanuele, (il patriota) Roberto d’A-zeglio così descriveva i rapporti tra i soldati dell’esercito regolare piemonte-se e i volontari, accorsi in Piemonte per partecipare all’imminente guerra contro l’Austria:

“I nostri soldati cominciano a fraternizzare. La cattiva fama che, ingiusta-mente, si era attribuita alla qualità di Lombardo, era dovuta al fatto che i

soldati semplici che non sono molto al corrente della lingua italiana prendevano per Lombardi tutti coloro che non parlassero chiaramente in buon piemontese, e non apprezzando molto i Lombardi, prendevano tutti in antipatia allo stesso modo. Ma, mano a mano che li hanno meglio conosciuti, e che hanno trovato in loro dei buoni e leali camera-ti, diversi dei quali essendo benestanti fanno loro dei regali o li soccorrono in parecchie occasioni, vivono tutti insie-me del migliore accordo”.

D’altro canto i fratelli Giovanni ed Emilio Visconti Venosta, (patriota e narratore il primo, uomo politico il secondo) in

viaggio nel regno delle due Sicilie, vennero più volte scambiati per inglesi, mentre uno dei mille di Garibaldi racconta

che, sbarcati che furono a Marsala, essi vennero circondati da un centinaio di abitanti, e quella gente chiedeva insi-

stentemente di Garibaldi “in sua africanissima favella”.

Alessia Orlando I D

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F u la scuola – seppur tra balbettii e molteplici limiti - a cercare di “fare gli italiani”, quegli italiani che all’indomani dell’unificazione ( 17 mar-zo 1861) erano analfabeti nel 74-84% dei casi (rispettivamente uomini e donne), con punte fino al 95% nel Meridione. Un’impresa difficile in cui si cimentò il neonato Stato, prima con la legge Casati che entrò in vigore nel 1860 e stabilì – senza troppo successo, soprattutto al Sud – l’obbliga-torietà e la gratuità del primo biennio dell’istruzione elementare e poi, nel 1877, con la legge Coppino – che stabilì l’effettiva sanzione dell’obbligo scolastico ed elevò la durata dell’istruzione elementare a tre anni.

Così, pian piano, sui banchi di scuola cominciarono a nascere gli italiani, che studiavano la stessa lingua, la stessa storia, la stessa geografia.Nel 1870, l'anno della presa di Roma, 73 italiani su 100 non sapevano né leggere e né scrivere e firmavano i documenti con una croce. Inoltre 90 persone su 100 parlavano il proprio dialetto e non capivano l'italiano.

L'analfabetismo era l'effetto e la causa della miseria di quei tempi. Effetto per il motivo che non solo la popolazione era poverissima ma, i bambini, andavano a lavorare anziché essere mandati a scuola; causa, perché un analfabeta era immune da ogni possibilità di miglioramento economico e sociale.

La scuola veniva considerata uno strumento insostituibile sia dalla classe dirigente liberale che da quella democratica. Essa assicurava consen-so alle istruzioni, garantiva l'unificazione linguistica e rafforzava il sentimento patriottico.

Una volta, l'istruzione di base si limitava a dei ceti elevati che venivano affidati a insegnanti privati o parroci che si limitavano a nozioni di catechismo. Ora, in modo del tutto rivoluzionario, si concepiscono classi formate da alunni con programma e metodi precisi da affidare ad un corpo insegnanti.

Tutto ciò ebbe molto successo solo in Piemonte. Altrove, costruire scuole e convincere i genitori a privarsi dell'aiuto dei figli nel lavoro non fu cosa facile.

La leg-ge ( Casati prima, Coppino poi) affermava che i carabinieri dovevano andare nelle famiglie e costringerle a far andare i propri figli a scuola anche se i politici non accettarono tutto ciò e lasciarono che ognuno facesse come voleva.

Molte famiglie, però, avevano capito che senza la scuola, quindi senza istruzione, non poteva esistere alcuna possibilità di riscatto sociale e che si sarebbero fatti sacrifici per mandare i propri figli almeno per i primi due anni di elementari. Vi erano ragazzini che percorrevano a piedi anche 30 chilometri per arrivare ogni giorno alla scuola più vicina.

Anche la situazione degli insegnanti andava a peggiorare e succedeva persino che, per errore venissero reclutati insegnanti analfabeti.

Nonostante questi numerosi problemi, grazie alla scuola elementare obbligatoria, l'analfabetismo pian piano finì anche se len-tamente e lasciando l'Italia molto indietro rispetto ad altre nazioni come la Gran Bretagna, la Germania e la Francia.

Chiara Zappalà, Ylenia Sciuto, Elena Licciardello - 2 a.

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D opo l’unificazione d’Italia fu necessario diffondere l’istruzione pubblica perché il 78% della popolazione era ancora analfabeta.

La lingua italiana era diventata la lingua madre, ma poche persone la conoscevano e la sapevano parla-re:ovunque erano diffusi i dialetti regionali.

Con la legge Casati venne finalmente istituita gratuitamente e per quattro anni la scuola elementare di cui soltanto i primi due erano obbligatori. Purtroppo, però, molti bambini non potevano andare a scuola o perché dovevano aiutare i genitori nel lavoro dei campi o per accudire i fratellini più piccoli,compito affidato alle bambine.

I maestri erano pochi e non molto preparati.

Si insegnavano le seguenti materie: religione,lettura e scrittura, aritmetica e sistema metri-co,la lingua italiana , la geografia elementare e la storia nazionale. Le scienze fisiche e naturali venivano stu-diate solo applicandole agli usi della vita quotidiana. Le bambine, inoltre, imparavano a cucire e a ricamare, mentre i bambini di campagna avevano libri diversi da quelli di città.

La scuola fu frequentata soprattutto dai figli del popolo e della piccola borghesia, mentre quelli dell’alta borghesia preferivano studiare con un insegnante privato pur di non trovarsi seduti accanto ai figli di contadini e operai. La disciplina era molto severa , i maestri erano spesso muniti di bacchette per punire i ragazzi più svogliati e vivaci .

Le classi erano piuttosto affollate perché potevano comprendere anche settanta alunni; non esistevano le classi miste: erano tutte maschili o tutte femminili, gli alunni non s’incontravano mai e spesso avevano diverse anche le entrate a scuola.

Le scuole erano poche e poco fornite ,spesso i ragazzi erano costretti a recarsi a piedi in quelle dei comuni vicini; le attrezzatu-re scolastiche erano scarse perchè non tutte le scuole erano in grado di comprare il necessario.

Nelle aule le sedie erano attaccate ai banchi di legno; nel banco c’era il calamaio per l’ inchiostro, dove gli alunni intingevano una penna che era un’ asticciola di legno nella quale era attaccato il pennino; per contare si utilizzava il pallottoliere che si usa an-cora oggi.

La scuola, oltre ad istruire, doveva dare forza, coraggio e dignità al popolo e doveva diffondere l’amor di patria.

Donata Ester Fiore, Veronica Rannisi e Giusi Zammataro

(Alunne della III E)

Un alfabeto illustrato per le scuole elementari; si noti la presenza dei nume-ri romani, ancora larga-

L’Italia: unità completata nel 1919

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I libri per ragazzi I problemi sociali che il nuovo Regno d’Italia si trovò ad affrontare dopo l’unificazione vengono messi in risalto da due famosi racconti per l’infan-zia:‘’Le avventure di Pinocchio’’di Col-lodi e ‘’ Cuore’’ del De Amicis.

Essi sono due racconti importanti per-ché ci documentano i valori, la realtà e l’educazione borghese dei ragazzi nell’Italia post – risorgimentale.

Chi non ha mai letto Pinocchio, la storia del burattino disubbidiente e poco disposto ad accettare le regole che Geppetto e la fata turchina tenta-no di insegnargli? La morale che l’au-tore ci vuole spiegare è la seguente: esiste una giustizia che ricompensa il bene e punisce il male e poiché com-piere azioni buone è sempre vantag-gioso, bisogna comportarsi sempre bene.

Le disubbidienze di Pinocchio provo-cano, infatti, punizioni spesso crudeli

che finiscono solo quando il burattino si adatta alle regole che gli sono state inse-gnate.

Il racconto ci fa capire che, nella società del tempo, la repressione è considerata un buon metodo educativo e che il comportamento “buono” viene sempre premiato. Alla fine, infatti, il burattino diventerà defini-tivamente bambino.

Il racconto “ Cuore “ è un romanzo di Edmondo De Amicis. Esso è scritto sotto forma di diario da un ragazzino piccolo borghe-se, di nome Enrico, che descrive le vicende di un anno scolastico in una terza elementare di Torino.

Ogni mese il maestro detta agli alunni un racconto che descrive il coraggio di alcuni ragazzi di diverse regioni italiane. Tutti i racconti sono molto tristi, ma vogliono trasmettere i valori borghesi del tempo: l’importanza dello studio, del lavoro, del merito, del rispetto per i superiori, della dignità e del patriottismo.

Valentina Di Bella

Leonardo Carpita

(Alunni di III E)

Il nome Italia Curiosità: lo sapete che il nome Italia nacque in Calabria? In epoca greca, prima delle colonizzazioni, la Cala-

bria era abitata da più co-

munità, tra cui gli Enotri

(coltivatori della vite )e gli

Itali. Proprio dal mitico So-

vrano ITALO la Calabria –

che prima si chiamava Eno-

tria – fu detta Italia dai

colonizzatori ellenici. Il no-

me, poi , si estese a tutta la

penisola. Fu, dunque, la Ca-

labria a dare il nome Italia.

Aristotele, il grande filoso-

fo greco , scrive che ITA-

LO era il re degli Enotri e

che – da lui –questi presero

inseguito il nome di Itali ,

come pure venne chiamata

Italia la regione da loro abi-

tata .

CLASSE II F

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GIUSY ZAMMATARO III E

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L’Ottocento fu il secolo in cui si affermò il principio di libertà degli individui e dei popoli, e in cui nacquero il nazionalismo e il concetto di patria. In questo secolo le esperienze letterarie si intrecciarono strettamente alle vicende politiche che portarono all’unità d’Italia (1861).

Nella prima parte del secolo si diffuse anche in Italia il romanticismo, un movimento letterario sorto in Germania e in Inghilter-ra, che rivalutò l’immaginazione e la libertà creativa dell’artista e dell’individuo. I primi segnali della diffusione della nuova sen-sibilità romantica in Italia emersero nelle tragedie di Vittorio Alfieri e, soprattutto, nel romanzo epistolare Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1798-1802) di Ugo Foscolo (1778-1827). A lui si devono anche il poemetto Dei Sepolcri (1807), i Sonetti (1816) e l’incompiuto poema Le Grazie.

Il maggior poeta del secolo fu Giacomo Leopardi (1798-1837), che espresse un romanticismo individuale e disperato in liriche che sono uno degli esiti più alti della poesia italiana. La sua produzione poetica, improntata al pessimismo e alla malinconia, è riunita nei Canti (1831). Leopardi espose il suo pessimismo anche negli scritti in prosa: lo Zibaldone e le Operette Morali.

Ad Alessandro Manzoni (1785-1873) si deve l’affermazione del romanzo storico. I Promessi sposi (1827) furono il primo im-portante romanzo italiano e divennero anche un modello di lingua nazionale. Alla produzione dello scrittore appartengono anche cinque Inni Sacri (1812-1822), due odi politiche (Marzo 1821, sui moti patriottici di quell’anno, e Il cinque maggio, sulla morte di Napoleone Bonaparte) e due tragedie (Il Conte di Carmagnola, del 1820, e Adelchi, del 1822).

L’unico altro romanzo importante prima dell’unificazione d’Italia fu Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (1831-1861), uno scrittore-patriota. Il libro fu scritto in pochi mesi nel 1858, ma fu pubblicato nel 1867, dopo la morte dello scrittore.

L’unificazione d’Italia nel 1861 fece emergere un grave disagio intellettuale, frutto delle molte speranze andate deluse. Il sen-so di delusione trovò espressione nella scapigliatura, corrente culturale e letteraria operante a Milano nel 1860, e nelle opere di Giosue’ Carducci (1835-1907).

Carducci, che fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel (nel 1906), fu un acceso sostenitore del ritorno alle forme poetiche classiche: nella raccolta Odi Barbare (1877-1893) cercò di riprodurre in versi italiani i metri della lirica greca e latina.

Negli ultimi trent’anni dell’Ottocento si sviluppò il verismo. La letteratura verista fu caratterizzata dal bisogno di rappresentare la realtà così com’è, limitandosi a presentare i fatti il più fedelmente possibile, senza esprimere giudizi e senza lasciarsi coin-volgere dalle emozioni. Importante fu anche l’attenzione alle realtà regionali.

Carducci, che fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel (nel 1906), fu un acceso sostenitore del ritorno alle forme poetiche classiche: nella raccolta Odi Barbare (1877-1893) cercò di riprodurre in versi italiani i metri della lirica greca e latina.

Negli ultimi trent’anni dell’Ottocento si sviluppò il verismo. La letteratura verista fu caratterizzata dal bisogno di rappresentare la realtà così com’è, limitandosi a presentare i fatti il più fedelmente possibile, senza esprimere giudizi e senza lasciarsi coin-volgere dalle emozioni. Importante fu anche l’attenzione alle realtà regionali.

Maestro indiscusso del movimento fu il siciliano Giovanni Verga (1840-1922). Il suo romanzo più celebre è I Malavoglia (1881), che racconta le vicende di una famiglia di pescatori che vive e lavora nel paesino di Acitrezza. Il teorico del verismo fu però il siciliano Luigi Capuana (1839-1915).

Le ultime esperienze letterarie del secolo furono quelle del poeta Giovanni Pascoli (1855-1912), che con le raccolte Myricae (1891) e I canti di Castelvecchio (1903) rinnovò profondamente la tradizione della lirica italiana.

Ugo Foscolo Il poeta Ugo Foscolo (1778-1827) fu uno degli esponenti del preromanticismo in Italia. Alla sua produzione appartengono il romanzo epistolare Le ultime lettere di Jacopo Ortis, il carme I Sepolcri, una decina di sonetti e il poema incompiuto Le Grazie.

Alla sera Nel sonetto Alla sera, pubblicato nel 1803, Ugo Foscolo descrive il momento in cui scende il buio e si passa dalla luminosità del giorno alla malinconia dell'oscurità. La sera richiama l'idea della morte, ma porta con sé anche un'atmosfera di quiete e di so-spensione degli affanni.

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Giacomo Leopardi Giacomo Leopardi (1798-1837) è uno dei massimi poeti italiani di tutti i tempi. Fu un talento precocis-simo: a 15 anni aveva già composto opere colte, due tragedie, scritti in prosa e in versi; a 17 tradusse i classici latini e greci.

A vent’anni ebbe una crisi esistenziale, peggiorata dalla scoperta di una malattia agli occhi che lo a-vrebbe tormentato tutta la vita. La crisi esistenziale rafforzò in lui la malinconia e il pessimismo, che stanno alla base della sua poetica.

Tra le sue liriche più famose ricordiamo L'infinito e La sera del dì di festa, A Silvia, Canto notturno di un pastore erran

te dell'Asia e La ginestra. Tra il 1819 e il 1821 Leopardi scrisse cinque piccoli idilli (gli idilli sono componimenti in versi endecasil-labi, cioè di 11 sillabe, sciolti, vale a dire non rimati). Tra questi il più celebre (e il più perfetto) è L'infinito. In questo componimen-to il poeta si immedesima con il battito vuoto della natura e in essa trova finalmente la pace

Alessandro Manzoni Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785 dal conte Pietro Manzoni e da Giulia Beccaria, figlia di Cesare Beccaria. Nel 1795 la madre, separata dal marito, si trasferì a Parigi insieme a Carlo Imbonati. Nel 1805 Manzoni raggiunse la madre a Parigi e compose l'ode In morte di Carlo Imbonati . Nel 1808 sposò Enrichetta Blondel e nel 1810 abbracciò il cattolicesimo. Morì a Milano nel 1873. Le opere maggiori di Alessandro Manzoni sono le odi civili Marzo 1821 e Il cinque mag-gio (composta nel 1821, in occasione della morte di Napoleone), le tragedie Il conte di Carmagno-la (1820) e Adelchi (1822), e soprattutto il romanzo I promessi sposi.

I promessi sposi La stesura dei Promessi sposi occupò Alessandro Manzoni per più di vent'anni. La prima versio-ne, intitolata Fermo e Lucia, fu completata tra il 24 aprile 1821 e il 17 settembre 1823. Negli anni immediatamente successivi Manzoni rielaborò il romanzo, che venne pubblicato in tre volumi tra il 1825 e il 1827 con il titolo I promessi sposi. L'edizione defi-nitiva del romanzo comparve tra il 1840 e il 1842. Uscì a fascicoli; ciascun fascicolo era accompagnato da illustrazioni firmate dal pittore piemontese Francesco Gonin . Qui vediamo la tavola che illustra l'incontro tra Lucia e il cardinale Federico Borromeo.

Giosue’ Carducci (1835-1907) fu poeta e critico letterario. Trascorse gran parte della sua giovinezza in Maremma, una regione che torna spesso

nelle sue poesie. All'interno della sua vasta produzione poetica spiccano le Odi barbare: in questi com-ponimenti Carducci cercò di ricreare la metrica greca e latina in versi italiani. Chiamò le odi "barbare" perché pensava che così le avrebbe definite un greco o un latino che le avesse sentite. Carducci fu il primo italiano a ricevere il premio Nobel per la letteratura (1906).

Giovanni Verga (1840-1922) fu il massimo esponente del verismo. Nacque a Catania, ma per assecondare la sua vocazione letteraria si trasferì prima a Firenze, poi a Milano. In vita non ebbe molto successo e negli ultimi anni tornò in Sicilia, smettendo di scrivere. La sua produzione si può suddividere in tre fasi distinte: i romanzi storico Patriottici; i romanzi mondani; i romanzi veristi. Questi ultimi, ambientati in Sicilia, comprendono i suoi due capolavo-ri: I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo. Giovanni Verga pubblicò I Malavoglia nel 1881. Il ro-manzo è ambientato nel paese siciliano di Aci Trezza e racconta la storia della famiglia dei To-scano, detti "Malavoglia", che, come tutti in paese, vivono dell'attività della pesca. Abitano nella "Casa del nespolo" e hanno una barca chiamata Provvidenza, che dà loro di che vivere. Il nau-fragio della barca con un carico di lupini da vendere è per la famiglia l'inizio di una serie di sven-ture e di lutti: la Casa del nespolo dovrà essere venduta e la famiglia si disgregherà. Solo quan-do tutto sarà stato perduto, il più piccolo dei Malavoglia, Alessi, riuscirà a riacquistare la Casa del nespolo e a ricostruire un piccolo nucleo familiare.

Luigi Capuana (1839-1915) fu il teorico del verismo. Scrisse anche romanzi e racconti, quasi tutti ambientati in Sicilia. Il suo romanzo più famoso è Il marchese di Roccaverdina, del 1901.

Giovanni Pascoli (1855-1912) trascorse gran parte della sua esistenza a Castelvecchio di Barga, in Garfa-gnana (Toscana). Tra le sue raccolte poetiche spiccano: Myricae (1891), che canta la pace della vita in cam-pagna; Canti di Castelvecchio (1904), caratterizzati dalla sperimentazione linguistica; Odi e inni, che contie-ne poesie patriottiche. Nel 1897 pubblicò Il fanciullino, che è il manifesto della sua poetica: per il poeta, in ciascuno di noi c'è un "fanciullino", che rimane tale anche quando cresciamo e diventiamo adulti; questo "fanciullino" continua a guardare al mondo come se vedesse tutto per la prima volta.

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N ei secoli passati, l'abbigliamento alla moda era appannaggio delle sole classi abbienti soprattutto per via del costo dei tessuti e dei coloranti usati, che venivano estratti

dal mondo minerale, animale e vegetale. Prima dell'Otto-cento, l'abito era considerato talmente prezioso che veni-va elencato tra i beni testamentari. I ceti poco abbienti erano soliti indossare solo abiti tagliati rozzamente e, so-prattutto, colorati con tinture poco costose come il grigio. A questi aggiungeva scarpe in panno o legno. Non poten-do permettersi il lusso di acquistare abiti nuovi confezio-nati su misura, tali classi ripiegavano spesso sull' abbiglia-mento usato. Nell' Ottocento la tecnica sartoriale andò affinandosi ren-dendo più agevole indossare il vestito. Dal XIX secolo si iniziano a distinguere i primi stilisti, che creavano nuovi tagli, nuove stoffe e nuovi canoni nel modo di abbigliarsi, con l'adozione di nuovi abiti femmi-nili quali il tailleur inventato alla fine del secolo dall'inglese Re-dfern. Gli stilisti lavoravano solo per l'élite poiché i costi per l'ide-azione e per la produzione erano molto alti. La rivoluzione industriale nata in Inghilterra alla fine del XVIII secolo, creò, nel campo della moda e della tessitura, macchine che permettevano di tessere, tagliare e cucire con rapidità e a basso costo. Tuttavia la moda si avvicinò alla massa solo verso la metà dell' Ottocento, grazie all'invenzione di macchine per tagliare le pezze di tessuto e all'introduzione del telaio meccani-co jaquard. All'inizio tali tecniche furono applicate soprattutto alle

uniformi militari; con la nascita in Francia dei grandi magazzini, i prezzi degli abiti confezionati in serie si abbassarono notevolmente. La moda ottocentesca è espressione del ceto borghese, che dopo la rivoluzione francese conquista il potere politico ed economico in Euro-pa, imponendo i suoi ideali e il suo stile. È soprattutto l'abbigliamento maschile che registra un significativo e radicale mutamento. Un look austero e rigoroso, con tagli semplificati, tessuti di panno robusto, e decorazioni ridotte al minimo, sostituì il frivolo costume barocco; in tal modo vennero evidenziati la serietà del mondo del lavoro, la praticità, la prudenza, il risparmio, l'ordine. Due furono i vestiti informali introdotti: il frac, adottato per andare a caccia e per la vita in campagna, con falde molto arretrate e colletto alto. In seguito diventò l'uniforme del vero gentleman e fu portato di giorno ma soprattutto di sera, per le occasioni eleganti. La redingote era all'inizio una giacca da equitazione, una lunga giubba a due falde e aperta sul dietro che permetteva di stare comoda-

mente in sella. L'evoluzione del costume ottocentesco maschile si tradusse dall'abito stretto del periodo napoleonico a quello largo in uso dopo l’unità d’Italia. Elementi fondanti del guardaroba furono: i pantaloni, il gilet e i soprabiti. I pantaloni lunghi, derivavano dal mondo del lavoro e della marina. Il gilet o panciotto

aveva la funzione di modellare il torace maschile, dandogli la convessità delle antiche armature. La giacca corta, introdotta dopo il 1850 e all'inizio molto criticata per la sua forma a sacco, era caratterizzata dalla brevità e dalla larghezza, ed entrò stabil-mente nel guardaroba come abito diurno e come complemento di indumenti estivi. Riguardo l'abbigliamento femminile, all'inizio del secolo la donna indossa-va un vestiario leggerissimo e trasparente. Il ve- stito femmini-le si evolse nelle sue linee: all'inizio del secolo la sot-tana mostrava la cavi- glia, per poi allun- garsi fino ai piedi nel 1840 al-

largandosi sem- pre più si pro- lungò con lo stra- scico dopo il 1870.

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Poesia - CANTO

CHI PER LA PA-TRIA MUOR……..

Aspra del militar Benchè la vita, al lampo dell’acciar gioia l’invita. Chi per la patria muor Vissuto è assai, la fronda dell’allor non muore mai. Piuttosto che languir Per lunghi affanni, È meglio di morir Sul fior degli anni. Chi muore e dar non sa Di gloria un segno Alle future età Di fama è indegno. (anomimo)

Spiegazione

Benchè la vita del militare è molto difficile, la gioia di combat-tere per la patria lo invita a farlo.

Chi muore per la patria è vissuto molto poiché la corona di alloro, segno di gloria rimane per sem-pre.

Piuttosto che lamentarsi nel corso di una lunga vita è meglio morire giovane (per la patria).

Chi muore e non sa dare un vero segno di gloria e di sacrifi-cio alle generazioni future non è degno di essere ricordato.

Scrivi una lettera immaginando di essere il piccolo Giuseppe Marchetta di 11

anni che è partito, nel 1860 per la spedizione dei mille insieme al padre. Espri-

mi quali potrebbero essere i suoi desideri e le sue paure; inoltre motiva la sua

scelta di partire.

Caro Tiziano,

sto per partire con mio padre da Quarto insieme ad altri mille garibaldini. Desi-

dererei che l’Italia fosse unita, senza stranieri che ci opprimono e finalmente

libera! Ho tanta paura di morire ma vivere questa esperienza, che non si ripete-

rà, sarà favoloso; perciò ho scelto di partire. Mi auguro che anche tu decida di

partire e spero che possiamo incontrarci sul campo di battaglia e che alla fine

di questa guerra possiamo insieme dire che…… c’eravamo anche noi a formare

l’Unità d’Italia.

Il tuo amico

Realizza un volantino, pensando di essere G. Mazzini, per far conoscere le

idee della “Giovine Italia” al popolo italiano.

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