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Basi scientifiche e tecnologiche per la definizione di linee-guida in ambito clinico per le Terapie Locoregionali in Oncologia Luglio 2005

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Basi scientifiche e tecnologiche

per la definizione di linee-guida

in ambito clinico

per le Terapie Locoregionali

in Oncologia

Luglio 2005

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Questo volume è dedicato a Maurizio Vaglini,

fondatore e primo presidente della

Società Italiana di Terapie Integrate Locoregionali

in Oncologia (SITILO)

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PREFAZIONE La Società Italiana di Terapie Integrate Locoregionali in Oncologia (SITILO) è nata nel 1995, fortemente voluta dal dott. Maurizio Vaglini dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano e da altri colleghi che si erano sempre interessati all’applicazione di terapie locoregionali nel trattamento dei tumori. Considerando che nello scenario della comunità scientifica italiana esistono 15 Società di chirurgia ed 8 di oncologia medica, la fondazione di una Società, che ha un campo di attività apparentemente ristretto, potrebbe sembrare superflua. I dati espressi dalla letteratura dimostrano esattamente il contrario. Secondo quanto riportato dall’American Cancer Society Statistics, in America vi sono 813.200 nuovi casi/anno di pazienti che si ammalano di cancro, di questi 385.500 vanno incontro a morte e ben 117.706 muoiono per mancato controllo di una ripresa locale per i tumori dei diversi istotipi (Tabella 1). Tabella 1 Incidenza, mortalità e sede della ripresa del cancro negli

Stati Uniti DECESSI PER RIPRESA

Organo Nuovi Casi

Decessi Totali

Recidive Locali

Recidive Locali +

Metastasi a distanza

Metastasi a distanza

Polmone 157.000 142.000 49.700 49.700 42.600 Colon-retto 155.000 80.900 6.090 14.225 39.585 Mammella 150.900 44.300 6.645 26.580 11.075 Prostata 106.000 3.000 4.500 19.500 6.000 Linfomi 54.800 28.700 5.740 5.740 17.220 Vescica 49.000 9.700 2.910 2.425 4.355 Testa-Collo 42.800 12.100 6.050 3.830 2.420 Esofago-Stomaco 33.800 23.200 6.960 11.600 4.640 Sistema emopoietico 27.800 18.100 7.240 7.240 3.820

Ovaio 20.500 12.400 11.160 620 620 SNC 15.600 11.100 10.711 278 111

Totale 813.200 385.500 117.706 141.738 132.446

American Cancer Society Statistics

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Anche in Italia, sebbene non siano disponibili dati che si riferiscano a tutto il territorio nazionale, l’incidenza e la mortalità per tumore, rilevabili nelle aree dotate di un registro tumori (TO, BI, GE, VA, Nord-Est, Veneto, PR, MO, FE, Romagna, MC, FI-PO, Umbria, LT, NA, SS, RG) sono rilevanti (Tabella 2). Tabella 2 Incidenza e mortalità del cancro in Italia

Organo Nuovi Casi

Decessi Totali

Colon-retto 40.196 18.463

Polmone 38.491 34.314

Mammella 37.483 12.607

Vescica 22.187 5.850

Prostata 21.325 7.270

Testa-Collo 20.015 5.554

Stomaco 19.945 15.071

Linfomi 12.832 5.252

Sistema emopoietico 7.471 5.243

SNC 4.995 3.227

Ovaio 4.867 3.335

Esofago 2.756 2.474

Totale 232.563 118.660

Il cancro in Italia I dati dei registri tumori (1993-1998)

Esiste pertanto una quota non trascurabile di pazienti che, se adeguatamente trattati con terapie locoregionali efficaci, potrebbe essere potenzialmente guarita o comunque ottenere un miglioramento della qualità di vita. Basti pensare ai pazienti portatori di neoplasie avanzate

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degli arti, in cui la perfusione ipertermico-antiblastica riesce ad ottenere un salvataggio dell’arto in circa l’80% dei casi. In considerazione di quanto esposto, la SITILO si è prefissata precisi scopi: - ricerca integrata di base e clinica multidisciplinare; - standardizzazione delle tecniche; - elaborazione di protocolli clinici; - individuazione dei pazienti che realmente beneficiano dei trattamenti

locoregionali, in termini di controllo locale di malattia e di sopravvivenza.

Le terapie locoregionali si avvalgono di tecniche complesse come la perfusione ipertermico-antiblastica, lo stop-flow, la peritonectomia associata alla perfusione ipertermico-antiblastica intraperitoneale, l’infusione endoarteriosa, PEI, termoablazione, chemioembolizzazione per lesioni epatiche, ed altro. Queste metodiche richiedono una conoscenza approfondita di tutte le problematiche della circolazione extracorporea, delle interazioni tra farmaci e calore e/o ipossia, del management intra e post-operatorio del malato sottoposto a trattamenti molto impegnativi. La nostra società ha elaborato degli studi di fase I-II che hanno permesso di standardizzare le tecniche, di stabilire dei rigidi criteri di elegibilità dei pazienti e di ottimizzare le terapie stabilendo il timing e la sequenza dei trattamenti (chemioterapia regionale, chirurgia, radioterapia, chemioterapia sistemica). Tutto ciò rappresenta un enorme patrimonio che la SITILO mette a disposizione di tutti coloro che vogliono cimentarsi con tecniche innovative. La nostra Società ha sentito quindi l’esigenza di elaborare le basi scientifiche e tecnologiche necessarie per la formulazione di Linee guida per i trattamenti locoregionali, con due scopi principali: - ridurre al minimo le complicanze in pazienti che vengono sottoposti

a trattamenti integrati complessi; - garantire la massima efficacia dei trattamenti locoregionali,

attraverso la loro corretta applicazione. Ovviamente tutto ciò che è riportato in questo elaborato è frutto dell’esperienza di una applicazione clinica, che può orientare tutti i Colleghi che vogliono intraprendere la via dei trattamenti integrati locoregionali. Il passaggio dalla teoria all’applicazione pratica non può prescindere da un periodo di “apprendistato” in Centri di riferimento. E’ per questo

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motivo che la SITILO è lieta di accogliere la richiesta di chiunque, mettendo a disposizione i propri Centri. Coordinatori Coordinatore dell’Iniziativa Progetti Strategici Oncologia CNR-MIUR

Prof. Pier Paolo Cagol Prof.ssa Rosella Silvestrini Prof. Franco Di Filippo

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Basi scientifiche e tecnologiche per la definizione di linee-guida in ambito clinico

per le Terapie Locoregionali in Oncologia

Coordinatori Pier Paolo CAGOL, Udine Franco DI FILIPPO, Roma Rosella SILVESTRINI, Milano Gruppo di Studio Eduard BERCOVICH, Forlì Maurizio CANTORE, Massa Carrara Francesco CAVALIERE, Roma Maurizio COSIMELLI, Roma Marcello DERACO, Milano Michele DE SIMONE, Torino Gaetano FINOCCHIARO, Milano Gianmaria FIORENTINI, Empoli Rita GOLFIERI, Bologna Stefano GUADAGNI, Aquila Giovanni PAGANELLI, Milano Pierluigi PILATI, Padova Carlo R. ROSSI, Padova Nadia ZAFFARONI, Milano Si ringraziano le dott.sse Paola Persici e Raffaella P. Ferrari per l’importante contributo scientifico, organizzativo ed editoriale. Hanno inoltre collaborato all’elaborazione del documento i dottori: Mirco Bartolomei, Mahila Ferrari, Roberta Gunelli, Carlo Vivacqua. Questo volume sarà inserito nel sito www.progettooncologia.cnr.it, realizzato dai "Servizi Tecnologici" dell'Istituto di Informatica e Telematica del CNR (http://www.iit.cnr.it/), che già raccoglie i volumi precedenti di questa collana

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INDICE

1.0 Aspetti di base 9 2.0 Tecnologie complesse 19 2.1 Perfusione isolata di arto 2.2 Stop-flow 2.3 Chemio Ipertermia Intra Peritoneale (CIIP) 2.4 Perfusione ipertermico-antiblastica isolata di fegato 3.0 Altre tecnologie 83 3.1 Infusione intra-arteriosa 3.2 PEI, Termoablazione, Chemio-embolizzazione 4.0 Terapie farmacologiche: il carcinoma della vescica 131 5.0 Terapie biologiche: i tumori del sistema nervoso centrale 145 6.0 Terapia genica e cellulare: i tumori del sistema nervoso 167

centrale

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1.0 ASPETTI DI BASE Razionale farmacologico e biologico di interazione tra terapie chimiche e fisiche Studi sperimentali hanno aiutato i clinici a trasformare caratteristiche fisiologiche avverse del tumore, quale la presenza di ipossia, in un vantaggio terapeutico. Infatti, la conoscenza dei meccanismi molecolari e biochimici legati alla condizione tumorale ipossica ha permesso di definire ed utilizzare con successo nella pratica clinica una categoria di farmaci che necessitano di selettiva attivazione in condizioni ipossiche per espletare la loro attività citotossica e che pertanto possono essere utilizzate in terapie locoregionali di tumori naturalmente ipossici o dove venga artificialmente ottenuta con appropriate tecniche una condizione di ipossia. In oncologia, il termine ipertermia si riferisce al trattamento di patologie neoplastiche con calore somministrato con modalità diverse. L’ipertermia è generalmente applicata al paziente in combinazione con altre modalità terapeutiche. Studi clinici hanno dimostrato un aumento nel controllo locale e nella sopravvivenza in seguito al trattamento locoregionale con ipertermia associata a radioterapia in pazienti con tumori superficiali localmente avanzati o ricorrenti o con tumori pelvici. Inoltre, la perfusione ipertermico-antiblastica è correntemente utilizzata nella pratica clinica, dove ha fornito significativi risultati nel trattamento locoregionale di specifiche patologie. Studi preclinici hanno permesso la comprensione degli effetti molecolari dell’ipertermia e delle basi meccanicistiche del potenziamento degli effetti della chemioterapia contribuendo così al disegno razionale di nuove strategie terapeutiche di combinazione. Ipossia

Effetti molecolari A causa dello scarso ed anormale sviluppo vascolare, la maggior parte dei tumori solidi presenta livelli mediani di pO2 inferiori a quelli del tessuto d’origine; inoltre, le aree ipossiche sono caratterizzate da bassi livelli di pH e glucosio. Il microambiente ipossico presente nei tumori solidi influenza non solo le cellule tumorali, ma anche le cellule stromali

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non-neoplastiche, quali macrofagi e fibroblasti e conferisce al tumore una maggior aggressività ed un aumentato potenziale metastatico (Hochel et al., 1996). Tale effetto sembra essere dovuto alla sovraespressione, in ambiente ipossico, di prodotti genici che possono promuovere la progressione tumorale permettendo alle cellule di adattarsi alla privazione di nutrimento e di sfuggire ad un ambiente ostile. In condizioni di ipossia, si osserva infatti un aumento dell’espressione di uPAR (urokinase-type plasminogen activator receptor) e del fattore autocrino di motilità AMF in grado di facilitare il distacco delle cellule tumorali, la loro migrazione e il loro potenziale invasivo (Niizeki et al., 2002; Rofstad et al., 2002). L’ambiente ipossico è in grado di selezionare l’espressione di cellule che hanno acquisito mutazioni nel gene p53, perdendo in tal modo il loro potenziale apoptotico e acquisendo un vantaggio di crescita. Inoltre, attraverso la stabilizzazione del fattore di trascrizione HIF1α (hypoxia inducible factor 1α), l’ipossia determina un aumento nell’espressione di proteine legate all’angiogenesi, quali VEGF (vascular endotelial growth factor) e il suo recettore VEGFR, al metabolismo glicolitico e all’adattamento allo stress ossidativo (Maxwell et al., 1997). L’ipossia fornisce alle cellule tumorali un microambiente che facilita la radio- e la chemio-resistenza. Infatti, da oltre 50 anni è noto che le cellule tumorali ipossiche sono nettamente più resistenti delle cellule normo-ossigenate alle radiazioni ionizzanti. La base molecolare di tale resistenza risiede nel fatto che, mentre in condizioni di normossia l’ossigeno reagisce con i radicali prodotti nel DNA dalle radiazioni ionizzanti fissando il danno in maniera permanente, in assenza di ossigeno la maggior parte di tali radicali viene riconvertita in una forma non danneggiata, in seguito alla donazione di idrogeno da parte di gruppi sulfidrilici non proteici presenti nella cellula. Numerosi studi condotti in pazienti con sarcomi delle parti molli e carcinomi della cervice uterina hanno infatti dimostrato che la presenza di regioni ipossiche nella massa tumorale influenza in maniera avversa il controllo locoregionale della malattia e l’intervallo libero dopo radioterapia primaria. La carenza di ossigeno influenza significativamente anche la risposta delle cellule tumorali al trattamento ipertemico. Sulla base dei risultati di sperimentazioni in modelli preclinici (Teicher et al., 1990) è stata proposta una classificazione dei farmaci antitumorali in tre gruppi, in funzione della loro suscettibilità a pO2: i) preferenzialmente tossici in condizioni aerobiche (bleomicina, procarbazina, actinomicina D, vincristina e melphalan); ii) preferenzialmente tossici in condizioni

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ipossiche (mitomicina C e adriamicina); iii) caratterizzati da assenza di tossicità preferenziale in funzione del livello di ossigenazione (cisplatino, 5-fluorouracile, methotrexate). L’induzione di farmaco-resistenza in condizioni ipossiche può essere parzialmente spiegata dal fatto che molte cellule ipossiche sono arrestate nella fase G1 del ciclo cellulare, mentre la maggior parte dei farmaci antitumorali agisce preferenzialmente su cellule attivamente proliferanti. Comunque, esistono altre potenziali cause responsabili della chemio-resistenza indotta da ipossia legate all’amplificazione di particolari geni, quali la deidrofolato reduttasi, che conferisce resistenza agli antimetaboliti o all’induzione di proteine da stress responsabili della resistenza a farmaci inibitori delle DNA topoisomerasi, quali etoposide e camptotecina (Tomida et al., 1999). Farmaci bioriducenti Le strategie finora adottate per superare la resistenza delle cellule ipossiche ai trattamenti si sono basate: i) sul miglioramento dell’ossigenazione a livello tumorale, utilizzando ossigeno iperbarico o farmaci ossigeno-mimetici; ii) sull’utilizzo di farmaci bioriducenti con selettività specifica per le cellule ipossiche. Per quanto concerne i farmaci-ossigeno mimetici, il presupposto per il loro utilizzo si basa sul fatto che essi possono diffondere al di fuori dei vasi sanguigni e, non essendo metabolizzati durante la respirazione cellulare, raggiungere le aree ipossiche del tumore e produrre un effetto di radiosensibilizzazione, mimando l’effetto dell’ossigeno (Hoskin et al., 1999). Farmaci di questa categoria comprendono il 2-nitroimidazolo, misonidazolo, che è stato abbandonato in clinica a causa dell’elevata neurotossicità, e il 5-nitroimidazolo, nimorazolo, che ha dimostrato la capacità di migliorare l’effetto terapeutico delle radiazioni ionizzanti in alcuni tumori del cavo orale, a fronte di una modesta tossicità. Al fine di superare l’ipossia sia cronica che transiente nei tumori, è stata inoltre utilizzata la combinazione di carbogen (una miscela costituita da 95% O2 e 5% CO2) con il derivato della vitamina B, nicotinamide, in combinazione con radioterapia standard o accelerata. Studi clinici di fase I-III hanno dimostrato la fattibilità e la parziale efficacia del trattamento in casistiche di pazienti con carcinomi della vescica e del cavo orale, anche se limitazioni nell’utilizzo clinico di tale strategia erano associate alla tossicità gastro-intestinale della nicotinamide (Bernier et al., 2000). L’ipossia tumorale rappresenta una condizione unica, che può essere sfruttata per trattamenti selettivi basati sull’uso di farmaci bioriducenti

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(Brown et al., 1998a; Greco et al., 2003). Tali pro-farmaci necessitano di attivazione metabolica per generare specie tossiche dotate di attività antitumorale. Gli enzimi coinvolti sono NADPH: citocromo P-450 reduttasi, xantina ossidasi e NADH: citocromo b5 reduttasi, DT-diaforasi e xantina deidrogenasi. Tale attivazione avviene preferenzialmente nella cellula tumorale ipossica in cui è prodotto il set appropriato di reduttasi. L’antibiotico antitumorale chinonico mitomicina C è considerato il prototipo dei farmaci bioriducenti. In particolare, tale farmaco risulta essere più attivo, a parità di dose, in cellule ipossiche rispetto a cellule normo-ossigenate, con un potenziamento da 3 a 10 volte, in funzione del tipo di cellula tumorale e del livello di ipossia. Studi sperimentali e clinici hanno dimostrato l’efficacia di tale farmaco sia in condizioni di ipossia spontanea che in seguito alla generazione artificiale di condizioni ipossiche in trattamenti locoregionali di chemio-embolizzazione, perfusione ipossica e perfusione con la tecnica dello stop-flow. Sulla base delle conoscenze del processo di bioriduzione di mitomicina C sono stati generati una serie di analoghi chinonici, quale l’indolochinone EO9, che si è però rivelato clinicamente poco efficace a dispetto dei brillanti risultati ottenuti con tale composto in modelli preclinici in vitro e in vivo. Un’altra classe di agenti bioriducenti è rappresentata dai composti nitroaromatici (RB6145 e altri composti aromatici in grado di danneggiare il DNA). Più recentemente è stata proposta una nuova citotossina bioriducente, nominata tirapazamina, che presenta una tossicità 100-300 volte superiore per le cellule ipossiche rispetto a quelle normo-ossigenate. Il meccanismo alla base di tale tossicità preferenziale per le cellule ipossiche è il risultato di una riduzione enzimatica che aggiunge un elettrone alla molecola di tirapazamina, generando un radicale altamente reattivo. Tale radicale è il responsabile dell’effetto citotossico di tirapazamina attraverso la produzione di danni al DNA e conseguenti aberrazioni cromosomiche (Brown et al., 1998b). Studi recenti indicano inoltre, che tirapazamina agisce in condizioni ipossiche come veleno dell’enzima DNA topoisomerasi II (Peters et al., 2002) e che la sua attività citotossica è indipendente dallo stato del gene p53 nella cellula tumorale. Inoltre, è stato dimostrato che tirapazamina produce un potenziamento specifico dell’effetto delle radiazioni ionizzanti e di farmaci danneggianti il DNA come il cisplatino. Clinicamente, la combinazione di tirapazamina, cisplatino e radioterapia ha dimostrato un livello accettabile di tossicità e ha prodotto risposte

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cliniche durevole in pazienti con carcinomi avanzati della testa e collo (Rischin et al., 2001). Prospettive future Come precedentemente menzionato, l’ipossia è in grado di stabilizzare e conseguentemente aumentare il livello di espressione intracellulare del fattore di trascrizione HIF-1α. E’ ora noto che per promuovere la trascrizione di specifici geni, HIF-1α si lega ad una sequenza enhancer chiamata HRE (hypoxia regulatory element) presente nel promotore di specifici geni. La conoscenza di tali meccanismi molecolari ha portato al disegno di approcci di terapia genica ipossia-regolati (Binley et al., 2003). Nel primo di tali tentativi, la sequenza murina HRE è stata inserita nel promotore umano 9-27 per regolare l’espressione del gene della citosina deaminasi (CD), un enzima in grado di convertire il pro-farmaco 5-fluorocitosina (5-FC) nel suo metabolita citotossico. Cellule di fibrosarcoma umano HT1080 transfettate con il costrutto HRE-CD risultavano circa 6 volte più sensibili al 5-FC in condizioni ipossiche che in normossia. Tale esempio costituisce il primo tentativo di GDEPT (gene-directed enzyme/prodrug therapy) regolata dall’ipossia e quindi mirata alla selettiva eliminazione delle cellule tumorali ipossiche, risparmiando le cellule normali normo-ossigenate (Shibata et al., 2002). Negli ultimi anni, una serie di differenti costrutti sono stati ingegnerizzati al fine di ottimizzare l’espressione ipossia-mediata del transgene in approcci di terapia genica. Inoltre, con il fine ultimo di migliorare il trasferimento dei geni al tessuto tumorale di interesse, i ricercatori si stanno attivamente dedicando all’ottimizzazione dei vettori per terapia genica utilizzando non solo retro- ed adenovirus, ma anche differenti modalità terapeutiche basate sull’impiego di batteri e macrofagi che potrebbero superare limitazioni legate allo scarso trasferimento genico e alla tossicità nel paziente (Liu et al., 2002). Ipertermia

Effetti molecolari A partire dagli anni ‘60, numerosi studi hanno dimostrato che l’esposizione alle elevate temperature (da 41°C a 47°C) è in grado di determinare la morte delle cellule tumorali in maniera temperatura-dipendente. La curva di sopravvivenza cellulare al trattamento ipertermico in funzione del tempo di esposizione mostra una tipica “spalla” che riflette un processo di morte cellulare bifasico. Tale

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processo è caratterizzato da un arresto lineare della crescita all’inizio dell’esposizione al calore (indicativo di un effetto sub-letale e reversibile), seguito da una fase esponenziale di morte cellulare. Notevoli differenze nella risposta al trattamento ipertermico e, in particolare, nella dose termica necessaria per ottenere un dato effetto citotossico sono state osservate nei diversi modelli sperimentali, attribuibili sia alle diverse condizioni sperimentali che alle caratteristiche intrinseche delle specifiche linee cellulari tumorali studiate. Studi condotti su cellule tumorali sincronizzate hanno dimostrato che le fasi più sensibili al trattamento ipertermico sono la mitosi e la fase di sintesi del DNA. Tali osservazioni hanno trovato riscontro anche in uno studio condotto su colture primarie di melanoma ottenute direttamente da prelievi bioptici, in cui il valore mediano di indice di proliferazione con timidina tritiata osservato nelle colture termosensibili era quattro volte superiore a quello delle colture termoresistenti. Il fenomeno delle termotolleranza, che si traduce in una drastica riduzione delle suscettibilità delle cellule al trattamento ipertermico, è stato osservato in cellule tumorali maligne riportate ad una temperatura di 37˚C tra due trattamenti ipertermici (> 43˚C) (Li et al., 1995). Tale fenomeno è parzialmente legato alla capacità delle cellule di produrre una risposta da stress inducendo l’espressione di proteine da shock termico (HSP) e operando altri processi di adattamento post-trascrizionale, quali l’arresto delle cellule nella fase G2 e variazioni nel metabolismo cellulare. Studi condotti su linee cellulari tumorali di diverso istotipo non hanno trovato alcuna correlazione tra i livelli costitutivi di HSP90 o HSP72/73 e termoresponsività. Per contro, i risultati suggerirebbero che un basso livello basale di HSP27 potrebbe contribuire alla sensibilità al calore (Richards et al., 1995). Numerosi studi hanno dimostrato che il trattamento ipertermico determina modificazioni nella membrana cellulare consistenti in alterazioni nella fluidità e stabilità, alterazioni nel potenziale elettrico e nel trasporto transmembrana, accompagnato da una modulazione dell’attività delle pompe transmembrana (MDR1, ecc). Il trattamento ipertermico esercita, inoltre, una diretta interferenza con il metabolismo degli acidi nucleici, inducendo inibizione nella sintesi di DNA ed RNA, alterazioni nella conformazione del DNA ed inibizione dell’attività di enzimi di riparazione del DNA (Dahm-Daphi et al., 1997). Alterazioni nella sintesi proteica sono state inoltre osservate in cellule sottoposte a trattamento ipertermico, accompagnate a denaturazione proteica,

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aggregazione di proteine alla matrice nucleare e induzione della sintesi di HSP. Ipertermia e chemioterapia Numerosi studi sperimentali hanno chiaramente dimostrato che l’ipertermia è in grado di potenziare l’attività citotossica di farmaci antitumorali a diverso meccanismo d’azione. L’entità di questa chemiosensibilizzazione termica viene valutata come rapporto tra l’effetto citotossico di un determinato farmaco ad una determinata concentrazione in condizioni ipertermiche e in condizioni normali di temperatura. Il tipo di interazione tra il calore e i farmaci è stato classificato in termini di: i) effetto “additivo/sopra-additivo”, quando si osserva un incremento lineare dell’attività citotossica del farmaco all’aumentare della temperatura (da 40,5°C a 43°C). Tale effetto si osserva con agenti alchilanti bifunzionali (melphalan, ciclofosfamide e ifosfamide) e composti del platino (cisplatino, oxaliplatino); ii) effetto “soglia”, quando non si osserva potenziamento dell’attività citotossica del farmaco al di sotto di una determinata temperatura (> 42°-43˚C). Tale effetto si osserva con antibiotici antitumorali come l’adriamicina; iii) “indipendenza”, quando l’attività citotossica del farmaco non risulta significativamente influenzata dal variare della temperatura. Tale effetto si osserva per alcuni antimetaboliti (5-fluorouracile), alcaloidi della vinca e taxani (Hildebrandt et al., 2002). I dati attualmente disponibili indicano che i migliori effetti di chemosensibilizzazione termica per la maggior parte degli antitumorali studiati si ottengono quando il calore e il farmaco vengono somministrati simultaneamente o con un breve intervallo intercorrente, anche se sono presenti delle eccezioni legate fondamentalmente al meccanismo d’attivazione del farmaco. Il potenziamento termico dell’attività di farmaci antiblastici si basa su modificazioni indotte dal calore nella farmacodinamica e farmacocinetica del composto, rilevanti per il suo effetto antitumorale. Ad esempio, per il melphalan, uno dei farmaci più largamente utilizzati in studi di termo-chemioterapia sperimentale e clinica, sono stati proposti diversi meccanismi putativi di potenziamento ipertermico includenti l’aumento della concentrazione intracellulare di farmaco, l’alterazione della struttura quaternaria del DNA in modo da favorire il processo di alchilazione, l’interferenza con il metabolismo degli addotti farmaco-DNA e l’inibizione del loro riparo e la stabilizzazione da parte del calore delle perturbazioni indotte dal farmaco nella progressione delle cellule nel ciclo cellulare (Zaffaroni et al., 1992). Per quanto

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riguarda il cisplatino, è stato dimostrato che l’aumento dell’effetto citotossico di questo composto e del suo analogo oxaliplatino in condizioni ipertermiche è conseguente ad un’aumentata formazione di addotti letali platino-DNA (Hettinga et al., 1997; Atallah et al., 2004). Poiché è stato osservato che l’ipertermia moderata (< 42˚C) in vivo è in grado di aumentare il flusso sanguigno tumorale, tale effetto potrebbe contribuire ad incrementare il trasferimento dei farmaci al tessuto tumorale e quindi a migliorarne l’effetto terapeutico. Prospettive future Nonostante gli studi sperimentali abbiano contribuito a chiarire i meccanismi molecolari dell’ipertermia e le basi meccanicistiche del potenziamento termico di alcuni farmaci convenzionali, nuovi studi biologici sono ora necessari per determinare l’attività di composti antitumorali di recente proposizione in condizioni ipertermiche e fornire le basi razionali per il disegno di nuovi protocolli di termo-chemioterapia. Applicazioni future dell’ipertermia sono attualmente in fase di studio nei settori della terapia genica, con particolare riferimento alla generazione di vettori di espressione, in cui il gene terapeutico viene posto sotto il controllo del promotore delle HSP e della farmacologia, attraverso l’impiego di liposomi, in grado di rilasciare il farmaco in maniera temperatura-dipendente. Bibliografia

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2.0 TECNOLOGIE COMPLESSE 2.1 Perfusione isolata di arto Principi della metodologia

L’idea di utilizzare la circolazione extracorporea regionale nel trattamento di alcuni tumori degli arti è stata realizzata nel 1957 da Creech e Krementz, i quali nel 1958 pubblicavano la loro esperienza preliminare concernente l’impiego della perfusione allo scopo di veicolare all’interno di arti affetti da neoplasie localmente avanzate dosi elevate (da 5 a 10 volte la massima dose sistemica) di farmaci antiblastici senza provocare tossicità sistemiche rilevanti (Creech et al., 1958). Questo intervento veniva effettuato in normotermia. In quegli anni era stata condotta a Roma, presso l’Istituto Regina Elena per lo Studio e la Cura dei Tumori e l’Istituto di Chimica Biologica dell’Università “La Sapienza” (Cavaliere et al., 1967), tutta una serie di ricerche biochimiche e sperimentali che, partendo da sporadiche osservazioni presenti in letteratura fin dal 1866 (Busch et al., 1866), avevano dimostrato una sensibilità selettiva al calore delle cellule di tumori sperimentali ed umani sopravviventi in coltura. Al momento di trasferire nella pratica clinica queste acquisizioni è apparso del tutto logico impiegare la perfusione, già “collaudata” dai citati Autori statunitensi, opportunamente modificata mediante l’introduzione nel circuito di uno scambiatore di calore, per trasferire ipertermia, anziché farmaci antiblastici, in seno agli arti affetti da tumori non più suscettibili di exeresi conservativa. Scelta razionale perché consentiva ancora di ricorrere alla demolizione qualora la perfusione non si fosse dimostrata efficace o nel caso in cui la perfusione stessa avesse irreparabilmente danneggiato l’arto. Esperienze preliminari condotte su tumori sperimentali del ratto e spontanei del cane esposti per mezzo della perfusione a temperature sopranormali, tra 42° e 42,5°C, confermavano l’azione selettivamente lesiva sulle cellule neoplastiche, non più in grado di riparare il danno subletale prodotto dalle temperature sopranormali, capacità evidentemente conservata dai tessuti normali a livello dei quali non si riscontravano danni irreparabili. I primi risultati clinici resi noti (Cavaliere et al., 1967) dimostravano anche sull’uomo l’azione terapeutica dell’ipertermia e la selettività

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dell’azione stessa, ma con una significativa incidenza di complicanze post-perfusionali che rendevano poco indicata la tecnica nei casi non destinati all’amputazione. Ciò era dovuto in parte all’inadeguatezza dei mezzi disponibili (pompa digitata, scambiatore di calore non adeguato, sistemi di rilievo delle temperature insufficienti, eccessiva termodispersione) ed in parte all’imperfetta conoscenza degli aspetti fisiopatologici dell’ipertermia (reazione sistemica all’aggressione ipertermica regionale, riassorbimento dei prodotti di disgregazione del tumore). Con il progredire delle acquisizioni tecniche e delle conoscenze si perveniva successivamente ad una soddisfacente standardizzazione del trattamento ed all’ampliamento delle indicazioni. Negli anni immediatamente successivi si giungeva però (Stehlin et al., 1969) alla definitiva formulazione della tecnica, con l’aggiunta di farmaci antiblastici nel circuito perfusionale e la contemporanea diminuzione, per intensità e tempo di esposizione, dell’ipertermia. E’ questa la perfusione ipertermica o ipertermico-antiblastica impiegata oggi nel trattamento di alcuni tumori degli arti, con alcune variazioni, nelle diverse Istituzioni, concernenti prevalentemente i farmaci utilizzati e le temperature applicate. Queste ultime variano dalla normotermia (37°-38°C) con il 41% di risposte complete (RC) ed il 24% di risposte parziali (RP) ed una durata mediana del controllo locale di malattia di 6 mesi (Klaase et al., 1994), all’ipertermia moderata (39°-40°C) con un aumento della percentuale di RC, ma senza variazioni della durata del controllo locale (Rosin et al., 1980; Lejeune et al., 1983; Lienard et al., 1999), all’ipertermia vera. Ma su quest’ultimo termine è necessario intendersi con estrema chiarezza. Infatti, col termine di ipertermia vera, in accordo con la recente interpretazione di Eggermont e collaboratori (2003) si dovrebbe catalogare una temperatura oscillante tra 41° e 43°C. Ma è invero poco proponibile una perfusione condotta al di sopra dei 42°C, qualora si faccia ricorso alla contemporanea somministrazione di antiblastici, perché il potenziamento delle rispettive azioni si estrinseca anche a livello di tossicità locoregionale oltre che in senso terapeutico. Anche per questo, la temperatura ideale da mantenere a livello dell’arto nel corso della perfusione, per ottenere il massimo vantaggio terapeutico, dovrebbe oscillare tra 41° e 41,8°C, che rientra a pieno titolo entro i limiti dell’ipertermia vera. Questa temperatura, nei melanomi in fase di diffusione locoregionale, si è dimostrata in grado di produrre un significativo incremento delle RC, che correlano con il controllo locoregionale della malattia e con la sopravvivenza libera da malattia e globale (Di Filippo et al., 1989). In realtà, si tratta di livelli

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termici nei quali si realizzano le complesse interazioni tra ipertermia e farmaci antiblastici, per cui all’azione diretta del calore su alcuni componenti della cellula neoplastica e su talune funzioni di essa (membrane, citoscheletro, liposomi, respirazione, DNA, RNA, sintesi proteica ecc.), si sovrappone un’azione indiretta perché l’ipertermia aumenta l’uptake del farmaco ed impedisce la formazione di complessi farmaco-proteine, aumentandone l’effettiva disponibilità terapeutica, mentre al tempo stesso taluni farmaci eliminano i fenomeni di termoresistenza espressa da cloni cellulari neoplastici e riducono l’energia di attivazione necessaria per l’effetto ipertermico. Ovviamente non tutti i farmaci si comportano in maniera identica, ma molti di essi sono in grado di produrre un effetto sinergistico quando associati all’ipertermia (Hahn et al., 1975) con il timing e le sequenze descritte nel paragrafo seguente. Un ulteriore successo della perfusione isolata di arto si è registrato con la realizzazione della perfusione trimodale, che prevede l’utilizzazione, in associazione all’ipertermia ed ai farmaci antiblastici, dello human recombinant tumor necrosis factor alfa (TNFα). La sua azione si estrinseca per citotossicità diretta sulle cellule neoplastiche, sinergistica con l’ipertermia e con alcuni antiblastici, primo fra tutti il melphalan, per tossicità a carico dell’endotelio vascolare dei tumori, anch’essa incrementata dalle citate associazioni terapeutiche e per attivazione della risposta immune, specifica e non, come sembra dimostrato da evidenze sperimentali. Le prime esperienze con la perfusione trimodale, che prevedeva anche l’associazione dell’interferon γ, nella pratica clinica sono state rese note nel 1992 (Lienard et al., 1992). Peraltro l’impiego del TNFα in perfusione isolata ha consentito di ovviare alla notevole tossicità dalla sostanza che ne limita le possibilità di utilizzazione per via sistemica. Negli anni successivi è stato messo in evidenza con uno studio randomizzato di fase II che l’aggiunta dell’interferon γ nella perfusione trimodale non migliora, se non marginalmente, l’effetto antineoplastico, per cui il suo impiego è stato pressoché abbandonato (Lienard et al., 1999). E soprattutto è stato dimostrato che l’azione del TNFα non è dose-dipendente, in quanto si manifesta in misura uguale con 1 mg o con 3-4 mg di dose totale, con gli intuitivi vantaggi che i dosaggi più bassi consentono a livello di tossicità (Di Filippo et al., 1996; Rossi et al., 1999). I risultati più che evidenti ottenuti in quegli anni impiegando la perfusione trimodale in uno studio multicentrico condotto su 246

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pazienti affetti da sarcomi dei tessuti molli non resecabili degli arti hanno ottenuto che nel 1998 il TNFα venisse approvato e registrato in Europa proprio per il trattamento perfusionale dei sarcomi (Eggermont et al., 1999).

Tecnica

Il paziente è sempre in anestesia generale. Per gli arti superiori la posizione è supina con arto abdotto, avambraccio semiflesso in posizione intermedia tra pronazione e supinazione. Il moncone della spalla deve restare leggermente discosto dal piano del tavolo operatorio. L’incisione è lunga 6-7 cm, parte dal punto di mezzo della clavicola e si prolunga in basso ed all’esterno lungo il solco deltoideo pettorale. Si approfondisce l’incisione, che risparmia la vena cefalica, si divarica il muscolo grande pettorale previo distacco delle sue inserzioni clavicolari e sternali alte, si seziona il tendine del piccolo pettorale e si preparano arteria e vena ascellare nella I e II porzione. Si effettua ove indicato, anche alla luce di esami istologici estemporanei, la linfectomia ascellare con tecnica usuale, si legano in continuità e spesso temporaneamente i vasi toraco-dorsali e mammari per ridurre al minimo il leakage tra circuito di perfusione e circolazione sistemica. Il paziente viene eparinizzato (200 UI/Kg) e dopo 2-3 minuti il flusso nei vasi ascellari viene bloccato con fettucce di garza vaselinata e, previa incisione trasversale dell’arteria e della vena, vengono inserite le cannule il cui diametro varia a seconda del diametro dei vasi. Le due sonde si raccordano quindi col circuito extracorporeo (Figura 1), composto da una pompa, un ossigenatore ed uno scambiatore di calore, previamente riempito con Ringer lattato, che serve a diluire, a circuito ancora fermo, il sangue che si lascia defluire dalla cannula venosa. La circolazione extracorporea ha inizio con un flusso minimo (30 ml/L di volume dell’arto) che viene gradualmente aumentato fino a raggiungere l’equilibrio con il ritorno venoso che deve assicurare un livello costante nell’ossigenatore. Si applica alla radice dell’arto un tourniquet, mantenuto in posizione da un chiodo di Steinman infisso nel ventre del muscolo trapezio, con lo scopo di ridurre al minimo il leakage dei farmaci o di prodotti di disgregazione del tumore nella circolazione sistemica, leakage che viene costantemente monitorato mediante un’iniezione di sieroalbumina umana radiomarcata nel circuito di perfusione e rilevazione della radioattività sistemica con count detector fissato in corrispondenza dell’aia cardiaca, all’estremità distale del corpo sternale.

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Figura 1 Schema di perfusione isolata d’arto

Si predispone il monitoraggio delle temperature per mezzo di termocoppie inserite in corrispondenza del circuito arterioso, della cute e dei muscoli dell’arto, e nello spessore delle localizzazioni neoplastiche, tutte debitamente collegate ad un lettore poligrafico automatico, si aumenta la temperatura nel circuito fino a 42,5°C e, con valori di 41°-41,5°C nell’arto perfuso, si riduce a 42°C la temperatura del circuito e si iniettano nella linea arteriosa i farmaci antiblastici. E’ di grande importanza monitorare l’ECG, la pressione venosa centrale (PVC), le temperature, i flussi di perfusione e la diuresi, oltre al leakage come già accennato. Per tutta la durata del trattamento l’arto perfuso rimane avvolto in un “lenzuoletto” nel quale circola acqua termostatata, con il duplice scopo di evitare fenomeni di termodispersione e di agevolare il riscaldamento di eventuali noduli cutanei, ad esempio di melanoma. Al termine della perfusione il circuito si “lava” con soluzione fisiologica e poi con destrano a basso peso molecolare prima di rimuovere il tourniquet e le cannule vascolari e di procedere, previa verifica dei flussi, alla chiusura delle incisioni venosa ed arteriosa con sutura

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continua in polipropilene, rispettivamente 00000 e 0000. Si neutralizza l’eventuale eccesso di eparina mediante somministrazione sistemica di portamina solfato, si posiziona un drenaggio ad uscita indipendente in aspirazione, si sutura il muscolo grande pettorale con la sua aponeurosi mentre resta sezionato il tendine del piccolo pettorale, e si chiudono come di consueto i piani tegumentali. Per tutta la durata dell’intervento, e poi nei giorni successivi, il paziente viene mantenuto a diuresi forzata mediante infusione di una soluzione di mannitolo 18% con alcalinizzazione delle urine e con il necessario supporto idroelettrolitico al fine di evitare il rischio di insufficienza renale provocata dall’eventuale precipitazione di ematina acida nei tubuli, dovuta all’aumento di mioglobina circolante prodotta per effetto della perfusione. Per l’arto inferiore tutto si svolge in maniera sovrapponibile. Cambia naturalmente l’approccio chirurgico: il paziente è in posizione supina con il bacino leggermente rialzato per consentire l’agevole sistemazione del tourniquet, che viene trattenuto in situ grazie ad un chiodo di Steinman infisso nella spina iliaca antero-superiore. L’incisione è iliaca, omolaterale all’arto da perfondere, e parte 1 cm a monte della spina iliaca antero-superiore per arrivare, con lieve concavità supero-mediale, in corrispondenza del tubercolo del pube. Si approfondisce l’incisione sezionando i muscoli piccolo obliquo e traverso e si scolla il sacco peritoneale, al quale deve restare adeso l’uretere, fino ad esporre i vasi iliaci comuni, interni ed esterni, procedendo alla legatura dei vasi epigastrici inferiori e circonflessi iliaci superficiali e profondi. Nel corso di queste manovre si effettua, qualora si tratti di melanoma, la linfectomia iliaca otturatoria e retrocrurale con l’intento di ottenere una più precisa stadiazione e di evitare la necessità di ulteriori futuri interventi nella stessa sede. Si blocca a questo punto il flusso nei vasi iliaci comuni ed ipogastrici e, previa incisione trasversale della parete anteriore, si incannulano arteria e vena iliaca esterna per procedere poi come descritto per l’arto superiore. Da notare che l’utilizzazione dei vasi iliaci esterni è riservata al melanoma, anche perché rende possibile la perfusione di gran parte della regione inguino-femorale. La linfectomia in quest’ultima sede, ove indicata, si pratica alla fine del trattamento perfusionale. Al contrario, qualora si tratti di sarcoma dei tessuti molli, i vasi da incannulare possono essere i femorali o anche i poplitei in rapporto alla sede della neoplasia, mentre non esiste per solito indicazione allo svuotamento delle stazioni linfonodali.

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La tecnica è sostanzialmente identica per la perfusione trimodale: le variazioni riguardano la temperatura dell’arto, che non deve mai superare i 41,5°C ed il timing della somministrazione dei farmaci. In realtà esistono pareri discordi circa la temperatura, che secondo Eggermont, ad esempio, non dovrebbe superare i 40°C, ma sta di fatto che il massimo sinergismo si realizza a partire da 41°C e che i fenomeni tossici rilevanti a livello dell’arto perfuso si verificano al di sopra dei 41,5°C, per cui è questa la temperatura che non deve essere superata per tutta la durata della perfusione. Le variazioni nel timing consistono nella iniezione lenta del TNFα nella linea arteriosa del circuito al tempo “zero”, con una temperatura di 41°C; segue dopo 30 minuti l’iniezione del melphalan e la perfusione continua per altri 60 minuti prima di effettuare il lavaggio del circuito. E’ di estrema importanza il monitoraggio del leakage, che per evitare la tossicità sistemica del TNFα non dovrebbe andare oltre il 5% e che per valori del 10% rende necessaria l’interruzione del trattamento. Patologie bersaglio

Melanomi Costituiscono ancora, limitatamente agli arti, la principale indicazione alla perfusione ipertermica. Deve però essere escluso il trattamento adiuvante, cioè dopo escissione del tumore primitivo. Infatti, dopo tutta una serie di risultati controversi, uno studio prospettico randomizzato multicentrico, condotto sotto l’egida del WHO Melanoma Programme, dell’EORTC Melanoma Group e del North American Perfusion Group, non ha messo in evidenza alcun vantaggio, in termini di metastasi a distanza e sopravvivenza nel gruppo sottoposto a perfusione rispetto a quello trattato con la sola escissione ampia, con o senza linfectomia adiuvante, essendo il solo impatto limitato ad una riduzione della velocità di progressione locoregionale (Koops et al., 1998). In pratica, l’indicazione principale alla perfusione è costituita dalla presenza di metastasi in transito, specialmente se in numero elevato, anche in presenza di metastasi microscopiche o macroscopiche limitate ai linfonodi regionali. In un passato anche recente la letteratura sui melanomi degli arti ha sempre fatto riferimento alla classificazione del MD Anderson, che colloca le metastasi in transito allo Stadio IIIA, quelle ai linfonodi regionali allo Stadio IIIB e l’associazione delle due allo Stadio IIIAB. Ciò per esprimersi uniformemente e per effettuare comparazioni

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affidabili dei risultati ottenuti; oggi questo sistema di stadiazione, almeno limitatamente alla fase di diffusione locoregionale e quindi alle indicazioni al trattamento perfusionale, corrisponde alla nuova stesura del TNM, che include anch’essa nello Stadio III le indicazioni suddette. La perfusione nel melanoma degli arti è stata diffusamente impiegata a temperature variabili dalla normotermia all’ipertermia vera. In realtà, la percentuale delle risposte è praticamente raddoppiata impiegando ipertermia vera, senza superare comunque, per i motivi precedentemente esposti, 41,8°C. Che questa sia la temperatura da applicare resta vero, anche se l’outcome dei pazienti trattati risente pure, e in misura significativa, di fattori inerenti la malattia, in particolare lo stadio e, per uno stesso stadio, il numero delle lesioni, le loro dimensioni ed il coinvolgimento linfonodale. Sta di fatto che questi ultimi fattori non possono venire in alcun modo modificati, mentre l’ottimizzazione del trattamento perfusionale, ottenuta con l’ipertermia tra 41,5° e 41,8°C, può e deve essere perseguita. A queste temperature deve associarsi il melphalan, alle dosi di 13 mg/L (L di volume dell’arto) per gli arti superiori e di 10 mg/L (L di volume dell’arto) per gli arti inferiori. Il farmaco, come si è accennato, va iniettato nella linea arteriosa del circuito una volta raggiunta la temperatura desiderata e da quel momento la perfusione si protrae per 60 minuti prima di procedere al lavaggio ed alla sutura delle incisioni vascolari. Pertanto è al modello perfusionale descritto che si dà credito nella stesura delle presenti Basi scientifiche per la definizione di linee-guida, anche alla luce delle considerazioni che seguono: - l’ipertermia al di sopra dei 41°C possiede per sè un effetto

antineoplastico e l’associazione di essa con alcuni farmaci, segnatamente il melphalan, si traduce in un vero e proprio sinergismo, che sperimentalmente raggiunge il suo valore massimo a 42°C (Giovannella et al., 1976);

- la perfusione consente, grazie all’isolamento vascolare dell’arto, di somministrare dosi molto maggiori di quelle consentite per via sistemica e che sono oggetto di un più elevato uptake da parte delle cellule tumorali, anche per il ripetersi del contatto prodotto dal protrarsi della circolazione extracorporea (Cavaliere et al., 1967);

- la perfusione interessa nella sua totalità l’arto dove il tumore ha sede, e ciò assume speciale rilievo nel caso del melanoma in fase di diffusione locoregionale.

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Queste considerazioni sono anche alla base dell’utilizzazione, nel trattamento perfusionale del melanoma degli arti localmente avanzato, del TNFα che possiede tossicità troppo elevata per essere impiegato per via sistemica. I primi risultati ottenuti (Lienard et al., 1992; Hill, 1993) hanno suscitato enorme interesse: il dilemma relativo al vantaggio ottenibile anche nei melanomi in fase di diffusione locoregionale con l’associazione del TNFα è stato poi oggetto di uno studio randomizzato negli USA che ha prodotto significativi vantaggi terapeutici, anche se limitatamente ai melanomi bulky per dimensioni maggiori di 5 cm o per numero di localizzazioni superiore a 10 (Fraker et al., 2002). Del tutto recentemente è stato sottolineato come il ruolo della perfusione trimodale debba essere riservato, nel trattamento perfusionale del melanoma degli arti, alle lesioni voluminose, sarcoma-like, mentre le piccole metastasi multiple dovrebbero ancora essere oggetto della perfusione ipertermica convenzionale con il solo melphalan, associando il TNFα in un trattamento successivo in caso di non risposta o di recidiva (de Wilt et al., 2004), modificando parzialmente le indicazioni poste da Fraker. Sarcomi dei tessuti molli La perfusione ha suscitato grande interesse nel trattamento dei sarcomi dei tessuti molli degli arti per un duplice ordine di considerazioni: la prima concerne la sede preferenziale di queste neoplasie, che nel 60% dei casi insorgono a livello degli arti; la seconda consiste nelle ripetute delusioni prodotte dai trattamenti chirurgici convenzionali, con recidive locali nel 90% dei pazienti sottoposti ad escissione “marginale”, nel 20-40% dei casi dopo escissione “ampia” e fino al 17% in seguito a demolizione non regolata (Russel et al., 1977; Rantakokko et al., 1979). I primi successi reali conseguiti nel senso di un controllo locale della malattia pressoché completo (91%) sono stati dovuti alla “chirurgia adeguata” suggerita da Simon ed Enneking, teoricamente consistente nella compartimentectomia, ma in realtà, e con estrema frequenza (63%), nell’amputazione “regolata”o nella disarticolazione dell’arto, in rapporto alla sede extracompartimentale e/o alle dimensioni ed ai caratteri istopatologici del tumore (Simon et al., 1976). La necessità di ricorrere così spesso ad interventi demolitivi, peraltro non sempre in grado di migliorare la sopravvivenza, ha ispirato, in definitiva, l’era dei trattamenti integrati. Scopo fondamentale quello di ottenere un migliore controllo locoregionale con procedure chirurgiche

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più conservative precedute però da un trattamento neoadiuvante. Deludente a questo scopo la chemioterapia sistemica che, malgrado i risultati ottenuti nel rabdomiosarcoma dell’infanzia e nell’osteosarcoma, non è stata quasi mai in grado di indurre nei sarcomi dei tessuti molli una risposta primaria significativa (Pisters et al., 1997) e rimane perciò confinata a studi clinici controllati nei confronti di sarcomi di grado elevato, specialmente retroperitoneali o del tronco. Ben diversi i risultati ottenuti con la radioterapia pre-operatoria, con percentuali di risposta (necrosi tumorale > 80%) controllo locale di malattia e conservazione dell’arto rispettivamente pari a 35%, 94% e 87% (Suit et al., 1981; De Paoli et al., 1992). Da notare, però, che è stata registrata una quota elevata di complicanze riferibili proprio alla radioterapia in un terzo circa dei casi trattati (Cheng et al., 1996). E’ stata impiegata con notevole successo anche la radioterapia post-operatoria che ha mostrato incidenze di recidiva locale e a distanza rispettivamente del 22,3% e del 27% con una percentuale di complicanze pari a 6,5% (Lindberg et al., 1981). L’indicazione alla radioterapia post-operatoria è più precisa in quanto i pazienti sono selezionati sulla base dell’esame istologico completo. Inoltre, la guarigione delle ferite non viene compromessa. Pertanto, la radioterapia post-operatoria viene oggi preferita anche se la sua applicazione in questa fase non consente lo stesso numero di interventi conservativi, rispetto a quella pre-operatoria (effetto shrinkage). Stanti queste premesse è apparso del tutto logico rivolgere l’attenzione al trattamento perfusionale, che possiede in questi casi un razionale ineccepibile: - l’impiego della circolazione extracorporea consente di utilizzare dosi

elevate di farmaci antiblastici, fino a 10-20 volte la dose massima sistemica, che si distribuiscono all’interno di tutto l’arto senza provocare tossicità rilevante, né locoregionale né sistemica;

- l’ipertermia produce, anche isolatamente, un effetto tumoricida selettivo, che si manifesta in maniera sinergistica quando essa viene associata a taluni farmaci antiblastici;

- la riduzione volumetrica del tumore indotta dalla perfusione può, in pratica, tradursi nella possibilità di conservare arti altrimenti destinati alla demolizione.

In una prima fase delle esperienze, il farmaco più comunemente impiegato nella perfusione ipertermica, anche per i sarcomi dei tessuti molli, è stato il melphalan, a volte in associazione alla actinomicina D o alla doxorubicina, con risultati però non entusiasmanti o francamente

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deludenti. Successivamente, nell’ambito di protocolli ben disegnati che prevedevano la perfusione neo-adiuvante con melphalan e actinomicina D in regime di ipertermia vera (41,5°-41,8°C) sempre seguita dall’exeresi chirurgica e talora anche dalla radioterapia, in rapporto allo stato dei margini di resezione ottenuti ed al tipo istologico, sono stati registrati risultati molto migliori: su un gruppo multi-istituzionale di 379 pazienti, in gran parte non destinati all’amputazione, si è ottenuta la conservazione dell’arto pressoché totale (97%) con un’incidenza di recidiva locale del 13% ed una sopravvivenza globale a 5 anni del 72% (Di Filippo et al., 2003). Infine, negli ultimi anni ‘80, è stato introdotto in perfusione il TNFα, che nel 1998 è stato approvato e registrato in Europa proprio per il trattamento perfusionale dei sarcomi dei tessuti molli. L’impiego del TNFα in associazione al melphalan, nelle dosi standard (10 mg/L per l’arto inferiore e 13 mg/L per l’arto superiore) alla temperatura di 39°-40°C, è stato inizialmente associato anche all’interferon γ, poi abbandonato perché ininfluente (Lienard et al., 1999). Altri singoli studi hanno quindi messo in evidenza che la combinazione di TNFα e melphalan nella perfusione ipertermica può essere utilizzata senza problemi nei pazienti anziani anche nei sarcomi (van Etten et al., 2003). Lans e collaboratori (2002) hanno ottenuto la conservazione dell’arto nell’87% dei casi con RC nel 56% di 16 pazienti affetti da linfangiosarcoma di Stewart-Treves, neoplasia non controllabile con trattamenti di altro genere. Un’ulteriore evoluzione è stata registrata quando si è messo in evidenza che su 246 pazienti arruolati in quattro studi nel corso di 10 anni (Eggermont et al., 2003) si è ottenuta, impiegando il TNFα nella dose di 2-4 mg, la conservazione dell’arto nel 71% di quelli che, secondo il parere di un Comitato di revisione indipendente, sarebbero stati altrimenti destinati all’amputazione (87%) ovvero a resezioni funzionalmente debilitanti (13%). Successivamente, è stato condotto uno studio multicentrico italiano per valutare, nei sarcomi dei tessuti molli, modalità e dosi della perfusione ipertermica con doxorubicina, a dosi sub-ottimali e ottimali, concludendo che ottimali sono 0,7 mg/Kg (Kg peso corporeo) per l’arto superiore e 1,4 mg/Kg (Kg peso corporeo) per l’arto inferiore. Infine, in un sottogruppo di 30 pazienti tutti candidati alla demolizione dell’arto (per sarcomi extracompartimentali o multicompartimentali o con infiltrazione dell’osso o del nervo sciatico o con lesioni multiple) è stata utilizzata la perfusione con doxorubicina alle dosi or ora indicate e

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TNFα a bassa dose (1 mg) alla temperatura di 41,5°C. Le risposte così ottenute hanno reso possibile una exeresi conservativa nel 77% dei casi con sopravvivenza libera da malattia del 61% e globale del 69% a 5 anni. Una tossicità locoregionale di grado IV è stata registrata in 4 pazienti, la tossicità sistemica è stata accettabile, con un solo caso di tossicità renale grado IV che ha reso necessario ricorrere alla dialisi fino al recupero della funzionalità (Di Filippo et al., 2003). In pratica, questi risultati sembrano confermare il razionale che sta alla base dell’associazione doxorubicina e TNFα nel trattamento ipertermico perfusionale dei sarcomi, in quanto temperature elevate, a partire da 41°C, potenziano l’azione di entrambi i farmaci e consentono i risultati migliori. Bisogna però sottolineare che il controllo del leakage è l’elemento di maggiore importanza per evitare ogni fenomeno tossico sistemico, anche se si tratta in definitiva di fenomeni agevolmente neutralizzabili con la terapia opportuna (Rossi et al., 2003). Stato dell’arte

Per quanto concerne i melanomi degli arti, i risultati definitivamente acquisiti hanno messo in evidenza che la perfusione, come si è accennato in precedenza, non è ulteriormente indicata in termini adiuvanti in quanto, a fronte dei rischi, anche se non elevati, che essa comporta, produrrebbe solo una riduzione della velocità di progressione locoregionale, senza alcun impatto sulla metastatizzazione a distanza e sulla sopravvivenza. Al contrario, sono validati i risultati ottenuti nei confronti del melanoma in fase di diffusione locoregionale, e cioè nello Stadio III della più recente classificazione TNM dell’U.I.C.C. corrispondente agli Stadi IIIA, IIIB e IIIAB della classificazione del MD Anderson. In questi stadi di malattia è stata dimostrata l’utilità dell’ipertermia vera nei limiti sopra indicati (41,5°-41,8°C) perché essa produce una percentuale di risposte obbiettive che si attesta su valori dell’80% nelle esperienze di Di Filippo, Kroon e Vaglini (Vaglini et al., 1983; Kroon, 1988; Di Filippo et al., 1989), mentre con l’ipertermia moderata le risposte obbiettive sono intorno al 60% (Jolsson et al., 1983) per ridursi al 49% in normotermia, come è stato riferito da Bulman e collaboratori (1980). Peraltro, su 2996 pazienti valutati, mortalità, necessità di amputazione dell’arto e reliquati funzionali sono stati rispettivamente dello 0,7%, 1% e 4,2%. Esiste, inoltre, una discrepanza significativa a vantaggio dell’ipertermia vera in termini di risposta completa, che

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abbiamo visto influire a sua volta sulla sopravvivenza (Di Filippo et al., 1989). I risultati validati a distanza di 5 anni concernono il controllo locoregionale della malattia, che si attesta su valori oscillanti tra il 57% ed il 70% in rapporto alla diffusione del melanoma, e la sopravvivenza a 5 anni, che oscilla dal 45% al 70%, sempre in rapporto alla diffusione della malattia, con un follow-up tra 2 e 10 anni. Bisogna chiedersi, inoltre, se non siano da considerare ormai validati i risultati relativi alla perfusione ipertermica con TNFα e melphalan nei melanomi bulky (> 5 cm) e nelle metastasi in-transit numerose (> 10): le risposte complete sono state del 58% vs il 19% ottenuto con il solo melphalan nello studio randomizzato condotto da Fraker e collaboratori (2002). Come è stato confermato recentemente, il TNFα in perfusione con il melphalan dovrebbe essere impiegato alla dose di 1 mg, essendo ormai validato che dosi maggiori non migliorano i risultati, sempre che la temperatura sia mantenuta tra i 41° e 41,5°C per trarre vantaggio dagli effetti terapeutici sinergici senza incrementare quelli tossici (Rossi et al., 2004). Per quanto concerne i sarcomi dei tessuti molli degli arti, in una prima fase delle esperienze, i risultati non sono stati entusiasmanti (Klaase et al., 1989), con risposte obbiettive non superiori al 40%, seppure con una buona incidenza di conservazione dell’arto, fino al 60%. Bisogna, però, sottolineare che si trattava di esperienze effettuate alla temperatura di 39°C e comunque mai più elevata di 40°C. Successivamente, nell’ambito di protocolli che prevedevano la perfusione neo-adiuvante con melphalan e actinomicina D in regime di ipertermia vera (41,5°-41,8°C), sono stati registrati risultati molto migliori. Mediamente la risposta obbiettiva è stata dell’80%, con controllo locoregionale della malattia del 38% e sopravvivenza a 5 anni libera da malattia e globale, rispettivamente, del 27% e 65%. Risultati che possono considerarsi ormai validati dalle esperienze più volte riprodotte nella pratica clinica sono stati ottenuti con l’impiego del TNFα, dapprima ad alte dosi (3-4 mg) in ipertermia moderata (39°-40°C) e successivamente a basse dosi (1 mg) in ipertermia vera (41°-41,5°C) in associazione al melphalan o alla doxorubicina. Recenti lavori relativi al melphalan riportano (Eggermont et al., 2003; Rossi et al., 2003) una frequenza di risposte complete dall’8% al 100%, con necrosi istologicamente provata > 80%, e di risposte globali dal 50% al 100%, con necrosi > 50%, la realizzazione di interventi conservativi in misura oscillante tra 66% e 100% con netta prevalenza per valori vicini

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all’85%; una ripresa locoregionale di malattia che solo per 3/11 Autori supera il 20% per raggiungere il 45% nell’esperienza di Lejeune; una tossicità locale > IV grado dal 7% al 33% nelle prime serie (1993) e per lo più nulla secondo Wieberdink; una tossicità sistemica ≥ III grado, in accordo alla classificazione del WHO, compresa tra 0 e 40%. Non sono riportati i dati relativi alla sopravvivenza, che in linea generale non sembra modificata sostanzialmente dal trattamento perfusionale, anche se potrebbe presumersi un miglioramento nei casi di risposta completa ottenuta in assenza di metastasi a distanza. Anche per l’associazione con la doxorubicina, l’opportunità di impiegare basse dosi di TNFα è stata recentemente messa in evidenza da uno studio multicentrico italiano in cui il TNFα è stato somministrato a dosi scalari per triplette di pazienti, secondo lo schema di Fibonacci modificato, a partire da 0,5 mg fino alla dose massima di 3,3 mg. Si è così messo in evidenza che gli effetti terapeutici non cambiano aumentando la dose di TNFα al di sopra di 1 mg. Però nel corso della perfusione si è mantenuta una temperatura tra 41° e 41,5°C, nell’ipotesi che il sinergismo tra ipertermia e TNFα consentisse una stessa risposta tumorale anche limitando le dosi di TNFα. Ciò sulla base di risultati sperimentali dai quali era emerso che cellule resistenti al TNFα erano invece sensibili all’associazione con ipertermia (Niitsu et al., 1988). L’escissione di eventuali lesioni residue è stata condotta a termine nel momento di massima regressione del tumore, che solitamente si verifica dopo un periodo di tempo oscillante tra 30 e 60 giorni. Questo studio ha confermato che la perfusione trimodale ottiene, anche utilizzando la doxorubicina e sempre con una temperatura di 41,5°C, i medesimi effetti per dosi di TNFα uguali o superiori a 1 mg (Rossi et al., 1999). In queste condizioni di lavoro la tossicità sistemica, valutata in aderenza ai criteri della WHO, e quella locoregionale secondo Wieberdink, sono state estremamente basse, con un solo caso di tossicità polmonare IV grado in un paziente trattato con la dose massima (3,3 mg/L). Comunque è opportuno ribadire ancora una volta la necessità, al fine di evitare fenomeni tossici sistemici, di monitorare costantemente i valori di leakage, utilizzando la metodica già accennata e ciò qualunque sia la dose di TNFα impiegata. La tossicità locoregionale è strettamente correlata sia alla dose di TNFα che alla temperatura di perfusione; sta di fatto che in condizioni di ipertermia moderata non si realizza appieno il sinergismo tra temperatura e TNFα che trova la sua massima espressione al di sopra di 41°C, per cui è necessario pilotare la

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temperatura stessa tra 41° e 41,5°C. In questo range di valori è stata ottenuta, in gruppi di pazienti destinati all’amputazione, la conservazione dell’arto nel 77% dei casi con un’incidenza di recidiva locale del 13% e con una tossicità locoregionale di grado II e soltanto in casi sporadici di grado III. Si tratta di risultati riproducibili, come risulta dalle esperienze recenti, che rendono la perfusione ipertermica con basse dosi di TNF associate al melphalan o alla doxorubicina il trattamento neoadiuvante più indicato nei sarcomi dei tessuti molli degli arti che mettono in pericolo, se sottoposti ad altre terapie, l’integrità o la funzionalità dell’arto stesso. Peraltro, la scarsa incidenza della malattia, le differenze di stadio in cui pervengono all’osservazione dell’oncologo, la varietà di trattamenti ai quali sono già stati sottoposti rendono impossibile la realizzazione di un accurato studio di fase III che concluda per la superiorità della perfusione. Ma esiste un ultimo ordine di considerazioni che depone in questo senso: è stato dimostrato che la perfusione stessa può essere ripetuta in caso di recidiva o di scarsa risposta, che può essere utilmente seguita dalla radioterapia o far seguito ad una radioterapia di scarsa efficacia e che può essere impiegata per localizzazioni multiple nell’arto o infine, invece dell’amputazione, qualora coesistano metastasi a distanza, privilegiando la qualità della vita residua (senza contare che esiste un precedente sul quale non gravano più dubbi di sorta: la resezione delle metastasi epatiche colorettali, che si è affermata sulla base dei risultati ottenuti in totale assenza di studi randomizzati). Protocolli clinici attivi

Sono in corso ulteriori studi clinici che serviranno a confermare l’indicazione della perfusione ipertermica con doxorubicina e TNFα nel trattamento dei sarcomi dei tessuti molli candidati all’amputazione, ma già allo stato attuale delle cose l’utilizzazione della perfusione trimodale, sia essa con il melphalan o con la doxorubicina, appare difficilmente rinunciabile, perché consente senza dubbio, se effettuata in Centri specialistici, le maggiori possibilità di conservazione dell’arto. Mantenendo quindi lo stesso razionale, è stato attivato, nell’ambito della SITILO, un protocollo volto ad ottimizzare l’efficacia terapeutica della perfusione trimodale con l’ausilio di liposomi. In estrema sintesi, l’interesse sui liposomi prende origine dalle caratteristiche della loro membrana, composta da colesterolo e fosfolipidi. Questi ultimi hanno una testa idrofila ed una coda idrofobica che condizionano la “chiusura”

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spontanea del liposoma a vescicola, con le teste idrofiliche all’esterno, cosa che rende possibile intrappolare all’interno molecole di varia natura, come la doxorubicina. In un sistema liposomiale di questo tipo, la dose efficace del farmaco viene raggiunta gradualmente, via via che i globuli si aprono e secernono il loro contenuto all'interno delle cellule, con un maggior contenimento della tossicità. Della quarta generazione liposomiale fa parte la doxorubicina liposomiale pegilata, definita stealth in quanto capace di evadere il sistema immune, caratterizzata da lunga emivita, farmacocinetica favorevole ed accumulo specifico nei tessuti tumorali. La pegilazione si ottiene rivestendo i liposomi con una pellicola di polietilenglicole, una sostanza inerte che non allerta il sistema immunitario. I liposomi pegilati possono quindi circolare liberamente senza venire distrutti, permanendo nel sangue anche 2-3 settimane per entrare gradualmente nel tumore attraverso i capillari neoformati (più permeabili rispetto a quelli dei tessuti sani), dove l’ambiente ipossico ne favorirebbe l’apertura. La perfusione trimodale con liposomi stealth è quindi oggetto di studio, in quanto ai vantaggi già ben noti dell’associazione farmacologica aggiungerebbe quelli di una biodistribuzione più favorevole. I primi risultati, già in corso di pubblicazione (Di Filippo et al., 2004), su 14 pazienti con sarcoma localmente avanzato (diametro medio di 15 cm; grado 2-3) trattati con perfusione isolata di arto alla temperatura ≥ 41,5°C e con dose escalation della doxorubicina liposomiale di 2 mg per ogni tripletta di pazienti a partire dalla dose standard di 10 mg/L di volume d’arto, hanno portato ad identificare la massima dose tollerabile del farmaco in 16 mg/L, con una tossicità locoregionale limitata ai gradi I e II di Wieberdink. Una risposta patologica, in termini di necrosi, maggiore del 75% è stata possibile nel 29% dei pazienti, mentre non è mai stata osservata necrosi inferiore al 25%; l’amputazione è stata necessaria in un solo caso di recidive multiple di sinovialsarcoma dell’avambraccio con infiltrazione di ossa e nervi ed il controllo locoregionale di malattia a 20 mesi di follow-up mediano è stato assoluto. La naturale prosecuzione dello studio consiste nella valutazione dell’associazione in perfusione ipertermica della doxorubicina liposomiale e del TNFα. Sempre nell’ambito della SITILO, è in corso un protocollo che prevede l’associazione dell’interferone a basse dosi (3M UI/die per 7 gg/settimana per 12 mesi) dopo perfusione con melphalan e TNFα nei pazienti con metastasi in transito da melanoma. Questo studio è basato sul razionale di potenziare/modulare l’effetto anti-angiogenetico del TNFα, prolungando in questo modo la risposta clinica. Oltre al

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monitoraggio obbiettivo dei pazienti, lo studio prevede il dosaggio di alcuni marcatori dell’angiogenesi e la loro eventuale correlazione con l’andamento clinico. Prospettive future

Le attuali terapie utilizzate nella cura dei tumori basano la loro azione su differenze nei processi biochimici o metabolici tra cellule normali e tumorali. Negli ultimi anni sono state invece poste le basi per una “terapia genica” mirata su caratteristiche specifiche della cellula cancerosa, mediante gli oligonucleotidi antisenso (OAS). Per OAS si intende un breve frammento di DNA di circa 15 nucleotidi, che contiene la sequenza nucleotidica complementare del filamento di DNA codificante o RNA messaggero: l’antisenso, grazie a questa sua specularità rispetto al DNA “senso”, si appaia ad esso o all’mRNA, annullandone l’attività biologica. Accanto a questo effetto principale, ve ne sarebbe un altro di potenziamento della risposta immune da parte di alcune sequenze nucleotidiche (Wooldridge et al., 1997) che potrebbe giocare un ruolo particolarmente importante nei melanomi. Naturalmente, l’utilizzazione clinica degli OAS non è scevra da problemi. Innanzitutto, la stabilità intracellulare dell’oligonucleotide deve essere tale da consentirne l’accumulo in dosi sufficienti e a questo scopo è stata modificata chimicamente la molecola sostituendo alcuni atomi di ossigeno nel DNA con gruppi metilici (Miller, 1992): la metilfosfonazione ha reso gli OAS resistenti alle nucleasi, ma riducendone in parte l’attività antisenso. Un’altra importante modifica è stata la sostituzione di ciascun atomo di fosforo con uno di zolfo, che ha reso la molecola altamente solubile e piuttosto resistente alle nucleasi. In questa forma gli OAS sono stati utilizzati con un certo successo, nonostante siano stati messi in evidenza anche effetti non specifici, poi parzialmente superati con la costruzione di molecole miste, contenenti fosforotionati e segmenti di oligodeossinucleotidi od oligoribonucleotidi modificati, con mantenimento dell’efficacia antineoplastica e diminuzione degli effetti tossici. Varie soluzioni sono anche state sperimentate per migliorare il passaggio degli OAS attraverso la membrana cellulare e ad oggi l’incapsulamento in particelle come microsfere e liposomi sembra la risposta più convincente al problema. Parallelamente agli sforzi di ottimizzazione molecolare, sono state identificate proteine tumore-associate che potessero rappresentare un bersaglio terapeutico e notevoli sforzi in questo senso sono stati

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compiuti in fase preclinica per costruire OAS che potessero interferire con i segnali che regolano la proliferazione e l’apoptosi nelle cellule neoplastiche. Oggi sono disponibili OAS contro il bcl-2, la PKA, il c-myb, il c-myc ed altri ancora che possono essere utilizzati in combinazione con farmaci chemioterapici ottenendo l’importante effetto di abbassare la soglia apoptotica intensificando l’azione tumoricida. Sul fronte del melanoma risultati incoraggianti sono stati ottenuti dalla ricerca di base e dalla sperimentazione animale in vivo (Leonetti et al., 2001; D’Alessio et al., 2004), ma sul fronte clinico i risultati sono stati contraddittori. Un recente studio randomizzato ha messo a confronto dacarbazina con o senza antisenso bcl-2 nel trattamento di 771 pazienti con melanoma avanzato; l’antisenso è stato somministrato per via endovenosa continua prolungata per ovviare alla scarsa emivita plasmatica. Lo studio, pur dimostrando una maggiore efficacia del braccio sperimentale, non ha dato i risultati sperati consentendo nel braccio sperimentale un aumento della risposta (p=0,019), della sopravvivenza libera da progressione (p=0,0003) e del tempo alla ripresa (p=0,0003), ma non della sopravvivenza globale (Millward et al., 2004). E’ possibile che la via di somministrazione perfusionale isolata, caratterizzata da una farmacocinetica generalmente più favorevole, possa consentire un ulteriore miglioramento dei risultati, anche in termini di tossicità. Bibliografia • Bulman AS, Jamieson CW. Isolated limb perfusion with Melphalan

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2.2 Stop-flow Principi della metodologia

La prognosi dei pazienti con tumori solidi localmente avanzati o recidivi, anche se confinati ad una singola regione, è nella maggioranza dei casi molto negativa, con una sopravvivenza mediana variabile tra i 4 e gli 8 mesi (Pilati et al., 2002). La scelta del trattamento di questi pazienti rimane controversa, considerando che spesso il tumore infiltra organi vitali limitrofi rendendo impossibile la resezione chirurgica. Le modalità terapeutiche tradizionalmente prescelte sono rappresentate dalla chemioterapia sistemica endovenosa, associata o meno alla radioterapia ed in alcuni casi seguita dall’intervento chirurgico. Tali trattamenti, peraltro, ottengono spesso risultati clinici insoddisfacenti con scarso miglioramento della qualità della vita. Talora, le scadenti condizioni generali presenti nella maggior parte di questi pazienti rendono improponibile ogni forma di trattamento. Al fine di migliorare i risultati clinici, da molti anni la ricerca ha valutato modalità terapeutiche alternative, tra queste sono state proposte e studiate alcune tecniche di chemioterapia locoregionale. In questo capitolo rientrano le perfusioni oncologiche distrettuali realizzate con la tecnica del blocco del flusso ematico (stop-flow). Alcuni cenni storici sono essenziali per un corretto inquadramento dell’argomento. Alla fine degli anni ‘50, fu messa a punto una tecnica di perfusione in cui il flusso sanguigno di alcune regioni corporee veniva bloccato, con parziale isolamento del distretto perfuso (Creech et al., 1958). In particolare, l’aorta e la vena cava inferiore venivano occluse estrinsecamente e perfuse con particolari cannule. La circolazione ematica periferica veniva limitata dal posizionamento di fasce pneumatiche alla radice degli arti. Successivamente fu proposta una tecnica di perfusione molto simile, in cui però veniva realizzata un’occlusione endovascolare aorto-cavale, utilizzando dei cateteri a palloncino (Watkins et al., 1960). Alcuni anni dopo fu presentata una tecnica di perfusione che, oltre ad utilizzare cateteri a palloncino per bloccare il flusso nei vasi principali, limitava gli effetti tossici periferici applicando esternamente sull’addome una larga fascia pneumatica (Lawrence et al., 1963). Più recentemente, è stato pubblicato uno studio sul trattamento delle neoplasie pelviche refrattarie mediante perfusione pelvica ipertermica (Wile et al., 1987). Nel 1994, Aigner e Kaevel (1994) hanno proposto

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una tecnica, che denominarono stop-flow, in cui sia l’occlusione dei grossi vasi che la perfusione venivano eseguite utilizzando solamente due cateteri a palloncino introdotti chirurgicamente attraverso i vasi femorali. Una tecnica simile, basata sull’uso di cateteri ad introduzione percutanea, è stata messa a punto successivamente (Thompson et al., 1994). E’ necessario specificare che durante la perfusione addominale, pelvica o delle estremità, si determinano delle variazioni nel microcircolo periferico con conseguente ipossigenazione ed acidosi dei tessuti. Al contrario, durante la perfusione del torace le variazioni del microcircolo sono caratterizzate da un incremento della pressione e dell’ossigenazione sanguigna. Nonostante siano stati riportati risultati incoraggianti sia in termini di fattibilità che di azione terapeutica, la scarsità di studi clinici e l’eterogeneità delle casistiche non hanno permesso di attribuire un ruolo preciso alla perfusione con tecnica stop-flow nel trattamento delle neoplasie localmente avanzate. In particolare va precisato che non esistono studi di fase III. Descrizione della tecnica

Le perfusioni realizzate con la tecnica del blocco del flusso ematico, denominate stop-flow, possono riguardare molteplici distretti corporei ed organi. Nella presente trattazione vengono affrontate problematiche inerenti le perfusioni del torace (Figura 2), dell’addome (Figura 3), della pelvi (Figura 4) e della pelvi in associazione ad un arto inferiore (Figura 5). Nelle perfusioni del torace e dell’addome, il blocco ematico aorto-cavale avviene a livello diaframmatico, nelle perfusioni pelviche e di un arto inferiore, il blocco è sottorenale. Nelle perfusioni del torace la circolazione ematica viene garantita dalla pompa cardiaca, in tutte le altre perfusioni è necessaria una pompa extracorporea. Pur adottando particolari accorgimenti (temperatura attorno ai 26°C in sala operatoria, materassini riscaldati, ecc.), il trattamento comporterebbe l’ipotermia del paziente se non fosse prevista l’utilizzazione di attrezzature specifiche per la circolazione ematica extracorporea. La realizzazione di un’occlusione aorto-cavale endovascolare e l’allestimento di una circolazione ematica extracorporea, finalizzata alla perfusione antiblastica ed eventualmente alla detossificazione ematica, presuppongono l’utilizzazione di particolari cateteri che possono essere introdotti mediante preparazione vascolare chirurgica o con approccio

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percutaneo. Distingueremo, pertanto, una tecnica chirurgica ed una tecnica percutanea. Figura 2 Perfusione del torace

Figura 3 Perfusione dell’addome

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Figura 4 Perfusione della pelvi

Figura 5 Perfusione della pelvi e dell’arto

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Tecnica chirurgica La procedura viene effettuata in anestesia generale. Successivamente all’incisione cutanea inguinale, vengono isolate e preparate l’arteria femorale comune e la vena safena. L’interruzione dei vasi linfatici deve preferenzialmente avvenire tra legature, al fine di limitare il rischio di linforragia post-operatoria. Nei vasi vengono introdotti due particolari cateteri da 12 French, preventivamente eparinizzati, dotati di tre lumi e di palloni gonfiabili posti all’estremità. Una via dei cateteri consente la circolazione ematica, una seconda via permette il gonfiaggio e la deflazione del pallone, la terza il posizionamento di una guida 0.035 “J” (teflonata o idrofila). L’introduzione dei cateteri ed il posizionamento dei palloni al livello prescelto (diaframmatico o sottorenale) devono avvenire sotto controllo radioscopico e preferenzialmente su guida, onde ridurre il rischio di complicanze vascolari. Dopo il gonfiaggio dei palloni è consigliabile eseguire un’aorto-cavografia. L’intervallo di tempo che intercorre tra l’occlusione aortica e quella cavale non dovrebbe superare i dieci secondi al fine di prevenire disturbi emodinamici. La durata complessiva dell’occlusione aorto-cavale non dovrebbe superare i 30-40 minuti al fine di prevenire complicanze ipossiche tessutali (le più precoci sono quelle a carico dello sfintere anale). Il blocco del flusso ematico nelle estremità, realizzato mediante il posizionamento di fasce pneumatiche alla radice degli arti superiori (perfusioni toraciche) o inferiori (tutte le altre), non dovrebbe durare oltre il tempo dell’occlusione aorto-cavale. Nelle perfusioni toraciche il monitoraggio arterioso emodinamico può avvenire esclusivamente mediante rilevazione aortica. La deflazione e l’estrazione dei cateteri devono avvenire sotto controllo radioscopico. Estratti i cateteri si deve procedere alla sutura dei vasi ed alla chiusura della ferita chirurgica. Tecnica percutanea La procedura viene effettuata in anestesia generale. Il materiale necessario è rappresentato innanzitutto da due introduttori da 11 French con valvola emostatica e dilatatore. Per le perfusioni del torace e dell’addome, uno dei due introduttori, quello arterioso, deve essere lungo 25-30 cm. Quello venoso può essere lungo 10 cm. Inoltre, sono necessari due cateteri da 7 French, dotati di palloni gonfiabili in prossimità della punta. La distanza tra pallone gonfiabile e punta del catetere deve essere maggiore nel catetere arterioso che nel venoso, per ridurre il rischio di inginocchiamento durante il gonfiaggio. La tecnica prevede la puntura percutanea dell’arteria e della vena femorale eseguite

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in lati separati (preferibilmente l’arteria a destra e la vena a sinistra) per evitare rischi di fistole artero-venose. Dopo aver punto l’arteria femorale con un ago di Seldinger 18 Gauge, s’introduce nel vaso una guida teflonata 0.035 “J” o, in caso di particolare tortuosità dell’arteria iliaca, una guida idrofila. Si fa procedere sulla guida un catetere diritto da 5 French sino in aorta e si esegue aortografia per localizzare le arterie renali, l’arteria celiaca e l’arteria mesenterica superiore. Successivamente, si inserisce una guida Amplatz Super Stiff (lunghezza 180 cm) nel catetere diagnostico. Si rimuove poi il catetere e si dilata il tessuto sottocutaneo con un dilatatore da 10 French. A volte, è indispensabile lubrificare la parete interna dell’introduttore e la parete esterna del dilatatore per ridurre la frizione tra il pallone del catetere e la parete dell’introduttore. Dopo aver posizionato la punta dell’introduttore nell’aorta addominale al livello opportuno per il tipo di perfusione (addominale-toracica o pelvica), si estrae rapidamente il dilatatore e si inserisce il catetere sulla guida Amplatz. L’uso della guida Amplatz serve a ridurre i rischi di inginocchiamento e di dislocazione del catetere, quando il pallone è gonfio. Il pallone del catetere arterioso deve fuoriuscire completamente ed abbondantemente dall’introduttore. Sia per la verifica della posizione che per il gonfiaggio completo è conveniente usare una miscela di soluzione fisiologica (2/3) e di contrasto (1/3). La circolazione ematica e la perfusione avverranno nello spazio compreso tra la parete dell’introduttore e l’asta del catetere, spazio che corrisponde ad un lungo cilindro cavo centralmente, alla cui sommità il sangue entra o esce dal vaso da una superficie circolare, ma ad anello. Si punge poi la vena femorale controlaterale, ripetendo tutta la procedura allo stesso modo. L’introduttore venoso è più corto. Terminata la procedura ed estratti cateteri ed introduttori, si deve procedere ad emostasi per compressione che, per le dimensioni dei fori sui vasi, non può durare meno di 30-40 minuti. Le caratteristiche dell’occlusione aorto-cavale e del blocco vascolare nelle estremità sono identiche a quelle descritte nella tecnica chirurgica. Note anestesiologiche ed emodinamiche Queste procedure non comportano particolari stimoli dolorosi per il paziente, richiedono altresì l’immobilità assoluta ed un monitoraggio emodinamico complesso. Studi dedicati hanno precisato che le modificazioni emodinamiche e dell’ossigenazione, più profonde nelle perfusioni toraciche ed addominali rispetto alle pelviche, sono

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reversibili. Varrassi e collaboratori (2004) hanno recentemente dimostrato che la cateterizzazione dell’arteria polmonare è necessaria solo nei pazienti ad alto rischio cardiaco. Emofiltrazione Al termine dell’occlusione aorto-cavale, le sostanze antiblastiche si distribuiscono in tutto il sangue ed in tempi variabili nei tessuti corporei. Al fine di ridurre la citotossicità sistemica, sono state proposte varie metodiche, alcune meccaniche altre che comportano la detossificazione ematica. Studi dedicati (Guadagni et al., 1998) hanno dimostrato l’utilità dell’emofiltrazione realizzabile mediante specifiche attrezzature poste nel circuito extracorporeo. Al termine della perfusione è possibile utilizzare la circolazione ematica extracorporea per effettuare un’emofiltrazione che dovrebbe durare almeno 45 minuti. Con tale accorgimento si riducono le complicanze tossiche immediate post-operatorie (ad esempio quelle renali) e si riduce la tossicità tardiva cumulata. Patologie bersaglio

La perfusione oncologica distrettuale effettuata con la tecnica denominata stop-flow è stata utilizzata per il trattamento di differenti tipi istologici di neoplasie con origine nel tronco e nelle estremità. Le indicazioni per le quali sono stati pubblicati articoli originali su riviste a larga diffusione internazionale e con significativo Impact Factor sono, tuttavia, limitate. Per altre indicazioni, quali ad esempio tumori ginecologici o il mesotelioma pleurico maligno sono disponibili segnalazioni su pubblicazioni con minore evidenza scientifica. L’indicazione più documentata è indubbiamente rappresentata dal cancro del retto recidivo non-resecabile (Guadagni et al., 2001), seguita dal carcinoma del pancreas localmente avanzato (Guadagni, 1999), dai linfomi toracici refrattari (Guadagni et al., 2000), dai cancri polmonari refrattari non a piccole cellule (Muller et al., 2001), dal melanoma recidivo pelvico e degli arti (Guadagni et al., 2002; 2003). La scelta del farmaco o dei farmaci utilizzabile/i per le perfusioni è condizionata principalmente dalle caratteristiche istologiche del tumore e secondariamente dalla differente efficacia di alcune molecole (melphalan, doxorubicina e mitomicina C) sulle cellule tumorali ipossiche (Pilati et al., 2002).

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Ad esempio, per il trattamento dei pazienti con carcinoma rettale recidivo (Guadagni et al., 2001) è stata utilizzata mitomicina C alla dose di 25 mg/m2, per il trattamento del carcinoma pancreatico avanzato (Guadagni, l999) è stata somministrata un’associazione di cisplatino (80 mg/m2) e mitomicina (20 mg/m2); per i linfomi toracici (Guadagni et al., 2000) una miscela di cisplatino, melphalan ed epirubicina; per il carcinoma non a piccole cellule refrattario del polmone (Muller et al., 2001) mitomicina C (10 mg/m2) navelbina (25 mg/m2) e cisplatino (30 mg/m2); per il melanoma recidivo a localizzazione pelvica e delle estremità (Guadagni et al., 2002) melphalan (25 mg/m2), cisplatino (50 mg/m2), dacarbazide (300 mg/m2) ed epirubicina (75 mg/m2). Per la terapia del melanoma recidivo delle estremità (Guadagni et al., 2003) sono stati adottati due differenti schemi chemioterapici: il primo a base di solo melphalan alla dose di 50 mg/m2 ed il secondo associando al melphalan la mitomicina C (25 mg/m2). Stato dell’arte: risultati validati od interlocutori

La non-omogeneità delle casistiche e delle metodologie rappresenta l’elemento determinante quando si affronta la problematica dell’efficacia e della riproducibilità di queste procedure; le controversie sui risultati della perfusione addominale nel trattamento del carcinoma pancreatico avanzato costituiscono in tal senso argomento esemplificativo (Guadagni et al., 1999). Per tale ragione appare più utile esaminare i risultati ottenuti in una singola Istituzione. Ad esempio, dal dicembre 1997, sono state eseguite presso l’Università di L’Aquila più di 400 perfusioni con tecnica stop-flow. Sinteticamente, pur rimandando alle singole pubblicazioni per i dettagli delle complicanze e della tossicità, è importante sottolineare che non si ebbero morti correlate alla procedura e che la morbilità specifica e la tossicità immediata sono state accettabili. In questa sede, i risultati vengono riportati in termini di sopravvivenza media. La sopravvivenza media dei pazienti è stata di 12,2 mesi per carcinoma rettale recidivo, di 9,6 mesi per il carcinoma pancreatico avanzato, di 16 mesi per i linfomi toracici refrattari a precedente chemioterapia, di 21 mesi per i carcinomi polmonari non a piccole cellule recidivi o refrattari, di 32,4 mesi per il melanoma recidivo pelvico e di 23,8 mesi per il melanoma recidivo degli arti. Considerando che la perfusione con tecnica stop-flow è un’opzione terapeutica riservata a pazienti selezionati (fallimenti o controindicazioni

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ai trattamenti convenzionali), questi risultati vanno giudicati come estremamente incoraggianti. Protocolli clinici SITILO

Sono disponibili protocolli SITILO per il cancro rettale recidivo, per il carcinoma pancreatico avanzato, per le metastasi polmonari da sarcoma. Prospettive future

Le prospettive future sono principalmente legate allo sviluppo delle biotecnologie. Ad esempio, la realizzazione di moderne attrezzature permette di studiare il ruolo di fattori antitumorali diversi dai farmaci antiblastici, tra questi in primo luogo l’ipertermia. L’ipertermia è in grado, infatti, di migliorare la capacità tossica dei citostatici sulle cellule tumorali attraverso una migliore perfusione tessutale, un potenziamento dell’attività sinergica dei farmaci, un aumento del rilascio delle proteine dello shock termico ed una riduzione del pH tessutale neoplastico. Il problema principale riscontrato in questa linea di ricerca è rappresentato dalla breve durata della perfusione effettuata con la tecnica dello stop-flow (circa 30 minuti), che rende difficile un significativo incremento della temperatura nel tessuto tumorale. Sempre all’evoluzione della biotecnologia vanno correlati i progressi della genetica tumorale. Le più approfondite conoscenze delle caratteristiche genetiche delle singole neoplasie sono alla base di una chemioterapia “personalizzata” per il singolo paziente. La possibilità di utilizzare schemi chemioterapici “personalizzati” sembra rappresentare un punto fondamentale per il miglioramento dei risultati clinici. Test di chemiosensibilità pre-operatoria possono essere eseguiti prelevando tessuto tumorale o sul sangue periferico; tali test si basano sull’espressione e quantizzazione di geni su culture multiple di cellule tumorali. Attualmente, è possibile testare più di 30 differenti chemioterapici e valutare l’esistenza e l’espressione di meccanismi di resistenza tumorale. Bibliografia

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2.3 Chemio Ipertermia Intra Peritoneale (CIIP) La Carcinosi Peritoneale (CP) è un evento prognosticamente sfavorevole che caratterizza in particolare l’evoluzione delle neoplasie degli organi a sede addomino-pelvica potendo in misura minore presentarsi quale stadio terminale di neoplasie extra-addominali (Deraco et al., 1999; Sugarbaker, 2004a, b). Il concetto che ad una diagnosi di CP si associ una prognosi severa per il paziente è ampiamente diffuso nell’ambito della comunità scientifica. L’indicazione stessa di un trattamento chirurgico di un tumore primitivo gastrointestinale è fortemente influenzata dalla presenza di CP. Ciò perché, per lungo tempo la CP è stata considerata una patologia non suscettibile di un trattamento curativo ed in particolare di un intervento chirurgico. Le motivazioni sono varie. Il peritoneo non è, infatti, considerato un organo, ma semplicemente un foglietto che riveste la cavità addominale e gli organi che vi sono alloggiati; eppure ha una struttura istologica, una vascolarizzazione, una disposizione e soprattutto una funzione. Parimenti al fegato ed al polmone, è soggetto a metastatizzazione da parte di molti tumori ed in particolare quelli originati dagli organi contenuti nella cavità addominale. Come qualunque altro organo, inoltre, può essere sede di un tumore primitivo, anche se raro, definito mesotelioma peritoneale e di altri tumori più rari di origine non mesoteliale. La sua disposizione è complessa; i suoi 7.600 cm2 si distribuiscono in modo da creare rapporti con tutte le strutture che sono contenute o transitano nell’addome; tale disposizione, pertanto, condiziona la distribuzione di una neoplasia peritoneale, primitiva o secondaria, che segue inevitabilmente l’anatomia del peritoneo. L’evoluzione delle tecniche chirurgiche e la disponibilità di presidi terapeutici innovativi in ambito chirurgico ed anestesiologico hanno consentito di applicare un trattamento chirurgico anche al peritoneo. La CP è stata ed in gran parte è tuttora trattata mediante chemioterapia (CT) sistemica eventualmente associata ad interventi di debulking chirurgico con l’obiettivo di ridurre la massa e migliorare la sintomatologia. Nel 2000 è stato pubblicato un articolato lavoro riguardante uno studio prospettico multicentrico sulla CP (EVOCAPE 1) (Sadeghi et al., 2000) che ha coinvolto 9 centri universitari ed ospedalieri francesi, con un reclutamento nel ‘95-‘97. Lo studio ha arruolato 125 pazienti con CP da carcinoma gastrico, 118 da carcinoma del colon, 58 da carcinoma del pancreas variamente distribuiti per stadio (0 = no macroscopica

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evidenza, I < 5 mm localizzato, II < 5 mm diffuso, III 5-20 mm, IV > 20 mm) e sottoposti ad interventi palliativi e CT. La sopravvivenza mediana è stata fortemente influenzata dal tipo istologico del tumore primitivo essendo di 3.1, 5.2, 2.1 mesi rispettivamente per carcinoma dello stomaco, del colon e del pancreas. Se consideriamo il sottogruppo dei 118 pazienti con CP da carcinoma colorettale, il 60% della casistica presentava noduli di diametro < 2 cm; tuttavia quando trattati senza intento curativo hanno evidenziato una sopravvivenza limitata. Queste considerazioni note da tempo e confermate in questo recente lavoro, hanno indotto molti ricercatori a sviluppare studi mediante l’utilizzo di metodiche innovative per il trattamento della CP. Un trattamento che ha sicuramente contribuito al miglioramento della sopravvivenza dei pazienti affetti da CP consiste nella strategia terapeutica locoregionale. Principi della metodologia

Approccio locoregionale delle malattie neoplastiche del peritoneo L’approccio innovativo mediante la combinazione tra la chirurgia citoriduttiva (CCR) e la chemio ipertermia intra peritoneale (CIIP), trova il suo razionale nella caratteristica storia naturale della CP. Nel carcinoma ovarico ed in un’elevata percentuale di carcinoma del colon, la malattia rimane confinata all’addome per gran parte della sua storia naturale, conferendone una caratteristica evoluzione locoregionale. Questa è la caratteristica biologica che ha consentito l’opportunità di un approccio selettivo, quale il trattamento chemioterapico intraperitoneale. L’elevata concentrazione di farmaco ottenibile mediante un trattamento locoregionale consente, infatti, di superare la resistenza intrinseca od acquisita nei confronti del farmaco e simultaneamente ridurre gli effetti collaterali sistemici. Negli anni ‘70 Dedrick ha descritto un modello basato sulle caratteristiche anatomiche e fisiologiche della cavità peritoneale, così come sulla farmacocinetica descritta per alcuni chemioterapici (Dedrick et al., 1975). Secondo tali modelli, un tumore localizzato nella cavità peritoneale entrerebbe in contatto con concentrazioni significativamente più alte di chemioterapici, grazie alla somministrazione locale del farmaco in cavità peritoneale rispetto alla somministrazione sistemica.

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Il razionale della CIIP Il fattore che maggiormente condiziona l’efficacia della chemioterapia intra-peritoneale normotermica è la profondità di penetrazione degli agenti citotossici nel tumore. Questo punto è stato oggetto di studio in modelli sperimentali sia in vitro che in vivo, utilizzando diversi agenti antineoplastici. I risultati hanno consentito di concludere che, quando somministrati localmente in condizioni di normotermia, la penetrazione tissutale dei chemioterapici è estremamente limitata, non superando 1-3 mm (Los et al., 1991a,b). Ciò a conferma del fatto che la superiorità della somministrazione intraperitoneale di farmaci chemioterapici, in alternativa alla somministrazione intravenosa nel trattamento del carcinoma ovarico, è limitata alle pazienti con malattia residua minima. Ciò nonostante, l’applicazione di tale procedura è tuttora controversa, vista la non univocità di risultati ottenuti nei vari studi; resta, infatti, da definire quale sia l’impatto della tecnica sull’intervallo libero di malattia e sulla sopravvivenza globale rispetto ai risultati terapeutici ottenuti con la chemioterapia intravenosa standard. I risultati clinici della chemioterapia intraperitoneale sono, infatti, notevolmente influenzati dall’incompleta distribuzione del farmaco nella cavità peritoneale a causa delle aderenze addominali post-operatorie e dalla limitata penetrazione tumorale, in condizioni di normotermia. Con l’obiettivo di superare tali limiti della chemioterapia intraperitoneale, è stato proposta l’associazione dell’ipertermia e la variazione della metodica chirurgica di applicazione. Tale metodica definita Chemio Ipertermia Intra Peritoneale (CIIP) è diventata un’area di crescente interesse scientifico in ambito oncologico, essendo supportata da molteplici osservazioni clinico-sperimentali (Cavaliere et al., 2000; Glehen et al., 2004a). Il concetto fondamentale di un trattamento intraperitoneale è rappresentato dalla tendenza di alcuni farmaci a concentrarsi a livello del peritoneo attraversandolo solo gradualmente. Tale probabilità dipende da molteplici fattori, tra cui la supposta presenza di una barriera Plasmatico-Peritoneale. Tale ipotesi è basata su diversi studi che confermano l’esistenza di un gradiente plasmatico-peritoneale. La barriera è rappresentata dal tessuto sottomesoteliale e dalla membrana basale dei capillari, che limitano il riassorbimento di farmaci idrofili o ad elevato peso molecolare come la mitomicina C, il cisplatino e la doxorubicina. Il risultato ottenuto è un elevato rapporto di Area Sotto la Curva (AUC), peritoneo (AUCT), plasmatici (AUCS), che rappresenta il presupposto fondamentale di un incremento del vantaggio (Rd) di un

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trattamento locoregionale (IA) verso un trattamento sistemico (IV) come risulta dalla seguente formula (Collins, 1990):

Rd = (AUCT/AUCS)IA/(AUCT/AUCS)IV

In altre parole, il vantaggio è funzione diretta del rapporto tra le concentrazioni farmacologiche rilevate a livello del peritoneo rispetto a quelle ematiche. Per compartimenti che non metabolizzano direttamente il farmaco o non lo eliminano, il vantaggio Rd è funzione diretta della clearence sistemica (ClTB) ed inversa del flusso ematico locale (Qi) secondo la formula:

Rd = ClTB/Qi + 1

La clearence dei chemioterapici somministrati a livello intraperitoneale è inferiore a quella plasmatica e questa, infatti, è una caratteristica che incrementa il vantaggio di tale somministrazione, che si traduce in una prolungata permanenza dei chemioterapici nella cavità intraperitoneale, condizione fondamentale per un incremento della citotossicità. È stato dimostrato che il cisplatino ha una maggiore capacità di penetrazione nel tessuto tumorale quando somministrato in condizioni ipertermiche. Inoltre, a 40°-42°C le cellule neoplastiche diventano più chemiosensibili per l’aumentata concentrazione intracellulare dei farmaci, la maggiore attivazione, specialmente per gli agenti alchilanti, la diminuita capacità di riparo dei danni al DNA. Questi eventi sono più intensi nelle cellule tumorali ovariche cisplatino-resistente, che nelle cellule cisplatino-sensibili (Hettinga et al., 1997). La formazione di addotti platino-DNA dopo esposizione al cisplatino è aumentata e la sua rimozione ridotta in condizioni ipertermiche, con un conseguente relativo effetto letale sulle cellule. Descrizione della tecnica (Vaglini et al., 2001)

Citoriduzione chirurgica Il concetto di chirurgia citoriduttiva (CCR) deve essere inteso come completa asportazione degli impianti neoplastici con eventuali microresidui di dimensioni non superiori a 2,5 mm (target ottimale della CIIP). La metodica necessita di regola di manovre di peritonectomia secondo la tecnica descritta da Sugarbaker (2003). La preparazione pre-operatoria include: - l’esame obbiettivo generale;

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- esami strumentali: TC torace-addome-pelvi, eventuale PET total body ed eventuale laparoscopia di stadiazione;

- esami ematochimici: marcatori tumorali, livello serico di albumina, clearance di creatinina.

Il ricovero avviene uno o due giorni prima dell’intervento. Il giorno prima dell’intervento il paziente viene preparato mediante toilette intestinale e terapia anticoagulante. Alla pre-anestesia, il paziente riceve una profilassi antibiotica. In sala operatoria è necessario posizionare il paziente in posizione supina (Figura 6), con le pieghe dei glutei avanzate fino ai margini del tavolo operatorio, al fine di ottenere un ampio accesso al perineo durante la procedura chirurgica. Il peso degli arti inferiori viene direzionato in sede plantare, in maniera tale che un peso minimo si concentri sui polpacci. Se gli arti non sono correttamente posizionati, possono verificarsi mionecrosi al compartimento posteriore delle gambe. Un accesso venoso centrale viene di regola utilizzato così come un catetere vescicale a tre vie ed un sondino nasogastrico. Una esposizione ampia verrà ottenuta attraverso l’utilizzo di divaricatori di Thompson Self-Retaining o Carpentier. Figura 6 Posizione del Paziente sul letto operatorio

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Chirurgia elettrica tipo laser (Laser-Mode Electro Surgery) Un dispositivo chiamato ball-tip electrosurgical handpiece mediante un elettrodo sferico di 2 mm viene utilizzato per dissecare il peritoneo tumorale della parete addominale normale. Verrà utilizzato il bisturi elettrico ad alto voltaggio. Fase chirurgica La CCR viene ottenuta mediante una sequenza ordinata di manovre ben codificate che vengono eseguite in funzione dell’estensione della malattia (Figura 7): - resezione del grande omento, peritonectomia parietale destra

± resezione del colon destro; - peritonectomia del quadrante superiore sinistro e parietale sinistra,

± splenectomia; - peritonectomia del quadrante superiore destro, resezione della

capsula Glissoniana, peritonectomia della tasca di Morrison; - resezione del piccolo omento, citoriduzione dell’ilo epatico

± colecistectomia ± resezione parziale o totale dello stomaco - peritonectomia pelvica ± resezione del sigma ± isterectomia ed

annessectomia bilaterale; - altre resezione intestinali e/o resezioni di massa tumorale; - anastomosi intestinali. Figura 7 Schema di peritonectomia

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Chemio ipertermia intra peritoneale Dopo la citoriduzione, 4 cannule vengono posizionate nella cavità addominale. Due di queste verranno utilizzate per l’infusione del liquido, rispettivamente nella cavità sottofrenica destra e nella pelvi. Le rimanenti due cannule verranno posizionate rispettivamente nella cavità in sede centro addominale e superficialmente nella pelvi per l’effusione del liquido (Figura 8). Figura 8 Schema della CIIP

Macchina per CEC e circuito La perfusione peritoneale prevede l’utilizzazione di una macchina che presenti le seguenti peculiarità: 1) un sistema di pompe; 2) un termostato o scambiatore di calore; 3) sistemi integrati di controllo delle temperature, delle pressioni e del flusso; 4) sistema di analisi dei dati mediante uno specifico programma computerizzato con visualizzazione in tempo reale dei parametri e loro registrazione; 5) un circuito extracorporeo (CEC). L’apparecchiatura deve essere garantita dalla normativa C.E. Vengono, inoltre, utilizzati una serie di termometri per la valutazione costante della temperatura intra-addominale.

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Priming Per priming si intende il liquido di riempimento del circuito. Non vi è univocità di vedute sul tipo di liquido più idoneo per un trattamento ipertermo-chemioterapico intraperitoneale. I gruppi giapponesi utilizzano prevalentemente liquido per dialisi peritoneale, mentre i gruppi francesi prediligono le soluzioni fisiologiche. All’Istituto Nazionale Tumori di Milano è stata sperimentata una soluzione composta per 2/3 da soluzione Normosol R pH 7.4 e per 1/3 da Emagel. Per quanto riguarda il volume ottimale del priming questo deve essere sufficientemente abbondante ai fini di garantire una temperatura omogenea e constante, ma non eccessivo al punto di causare una distensione addominale e termodiluzione corporale. Pertanto, per un adeguato funzionamento del circuito un volume di 3 a 4 litri per la tecnica ad addome aperto e 6 litri per la tecnica ad addome chiuso sono sufficienti (Deraco et al., 2003a). I farmaci Gli schemi di utilizzo dei farmaci possono essere:

Autore/ anno Farmaco Dosaggio Farmaco Dosaggio Durata

perfusione Indicazione

Fugimoto et al., 1993 Cisplatino

25,0 mg/m2/l di perfusato

Mitomicina C 3,3gm/m2/l

di perfusato

60 min

Pseudomixoma peritonei e carcinoma colorettale

Elias et al., 2002 Oxaliplatino

460 mg/m2 in 2 l/m2 di perfusato

30 min Carcinoma colorettale

Rossi et al., 2002 Cisplatino 43 mg/l di

perfusato Adriamicina

15,25 mg/l di

perfusato 90 min

Carcinoma ovarico e

mesotelioma peritoneale

de Bree et al., 2003 Docetaxel 75 mg/m2 Carcinoma

ovarico

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Modalità di esecuzione: le tecniche ad addome aperto e semi-chiuso e chiuso (Stephens et al., 1999; De Simone et al., 2003; Glehen et al., 2003a; Kusamura et al., 2003) Nella tecnica ad addome chiuso, la pelle della parete addominale è temporaneamente chiusa con sutura continua e le cannule vengono connesse al circuito ai fini di iniziare la CIIP. Nella modalità aperta, l’addome è coperto con uno strato di materiale plastico ed il vapore dei farmaci sono aspirate per proteggere l’equipe della sala operatoria. Il perfusato riscaldato contenente i farmaci viene somministrato nella cavità peritoneale attraverso la macchina con un flusso medio di 600-1000 ml/min per 60/90 minuti. Al fine di ottenere una temperatura intra-addominale di 42,5°C, è necessario mantenere la temperatura di infusione a 44°C circa. Durante la perfusione, se la tecnica in utilizzo è ad addome aperto, l’operatore deve continuamente manipolare l’intestino al fine di garantire un’omogenea distribuzione di calore e chemioterapici. Dopo la perfusione, il perfusato viene rapidamente drenato e si procede alla chiusura della parete addominale dopo un’ispezione accurata della cavità. Precauzioni e sorveglianza dei parametri cardiovascolari ematochimici e della temperatura La maggiore complicanza intra-operatoria è rappresentata da un’ipertermia generalizzata, per cui preventivamente un’ipotermia del paziente viene eseguita mediante applicazione di sacche ghiacciate a livello delle pieghe di flessione ed eventualmente di gambali ghiacciati; inoltre un casco ghiacciato serve a refrigerare il cranio. Anche nella vescica si infonde soluzione fisiologica raffreddata ai fini di evitare danneggiamenti della mucosa. La temperatura ottimale da raggiungere prima dell’inizio della CIIP è di 32°-33°C; a ciò concorre il solo fatto di mantenere l’addome aperto per un lungo periodo di tempo senza essere riscaldato (fase di citoriduzione). La temperatura centrale deve essere accuratamente monitorata durante il trattamento, come pure la pressione arteriosa e venosa centrale; la temperatura della vescica urinaria verrà rilevata mediante un particolare catetere dotato di trasduttore di temperatura; la temperatura del cranio verrà rilevata a livello di una narice; altri siti dove è opportuno rilevare le temperature sono il retto e gli arti. Durante l’intervento, ogni 30 minuti viene valutato il flusso cardiaco, effettuato un prelievo ematico per monitorare i parametri ematochimici ed eseguita una emogasanalisi.

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Periodo post-operatorio immediato Nel periodo post-operatorio i pazienti sottoposti a CCR + CIIP vengono assistiti presso l’unità di terapia intensiva per un periodo di circa 72 ore. I pazienti ricevono un trattamento con plasma fresco congelato in quantità tale da mantenere adeguato il livello serico di albumina. Al fine di prevenire un’eventuale insufficienza renale, i pazienti vengono adeguatamente idratati. Inoltre, sono attentamente valutati i parametri emodinamici, di funzionalità renale ed epatica. Patologie bersaglio

- CP resecabile da carcinoma dell’ovaio (Rossi et al., 1999; Deraco et al., 2001)

- Mesotelioma peritoneale (Deraco et al., 2003b,c) - CP resecabile da carcinoma colorettale (Elias et al., 2001; Glehen et

al., 2003b; 2004b; Verwaal et al., 2003; Cavaliere et al., 2004) - Tumori mucinosi dell’appendice condizionanti un Pseudomixoma

peritonei (Deraco et al., 2002; 2003d) - Carcinomi dell’appendice con CP resecabile (Mohamed et al., 2004) - Carcinoma dello stomaco con CP resecabile (Akiyama et al., 1998;

Bozzetti et al., 1998; Yu et al., 2001; Sugarbaker et al., 2003) Eleggibilità

Criteri di inclusione - età inferiore ai 75 anni; - adeguata funzionalità renale, epatica e midollare; - performance status (ECOG) 0, 1 o 2; - consenso informato firmato dal paziente. Criteri di esclusione - impossibilità di un adeguato follow-up; - presenza di altre malattie neoplastiche maligne; - infezione attiva o altre condizione cliniche contemporanee che

possano interferire nella capacità del paziente di ricevere il trattamento proposto secondo il protocollo;

- metastasi extradistrettuali; - occlusione intestinale completa; - inadeguata funzionalità renale, epatica o midollare.

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Stato dell’arte

Carcinoma del colon Molti studi di fase II hanno riportato l’efficacia dell’uso di questa complessa strategia nei pazienti con CP da carcinoma del colon, con interessanti percentuali di sopravvivenza a 3 anni che vanno dal 25 al 47%. La SITILO ha condotto uno studio multicentrico, che ha consentito dall’aprile del 1995 di arruolare 69 pazienti con carcinosi peritoneale estesa di origine colorettale (P2-P3 nel 98% dei casi) (Cavaliere et al., 2004). I pazienti sono stati quindi sottoposti a CCR e CIIP. L’entità della peritonectomia è stata modulata sulla base dell’entità della diffusione neoplastica. La perfusione è stata condotta per 60-90 minuti alla temperatura sui tessuti di 41,5°-42°C infondendo cisplatino (25 mg/m2/l di perfusato) e mitomicina C (3,3 mg/m2/l di perfusato). La sopravvivenza della serie globale a 3 anni è stata del 26,7%, con una sopravvivenza mediana di 19 mesi. La completezza della citoriduzione chirurgica (CC 0-1 vs CC 2) ha dimostrato un forte impatto sulla sopravvivenza (p=0,00001) e così pure l’indice di carcinosi peritoneale (PCI) secondo Sugarbaker al cut-off di 10 (p=0,02). Valutando quindi i soli pazienti con PCI ≤ 10 e CC 0-1, la sopravvivenza a 4 anni è stata del 44,7% con una mediana di 28 mesi. Un più esiguo numero di pazienti con intervallo libero da malattia ≥ 2 anni ha mostrato una sopravvivenza libera da malattia a 5 anni del 50%. La peritonectomia associata a CIIP ha consentito di modificare sostanzialmente la storia naturale di malattia in pazienti con carcinosi peritoneale avanzata da primitivo colorettale. Un’adeguata selezione dei pazienti in termini di PCI e citoriducibilità completa od ottimale consente una sopravvivenza a 4 anni che si avvicina al 45%. Il ruolo prognostico dell’intervello libero di malattia sembra determinante e merita di essere controllato su una casistica più ampia. Interessanti risultati sono stati recentemente pubblicati da Glehen e collaboratori (2004b) riguardanti uno studio retrospettivo condotto su 506 pazienti sottoposti a peritonectomia e CIIP; a questo studio hanno concorso i più importanti centri italiani. La sopravvivenza mediana globale è stata di 19,2 mesi; i pazienti che hanno ottenuto una citoriduzione completa, hanno avuto una prognosi migliore con una sopravvivenza mediana di 32,4 mesi. La completezza della citoriduzione si è rivelata essere una variabile statisticamente significativa (p<0,001). Infine, Verwaal- Zoetmuller e collaboratori (2003) hanno condotto uno studio prospettico in cui 105 pazienti affetti da CP da carcinoma

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colorettale sono stati randomizzati. Il braccio sperimentale prevedeva la CCR associata alla CIIP seguita da chemioterapia sistemica, mentre il braccio controllo prevedeva la terapia standard con chemioterapia sistemica (5-fluorouracile-leucovorin) con o senza chirurgia palliativa. Il gruppo sperimentale ha presentato un vantaggio di sopravvivenza significativo rispetto al gruppo controllo. Carcinoma gastrico Recentemente sono stati pubblicati i dati di un studio clinico randomizzato prospettico su 248 pazienti affetti da carcinoma gastrico, nei quali la CIIP era stata associata alla chirurgia tradizionale; i risultati della sopravvivenza a distanza sono stati statisticamente significativi per le neoplasie avanzate, con sopravvivenza a 5 anni del 49% nei pazienti sottoposti a CIIP associata a chirurgia rispetto al 18% nei pazienti con sola chirurgia (Sugarbaker et al., 2003). E’, quindi, fortemente ipotizzabile un miglioramento nelle incidenze delle recidive locali e delle sopravvivenze globali nel cancro dello stomaco avanzato, associando asportazione di organo, peritonectomia distrettuale e chemioterapia locoregionale. In definitiva siamo di fronte ad una rivoluzione di pensiero: se le carcinosi peritoneali non sono più considerate malattie sistemiche incurabili, la peritonectomia associata a chemioterapia intraperitoneale ed ipertermia ne rappresenta la risposta terapeutica più razionale e moderna. Carcinoma ovarico Un importante studio di fase II è stato condotto dalla SITILO su 27 pazienti con tumore epiteliale dell’ovaio avanzato, confermato istologicamente e sottoposte a Peritonectomia + CIIP (Deraco et al., 2001). Tutte le pazienti presentavano malattia ricorrente o progressiva in seguito a Chirurgia di stadiazione e chemioterapia sistemica. Le pazienti presentavano un’età media di 53 anni (30-67); il follow-up medio è stato di 17.4 mesi (0.3-36). Dopo l’intervento di citoriduzione e d’accordo con i criteri descritti precedentemente, 15 (55%), 4 (15%) 3 (11%) e 5 (19%) delle pazienti, presentavano rispettivamente una completezza di citoriduzione CC-0, CC-1, CC-2; e CC-3. La sopravvivenza globale (SG) a due anni, per la serie globale di pazienti, è stata del 55%. La sopravvivenza libera da malattia e la sopravvivenza libera da malattia locoregionale per lo stesso periodo sono state del 21% e 44% rispettivamente. Le variabili che hanno influenzato significativamente la

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SG sono state la radicalità della citoriduzione, l’estensione della carcinomatosi, l’età delle pazienti e l’intervallo tra la diagnosi e la terapia con CCR+CIIP. Il volume di malattia residua ha influenzato significativamente la sopravvivenza globale (SG) (P=0,00025). Pazienti con malattia residua microscopica o minima (CC-0/1) hanno avuto il 77% di probabilità di sopravivenza a due anni (mediana 20,3 mesi), mentre tutte le pazienti con malattia residua > 2,5 mm (CC-2/3) sono decedute entro 20,3 mesi (mediana 4,3 mesi). Riguardo l’estensione della malattia, pazienti con carcinosi P1/P2 hanno dimostrato soltanto una tendenza ad una sopravvivenza più lunga rispetto al gruppo P3 (SG a due anni- 63% vs 50%, P=0,09). Altro fattore correlato con la SG è stato l’età. Il gruppo di pazienti con età superiore a 53 anni hanno presentato 67% di SG a due anni, mentre il gruppo con età inferiore ha avuto un andamento prognostico più sfavorevole con una SG a due anni del 40% (P=0,04). Pseudomixoma peritonei In considerazione della rarità di incidenza di questa patologia, non vi sono molti studi pubblicati in letteratura, se si escludono i cosiddetti case report. Una delle più importanti casistiche pubblicate riguarda uno studio multicentrico condotto dalla SITILO (Deraco et al., 2003d). Sono stati complessivamente inclusi nello studio 70 pazienti (31 maschi e 39 femmine) con età media di 56 anni (range 24-76). Un’ottimale citoriduzione è stata ottenuta nell’87% dei pazienti. La morbilità post-operatoria grado III è stata del 14%; un paziente è deceduto 30 giorni dopo il trattamento per emorragia e complicanze conseguenti ad una fistola duodenale. La tossicità correlata alla CIIP è stata del 9%. Il follow-up medio è di 28,6 mesi (range 2-72). A 5 anni, la sopravvivenza globale è stata del 91%, l’intervallo libero da progressione 54% ed un controllo locale della malattia è stato ottenuto nel 69% dei pazienti. Mesotelioma peritoneale La casistica più numerosa pubblicata in letteratura scientifica e riguardante il trattamento di peritonectomia associato a chemio ipertermia intra peritoneale riguarda un lavoro multicentrico condotto dalla SITILO: 61 pazienti (31 M, 30 F) di età compresa tra 24-72 anni (media 51) affetti da MP, sono stati sottoposti a Peritonectomia+CIIP ±CT (Deraco et al., 2003b). La comparsa di ascite, massa addominale o l’incremento del marcatore tumorale è stato considerato segno di progressione. Studi bio-molecolari e di farmacologia preclinica sono

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stati condotti su materiale prelevato al momento della CCR (19 e 7 casi, rispettivamente). Una soddisfacente peritonectomia è stata possibile nel 74% dei pazienti che, alla fine dell’intervento, risultavano radicalmente citoridotti oppure presentavano un residuo < 2,5 mm. Il follow-up medio è attualmente di 20 mesi. Con questo regime terapeutico, la probabilità di sopravvivenza globale a 5 anni è del 54% e la sopravvivenza libera da progressione del 37%. Protocolli clinici attivi

Carcinoma ovarico Studio multicentrico randomizzato di chirurgia citoriduttiva + chemioipertermia seguito da chemioterapia sistemica versus chemioterapia sistemica in pazienti con carcinoma epiteliale ovarico stadio III/IV con residuo macroscopico di malattia dopo chemioterapia di prima linea (SITILO-CNR-MIUR) (Deraco et al., 2003a). Mesotelioma peritoneale Mesotelioma Peritoneale: peritonectomia e chemio ipertermia intra peritoneale e prospettive derivanti dalla ricerca traslazionale (Istituto Nazionale Tumori, Milano). Carcinoma colorettale Studio prospettico non controllato in pazienti affetti da CP da carcinoma colorettale trattati con CRC + CIIP citoriduzione e valutazione di fattori di apoptosi e di proliferazione cellulare (SITILO). Pseudomixoma peritonei Studio clinico patologico con valutazione dei markers CK7, CK20, CDX-2, MUC-2, MUC-5AC e CD44s (Istituto Nazionale Tumori, Milano). Prospettive future

Si è recentemente tenuto a Madrid (2-4 dicembre 2004) il 4° Workshop Internazionale sulle Neoplasie del Peritoneo ovvero il congresso mondiale che riunisce tutti gli esperti che attivamente si dedicano alla clinica ed alla ricerca nell’ambito dei tumori primitivi e secondari del peritoneo. E’ stato tracciato il lavoro che sarà condotto nei prossimi due anni e che culminerà nel 5° Workshop, che si terrà a Milano. La novità

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consiste nell’istituire dei gruppi internazionali di ricerca con il coinvolgimento di patologi, biologi, anestesisti, infermieri, perfusionisti, oncologi medici e tutte le professionalità che con i chirurghi collaborano all’avanzamento della ricerca in questo ambito. L’obiettivo è quello di raggiungere un consenso su molti punti in discussione e di evidenziare le controversie su cui basare il lavoro futuro. Si aprono di fatto nuovi orizzonti nella collaborazione internazionale, che consentiranno nei prossimi anni di dare delle risposte a molti quesiti e di studiare più a fondo la patologia neoplastica peritoneale, soprattutto analizzandone il suo profilo pato-biologico. Per quanto riguarda l’aspetto peculiare della ricerca clinica, sono stati proposti degli studi clinici randomizzati multicentrici, soprattutto per quanto attiene le patologie ad elevato impatto sociale come il carcinoma del colon e dello stomaco, che possano dare delle risposte sulla efficacia del trattamento combinato della carcinosi mediante CCR + CIIP. Bibliografia

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2.4 Perfusione ipertermico-antiblastica isolata di fegato Principi di metodologia

Il fegato rappresenta la sede iniziale, e spesso unica, di sviluppo di neoplasie primitive o secondarie da adenocarcinoma del colon-retto, melanoma oculare e, meno frequentemente, tumori stromali dell’apparato digerente, tumori neuroendocrini ed adenocarcinomi a localizzazione primitiva occulta (Alexander et al., 1998a). L’epatocarcinoma primitivo è resecabile solo in un limitato numero di casi (9-27%), con una sopravvivenza a 5 anni attorno al 50%. Nei pazienti non resecabili, la sopravvivenza mediana è inferiore a 12 mesi. In questi pazienti, la chemioterapia sistemica consente di ottenere un tasso di risposta del 10%, somministrando un singolo chemioterapico e del 26% utilizzando una combinazione di più farmaci, senza comunque raggiungere un miglioramento della sopravvivenza (Feldman et al., 2004). I pazienti affetti da adenocarcinoma del colon retto presentano metastasi epatiche già al momento della diagnosi nel 10-25% dei casi, mentre nel 20-30% si sviluppano durante il follow-up (Wood et al., 1976; Lise et al., 1990). Nel 25-35% dei pazienti affetti da cancro del colon-retto, la causa di morte è rappresentata dalla progressione di malattia al fegato (Weiss et al., 1986; Hugh et al., 1997; Yoon et al., 1999). Attualmente, l’unico trattamento con finalità curative è costituito dalla resezione chirurgica, attuabile solo nel 20-30% dei pazienti (Christoforidis et al., 2002). Nel restante 70-80%, in assenza di trattamento la sopravvivenza mediana è di 6-10 mesi se la malattia è confinata al fegato ed inferiore a 6 mesi in presenza di concomitanti localizzazioni extra-epatiche o in caso di recidiva del tumore primitivo (Wagner et al., 1984). Nei pazienti sottoposti ai protocolli standard di chemioterapia sistemica con 5-fluorouracile (5-FU) e leucovorin (acido folinico) la sopravvivenza mediana raggiunge i 10-14 mesi (Ragnhammar et al., 2001), potendo arrivare, con l’aggiunta di irinotecan e oxaliplatino, a 14,8 e 16,2 mesi rispettivamente (De Gramont et al., 2000; Saltz et al., 2000). Per quanto riguarda i pazienti con melanoma oculare, nel 70-90% dei casi il fegato rappresenta la sede iniziale e principale di diffusione metastatica (Kath et al., 1993; Seregard et al., 1995). In questi pazienti, la sopravvivenza mediana dal riscontro del coinvolgimento epatico è, indipendentemente dal trattamento eseguito, di 2-7 mesi (Rajpal et al., 1983; Bedikian et al., 1995).

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Nel corso degli ultimi due decenni, con l’obbiettivo di migliorare la prognosi dei pazienti portatori di tumori epatici primitivi o secondari non resecabili, sono state sviluppate diverse strategie di terapia locoregionale. Sono state sperimentate sia tecniche basate sulla somministrazione di chemioterapici (infusione intra-arteriosa, infusione intra-portale, chemio-embolizzazione), il cui razionale consiste nell’aumentare la concentrazione dei farmaci nel distretto epatico riducendone al contempo i livelli sistemici, sia tecniche ablative finalizzate alla distruzione locale delle singole lesioni metastatiche (crioterapia, radioablazione, alcolizzazione). Tra queste la perfusione ipertermico-antiblastica di fegato (PIAF) rappresenta una strategia terapeutica locoregionale recentemente riconsiderata per il trattamento delle neoplasie epatiche avanzate. Essa prevede la completa esclusione del fegato dalla circolazione sistemica e la sua integrazione in un circuito extracorporeo indipendente, attraverso il quale l’organo può essere perfuso con chemioterapici a dosaggi molto elevati. Inoltre la PIAF consente, mediante il riscaldamento del circuito di perfusione, di eseguire un trattamento ipertermico. L’ipertermia, come dimostrano diversi studi in vitro (Hahn et al., 1974; Giovanella et al., 1976; Clark et al., 1994), ha effetti citotossici diretti sulle cellule maligne e potenzia sinergicamente l’effetto antineoplasico di numerosi farmaci. La PIAF consente di raggiungere concentrazioni epatiche del farmaco 70-80 volte superiori a quelle ottenibili attraverso la somministrazione sistemica (Alexander et al., 1998a). Questa tecnica offre anche numerosi vantaggi rispetto all’infusione intra-arteriosa: a) la concentrazione del farmaco nel circolo arterioso epatico è circa 30 volte superiore; b) i farmaci utilizzati non devono necessariamente avere un alto tasso di estrazione al primo passaggio; c) si possono indurre condizioni di ipertermia che interagiscono sinergicamente con i farmaci antiblastici (Goldberg et al., 1995; Liu et al., 2003); d) attraverso il circuito isolato di perfusione è possibile somministrare sostanze quali il TNFα od altri modulatori di risposta biologica, non somministrabili per via sistemica a causa dell’elevata tossicità alle dosi efficaci. La PIAF presenta infine importanti vantaggi anche rispetto alle tecniche ablative, in quanto consente di trattare lesioni metastatiche anche se numerose e di diametro superiore a 5 cm, così come eventuali lesioni microscopiche occulte.

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Descrizione della tecnica

Si effettua un’incisione sottocostale bilaterale. Una volta confermata, mediante esplorazione diretta del cavo peritoneale, l’assenza di malattia extraepatica, si esegue una biopsia dei linfonodi dell’ilo epatico: la presenza di metastasi linfonodali non costituisce un criterio di esclusione dalla PIAF, ma pone l'indicazione allo svuotamento linfonodale della regione. Il fegato è quindi isolato dal diaframma; il lobo destro e sinistro sono completamente mobilizzati previa legatura delle vene freniche per evitare fughe di farmaco nel circolo sistemico; viene mobilizzato anche il duodeno. La vena cava inferiore è isolata tra le vene renali (inferiormente) ed il diaframma (superiormente); vengono legate e sezionate tutte le tributarie retroperitoneali, le sovra-epatiche accessorie e, generalmente, la vena surrenalica destra. Sono completamente isolati il coledoco, la vena porta, le arterie epatica comune, propria e gastroduodenale. La colecisti viene asportata. Due piccole incisioni sono effettuate nel cavo ascellare sinistro ed a livello dell’inguine sinistro, allo scopo di isolare la vena ascellare e la vena safena, rispettivamente. A questo punto il paziente viene eparinizzato (200 U/Kg e.v. di eparina). Successivamente, si effettua una safenotomia ed una cannula viene fatta risalire fino al livello delle vene renali. Viene quindi effettuata una venotomia ascellare, attraverso la quale è inserita una seconda cannula. Le due cannule sono quindi connesse ad un circuito esterno munito di pompa centrifuga ed il sistema viene attivato. Dopo che si è stabilizzato il flusso nel bypass venoso sistemico, il segmento di vena cava sottoepatica viene isolato con dei clamp vascolari ed una cannula viene introdotta con estremo distale a livello delle vene sovraepatiche, con funzione di drenaggio venoso durante la perfusione del fegato. A questo punto viene incisa la vena porta ed è posizionata una cannula a livello della vena mesenterica superiore e collegata al bypass venoso sistemico. Una cannula arteriosa viene quindi posizionata in arteria gastroduodenale; tale cannula e quella situata in vena cava vengono collegate ad un secondo circuito extracorporeo; si procede quindi al clampaggio dell’arteria epatica comune e della vena cava sovraepatica appena al di sotto del diaframma e viene attivato il circuito epatico. Durante la perfusione epatica è utilizzato un sistema di monitoraggio scintigrafico della fuga del perfusato nel circolo sistemico, analogo a quello utilizzato durante la perfusione isolata di arto con TNF-α e melphalan.

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Il circuito di perfusione epatico, analogamente al circuito extracorporeo utilizzato in cardiochirurgia, comprende una pompa peristaltica, un ossigenatore ed uno scambiatore di calore. Il perfusato è costituito da 700 ml di soluzione fisiologica e da 300 ml di globuli rossi concentrati. I flussi sono mantenuti tra 600 e 1000 ml/min. La temperatura del perfusato viene mantenuta tra 41,0°-41,5°C. Raggiunta questa temperatura, si inietta il melphalan (1,5 mg/kg); la durata della perfusione è di 60 minuti. Al termine, il fegato viene lavato sia attraverso l’arteria gastroduodenale con 1500 ml di soluzione salina e 1500 ml di Ringer Lattato, sia attraverso la vena porta, utilizzando una cannula indipendente, con 1 litro di soluzione salina. Terminato il lavaggio vengono rimossi i clamp dalla vena cava inferiore sovraepatica e dall’arteria epatica comune in modo da ripristinare il flusso di sangue arterioso al fegato ed un normale ritorno venoso in atrio destro. La cannula arteriosa viene rimossa e l’arteria gastroduodenale può essere suturata oppure utilizzata per il posizionamento di un catetere connesso ad un port sottocutaneo per un’eventuale chemioterapia intra-arteriosa epatica successiva. Vengono quindi rimosse le cannule dalla vena porta, dalla cava inferiore, dalla vena ascellare e dalla safena e si procede alla ricostruzione vascolare . Il paziente viene quindi trasferito presso una Unità di Terapia Intensiva, dove rimane per almeno 24 ore. L’obiettivo principale del monitoraggio anestesiologico è quello di rilevare eventuali segni di tossicità sistemica secondaria alla procedura. Schema di perfusione ipertermico-antiblastica isolata di fegato

1: Pompa centrifuga 2: Pompa

peristaltica

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Patologie bersaglio

La perfusione isolata di fegato è tuttora considerata un trattamento sperimentale e viene proposta nell’ambito di studi clinici controllati per neoplasie epatiche primitive o secondarie non resecabili, confinate al fegato, che non abbiano risposto ai trattamenti sistemici o locoregionali convenzionali. Le neoplasie che metastatizzano principalmente, e talora esclusivamente, al fegato sono l’adenocarcinoma del colon-retto, il melanoma oculare e, meno frequentemente, i tumori stromali dell’apparato digerente, i tumori neuroendocrini e gli adenocarcinomi a localizzazione primitiva occulta (Alexander et al., 1998a). Non sono candidabili i pazienti con un interessamento epatico superiore al 50%, in quanto si considera questo il limite per garantire una funzionalità epatica residua in grado di sostenere il trattamento. Inoltre, non sono considerati candidabili i pazienti affetti da cirrosi o da altre epatopatie croniche, ipertensione portale, malattia veno-occlusiva epatica (pregressa o in atto), oppure con altri fattori di rischio operatorio maggiore. I pazienti candidabili alla PIAF devono sospendere eventuali trattamenti chemio- o radioterapici in corso almeno un mese prima della perfusione, al fine di evitare una sovrapposizione della tossicità. Al momento dell’intervento, è indispensabile che ogni eventuale effetto collaterale dovuto alla precedente terapia antineoplastica si sia risolto e che i pazienti presentino un’adeguata funzionalità epatica e renale, un profilo ematologico nella norma ed un performance status accettabile. Stato dell’arte

La perfusione isolata di fegato (PIAF) è stata sperimentata in cavie animali alla fine degli anni cinquanta e realizzata nell’uomo, per la prima volta, nel 1961 da Ausman e collaboratori, i quali hanno somministrato mostarde azotate a cinque pazienti, in condizioni di normotermia (Ausman, 1961). A quell’epoca, le elevate morbilità e mortalità associate a tale trattamento, aggressivo, costoso, tecnicamente complesso e la scarsa evidenza di una sua reale efficacia, ne hanno pesantemente ostacolato l’applicazione clinica. Per gli stessi motivi, gli studi clinici condotti negli anni successivi sono risultati deludenti. Aigner e collaboratori hanno trattato 29 pazienti con metastasi epatiche da adenocarcinoma del colon-retto con 5-FU somministrato via PIAF; la sopravvivenza mediana è stata di 8 mesi (Aigner et al., 1984). Successivamente, Schwemmle e collaboratori hanno riportato i risultati ottenuti in 50 pazienti sottoposti a PIAF con 5-FU solo o in associazione

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a mitomicina C; la mortalità perioperatoria è risultata dell’8%, con un tasso di risposta completa del 22% e di risposta globale del 90% (Schwemmle et al., 1987). Skibba e collaboratori hanno trattato otto pazienti con quattro ore di sola ipertermia; in 5 di 6 pazienti valutabili erano presenti segni radiologici di necrosi all’interno delle lesioni tumorali (Skibba et al., 1986). Marinelli e collaboratori hanno valutato l’efficacia della PIAF in condizioni normotermiche con alte dosi di mitomicina C in 9 pazienti con metastasi epatiche da cancro del colon-retto. Quattro pazienti hanno sviluppato malattia veno-occlusiva, letale in un caso, e la sopravvivenza mediana è risultata di 17 mesi. Questo autore ha concluso che il tasso di risposta e la sopravvivenza mediana erano simili a quelli ottenibili con 5-FU e leucovorin somministrati in infusione intra-arteriosa epatica (Marinelli et al., 1996). Alcuni autori, alla luce dei risultati ottenuti utilizzando melphalan, TNFα ed ipertermia negli arti, hanno avviato protocolli di studio utilizzando per la perfusione di fegato queste stesse associazioni di agenti antineoplastici. Oldhafer e collaboratori hanno trattato con PIAF 12 pazienti con neoplasie metastatiche di diversa origine. Un gruppo (6 pazienti) è stato sottoposto ad PIAF con mitomicina C, un altro gruppo (6 pazienti) ad PIAF con TNFα e melphalan. Non si sono verificati decessi in seguito a complicanze operatorie, né casi di insufficienza epatica post-operatoria. In un caso si è avuta una risposta completa, in quattro casi una risposta parziale. Nessuno dei 12 pazienti aveva risposto ai precedenti trattamenti chemioterapici sistemici (Oldhafer et al., 1998). Van de Velde e collaboratori hanno sottoposto a PIAF con mitomicina C o melphalan 60 pazienti con metastasi non resecabili da cancro del colon-retto. Il 5,6% dei pazienti sono deceduti entro 30 giorni dalla perfusione. Il 22,5% dei pazienti è andato incontro a tossicità epatica severa, benché reversibile. Il tasso di risposta complessivo è stato del 59%, la durata mediana della risposta di 7,7 mesi. La sopravvivenza mediana dopo PIAF è stata di 28,8 mesi (Vahrmeijer et al., 1998). Lindner e collaboratori hanno sottoposto ad PIAF con TNFα e melphalan 11 pazienti con tumori epatici metastatici non resecabili. Di essi, un paziente è morto per complicanze intraoperatorie, un altro per MOF. Una risposta obiettiva è stata osservata in 3 pazienti. In 6 pazienti la malattia è rimasta stabile. La durata mediana della risposta è stata di 6 mesi, la sopravvivenza mediana di 16 mesi (Lindner et al., 1999). Eggermont e collaboratori hanno messo a punto una tecnica di perfusione isolata di fegato ipossica, utilizzando cateteri a palloncino introdotti per via percutanea (Eggermont et al., 2000). Si tratta di un

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approccio sicuramente meno aggressivo, ma associato ad una maggiore fuga di farmaco nel circolo sistemico (Savier et al., 2003; Christoforidis et al., 2002). Dal 1994 ad oggi Alexander e collaboratori hanno trattato più di 200 pazienti utilizzando diversi protocolli di perfusione isolata di fegato (Alexander et al., 2002; 2003). Essi hanno condotto un primo studio di fase I utilizzando l’associazione TNFα-melphalan, dal quale è risultato che la massima dose tollerata è di 1 mg e 1,5 mg/Kg, rispettivamente (Alexander et al., 1998b). Sulla base di questi risultati, è stato pianificato uno studio di fase II nel quale sono stati trattati pazienti con metastasi epatiche di diversa origine,nella maggior parte dei casi da cancro del colon. Utilizzando la suddetta associazione di chemioterapici, Alexander ha ottenuto un tasso di risposta complessivo del 75% con una mortalità associata al trattamento del 4% e, soprattutto, hanno risposto al trattamento i pazienti che non avevano precedentemente risposto alla chemioterapia sistemica o locoregionale, che avevano lesioni di notevoli dimensioni (più di 10 cm) o nei quali la sostituzione del parenchima epatico da parte del tessuto neoplastico era pari al 50% o superiore. Sebbene la durata mediana della risposta sia stata di 9 mesi, alcuni pazienti non presentavano segni di ripresa di malattia dopo un follow-up di tre anni (Alexander et al., 2000). Infine, nel 30% dei pazienti sottoposti a PIAF la regressione delle lesioni è stata tale da consentire la successiva resezione chirurgica effettuata con intento curativo (Alexander et al., 2002). I recenti risultati del gruppo del National Cancer Institute di Bethesda (Maryland, U.S.A.), sia per l’accurata metodologia che per l’ampiezza della casistica, hanno riacceso l’interesse per questo trattamento. L’esperienza del gruppo Pilati (Padova) è iniziata con uno studio preclinico, sottoponendo a perfusione isolata di fegato 10 maiali. Un gruppo di 5 animali è stato sottoposto a perfusione in condizioni di ipertermia moderata (40°C), un altro gruppo di 5 animali a perfusione in ipertermia “vera” (41,5°-42°C). Tra i due gruppi di trattamento non si sono riscontrate significative differenze né per quanto riguarda la tossicità a carico del parenchima epatico né per quanto riguarda il profilo farmacocinetico del melphalan. Questo suggerisce che la perfusione isolata può essere effettuata in ipertermia severa: ciò, in linea teorica, dovrebbe potenziare l’effetto antineoplastico (Pilati et al., 2004).

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Protocolli clinici attivi

E’ attualmente in corso presso la Clinica Chirurgica Generale II dell’Università di Padova uno studio di fase I-II su pazienti affetti da neoplasie epatiche primitive e secondarie non resecabili e non responsive ai trattamenti convenzionali, i cui obbiettivi principali sono quelli di valutare l’impatto di questa procedura sulla risposta del tumore e sulla sopravvivenza del paziente e la tollerabilità della procedura, in termini di complicanze chirurgiche e di tossicità locale e sistemica. Come obiettivi secondari, il protocollo propone di valutare la farmacocinetica del melphalan ed il significato prognostico di alcuni specifici marcatori molecolari espressi dalle cellule neoplastiche. Sono inoltre in corso, presso il National Cancer Institute di Bethesda (Maryland, U.S.A.), quattro studi clinici relativi alla perfusione ipertermico-antiblastica di fegato con melphalan: uno studio di fase II e uno di fase III in pazienti con metastasi epatiche da cancro del colon-retto, uno studio di fase II in pazienti con metastasi da melanoma oculare e uno studio di fase II in pazienti con tumori epatici secondari di origine non colon-rettale. Prospettive future

Gli obiettivi per il futuro possono essere molteplici. Ad esempio, si può ipotizzare di incrementare il tasso di risposta associando la perfusione ipertermico-antiblastica di fegato all'infusione intra-ateriosa pre/post-operatoria come terapie di induzione e mantenimento. In particolare, bisognerà valutare l’efficacia di un trattamento locoregionale post PIAF con FUDR nei pazienti affetti da metastasi epatiche di origine colo-rettale. Inoltre, negli stessi pazienti, potrebbe essere opportuno sperimentare l’efficacia della somministrazione mediante PIAF dei farmaci attualmente considerati i più attivi nei confronti di questo tumore e finora somministrati solo per via sistemica (ad esempio, oxaliplatino). Si potrà valutare anche l’efficacia della associazione al melphalan di farmaci in grado di antagonizzare i fenomeni di polichemioresistenza. Inoltre,resta da stabilire il possibile ruolo della perfusione isolata di fegato come trattamento neoadiuvante. Sono infine in corso di valutazione eventuali correlazioni tra la risposta al trattamento e l’espressione di determinati prodotti genici, quali le multi-drug resistance proteins (MDR), le heat shock proteins (HSP) e la p53: se dovessero emergere delle correlazioni statisticamente significative, sarà possibile sfruttarle a fini prognostico-terapeutici e

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3.0 ALTRE TECNOLOGIE 3.1 Infusione intra-arteriosa

Principi della metodologia

E’ una modalità complementare alla somministrazione endovenosa dei farmaci e consiste nella somministrazione diretta all’interno di un organo o regione dove è situato il tumore, tramite l’irrorazione arteriosa afferente. Le caratteristiche suggerite per l’impiego di tale metodica sono: - la lesione tumorale deve avere una prevalente crescita “regionale” o

la sintomatologia ad essa correlata deve essere clinicamente rilevante;

- il farmaco utilizzato deve possedere alcune proprietà farmacocinetiche, quali una curva dose-risposta di tipo lineare;

- deve essere ottenuta una adeguata distribuzione del farmaco all’interno della lesione.

Il vantaggio della somministrazione regionale è valutato come rapporto tra concentrazione regionale e concentrazione nella circolazione generale e deve essere ottenuto la prima volta che il farmaco raggiunge il bersaglio perché, quando esce dal distretto regionale e raggiunge la circolazione ematica dell’intero organismo, esso si comporta come se fosse stato somministrato in una vena periferica. L’obiettivo della somministrazione locoregionale, pertanto, è quello di aumentare le concentrazioni regionali per ottenere maggiore attività locale senza aumento della tossicità generale. Il diagramma in Figura 1 descrive la situazione farmacocinetica dell’organismo in relazione alla somministrazione regionale. Il corpo può essere suddiviso in due compartimenti: uno rappresenta la sede di somministrazione (A), l’altro il resto del corpo (B). Il destino del farmaco somministrato in A è di raggiungere B con una velocità di scambio definita da Q ed essere eliminato da B con una clearance che è tipica di quel farmaco. In alcuni casi, un farmaco può essere eliminato in tutto o in parte direttamente a livello della regione di somministrazione (E).

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Figura 1

Pertanto, i fattori più importanti che determinano il vantaggio della somministrazione regionale sono la velocità di eliminazione del farmaco (clearance corporea totale, ClT) e la velocità di scambio tra sede di somministrazione e resto del corpo (Q). Il valore di ClT è conosciuto per quasi tutti i farmaci antineoplastici; diverso è il discorso per quanto riguarda il valore di Q, che, nel caso di somministrazione intra-arteriosa, corrisponde al valore della portata dell’arteria, sede di infusione. La conoscenza dei valori di ClT e di Q consente di determinare il vantaggio di concentrazione che si può ottenere con la somministrazione regionale di molti farmaci in molti distretti corporei. Il vantaggio regionale si calcola con la formula di Collins (1984): 1 + ClT/Q(1-E). Poiché il fattore più importante per determinare il vantaggio quantitativo relativo alla somministrazione regionale di un farmaco è il rapporto tra ClT e Q, il modo per ottenere il massimo vantaggio possibile è di scegliere farmaci con elevata clearance corporea totale e/o sedi di somministrazione con velocità di scambio lenta. Descrizione della tecnica

Infusioni ripetute. La tecnica angiografica è semplice e ripetibile anche nei Centri dove è presente una radiologia con angiografia. Dopo l’esecuzione dell’angiografia diagnostica, condotta per accesso femorale, per definire l’anatomia vascolare del distretto da infondere, viene posizionato il medesimo catetere angiografico nell’afferenza desiderata: tripode celiaco per infusioni pancreatiche, arteria epatica propria per infusioni epatiche. Nelle infusioni arteriose epatiche è raramente necessario provvedere ad una ridistribuzione del circolo embolizzando, mediante spirali di Gianturco, l’arteria gastroduodenale,

Sede di somministrazione Resto del corpo

A B

E Q

ClT

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la gastrica destra ed eventuali arterie epatiche ad origine anomala, per evitare il reflusso di chemioterapico nel distretto gastroduodenale. Infusioni attraverso Infuse a Port impiantato per via percutanea. Il sistema impiantabile infusore Infuse a Port è costituito da un serbatoio in titanio, provvisto di membrana in silicone e connesso con catetere posizionato in arteria epatica, attraverso cui si infonde il chemioterapico. In questo caso, l’accesso percutaneo dello studio angiografico preliminare può essere femorale destro, succlavio sinistro o ascellare sinistro, indipendentemente dalla sede prescelta per il posizionamento del sistema impiantabile definitivo. Dopo angiografia diagnostica (tripode celiaco ed arteria mesenterica superiore), per definire l’anatomia vascolare del distretto epatico e la ridistribuzione del circolo gastroduodenale, si esegue la sostituzione del catetere angiografico con il catetere in silicone o poliuretano del sistema Infuse a Port. Il suo estremo viene posizionato in arteria epatica propria o nel ramo destro o sinistro ed estremo distale incuneato, ma non fissato, in sede semi-occlusale: in tal caso vengono effettuati sul catetere angiografico 1-2 fori laterali di fronte all’ostio dell’arteria epatica comune. Si procede poi ad alloggiare il port in una tasca sottocutanea ed a tunnellizzazione sottocutanea per raggiungere il punto di accesso arterioso del catetere. Al termine del posizionamento, viene iniziata la terapia anticoagulante, con iniezione di 2000 UI di eparina nel serbatoio. Terapia consigliata per tutto il tempo di permanenza del catetere: 2000 UI di eparina al termine di ogni seduta oppure 1 volta/settimana nell’intervallo tra i cicli + 2 iniezioni/die sottocute (Grosso et al., 2000). Altro programma consigliato è una bassa dose giornaliera di Warfarin per mantenere il valore INR tra 1.5 e 2.0 (Fiorentini et al., 2003; 2004). Dopo 1 settimana usualmente viene eseguito un controllo scintigrafico con albumina marcata (TC-99m) per verificare che la perfusione epatica sia globale e che ci sia assenza di perfusione extraepatica. I vantaggi del posizionamento percutaneo rispetto al posizionamento chirurgico sono: - non necessità di anestesia generale; non laparotomia; riduzione della

degenza; - minor costo a fronte di analoga efficacia terapeutica dell’infusione

dei farmaci chemioterapici; - complicanze minori sovrapponibili all’impianto chirurgico; - possibilità di rimuovere il catetere al termine della terapia o di

sostituirlo, in caso di complicanze;

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- continuo controllo angiografico durante l’intera procedura per individuare tutte le arterie collaterali in grado di interferire con la corretta e selettiva infusione epatica.

Gli svantaggi dell’impianto percutaneo sono costituiti da: - maggiore incidenza di trombosi dell’arteria epatica (specie con la

tecnica a catetere libero), peraltro riducibile con adeguata terapia anticoagulante;

- rischio di sviluppo di complicanze nel punto di ingresso arterioso (pseudoaneurisma), peraltro trattabili per via percutanea con posizionamento di stent ricoperto.

Il posizionamento percutaneo rappresenta quindi un’efficace alternativa al posizionamento chirurgico in presenza di metastasi epatiche da carcinoma colo-rettale non operabili, diventando di prima scelta nei casi di metastasi metacrone. Patologie bersaglio

- Metastasi epatiche da neoplasie del colon-retto e da neoplasie neuroendocrine

- Metastasi epatiche da emangiopericitoma maligno - Neoplasie del pancreas - Neoplasie primitive del fegato (carcinoma delle vie biliari ed

epatocarcinoma)

Metastasi epatiche da tumore colorettale Stato dell’arte

Malattia non operabile E’ stata condotta una metanalisi su 7 studi randomizzati di cui 5 di confronto tra FUDR somministrata in arteria contro FUDR o 5FU per via sistemica e 2 in cui la somministrazione di FUDR in arteria era confrontata con gruppo di controllo che riceveva il trattamento endovenoso, al bisogno. Si è osservato un vantaggio significativo della sopravvivenza a favore del trattamento endoarterioso (p=0,0009), se considerati tutti gli studi. Tale vantaggio non era osservato quando l’analisi era ristretta ai 5 studi in cui la somministrazione arteriosa di FUDR veniva confrontato con quella di FUDR o 5FU per via sistemica. In una seconda metanalisi, la terapia endoarteriosa con FUDR otteneva un 10% ed un 6% di

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incremento di sopravvivenza a 1 e 2 anni rispetto alla terapia sistemica. (Harmanthas et al., 1996; The Meta-analysis group, 1996). L’ultimo studio multicentrico randomizzato in cui è stata confrontata la somministrazione sistemica secondo lo schema De Gramont con gli stessi farmaci a dose equitossica per via intra-arteriosa epatica, non ha dimostrato vantaggio di quest’ultima, in termini di tempo alla progressione e sopravvivenza globale, anche se meno del 60% dei pazienti nel braccio di terapia intra-arteriosa riceveva realmente la terapia locoregionale programmata per problematiche legate alla scarsa esperienza di oncologi e infermieri nella gestione del port (Kerr et al., 2003). Non esistono studi di confronto con i nuovi farmaci oxaliplatino e irinotecan. Malattia operabile – chemioterapia endoarteriosa adiuvante In uno studio randomizzato tedesco (Lorenz et al., 1998) di confronto tra terapia endoarteriosa con 5FU associata ad acido folinico sistemico contro nessun trattamento dopo chirurgia, non si è osservata alcuna differenza significativa sulla ripresa epatica di malattia e sulla sopravvivenza . In uno studio randomizzato americano (Kemeny et al., 1999), dopo resezione epatica veniva confrontata l’efficacia della somministrazione di FUDR in arteria associata a 5FU ed acido folinico sistemica contro il solo trattamento sistemico. La sopravvivenza a 2 anni era dell’86% nel braccio di associazione e del 72% dopo la sola terapia sistemica (p=0,03). L’assenza di ripresa epatica era del 90% contro il 60% (p=0,001). Nuovi farmaci in arteria epatica Oxaliplatino: - fase I, con dose raccomandata di 125 mg/m2 infuso in 4 ore in

associazione a 5FU ed acido folinico per via venosa (Kern et al., 2001);

- fase I-II, con dose raccomandata di 150 mg/m2 infusa in 30 minuti ogni 3 settimane (Fiorentini et al., 2004).

Irinotecan: - fase I, con dose raccomandata 20 mg/m2/infusione continua per

5 giorni (Van Riel et al., 2002);

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- fase II, con dose di 200 mg/m2 in 30 minuti ed un response rate del 58% ed una mediana di sopravvivenza di 13 mesi (Fiorentini et al., 2003).

Protocolli clinici attivi

Non esiste alcun protocollo; esistono esperienze di studi di fase II presso centri qualificati. A fronte di un sensibile incremento in termini di risposta e sopravvivenza dei pazienti con metastasi epatiche da neoplasie del colon-retto, osservato in questa ultima decade, appare necessario definire maggiormente le reali potenzialità terapeutiche dell’infusione intra-arteriosa epatica, che rimane il riferimento per la II linea di trattamento e nel trattamento adiuvante post-resettivo. Prospettive future

Appare necessario studiare l’utilizzo dei nuovi farmaci in arteria epatica con studi randomizzati, per definire gli eventuali vantaggi rispetto al trattamento sistemico degli stessi. E’ necessario approfondire l’associazione della terapia intra-arteriosa con le altre modalità terapeutiche, quali la radioterapia, radiofrequenza ed ipertermia esterna. La somministrazione per via intra-arteriosa di microsfere coniugate con Ittrio 90, con modulatori della risposta biologica e con terapia genica appaiono altri settori di ricerca.

Tumori del pancreas Il trattamento chemioterapico locoregionale del carcinoma pancreatico è complesso a causa delle limitazioni anatomiche costituite principalmente dalla variabilità della vascolarizzazione arteriosa. La precoce diffusione tumorale a livello dei linfonodi peripancreatici rende necessaria una somministrazione intra-arteriosa che non raggiunga soltanto la sede accertata del tumore, ma anche i linfonodi. Inoltre, il carcinoma del pancreas è una malattia particolarmente chemioresistente, sia perché esprime in modo elevato numerosi geni della resistenza farmacologica, sia per la presenza di una “barriera” meccanica rappresentata da una pseudocapsula fibrosa scarsamente vascolarizzata, che impedisce ai farmaci di raggiungere concentrazioni citotossiche.

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Per incrementare la risposta tumorale, sono state studiate numerose tecniche di somministrazione regionale dei farmaci, una delle quali consiste nel perfondere direttamente il tumore e la zona circostante attraverso il flusso arterioso afferente, mediante un catetere arterioso posizionato a livello del tripode celiaco. Il razionale di un trattamento chemioterapico intra-arterioso può essere riassunto in questi punti: - come evidenziato da uno studio autoptico, la vascolarizzazione

arteriosa del parenchima pancreatico è costituita principalmente da un’arcata perforante antero-posteriore: un farmaco iniettato attraverso un catetere posizionato nell’arteria gastro-epiploica destra, si distribuisce nell’intero organo o almeno nella testa ed in gran parte del corpo (Donatini et al., 1992);

- la diffusione metastatica del carcinoma del pancreas è principalmente confinata a livello della cavità peritoneale, con coinvolgimento dei linfonodi regionali e del fegato (Weiss et al., 1992). Le metastasi extra-addominali compaiono soltanto nel 27% dei pazienti (Griffin et al., 1990);

- esiste una correlazione tra concentrazione farmacologia a livello tumorale e risposta al trattamento (Link et al., 1998).

Stato dell’arte

L’esperienza più importante di chemioterapia intra-arteriosa riguarda un gruppo di 96 pazienti sottoposti ad infusione semplice in tripode celiaco di acido folinico, 5-Fluorouracile, carboplatino ed epirubicina (schema FLEC); questo trattamento, effettuato in pazienti con carcinoma del pancreas al III e IV stadio, ha determinato una sopravvivenza mediana rispettivamente di 10,6 e di 6,8 mesi (Cantore et al., 1997; 2000). Sulla base di questi dati, è stato eseguito uno studio randomizzato SITILO che ha confrontato lo stesso trattamento locoregionale con la gemcitabina somministrata per via sistemica. Tale studio, che ha arruolato complessivamente 138 pazienti, ha dimostrato un vantaggio statisticamente significativo in termini di sopravvivenza globale a favore dei pazienti sottoposti a chemioterapia locoregionale (7,9 verso 5,8 mesi) (Cantore et al., 2003). Un altro gruppo di 16 pazienti con adenocarcinoma pancreatico non operabile è stato sottoposto a terapia intra-arteriosa con mitomicina e gemcitabina; gli autori riportano una sopravvivenza ad un anno del 25% ed un clinical benefit del 68% (Vogl et al., 2003).

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Inoltre, l’infusione in tripode celiaco di mitoxantrone, 5-fluorouracile ed acido folinico in 12 pazienti affetti da carcinoma del pancreas in III e IV stadio ha determinato una sopravvivenza mediana rispettivamente di 8,5 e 5 mesi (Maurer et al., 1998). Protocolli clinici attivi

Non esiste alcun protocollo clinico attivo. Prospettive future

La somministrazione della gemcitabina per via intra-arteriosa e di nuovi farmaci, rappresenta un modello di studio interessante. La definizione del ruolo dell’infusione arteriosa dei modificatori della risposta biologica e di agenti virali vettori per la terapia genica è un altro settore di ricerca di notevole interesse.

Tumori delle vie biliari I pazienti con neoplasie avanzate delle vie biliari hanno una prognosi molto severa, con una sopravvivenza mediana di circa 6 mesi per i tumori delle vie biliari extra-epatiche e di circa 1 anno per il colangiocarcinoma. L’unico trattamento curativo è rappresentato dalla resezione chirurgica; i pazienti radicalmente operati, comunque, hanno una sopravvivenza mediana che non supera i 2 anni. Il razionale di un trattamento chemioterapico intra-arterioso può essere riassunto in questi punti: - i carcinomi delle vie biliari rimangono abitualmente confinati a

livello del fegato ed il decesso del paziente avviene principalmente per insufficienza epatica;

- alcuni farmaci chemioterapici, se somministrati in arteria epatica, possiedono un’elevata clearance d’organo; in tal modo possono raggiungere i canalicoli biliari a concentrazione elevata con una minima tossicità sistemica;

- il flusso arterioso afferente all’albero biliare ed alla colecisti proviene dall’arteria epatica.

Stato dell’arte

Esistono poche esperienze di terapia intra-arteriosa in pazienti con neoplasie delle vie biliari in fase avanzata. La casistica più numerosa

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riguarda un gruppo di 33 pazienti (27 colangiocarcinomi e 6 colecisti), sottoposti a trattamento combinato intra-arterioso e sistemico: l’epirubicina ed il cisplatino infusi in arteria epatica associati al 5-fluorouracile in infusione continua endovenosa hanno determinato un tasso di risposte obiettive del 30% (2 risposte complete e 8 risposte parziali) con un controllo di malattia del 78% ed una sopravvivenza mediana di 13 mesi (Cantore et al., 2002; Mambrini et al., 2004). Un altro gruppo di 32 pazienti con neoplasia delle vie biliari (di cui 4 radicalmente operati) è stato sottoposto alla somministrazione in arteria epatica di cisplatino, 5-fluorouracile ed acido folinico. Il trattamento ha dimostrato una buona attività in termini di risposte obiettive, con una sopravvivenza mediana di 14 mesi (Melichar et al., 2002). Un’infusione intra-arteriosa di epirubicina, mitomicina e 5-fluorouracile associata a radioterapia con fasci esterni è stata utilizzata in un gruppo di 23 pazienti affetti da colangiocarcinoma ilare non operabile, con malattia limitata al fegato. Il tasso di risposte obiettive è stato del 41% con una sopravvivenza mediana di 19,5 mesi ed una sopravvivenza ad un anno e due anni rispettivamente del 59% e 36% (Matsumoto et al., 2004). Protocolli clinici attivi

Non esiste alcun protocollo clinico attivo. Prospettive future

Studio clinico di Fase II di chemioterapia combinata intra-arteriosa e sistemica secondo il seguente schema: - cisplatino 60 mg/m2 ed epirubicina 50 mg/m2 in arteria epatica

giorno 1 - capecitabina 1000 mg/m2 x 2/die per os, giorni 1-14, ogni

3 settimane End-point primario: sopravvivenza End-point secondari: tossicità, qualità di vita, tasso di risposte obiettive. Bibliografia

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3.2 PEI, Termoablazione, Chemio-embolizzazione

Le neoplasie epatiche maligne primitive e secondarie sono fra le forme tumorali più frequenti nel mondo e sfortunatamente la chemioterapia e la terapia radiante sono trattamenti inefficaci specialmente per le forme primitive. In passato,la resezione chirurgica veniva considerata l’unica opzione curativa, anche se pochi pazienti sono candidabili all’intervento chirurgico; i risultati di studi multipli recenti dimostrano che alcune tecniche mini-invasive hanno assunto dignità di terapie alternative ugualmente valide ed efficaci come la chirurgia. In particolare, nel caso dell’epatocarcinoma (EC) la Consensus Conference dell’EASL di Barcellona del 2000 ha incluso a pieno titolo, nel novero delle strategie terapeutiche definite “curative”, insieme alla resezione chirurgica ed al trapianto di fegato, anche le tecniche percutanee (Bruix et al, 2001). Nell'ultimo decennio la maggior parte dell'esperienza clinica si è concentrata sull'applicazione dell’alcolizzazione (PEI, Percutaneous Ethanol Injection), mentre solo recentemente si sono sviluppati trattamenti alternativi che utilizzano energia capace di indurre una termoablazione delle cellule tumorali come la radiofrequenza (RF), le microonde (MW), il laser e gli Ultrasuoni focalizzati ad elevata intensità (US). I vantaggi di cui godono le procedure percutanee sono molteplici, includendo il contenimento del danno del parenchima epatico non tumorale, il basso rischio [mortalità da 0 a 0,09% per la PEI (Livraghi et al., 1995)], la loro facile ripetibilità in caso di recidiva -riscontrabile nella maggior parte dei pazienti a 5 anni- la facile disponibilità ed il basso costo. Le tecniche di ablazione percutanea devono rispettare i seguenti criteri: - non devono comportare perdita o danno del parenchima epatico sano,

a differenza della resezione chirurgica e della chemio-embolizzazione (TACE);

- basso rischio legato alla procedura; - devono essere facilmente ripetibili in presenza di nuove lesioni, che

si sviluppano in quasi tutti i pazienti entro 5 anni; - devono comportare un basso costo, considerando che il costo di un

ciclo di iniezione di alcool è circa 1000 euro, mentre il costo di una resezione è stimata in circa 25.000 Euro. I costi calcolati per mese di sopravvivenza ammontano a 999 Euro per la PEI rispetto ai 3.865 Euro per la resezione (Gournay et al., 2002).

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PEI (Percutaneous Ethanol Injection)

Rappresenta la metodica di trattamento mini-invasivo del tumore epatico primitivo più diffusa nel mondo, per la sua facilità esecutiva, la minima dotazione strumentale necessaria e, quindi, i bassi costi, insieme a buoni risultati clinici. Il meccanismo d’azione dell'alcool dipende dalla sua capacità di diffusione all’interno delle cellule tumorali dove determina la disidratazione delle proteine citoplasmatiche e la loro conseguente necrosi coagulativa, seguita da reazione fibrosa. All’interno dei vasi neoplastici, l’alcool produce necrosi delle cellule endoteliali, aggregazione piastrinica e, conseguentemente, trombosi vascolare con ischemia del tessuto tumorale. Il diametro e la forma dell’area necrotica indotta non è riproducibile e dipende dalle caratteristiche istologiche, dal grado di vascolarizzazione, dalla presenza di setti o capsula e dalla consistenza del tessuto neoplastico. L’EC è il tumore più responsivo:il tumore di maggiori dimensioni trattato con PEI è stato di 8,2 cm, ablato in 1 ora con tecnica One shot (Livraghi et al., 1998). Materiali. L’iniezione percutanea di etanolo sterile al 95% viene di solito effettuata sotto guida ecografica utilizzando un ago multiforato con punta conica da 21 Gauge, usando una siringa ed un tubo di connessione: il costo complessivo dell’armamentario è di 40 Euro. Selezione dei pazienti e tecnica. L’ablazione con etanolo viene generalmente eseguita in pazienti con EC su cirrosi. Il trattamento si è dimostrato non efficace per le metastasi epatiche: per il loro trattamento, dal 1995 la PEI è stata sostituita dalla termoablazione a RF (Livraghi et al., 1995; 1998; 1999; Lencioni et al., 1997; Collela et al., 1998). I tumori candidati per la PEI devono essere di volume complessivo inferiore al 30% del volume totale del fegato. Controindicazioni sono rappresentate da malattia extraepatica, trombosi della vena porta, classe C di Child, tempo di protrombina inferiore al 40% e una conta piastrinica inferiore a 40.000/mm3. A seconda delle dimensioni e del numero delle lesioni, la PEI viene eseguita con tecnica a multisessione in pazienti esterni (per tumori di dimensioni < 5 cm) o, per tumori di dimensioni maggiori, con tecnica in unica sessione (One-shot) in pazienti ricoverati. In entrambi i casi, l’etanolo viene iniettato per via percutanea sotto guida ecografica. La tecnica convenzionale multisessione è utilizzata in presenza di un nodulo di EC di diametro < 5 cm o di 3 noduli, ciascuno < 3 cm.

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Viene solitamente eseguito in anestesia locale, tramite l’iniezione di un quantitativo di alcool, che va da 2 a 10 ml, all’interno del tumore ed un numero di sessioni, due volte a settimana, in funzione delle dimensioni del nodulo: da 3 a 6 in presenza di noduli inferiori a 3 cm, da 6 a 12 per noduli dai 3 ai 5 cm. La tecnica in unica sessione si applica per tumori a stadi avanzati e viene effettuata in pazienti sottoposti ad anestesia generale e ventilazione meccanica. Questo trattamento consiste nell’iniezione di 60-80 ml di alcool somministrato in 10-13 iniezioni nell’arco di 30 minuti,fino a quando la lesione non appare completamente iperecogena; la degenza media è di 3,8 giorni. Il successo del trattamento viene valutato con TC (Livraghi et al., 1995; 1998). Risultati. Negli ultimi 10 anni, molti studi hanno valutato l’efficacia terapeutica della PEI e le curve di sopravvivenza a lungo termine. La percentuale di risposta completa è strettamente dipendente dalla dimensione del tumore: i migliori risultati sono stati ottenuti nei noduli di EC di dimensioni < 3 cm. Per EC di diametro < 5 cm la percentuale di ablazione completa è di circa 70-75%; per EC capsulati, di diametro compreso fra 5-8 cm, la percentuale è solo del 60% (Livraghi et al., 1995; 1998). La scarsa efficacia nel trattamento di tumori voluminosi e dell’EC multinodulare è dovuto ai setti intratumorali, che limitano la diffusione di etanolo e impediscono la sua omogenenea diffusione intratumorale; inoltre sessioni multiple, che prolungano il periodo di trattamento, possono aumentare il rischio di impianti neoplastici (Livraghi et al., 1995). Le percentuali di sopravvivenza a 1, 3 e 5 anni, in pazienti con cirrosi Child A ed EC singolo < 5 cm sono rispettivamente del 98%, 79% e 47%, mentre in pazienti con EC multipli (massimo 3 noduli di dimensioni < 3 cm) sono rispettivamente del 94%, 68% e 36% (Tabella 1). Le percentuali di sopravvivenza a 1 e 3 anni sono del 72% e del 42% in pazienti con EC infiltrativo di 5-10 mm o multiplo (Livraghi et al., 1995). Il rischio di recidiva è stimato attorno al 50% a 3 anni nei tumori di dimensioni < 3 cm. Le complicanze maggiori (emoperitoneo, emobilia, ascesso epatico) sono dell’1,7% (mortalità nulla) dopo iniezioni percutanee multiple di etanolo e del 4,6% (mortalità 0,7%), dopo iniezione percutanea di etanolo con tecnica One shot (Livraghi et al., 1995; 1998). Benefici e limiti. L’ablazione con etanolo è facile, sicura e ripetibile. Nel piccolo e medio EC i risultati a lungo termine della PEI sembrano

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paragonabili a quelli della chirurgia; negli EC capsulati di grandi dimensioni, la PEI può ottenere una necrosi completa fino a lesioni con diametro massimo di circa 8 cm. Una risposta completa è ottenibile nell’80% degli EC < 3 cm e nel 50% negli EC di 3-5 cm, mentre è ancora inferiore nelle lesioni> 5 cm (Vilana et al., 1992). In presenza di EC multifocale, la PEI è meno tossica della TACE. Comunque, in uno studio prospettico di piccoli EC, la percentuale di ablazione completa è stata del 10% più elevata con la termoablazione a RF che con la PEI ed è stata raggiunta con un trattamento di durata inferiore (Livraghi et al., 1999). La PEI è meno efficace della termoablazione con RF per il trattamento delle metastasi epatiche. Tabella 1 Sopravvivenza dopo PEI di EC

Autore Tipo di lesione e grado di cirrosi

Numero pazienti 1 anno 5 anni

Shiina, AJR 1993 1,2-6 cm 50 87% 43%

≤ 5cm Child A 293 98% 47%

Child B 149 93% 29% Livraghi, Radiology 1995

MF Child A 121 94% 36%

< 2 cm stadio I 767 96% 54%

stadio II 426 92% 33%

2-5 cm stadio I 587 95% 38%

Arii, Hepatology 2000

stadio II 483 87% 28%

3 anni

5-8.5 cm capsulato 108 57% Livraghi, Cancer 1998 5-10 cm

infiltrativo 108 42%

Poiché la PEI è considerata la tecnica di riferimento per l’ablazione dell’EC, è interessante analizzare i risultati di due studi randomizzati (Livraghi et al., 1999; Lencioni et al., 2001) che paragonano la PEI con

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la RF (Tabella 2): la RF ottiene una percentuale più alta di necrosi completa, richiedendo un minor numero di sedute rispetto alla PEI. Tabella 2 RCTs: PEI verso RF nel trattamento dell’EC

N° sessioni Necrosi completa Riferimento

N° lesioni cm PEI RF PEI RF

115 (1-3) 3,3 1,3 52/61 (85%)

49/54 (91%)

Lencioni et al., RSNA 1999

112 (1,2-3) 4,8 1,2 48/60 (80%)

47/52 (90%)

Livraghi et al., Radiology 1999

Termoablazione a radiofrequenza (RF) L’utilizzo della termoablazione con radiofrequenza (RF) per il trattamento dei tumori epatici è stato per prima proposto nel 1990 da McGahan e Rossi. Da allora, la tecnica ha sollevato un interesse generale e molti studi sono stati intrapresi (Rossi et al., 1996; 1998; Livraghi et al., 1997; Solbiati et al., 1997). Meccanismo d’azione. Elettrodi ad ago schermati vengono utilizzati per concentrare l’energia in un tessuto selezionato: la punta dell’elettrodo conduce una corrente alternata ad elevata frequenza, che crea attorno alla punta dell’ago-elettrodo una turbolenza ionica locale e un surriscaldamento definito come effetto di resistenza termica. L’estensione della lesione termica ottenuta dipende dalla temperatura, dalla superficie radiante dell’ago e dal tempo di esposizione, fino ad un punto di bilanciamento termico che corrisponde a circa 120 secondi. Con una singola ablazione può essere prodotta una lesione termica sferica di 2-5 cm. Indipendentemente dalla fonte di energia utilizzata per produrre la termoablazione (RF, Laser, Microonde), l’interazione delle cellule riscaldate è strettamente dipendente dalla temperatura raggiunta e dal tempo di esposizione. L’omeostasi cellulare viene mantenuta fino ai 40°C, mentre alla temperatura di 42°-46°C le cellule aumentano la loro suscettibilità alla chemioterapia e alle radiazioni. Temperature tra i 46° e i 60°C sono associate a danni irreversibili, la cui entità è proporzionale al tempo di esposizione. A temperature maggiori di 60°C, si verifica una

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istantanea coagulazione delle proteine e questo corrisponde al range di efficacia della termoablazione, mentre a temperature sopra i 105°C si ha ebollizione, vaporizzazione e carbonizzazione tessutale. Tutti gli apparecchi per RF sul mercato costituiti da un generatore elettrico, un elettrodo ad ago e da una messa a terra; ogni ditta fornisce un ago-elettrodo con morfologia diversa. Attualmente, non ci sono studi che documentino un vantaggio significativo di un ago rispetto ad un altro. I generatori di radio frequenza lavorano a 460 kHz e ad una potenza di 50-200 W. Il costo di un generatore si aggira tra 10.000 e i 25.000 Euro, mentre il costo dell’ago-elettrodo (monouso) varia tra i 400-800 Euro. Selezione dei pazienti e tecnica. L’obiettivo della termoablazione a RF è distruggere il tumore insieme ad un margine di parenchima sano perilesionale di 5-10 mm. Ogni ablazione necessita di un esatto posizionamento della punta dell’ago-elettrodo all’interno del tumore. La maggioranza degli autori sta limitando l’applicazione della termoablazione con RF a pazienti con quattro o meno noduli maligni, primitivi o secondari, di diametro non oltre i 5 cm, in assenza di malattia extraepatica. I tumori ideali sono quelli in numero variabile da 1 a 3, di dimensioni < 3 cm, completamente circondati da parenchima epatico, lontani almeno 1 cm dalla capsula epatica e distanti almeno 2 cm dalle vene sovraepatiche o dalla vena porta. Il trattamento di lesioni sottocapsulari è possibile, ma si associa a forte dolore durante e dopo la procedura. Nei tumori adiacenti ai grandi vasi, il trattamento è spesso incompleto perché il flusso ematico è elemento di raffreddamento del tumore, limitando l’estensione dell’ablazione. L’ablazione dei tumori adiacenti ai principali rami portali determina un aumento del dolore e può causare un danno dei dotti biliari associati. Le controindicazioni al trattamento sono rappresentate da trombosi venosa portale, diffusione extraepatica del tumore, sepsi, severa debilitazione del paziente, coagulopatie gravi non correggibili. La conta piastrinica dovrebbe essere al di sopra di 50-70.000 e il tempo di protrombina dovrebbe essere superiore al 50%. Ogni apparecchio di RF può essere utilizzato per via percutanea o intraoperatoria. L’ablazione percutanea può essere eseguita in pazienti esterni, semplicemente sottoposti a sedazione; tuttavia nella maggioranza dei Centri viene eseguito a paziente ricoverato e sotto profilassi antibiotica, con assistenza anestesiologica ed analgesia endovenosa, ventilazione assistita e pressione portale monitorizzata;

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l’ecografia è il metodo di imaging preferito come guida per la procedura, ma possono essere utilizzate anche la TC e la RM. Vengono posizionati sulle cosce del paziente gli elettrodi di dispersione a placca; sotto guida ecografica viene inserito l’ago e controllato il suo avanzamento all’interno del fegato: questo viene poi connesso al generatore di RF e al circuito di raffreddamento. Viene poi aumentato il potere del generatore di RF fino a 1000-1400 mA, mantenendolo per un periodo di 8-12 minuti. Gli strumenti più recenti sono provvisti di un controllo dell’impedenza, fatto in modo che questa si ferma ad un dato potere di emissione, quando l’aumento dell’impedenza è > 10 Ohm. Durante il trattamento, il nodulo diventa progressivamente iperecogeno per fenomeni di vaporizzazione tessutale ed assume l’aspetto di microbolle, consentendo così il controllo in tempo reale dell’estensione dell’area di ablazione. In molti casi di EC, le dimensioni e l’aspetto di questa iperecogenicità è lo stesso del tumore: questo è dovuto all’effetto “forno”, dovuto alla differenza di impedenza fra il tessuto tumorale ed il fegato cirrotico circostante. Alla fine del trattamento, la pompa di raffreddamento a circuito peristaltico viene fermata, così la temperatura dell’ago aumenta di 70°-80°C consentendo la cauterizzazione del tessuto durante l’estrazione dell’ago. Una singola ablazione richiede 8-20 minuti, la temperatura del tessuto locale raggiunge i 100°C e determina una lesione termica sferica di circa 2-5 cm. La strategia di ablazione varia a seconda delle dimensioni dei noduli da trattare: considerando di ottenere una lesione termica di 3 cm, tumori di dimensioni inferiori ai 2 cm possono essere trattati con 1-2 ablazioni, tumori di 2-3 cm richiedono almeno 6 ablazioni sovrapposte e tumori maggiori di 3 cm necessitano almeno di 12 ablazioni sovrapposte. La durata di ogni singola seduta dipende dal numero di ablazioni eseguite. Risultati. Molti studi clinici che hanno utilizzato differenti metodi di termoablazione a RF dell’EC riferiscono risultati promettenti (Tabella 3), con una percentuale di ablazione completa a 1 anno del 52-67% e sopravvivenze del 96%, 64% e 40% rispettivamente a 1, 3 e 5 anni (Tabella 4) (Rossi et al., 1996; 1998; Livraghi et al., 1997; Solbiati et al., 1997a; 1997b).

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Tabella 3 Termoablazione a RF di EC: studi clinici pubblicati

Autore N° lesioni Dimensioni Tipo di ago N° sessioni Necrosi completa

Rossi, AJR 1998 26 1,1-3,5 Ad uncini 1,4 26/26 (100%)

Allgaier, Lancet 1999

12 3,2±1,3 Ad uncini 1,2 10/12 (83%)

Curley, Ann Surg 1999

48 1-3 Ad uncini 47/48 (98%)

Livraghi, Radiology 1999

52 1,2-3 Raffreddato 1,2 47/52 (90%)

Curley, Ann Surg 2000

110 2,8-4,6 Ad uncini 106/110 (96.4%)

Livraghi, Radiology 2000

80 3,1-5 Raffreddato, triple cluster 1,1 49/80 (61%)

″ ″ ″ 46 5,1-9,5 Raffreddato,

triple cluster 1,1 11/46 (24%)

Rossi, Radiology 2000 TAE + RF

62 3,5-8,5 Ad uncini 1,1 62/62 (100%)

Lencioni, Radiology 2003

69 2,8±0,6 Ad uncini / raffreddato 1,1 68/69 (99%)

In presenza di metastasi epatiche da tumore del colon retto, la RF può rappresentare il primo trattamento da eseguire in attesa, in alternativa o a completamento dell’intervento chirurgico, con o senza chemioterapia sistemica in combinazione; può anche risparmiare la chirurgia, in casi a rischio, grazie all’ottenimento di necrosi completa.

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Tabella 4 Termoablazione delle metastasi epatiche: studi clinici

Autore Pazienti Dimensioni (cm) < 3 > 3 range

Necrosi (%)

Recidiva LR DR RC

Follow-up (mesi) vivi

Liberi da

malattiaRossi, AJR 1996 11 5 1-9 62 1/8 5/8 3/8 11 8

(89)1

(11) Livraghi, Radiology 1997

15 16 9 1,2-4,5 52 9

Siperstein, Surgery 1997

6 1,5-7 100 0 -- -- 0-15

Solbiati, Radiology 1997a

29 32 12 1,3-5,1 91 7/18 4/18 -- 10,3

Solbiati, Radiology 1997b

16 27 4 1,5-7,5 67 18,1 9 (75)

8 (67)

Goldberg, AJR 1998 10 3,5-6,5 90 3/10 -- --

Rossi, AJR 1998 14 1,1-3,5 95 1/9 3/9 5/9 12 9

(82)2

(18) Curley, Ann Surg 1999

75 0,5-12 3/34 27/34 -- 15

Jiao, AJR 1999 35 5,1 21

(78)17

(63) de Baere, AJR 2000 68 0,5-4,2 91 13,7

La RF eseguita in pazienti candidati ad epatectomia per metastasi da tumore del colon-retto, ha fornito i seguenti risultati: necrosi completa in 53 pazienti (60%) e necrosi incompleta in 35 pazienti (40%) con ripetizione di alcune RF, 23 pazienti sono risultati liberi da malattia (26%) e 44/88 pazienti (50%) non resecabili; il 76% dei pazienti ha evitato resezioni chirurgiche (Livraghi et al., 2003a). Naturalmente, la selezione dei casi ed il breve follow-up riportato non consentono confronti con la chirurgia né con le risposte attualmente ottenibili con la chemioterapia endovenosa. Gli effetti collaterali della termoablazione dell’EC sono: intenso dolore addominale durante la procedura, dolore addominale dopo la procedura e febbre (> 70%).

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Le complicanze più frequenti sono rappresentate da ematoma subcapsulare (12,5%), versamento pleurico dx (2%), emobilia (2%), colecistite (2-3%), trombosi portale (3%), sanguinamento intestinale (3%) emotorace (2%), emoperitoneo (1,8-3%). La RF nel trattamento dell’EC, rispetto alla PEI, comporta un maggior rischio di disseminazione neoplastica lungo il percorso dell’ago, riferita nello 0,49-12,5% dei casi (Bolondi et al., 2001; Llovet et al., 2001; Livraghi et al., 2003b): questa sembra più frequente in EC a sede sottocapsulare, scarsamente differenziati e con elevazione dei livelli sierici dell’alfa-fetoproteina (Llovet et al., 2001). Benefici e limiti. Il principale vantaggio è la sua capacità di creare una lesione termica focalizzata con minima morbidità e nessuna mortalità. A differenza della PEI, la RF appare efficace per il trattamento sia dell’EC che delle metastasi epatiche; inoltre, richiede meno sessioni per trattare lo stesso tumore rispetto alla PEI. L’ablazione con RF è molto meno tossica rispetto alla chemio-embolizzazione. La dimensione della lesione termica creata da una singola ablazione a RF è più grande rispetto a quella creata da una sola ablazione con laser, con inferiore rischio di residuo neoplastico. Il limite principale della termoablazione a RF è la difficoltà nel riscaldamento del fegato normale e quindi la percentuale di recidiva ai margini della lesione è maggiore di quanto auspicabile. Rispetto alla PEI, l’efficacia è circa la stessa (Tabella 2), mentre le complicanze sono più frequenti con la RF. L’accettazione da parte dei pazienti sembra maggiore per la RF, poiché la PEI è dolorosa e necessita di trattamenti ripetuti. Il coinvolgimento del personale medico è maggiore per la PEI, per un maggiore numero di sessioni di trattamento, mentre il costo diretto è maggiore per la RF. L’analisi dei costi indiretti è più complessa, ma può eventualmente bilanciare l’apparente maggior costo della RF. La termoablazione con RF dell’EC presenta i seguenti vantaggi: procedura facile con alto DRG, facile organizzazione della seduta e dell’equipe, ampia diffusione della tecnica di termoablazione. Le ricerche future sono indirizzate a: - focalizzare la tecnica di ablazione ottimale per aumentare l’area di

necrosi, consentendo una necrosi completa anche di lesioni più ampie, associando tecniche di modulazione del flusso (quale la manovra di Pringle o l’occlusione vascolare associata);

- identificare i fattori biologici di perdita e di ritenzione di calore nel tumore come la flow modulation;

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- stabilire l’efficacia dei trattamenti combinati; - impostare studi multicentrici randomizzati (RCT) sul trattamento di

lesioni epatiche; - estendere la RF al trattamento di lesioni neoplastiche inoperabili in

altre sedi (rene, prostata, polmone, osso).

Fotocoagulazione con laser La prima termoablazione di un tumore con terapia Laser fu descritta nel 1983; da allora studi sperimentali hanno riprodotto lesioni termiche con Nd YAG (neodymium yttrium aluminum carnet) laser per il trattamento di tumori dell’esofago, stomaco, colon e bronchiali; il primo impiego su lesioni epatiche primitive e secondarie fu descritto alla fine degli anni ‘80 (Hashimoto et al., 1985; Steger et al., 1989). Meccanismo. Il laser è una radiazione luminosa monocromatica, focalizzata e coerente con lunghezza d’onda di 1024 nm (spettro degli infrarossi), che diffonde nei tessuti ed induce calore. Prodotta da un generatore NdYAG, concentra un quantitativo di energia estremamente elevato in una piccola area focalizzata, convertendo l'intensa energia luminosa in calore tessutale. Una singola fibra laser genera energia luminosa di 2.0–2.5 W, che produce un volume sferico di necrosi coagulativa del diametro di 2 cm. L’uso di potenze superiori induce vaporizzazione attorno alla punta della fibra. Può essere trasmessa all'interno di un tumore inserendo singole o multiple fibre ottiche di quarzo, attraverso un ago sottile (21 Gauge) La maggiore limitazione è rappresentata dalle ridotte dimensioni della lesione termica ottenibile. I tumori di dimensioni di 1,5-2 cm possono essere trattati con una singola fibra; per trattare tumori di dimensioni maggiori vengono applicati due sistemi: l’introduzione di multiple fibre (fino a 4) in aghi di 20-21 Gauge distanziati di 2 cm tra loro all’interno della lesione (Steger et al., 1989), il cui preciso posizionamento all’interno della lesione può essere tecnicamente difficile o l’impiego di fibre a punta raffreddata che possono depositare fino a 30 W su una ampia superficie, riducendo il surriscaldamento locale (Nolsoe et al., 1993). Apparecchi Laser a stato solido sono attualmente disponibili con potenza in uscita di 30 W. Questa energia può essere trasmessa attraverso fibre di

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oltre 10 m in lunghezza, con grande vantaggio di essere compatibili con la RM come metodica guida. Un laser portatile costa 20.000–50.000 Euro ed un set di fibre costa circa 2.00 Euro, ma può essere usato per trattare fino a 50 pazienti. Selezione dei pazienti e tecnica. Le indicazioni sono le medesime della Termoablazione con RF. La procedura è sempre condotta sotto guida ecografica, combinata con TC o con RM. L’US è rapida e facile, quando la visualizzazione della lesione è adeguata, ma l’uso di TC o RM può aggiungere la precisione tridimensionale, a svantaggio dell’allungamen-to dei tempi della procedura. Sebbene l’ablazione a RF trasporti molta più energia all’interno dei tessuti rispetto all’ablazione con laser, c’è poca differenza pratica fra l’ablazione a RF e la più recente tecnica di ablazione laser con punta raffreddata. La tecnica laser ha il vantaggio di essere completamente compatibile con la RM, dove al contrario non è eseguibile l’ablazione a RF. Entrambe le tecniche sono così potenti nell’erogazione di energia termica, che il controllo della deposizione di energia è divenuto l’obiettivo principale; solo la RM offre la possibilità di monitorare accuratamente in tempo reale l’estensione dell’ablazione (Vogl et al., 1995). L’inserzione simultanea fino a 8 fibre distanziate di 2 cm tra loro nel centro di una lesione, con un tempo di trattamento di 60–90 minuti produce una necrosi confluente di 6–7 cm di diametro. L’ampiezza dell’area necrotica dipende dalla vascolarizzazione neoplastica e dalla risposta di vasodilatazione del parenchima sano circostante. L’EC risponde diversamente dalle metastasi colorettali: nel primo, la capsula tumorale ed il fegato cirrotico circostante costringono i margini tumorali e quindi è sufficiente il trattamento dei margini visibili per ottenere un completo risultato; nel caso di metastasi colorettali, c’è sempre tumore anche oltre i margini visibili, per cui è necessario ottenere la necrosi anche di una cuffia di 5–10-mm di tessuto sano adiacente per garantirsi un’ablazione completa. Le lesioni ipervascolari come l’EC vengono pre-trattate con PEI al fine di ridurre la vascolarizzazione prima del trattamento Laser. L’efficacia del trattamento viene definito con una TC eseguita 18-24 ore dopo l’ablazione e prima della dimissione. Il dolore post-procedurale è comune come dopo RF. Risultati L’ablazione con Laser è stata prevalentemente utilizzata nel trattamento delle metastasi epatiche, mentre poche esperienze sono state effettuate per il trattamento dell’EC. Gli studi condotti sul trattamento con Laser nelle metastasi epatiche, dove i trattamenti erano eseguiti con l’inserimento di multiple fibre in

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una singola sessione, riportano necrosi complete nel 78-95%. (Amin et al., 1993; Nolsoe et al., 1993; Vogl et al., 1995; 1998; Pacella et al., 1996; Germer et al., 1998). Nei pazienti con metastasi colorettali, la sopravvivenza è governata dal successo tecnico nella termoablazione tumorale, estesa ad un margine sano perilesionale di 5-10-mm e dal comportamento biologico del tumore. I parametri che correlano con un buon esito sono gli stessi della chirurgia: lesioni in numero minore di 5, dimensioni < 5 cm, lenta crescita neoplastica ed assenza di malattia extraepatica (Dodd et al., 2000). Le complicanze sono sovrapponibili a quelle della RF, complicanze maggiori includono infarto segmentario (1%), ascessi epatici, versamento pleurico e seeding neoplastico (1%). Le prime esperienze nel trattamento con Laser dell’EC eseguite in tumori di dimensioni variabili tra 1 e 6,6 cm ed in EC di 4 cm trattati mediante inserimento di 1-4 fibre laser in una singola sessione, riportano percentuali di necrosi complete rispettivamente nell’82% e nel 97% dei casi (Giorgio et al., 2000; Pacella et al., 2001a), con recidive locali a due anni nel 6% dei casi. Analogamente a quanto espresso per la RF, l’associazione di un trattamento ablativo locale mediante Laser con un trattamento d’organo (TACE) sembra produrre risultati nettamente migliori (Pacella et al., 2001b).

Termoablazione con ultrasuoni (US) focalizzati Gli ultrasuoni focalizzati ad elevata intensità sono delle onde meccaniche emesse ad elevato potere di energia di 100-500 Watts, 10.000 volte maggiore delle energie utilizzate per gli ultrasuoni diagnostici. La loro capacità di produrre una termoablazione selettiva è conosciuta da diversi anni. Il principale vantaggio teorico di questa tecnica è quello di indurre una lesione termica senza inserire aghi. Il limite è, allo stato attuale della tecnologia, che i volumi bruciati sono di pochi mm di spessore e sono necessari complessi sistemi di guida per immagini per trattare adeguatamente volumi più ampi. Attualmente, gli ultrasuoni localizzati rimangono una metodica sperimentale.

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Termoablazione con microonde Le microonde sono radiazioni elettromagnetiche di 2450 MHz di frequenza. Il meccanismo di riscaldamento è simile alla RF: l’elettrodo all’interno del tessuto si comporta come un’antenna, concentrando un campo elettromagnetico ad elevata intensità con la polarizzazione delle molecole, l’agitazione delle molecole d’acqua e conseguente riscaldamento del tessuto fino alla coagulazione termica. È richiesta una irradiazione ripetuta a 60 Watts per 60-120 secondi con un ago elettrodo di 1,6 mm di misura. Le microonde emesse dalla porzione distale di una sonda percutanea causano la termo-coagulazione dei tessuti adiacenti (Dodd et al., 2000). Selezione dei pazienti e tecnica. I potenziali candidati includono pazienti con tumori inoperabili non indicati per la TACE, per insufficienza epatica severa o per lesioni ipovascolari o dopo insuccesso della TACE e della PEI. Le caratteristiche delle lesioni trattabili sono le medesime delle altre tecniche percutanee (4-5 lesioni, ognuna < 5cm); le lesioni superficiali sono di difficile approccio percutaneo. Una singola ablazione produce un’area di termocoagulazione ellittica con un diametro massimo di poco superiore a 2 cm attorno alla punta dell’elettrodo: pertanto la lesione ideale da trattare dovrebbe avere diametro < 3 cm. Sotto guida US, viene inserito in prossimità del tumore un ago-guida, al cui interno viene avanzato l’elettrodo a microonde fino al centro del tumore. Le Microonde vengono erogate per 60 secondi alla potenza di 60 W. Durante la procedura, il controllo ecografico dimostra un’area iperecogena attorno alla punta dell’elettrodo, che rappresenta la necrosi coagulativa in via di formazione. Il trattamento di solito viene ripetuto 3 volte alla settimana, fino a completa ablazione dell’intera lesione. Risultati. La tecnica, ancora sperimentale, è stata utilizzata in piccoli gruppi di pazienti; il primo include piccoli EC (< 2 cm) (Seki et al., 1994), ottenendo una necrosi completa in tutti i casi, mentre una serie più ampia di 50 pazienti con 107 EC (diametro medio 2,7 cm) trattati con sessioni singole o ripetute, riporta necrosi complete nel 98% di noduli < 2 cm e nel 92% di noduli > 2 cm, con RR ad 1 anno del 45%. (Lu et al., 2001). Una comparazione con i risultati della PEI in 90 EC di 2 cm dimostra risultati simili in termini di risposta locale e di OS globale a 5 anni (78% per PEI e 70% per microonde), mentre la sopravvivenza nel sottogruppo

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di EC scarsamente o poco differenziato è risultata migliore per le microonde che per la PEI (78% vs 35%) (Seki et al., 1994). Uno studio tra Microonde e RF nel trattamento dell’EC (diametro 1-3,7 cm) riferisce risultati terapeutici e complicanze equivalenti, con minore necessità di numero di sedute per la RF (Shibata et al., 2003): con la tecnologia attuale, il trattamento con microonde sembra efficace in tumori ≤ 2 cm, ma necessita di inserzione di molteplici aghi di grosso calibro (1,6 mm) e di trattamenti ripetuti in caso di lesioni > 2,5 cm di diametro. Il maggior limite di questa procedura è la piccola dimensione della lesione termica, che non utilizza aghi di grandi dimensioni, richiedendo pertanto trattamenti ripetuti.

Chemio-embolizzazione (TACE, Trans-Arterial ChemoEmbolization) La chemio-embolizzazione (TACE), introdotta negli anni ‘70 (Dyon et al., 1974), oggi è la procedura più diffusa per il trattamento dell’EC non resecabile e non eleggibile per le terapie cosiddette curative (chirurgiche e percutanee quali la PEI e la RF). Con il termine di TACE si intende una procedura che prevede un’iniezione intra-arteriosa di antiblastici miscelati in un mezzo di contrasto oleoso (Lipiodol), associata ad embolizzazione finale della medesima arteria mediante materiale permanente o temporaneo. Principi della metodologia e meccanismo d’azione. Il razionale della TACE si fonda sulla peculiarità anatomica del fegato, che riceve circa il 75% del fabbisogno ematico dalla vena porta ed il 25% dell’arteria epatica. Tale rapporto si inverte nelle neoplasie maligne (specie l’EC), che ricevono il 95% del loro fabbisogno ematico dall’arteria epatica: pertanto, la TACE consente, mediante iniezione intra-arteriosa, di inviare il farmaco quasi esclusivamente al tumore, risparmiando le cellule non neoplastiche a prevalente perfusione portale; l’embolizzazione arteriosa finale è anch’essa selettiva per il tumore, inducendo una necrosi ischemica, mentre il tessuto epatico normale sopravvive grazie alla vascolarizzazione portale. La TACE si propone i seguenti obiettivi: - aumento della concentrazione del farmaco entro il tumore attraverso

l’iniezione arteriosa selettiva -da 10 a 100 volte rispetto all’infusione sistemica- ed aumento del tempo di contatto col farmaco -da ore a

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settimane- indotto dall’arresto del flusso arterioso provocato dall’embolizzazione: questo aumenta notevolmente la risposta;

- l’associazione dell’embolizzazione produce un’ischemia che aumenta l’effetto di farmaci, che potenziano la loro efficacia in condizioni di ipossia. Per tali ragioni, i farmaci più correntemente usati sono la doxorubicina e il cisplatino impiegati in associazione o la mitomicina C in monoterapia;

- miglior clearance epatica del farmaco, che comporta una riduzione della concentrazione sistemica, con maggiore effetto farmacologico al primo passaggio;

- tossicità sistemica minimizzata e risparmio del tessuto epatico circostante.

Selezione dei pazienti. La TACE è utilizzata in pazienti con tumori epatici maligni primitivi o metastatici. Le indicazioni nei tumori epatici secondari. La vascolarizzazione delle lesioni è il più importante fattore prognostico delle TACE ed in generale delle infusioni epatiche: il requisito anatomico preliminare è rappresentato dalla neovascolarizzazione neoplastica che intrappoli il Lipiodol. Le indicazioni consolidate dai risultati della letteratura sono rappresentate dalla terapia palliativa delle metastasi ipervascolari multiple da carcinoide e da tumori neuroendocrini pancreatici (insulinoma, gastrinoma, glucagonoma) non suscettibili di chirurgia o di RF/PEI, in cui vengono eseguite 3-4 sedute di TACE con la modalità tecnica descritta in precedenza, con intervallo di 1-3 mesi. I farmaci coniugati con Lipiodol sono la adriamicina (40-80 mg), la mitomicina C (10 mg), la doxorubicina (20-60 mg) in associazione al cisplatino (150 mg) nelle metastasi da carcinoide e la combinazione di 5FU (350 mg) e streptozotocina (1000-2000 mg) nelle metastasi da tumori neuroendocrini (Roversi, 1999). L’obiettivo è la palliazione dei sintomi legati all’increzione ormonale, specie nel carcinoide e nell’insulinoma e l’inibizione della crescita tumorale, migliorando la sopravvivenza (Ruszniewski et al., 2000). In passato, per forzare la captazione delle lesioni ipovascolari, è stata proposta l’infusione, preliminare alla perfusione di coniugati chemioterapici, di materiali embolizzanti (Lipiodol o microsfere caricate con chemioterapico) o di vasocostrittori (angiotensina II o noradrenalina) che, provocando l’occlusione o la vasocostrizione delle arteriole distali del fegato sano, ridistribuirebbe il flusso con ipervascolarizzazione paradossa delle metastasi inizialmente

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ipovascolari (Civalleri et al., 1989; Roversi, 1999; Burke et al., 2001; Wasser et al., 2004). Le indicazioni per la TACE nell’EC devono considerare sia il tipo di tumore che la severità della compromissione funzionale epatica, in quanto i pazienti con EC sono anche portatori di una malattia epatica sottostante e la loro prognosi deriva da entrambe, in misura spesso non prevedibile. A causa delle delicate interrelazioni tra tumore e funzione epatica, anche la tradizionale stadiazione usata in oncologia (TNM) è irrilevante nel paziente con EC su cirrosi: a tale fine, diversi tipi di stadiazione sono stati sviluppati negli anni per stratificare sia la funzione epatica di base, secondo lo stadio di Child-Pugh, che l’estensione neoplastica nei pazienti con EC su cirrosi. Il più recente sistema di stadiazione dell’EC su cirrosi è il BCLC (Barcelona Clinic Liver Cancer Group), proposto dalla Consensus Conference EASL nel 2000 (Bruix et al, 2001) che suddivide i pazienti in quattro stadi a seconda dello stadio di Child-Pugh, del Performance Status (PST) e dello stadio di Okuda, combinando fattori predittivi a linee guida cliniche al trattamento dei diversi stadi (Tabella 5). Tabella 5 Trattamento dell’EC secondo lo stadio BCLC

HCC

Okuda 1-2PST 0-2, Child Pugh A-B

Okuda 3PST 3-4, Child Pugh C

Early stage(Stage A)

Intermediate stage(Stage B)

Advanced stage(Stage C)

End stage(Stage D)

Single 3 nodules < 3 cm

Portal pressure / bilirubin

Normal

Resection

Increased Associated disease

No Yes

Orthotopic Liver Transplantation

PEI / RF

Radical Treatments

PST 0 and largemultinodular

TAE / TACE

PST 1-2 or portal invasion / M1

New Agents

Randomized Controlled Trials Symptomatic Treatment

Extrahepatic disease

yesno

50-75% 5yrs 50% 3yrs 10% 3yrs

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Schematicamente, sono 3 le condizioni di fronte a cui ci si può trovare, partendo da quella a miglior prognosi - Piccolo EC, stadio Child A. Le indicazioni alla TACE sono ancora

controverse e la sua efficacia, a confronto con la chirurgia, la PEI o la RF non è dimostrabile. I vantaggi della TACE pre-operatoria sono ancora dibattuti ed è raccomandabile l’approfondimento con studi randomizzati.

- Tumore non resecabile, Child A o B (stadio intermedio). In questo gruppo, solo la TACE ha dimostrato efficacia sulla crescita neoplastica: il tempo d’intervallo tra ogni TACE è stabilito in funzione della risposta biologica, morfologica e sintomatica, come dalla tolleranza clinica alla TACE. Tra i pazienti con trombosi neoplastica ostruttiva del tronco portale comune, solo quelli che hanno un’estensione neoplastica parenchimale limitata possono beneficiare della TACE, con la seguente sequenza: TAC (senza embolizzazione) nelle prime due sedute seguita da TACE se rispondono al trattamento e se si è ricanalizzata la vena porta.

- EC massivo su cirrosi Child C. E’ raccomandata l’astensione da trattamenti intra-arteriosi. La TACE si è dimostrata più dannosa che efficace quando più del 60% del fegato è infiltrato da EC o quando la malattia epatica di base è di grado severo. Quando un paziente si presenta con un piccolo EC sviluppato su cirrosi Child C, la PEI è preferibile, per la migliore tollerabilità epatica.

Secondo tali criteri, la TACE, preferibilmente da eseguirsi con modalità selettiva lobare (sequenziale), deve essere riservata a EC su cirrosi in stadio intermedio (A o B) multinodulare, privo di invasione vascolare o diffusione extraepatica, in paziente asintomatico; oppure a EC monofocale > 5cm su cirrosi in stadio avanzato (C). Nello stadio precoce (A) ha un ruolo come terapia neo-adiuvante in attesa di trapianto o di resezione chirurgica, in quanto rappresenta l’unica metodica in grado di trattare tutto il parenchima e non solo le singole lesioni nodulari visibili all’imaging. I fattori prognostici favorevoli per la TACE, in termini di conservazione della funzione epatica e sopravvivenza sono rappresentati da: dimensioni del tumore < 8-10 cm; numero di noduli < 9; sostituzione epatica < 50%. Albumina > 35 g/l; Bilirubina < 2 mg/dL (Bronowicki et al., 1994; Mondazzi et al., 1994; Poon et al., 2000; Vogl et al., 2000).

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Tecnica e materiali. L’angiografia diagnostica preliminare deve valutare: - la perfusione epatica, per ricercare le arterie afferenti al/ai tumori e

verificare l’eventuale presenza di collaterali dell’a. epatica: una precisa mappatura preliminare delle possibili varianti anatomiche (ad esempio, l’a. gastrica destra ad origine dall’a. epatica destra) e della sede dell’arteria cistica è indispensabile per prevenire le possibili complicanze della TACE legate a danni ischemici e tossici agli organi non-bersaglio (Lee et al., 2002);

- la pervietà del sistema portale e delle vene sovraepatiche (esclusione di eventuale trombosi neoplastica portale e sovraepatica e di varici esofagee o di altri segni di ipertensione portale);

- nei successivi trattamenti TACE, è indispensabile la ricerca di circoli neoplastici parassiti extraepatici (frenica inferiore, surrenale, mammaria interna, intercostali, etc) che possono rifornire la vascolarizzazione di lesioni superficiali;

- nel ramo segmentario afferente al tumore (se singolo) o nell’a. epatica (destra o sinistra) del lobo interessato, viene quindi eseguita la chemio-infusione, iniettando farmaci chemioterapici miscelati a Lipiodol (olio di semi di papavero iodato) fino a rallentamento del flusso, come documentato dal controllo radioscopico. Al termine dell’infusione viene eseguita l’embolizzazione con particelle di materiale riassorbibile o permanente (PVA, alcool polivinilico o spugna di gelatina o microsfere) solubilizzati in mezzo di contrasto triiodato, fino ad ottenere un arresto del flusso.

Il costo di cateteri, guide, agenti chemioterapici ed agenti embolici è mediamente di 800 Euro. I pazienti vengono dimessi quando la sindrome post-embolizzazione si risolve, dopo una media di 1,5 giorni. Esami di laboratorio (enzimi epatici, emocromo) vengono ripetuti dopo 3 settimane per assicurare il ritorno alle funzionalità epatica basale. I test di laboratorio e la TC vengono eseguite ad 1 e 3 mesi. La TACE bilobare (per iniezione nell’a. epatica propria) era in passato la metodica tradizionale, indicata in caso di noduli disseminati ai due lobi; oggi è abbandonata e sostituita dalla TACE lobare sequenziale, eseguita in due sedute successive di TACE selettiva di ciascun lobo distanziate di un mese. Spesso, in caso di forme multifocali, il trattamento completo del fegato richiede sedute multiple con frequenza variabile a seconda della risposta ottenuta alla TC di controllo a 30 giorni (crescita neoplastica,

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incompleto accumulo di Lipiodol nella/le lesioni) o per incremento dei markers tumorali. Molti autori in passato usavano ripetere 3-4 sedute di TACE con intervallo di 2-4 mesi, mentre attualmente c’è concordanza sulla ripetizione del trattamento solo ove sia dimostrata la presenza alla TC o RM di tessuto neoplastico vitale. (Ernst et al., 1999; Takayasu et al., 2000). La valutazione della risposta è universalmente effettuata mediante TC Spirale (LUF-TC) a 1 mese, 3 mesi e ogni 6 mesi nel follow-up: l’area di deposito del Lipiodol corrisponde alla necrosi completa ottenuta (Takayasu et al., 2000). Effetti collaterali e complicanze della TACE. Sono quelli dei farmaci utilizzati (di solito doxorubicina) sommati alle complicanze generali dell’embolizzazione arteriosa: la sindrome post-embolizzazione (dolore, febbre, vomito), oltre al possibile scompenso epatico. Complicanze severe (più comunemente ascessi o necrosi epatiche e raramente infarti di organi diversi dal fegato) sono riportate nel 3-5% dei pazienti. La percentuale di mortalità a 30 giorni è dell’1-3%, con alcuni decessi relazionati alla malattia epatica di base (Dodd et al., 2000). Risultati. TACE in metastasi epatiche. Ci sono dati limitati sulla TACE delle metastasi epatiche: per le metastasi colorettali la percentuale di sopravvivenza ad 1 anno in pazienti in buone condizioni si aggira attorno al 70% , per diminuire al 55% a 2 anni ed al 23% a 3 anni. La sopravvivenza media è di 24 mesi, virtualmente superiore alla percentuale riportata in pazienti sottoposti a chemioterapia sistemica. I migliori risultati si ottengono nelle metastasi ipervascolari da carcinoide e da tumori neuroendocrini del pancreas, con risposte obiettive in oltre il 50% dei casi, controllo dei livelli ormonali e dei sintomi correlati all’iperincrezione ormonale nel 57-91% dei casi nell’arco di 10 giorni con durata di 10-21 mesi, con sopravvivenza a 1 e 5 anni rispettivamente del 100% ed oltre il 7%, a fronte di una storia naturale che prevede sopravvivenze ad 1 anno del 10% (Wallace et al., 1996; Dominguezet al., 2000; Ruzniewski, 2000). In assenza di studi di fase III, un effettivo beneficio di sopravvivenza non è stato dimostrato. TACE in EC. In questo ambito, i dati della letteratura sono difficili da usare ed interpretare, poichè la tecnica impiegata è sempre differente ed i

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gruppi di pazienti comprendono gli stadi più avanzati, in cui i rischi della terapia sono maggiori ed i vantaggi potenziali minori. La risposta al trattamento. L’intensità e la completezza dell’accumulo-captazione di Lipiodol nel tumore rilevato allo studio Lipiodol-TC ad 1 mese dopo TACE sono direttamente correlati con la percentuale di necrosi completa (come dimostrato in controlli chirurgici) nel piccolo EC (Spreafico et al., 1994). La captazione “a sasso” di Lipiodol intratumorale identifica i cosiddetti tumori ipervascolari responsivi ed è predittivo per miglior sopravvivenza a 1 anno, con minor rischio di recidive locali (van Beers et al., 1989; Murakami et al., 1994; Ebied et al., 2003). In serie differenti, la TACE ha portato ad una risposta completa nel 50% e parziale nel 25% dei casi valutata sui valori di α-fetoproteina. Una risposta morfologica completa è eccezionale sulla base dei criteri WHO, poiché alcuni aspetti cicatriziali quasi sempre persistono. In letteratura, risposte morfologiche complete e parziali vengono riportate attorno al 45% dei casi (25-60%) e la maggior parte delle risposte si osserva prima del 3° trattamento (Bismuth et al., 1992). Il trattamento è più efficace per l’EC che appare come singoli noduli e che si presenta con una crescita espansiva mentre, lo è meno nelle forme istologiche di crescita massiva ed infiltrativa dove la necrosi completa non si è mai osservata (Hashimoto et al., 1995). Quando la necrosi è incompleta, si riscontrano spesso cellule residue attive specie nella zona extra capsulare dei tumori piccoli, mentre nei grandi EC il tessuto vitale è riscontrabile all’interno del tumore (Higuchi, 1994). Molti studi della letteratura includono la TACE bilobare, metodica oggi abbandonata in quanto comportava un danno diffuso anche al parenchima non neoplastico, con quota di complicanze elevata. La TACE segmentaria o subsegmentaria. Trattamento confinato solo all’area tumorale dopo cateterismo superselettivo, è indicato per il trattamento del nodulo di EC singolo o di noduli piccoli in numero < 3, indicazioni sovrapponibili a quelle della resezione chirurgica e della PEI. E’ potenzialmente più efficace in quanto l’occlusione provocata dall’embolizzazione sarebbe estesa, oltre che alle radici arteriose,anche al plesso peribiliare ed alle venule portali, ciò comportando una necrosi tumorale più massiccia (Uchida et al., 1990; 1993). Si ottiene un riempimento completo di LUF del nodulo in oltre il 70% e la percentuale di necrosi completa sarebbe del 64-83% (Matsui et al., 1993; Matsuo et al., 1993). Un recente contributo azzarda a definire questa metodica Angiographic sub-segmentectomy, la TACE superselettiva “mirata”

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dopo TC spirale ed iniezione forzata di Lipiodol e Farmorubicina fino a riempimento dei rami portali segmentari, seguita da embolizzazione dell’arteria con spugna di gelatina, applicata a lesioni < 2 cm fornirebbe risultati equivalenti alla resezione chirurgica, provocando sempre una necrosi completa tumorale, con recidive del 5% ad 1 anno, inferiori alle restanti metodiche percutanee e/o chirurgiche (Iwamoto et al., 2003). In tale procedura, il danno al parenchima epatico “sano” è ridotto e la percentuale di complicanze immediate e di insufficienza epatica post-procedurale è assai minore. Inoltre, La TACE superselettiva inoltre sembra eseguibile in caso di trombosi portale, senza danni (Katsumori et al., 1995). Benefici sulla sopravvivenza. All’inizio degli anni ’90, l’entusiasmo per la TACE fu massimale: numerosi studi prospettici e retrospettivi riportavano una necrosi neoplastica estensiva (60-90%), con alte percentuali di risposte obiettive all’imaging (fino all’80%) e sopravvivenza del 60-88% ad 1 anno, 30-60% a 2 anni e 18-50% a 3 anni. Uno dei migliori studi multicentrici controllati comparò la TACE selettiva alla terapia di mantenimento in pazienti con EC: i pazienti erano monitorati in termini di funzionalità epatica, dimensioni neoplastiche, stadio e dati demografici. I risultati di sopravvivenza a 1 anno furono nettamente a favore del gruppo trattato con TACE (59% verso 0% nel gruppo di controllo) (Vetter et al., 1991). Dopo qualche anno, un altro studio clinico controllato su 254 pazienti con EC stratificati secondo la classe di Child-Pugh e lo stadio di Okuda ha dimostrato analoghi risultati, con sopravvivenza a 1, 2, 3 anni nel gruppo trattato con TACE del 64%-38%-27%, molto superiori rispetto al gruppo trattato con terapia conservativa (18%,6% e 5%) (Bronovicki et al., 1994). Nonostante questi risultati incoraggianti, nessuno dei primi studi clinici sulla TACE come trattamento primario dell’EC ha mai dimostrato un significativo aumento della sopravvivenza, ma solo una riduzione dimensionale del tumore,in quanto venivano inclusi prevalentemente tumori di grosse dimensioni –mentre c’è evidenza che i piccoli EC hanno maggiore probabilità di rispondere alla TACE (Ryder et al., 1996; Lo et al., 2002)– in pazienti con malattia epatica severa, che poteva mascherare gli effetti benefici della TACE. Anche una recente meta-analisi (Geschwind et al., 2003) condotta per valutare le ragioni della mancata significatività in termini di sopravvivenza, rivela una consistente variabilità procedurale e numerosi difetti nel disegno degli studi.

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Finalmente nell’anno 2002, a distanza di due mesi l’uno dall’altro, sono stati pubblicati da un gruppo spagnolo (Llovet et al., 2002) e da uno di Hong Kong (Lo et al., 2002) i primi risultati di due studi random in pazienti con EC non resecabile, disegnati per valutare l’impatto della TACE sulla sopravvivenza. I pazienti erano arruolati solo se non potevano essere indicati per trattamenti cosiddetti “curativi” (resezione chirurgica, trapianto o PEI) e quindi appartenevano allo stadio “intermedio”. I risultati per la prima volta dimostravano un netto vantaggio in sopravvivenza nei pazienti trattati con TACE rispetto ai controlli (sopravvivenza a 1, 2, e 3 anni del 57%, 31%, e 26% nel braccio trattato con TACE versus 32%, 11%, e 3% nel gruppo di controllo), con significatività statistica (Lo et al., 2002). Una recente meta-analisi sistematica ha selezionato 14 studi clinici riportati in letteratura idonei per comparare gli effetti sulla sopravvivenza della TACE rispetto al trattamento conservativo con tamoxifene e ha dimostrato definitivamente che la TACE migliora la sopravvivenza a 2 anni rispetto al controllo (Llovet et al., 2003). Inoltre, si dimostra un beneficio significativo della TACE con cisplatino o doxorubicina, ma nessuno per la sola embolizzazione. Globalmente, il trattamento induceva risposte obiettive nel 35% dei pazienti (range 16-61%), mentre il tamoxifene non ha mostrato alcun effetto antitumorale né benefici sulla sopravvivenza. In conclusione, questi studi hanno finalmente dimostrato che la TACE migliora la sopravvivenza e può essere considerato la terapia di scelta per i pazienti con EC non resecabile e funzione epatica conservata. I dati contenuti negli studi citati enfatizzano ulteriormente l’importanza della tecnica usata per eseguire la TACE, il timing e il numero delle procedure da eseguirsi su ogni singolo paziente, oltre che una accurata selezione dei pazienti. La TACE è procedura ben definita per i pazienti con EC non passibili di chirurgia radicale: produce una significativa necrosi tumorale, ritardando la progressione verso l’insufficienza epatica. Inoltre, la TACE rappresenta un efficace trattamento neoadiuvante in attesa di terapie potenzialmente curative quali la resezione ed il trapianto di fegato. Nel frattempo si vanno sviluppando nuovi chemioterapici, nuovi agenti embolizzanti -anche caricati con radioisotopi- che dovrebbero consentire alla TACE di divenire sempre più efficace nella lotta all’EC. I benefici della TACE trovano giustificazione: - nell’alta percentuale di recidiva intra-epatica di EC dopo le terapie

cosiddette radicali (resezione chirurgica ed ablazione locale), dato

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che testimonia da un lato l’alta frequenza di tumori radiologicamente occulti e dall’altro il fallimento delle tecniche di ablazione locale nel tentativo di trattare la malattia, poiché l’intero organo è a rischio

- nella constatazione che la maggioranza di tumori epatici nella popolazione non sottoposta a screening è troppo voluminoso per essere trattato solo con le tecniche di ablazione percutanea e che con tali metodiche alcuni tumori di piccole dimensioni non sono raggiungibili per la loro posizione

mentre terapie locali come l’infusione nell’arteria epatica o la TACE trattano l’intero fegato e possono essere eseguite indipendentemente dalla dimensione e dalla posizione del tumore. I limiti della TACE sono rappresentati da una ridotta efficacia nell’ottenere una necrosi rispetto ai trattamenti termoablativi locali, pertanto l’orientamento recente è quello di combinare le tecniche ablative percutanee alla TACE. I trattamenti combinati

TACE + PEI. La TACE preliminare alla PEI provoca necrosi, a cui consegue la rottura dei setti, che permette una maggior diffusione e maggiori volumi di alcool; inoltre, induce un vallo fibroso peritumorale che consente un miglior contenimento dell’alcool nella lesione ed un ridotto wash out tumorale, con miglior ritenzione dell’alcool (Tanaka et al., 1992; Lencioni et al., 1998; Kamada et al., 2002). Grazie a tali alterazioni patologiche indotte dalla TACE, in lesioni > 3 cm, l’effetto e la diffusione dell’etanolo è potenziato quando la PEI viene eseguita dopo la TACE. La combinazione di TACE e PEI è stata valutata in numerosi studi (Tanaka et al., 1991; 1992; Lencioni et al., 1998; Tanaka et al., 1998; Dohmen et al., 2001; Koda et al., 2001) e in due random (Bartolozzi et al., 1995; Koda et al., 2001). Nello studio randomizzato italiano (Bartolozzi et al., 1995) la combinazione di TACE e PEI per il trattamento di EC di grosse dimensioni (3-8 cm), comparato con TACE ripetute, ha dimostrato migliore sopravvivenza globale e libera da malattia, con minori effetti collaterali sulla funzione epatica. Una singola seduta di TACE combinata a PEI equivale a 5 sedute di sola TACE. Nel secondo studio randomizzato (Koda et al., 2001), l’utilità della terapia combinata nel piccolo EC è stata comparata con sedute di sola PEI: la combinazione delle metodiche consente di ridurre il numero delle sedute di PEI (media 3.8 rispetto a 5.3 sessioni); nel gruppo PEI si

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osservò una più alta quota di recidive a 2 anni rispetto al gruppo TACE-PEI (65% vs 35%); analizzando separatamente gli EC < 2 cm si rilevò un significativo beneficio nella sopravvivenza a 3 anni (100% con TACE-PEI vs 62% con sola PEI). TACE + termoablazione con RF. La TACE combinata alla RF ha come razionale la sinergia tra l’effetto dei farmaci citotossici e la riduzione del flusso indotte dalla TACE, che potenzia l’insulto termico della RF (Goldberg et al., 2000). Uno studio che ha usato la RF dopo una blanda embolizzazione in EC di 3,5–8,5 cm, ha ottenuto sopravvivenze ad 1 anno dell’87% e recidive locali nel 19% (Rossi et al., 2000). Un’altra esperienza riferisce risultati di necrosi complete nel 100% indipendentemente da dimensioni e morfologia del tumore, con assenza di recidive locali negli EC small ed intermedio durante un follow-up medio di 12.5 mesi (Yamakado et al., 2002). TACE + termoablazione con Laser. La termoablazione con laser seguita da TACE produce una necrosi completa nel 90% dei casi di “large EC” e del 100% nello “small EC”, con percentuali di recidive del 7% a 1, 2, e 3 anni, e sopravvivenze cumulative a 1, 2 e 3 anni rispettivamente del 92%, 68% e 40% (Pacella et al., 2001b). Conclusioni

La scelta di una delle nuove tecniche per il trattamento di tumori epatici maligni primitivi o secondari dipende dalla popolazione dei pazienti, dall’obiettivo terapeutico e dall’efficacia della tecnica. Pazienti con tumori intra-epatici estesi o con malattia extraepatica non possono trarre beneficio da queste terapie. I pazienti con tumori intra-epatici di dimensioni limitate, rientrano nelle due categorie generali: quelli con tumori resecabili chirurgicamente e quelli non candidati alla chirurgia per la loro difficile sede, il numero di tumori o per le condizioni cliniche generali. La TACE offre la possibilità di controllare tumori di dimensioni > 5 cm o tumori di numero > 4, mentre ognuna delle tecniche di termoablazione produce risultati migliori nei tumori più piccoli. Il trattamento con tecniche alternative mini-invasive di pazienti con tumori epatici resecabili è una sfida, poiché se tutto il tumore epatico viene resecato o distrutto, questi pazienti possono potenzialmente guarire. Perché una nuova tecnica si proponga di sostituirsi alla

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resezione epatica, è necessario che il suo rendimento sia almeno pari nell’eradicazione del tumore, con minore morbilità e mortalità. Attualmente, nessuna delle tecniche mini-invasive ha ottenuto risultati paragonabili ad una resezione epatica ben condotta, con margini liberi da tumore. La TACE non offre la possibilità di guarire, perciò non dovrebbe essere utilizzata in questi pazienti. La PEI è efficiente nel trattamento di piccoli EC e nonostante sia capace di distruggere il 90% di tutti i tumori trattati, la possibilità di essere ripetuta più volte in pazienti con alto rischio di recidiva la rende una terapia alternativa per l’EC. Le tre tecniche di termoablazione, la RF, le microonde e la laser ablazione sono in via di sviluppo. La RF è una tecnica eccellente per il debulking tumorale; comunque il rendimento dell’ablazione tumorale è inferiore al 90%, a causa dell’effetto di raffreddamento creato dal copioso flusso portale nel parenchima epatico normale circostante il tumore. Questo problema è prevalente nel trattamento di metastasi epatiche e meno significativo nel trattamento dell’EC in pazienti con fegato cirrotico. Se le percentuali di ablazione completa di queste tecniche, singole o in associazione, raggiungeranno il 90%, i vantaggi aggiuntivi, come la minima morbilità e la possibilità di ripetere la procedura quando necessario, faranno di queste tecniche il trattamento preferenziale e potranno sostituire molte resezioni epatiche, in un prossimo futuro. Bibliografia

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4.0 TERAPIE FARMACOLOGICHE: IL CARCINOMA DELLA VESCICA

La terapia locoregionale del carcinoma vescicale si basa sulla possibilità di accesso all’organo interessato ed al tumore con facilità e ripetutamente, sulla possibilità di una terapia chirurgica localizzata, sulla necessità di intervenire per l’alta recidività, per l’evidenza di risposta ai vari agenti utilizzati. Il carcinoma superficiale della vescica (Ta, Tis, T1), trattato con resezione endoscopica (TUR-BT), presenta un alto, seppur variabile, rischio di recidiva (30-85%) (Amling, 2001). Tale rischio anche nei tumori a basso grado è rispettivamente del 34%, 50% e 64% a 2, 5 e 10 anni (Fuji et al., 2003). Anche se di non facile interpretazione, è stata sottolineata l’importanza del fattore radicalità chirurgica. Tuttavia, generalmente i fattori prognostici che definiscono il rischio di recidiva della malattia sono, in ordine di importanza: la multifocalità, il tempo di insorgenza della prima recidiva, il volume della lesione, il grado ed infine lo stadio T. Il rischio di progressione del carcinoma uroteliale superficiale, verso una forma più avanzata è subordinato agli stessi fattori sopracitati, ma con un diverso ordine di importanza: grado, stadio T, multifocalità, frequenza delle recidive e volume della neoplasia. Nell’ambito della neoplasia vescicale superficiale, si possono suddividere, in base al grado di recidività, tre diverse categorie: - basso rischio: lesione unica, Ta, G1, volume < 3 cm di diametro; - rischio intermedio: multifocale, Ta-T1, G1-G2, volume > 3 cm di

diametro; - alto rischio: multifocale o con alto tasso di recidiva T1, G3, CIS . Principi di metodologia

La terapia endovescicale viene effettuata mediante instillazione, tramite cateterismo vescicale, diluendo il farmaco in acqua sterile, la quale, rispetto alla soluzione salina, garantisce risultati migliori (Groos et al., 1986); il pH della soluzione agirebbe in modo ancora non ben definito sulla stabilità ed efficacia del farmaco. La metodologia dell’instillazione riguarda: 1) l’esecuzione del cateterismo che dovrebbe essere condotta nella maniera più atraumatica possibile per evitare contatti tra la superficie cruentata dell’uretra ed il

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farmaco utilizzato; 2) la necessità di controllare la presenza di urina in vescica per ottenere concentrazioni di farmaco, il più uniforme possibile; 3) la durata del mantenimento del farmaco in vescica; 4) eventuali artifici per mantenere il contatto farmaco-parete vescicale (per esempio, variazioni di posizione durante la presenza del farmaco in vescica). Alcuni Autori hanno valutato l’efficacia terapeutica analizzando l’evoluzione di una lesione marker (Gontero et al., 2004; Serretta et al., 2004), anche se allo stato attuale questo approccio non può essere considerato come standard nel trattamento dei tumori superficiali della vescica . La terapia endocavitaria, nel carcinoma superficiale della vescica, viene attuata allo scopo di prevenire o ritardare la recidiva od evitare la progressione della malattia. Nonostante l’esistenza di diversi farmaci utilizzati, non per tutti è ancora perfettamente chiaro il meccanismo d’azione; molti sono ciclo-cellulari specifici e per questo motivo richiedono ripetute instillazioni nel tempo. Stato dell’arte

I farmaci impiegati sono vari e possono essere raggruppati in due categorie: chemioterapici (tiotepa, adriamicina, epirubicina, mitomicina, valrubicina, pirarubicina, gemcitabina) ed immunoterapici (BCG, interferone, IL-2). Il tiotepa è stato il primo farmaco utilizzato nel trattamento endocavitario del carcinoma vescicale (Jones et al., 1961); agisce come agente alchilante, inibendo la sintesi degli acidi nucleici. L’assorbimento intravescicale del farmaco risulta elevato a causa del suo basso peso molecolare, inducendo pertanto effetti mielosoppressivi (leucopenia 8-54%; trombocitopenia 3-31%) e disturbi di tipo irritativi, proporzionali alla dose utilizzata e alla frequenza di somministrazione. Gli studi pubblicati hanno evidenziato inoltre una limitata efficacia a fronte di una tossicità sistemica elevata (Lamm, 1992a; Richie, 1992), tale da giustificare la sospensione di tale trattamento. L’adriamicina (ADM) è una antraciclina che svolge una triplice azione: si interpone tra le basi del DNA, inattiva la topoisomerasi II e produce radicali dell’ossigeno, causando la distruzione della membrana cellulare. Grazie al suo peso molecolare (580) l’assorbimento e gli effetti tossici sistemici risultano molto bassi. La cistite chimica è l’effetto collaterale più frequente (25-30% dei casi), raramente compaiono reazioni allergiche (0,3%), sintomi gastrointestinali (1,7%) e febbre (0,8%).

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La percentuale di risposta all’ADM varia dal 28% al 56% in funzione della dose utilizzata con una mediana del 38% (Bouffioux et al., 1992). Sulla base della revisione di quattro studi controllati, Lamm (1992a) ha riportato una riduzione del 18% dei tassi di recidiva nei pazienti trattati con doxorubicina. Rubben, viceversa, in uno studio randomizzato su 268 pazienti affetti da tumore superficiale della vescica suddivisi in 3 gruppi (nessun trattamento dopo TUR, 12 instillazioni bisettimali ed 1 anno di trattamento con ADM) non ha evidenziato alcuna differenza relativamente al tasso di recidiva, alla progressione ed alla sopravvivenza (Rubben et al., 1988). In uno studio randomizzato dell’EORTC, l’efficacia di ADM ed ethoglucide fu analizzata comparativamente alla resezione endoscopica da sola ad un follow-up mediano di 3,4 anni per il tempo alla prima recidiva ed a 5 anni per la progressione. Entrambi i farmaci comparati alla sola TUR mostravano un significativo prolungamento del tempo alla prima recidiva, ma nessuna differenza sulla progressione fra i tre gruppi, mostrando invece una forte correlazione fra la morte cancro-specifica e il T e il grado, ma non con il regime terapeutico impiegato (Kurth et al., 1997). L’efficacia terapeutica dell’ADM migliora con l’aggiunta di verapamil riducendo in modo significativo la ripresa, ma non vi è alcun vantaggio con la terapia di mantenimento, come evidenziato dal gruppo giapponese di Akaza (Akaza et al., 1987). L’epirubicina (EPI) ha un meccanismo d’azione simile all’ADM. La dose impiegata varia da 20 a 100 mg a seconda dello schema adottato; la dose ottimale è ancora controversa. In uno studio di Masters et al. (1999) su 122 pazienti la risposta valutata sulla lesione marker non ha evidenziato significative differenze fra la dose standard e le alte dosi (100 mg vs 50 mg) sul tempo alla prima recidiva e sulla frequenza di ripresa. Rajala, utilizzando una singola dose di 100 mg di EPI, somministrata immediatamente dopo la TUR, ha osservato, ad un follow-up medio di 72 mesi, un tasso di recidiva del 46% nei pazienti trattati rispetto al 73% nel gruppo di controllo (Rajala et al., 2002). In uno studio EORTC (30863) è stata valutata l’incidenza di tossicità ed il tasso di recidiva dopo una singola instillazione di EPI a 80 mg evidenziando la comparsa di cistite farmaco-indotta solo nel 6,8% dei casi (Oosterlinck et al., 1993) a fronte di una significativa riduzione del tasso di recidiva.

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La mitomicina C (MMC) è un antibiotico citotossico con azione antineoplastica, non ciclo-specifico, ha un peso molecolare di 334, con un basso assorbimento e viene utilizzato a dosi variabili da 20 a 80 mg per instillazione. In una meta-analisi dell’EORTC, su 23 studi clinici è stata evidenziata una diminuzione della recidiva del 7% a 7 anni, ma nessuna interferenza sulla progressione della malattia (Pawinski et al., 1996). Analogamente, in una revisione di studi controllati su 859 pazienti, è stata riportata una riduzione dei tassi di recidiva del 15%, senza dimostrare a lungo termine alcun vantaggio per la recidività e la progressione di malattia (Lamm, 1992a). In uno studio EORTC randomizzato e prospettico volto a verificare l’efficacia della MMC e del BCG, i risultati in termini di recidiva di malattia sono risultati sovrapponibili, ma la MMC è risultata essere più efficace nel ridurre il rischio di progressione di malattia (Witjes et al., 1998). Tale differenza è forse da attribuire al diverso schema di trattamento, che prevedeva un ciclo di mantenimento per la sola MMC. In un altro studio, i risultati dopo trattamento con MMC o BCG sono del tutto sovrapponibili (Krege et al., 1996), mentre Malmstrom sottolinea la superiorità del BCG nel prevenire la recidiva di malattia, senza evidenziare alcuna differenza per la progressione e la sopravvivenza (Malmstrom et al., 1999) . In conclusione, la MMC presenta effetti sistemici rari e con una frequenza di tossicità locale sovrapponibile ad altri chemioterapici; gli studi di confronto finora effettuati non mostrano una reale riduzione di recidività e progressione indotta da MMC rispetto ad altri farmaci nel trattamento endocavitario. La valrubicina è un analogo sintetico della doxorubicina e viene somministrato alla dose di 800 mg settimanale per 6 cicli. Il suo utilizzo è attualmente approvato dalla FDA statunitense nel trattamento del CIS refrattario al BCG, nei casi in cui la chirurgia demolitiva è controindicata. In uno studio su 90 pazienti affetti da CIS refrattario al BCG è stato osservato il 21% di risposte complete ad un follow-up di 30 mesi (Steinberg et al., 2000). La pirarubicina è un’antraciclina utilizzata a dosi di 30 mg in 30 minuti. La sua validità è stata saggiata confrontando tale farmaco con ADM e EPI, senza peraltro dimostrare reale vantaggi dell’uno o degli altri farmaci utilizzati (Lundebeck et al., 1983). In uno studio randomizzato di Okamura, l’instillazione con pirarubicina entro 6 ore dalla TUR, ha mostrato assenza di recidiva nel 92% dei casi

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trattati ad un anno di follow-up e nel 79% a 3 anni, confrontati rispettivamente con il 67% ed il 53% per il gruppo di controllo sottoposto soltanto a resezione (Okamura et al., 2002). La gemcitabina (GEM) è un analogo della deossicitidina; dopo l’attivazione intracellulare, il metabolita attivo viene incorporato nel DNA inibendone la sintesi. In uno studio di fase II, Dalbagni valuta l’efficacia del farmaco con due instillazioni settimanali in 28 pazienti refrattari al BCG che avevano rifiutato la cistectomia evidenziando 16/28 risposte complete (Dalbagni et al., 2004). Altri Autori presentano lavori di fase I-II con valutazione della risposta su lesione marker con instillazioni settimanali di GEM a vario dosaggio (500, 1.000, 2.000 mg) evidenziando una buona tollerabilità del trattamento ed una percentuale di risposta, che aumenta con la dose (Serretta et al., 2004). Gontero, in uno studio di fase II su 39 pazienti affetti da carcinoma della vescica a rischio intermedio, valuta i risultati ottenuti con 2000 mg settimanali di GEM per 6 settimane lasciando una lesione marker ed osserva una risposta completa in 22 pazienti (56%) senza avere alcuna progressione nei non responsivi (Gontero et al., 2004). Recentemente è stato pubblicato uno studio di fase I sulla singola instillazione di GEM somministrata immediatamente dopo la TUR su 10 pazienti rispettivamente da 5 a 1.500 mg e da 5 a 2.000 mg, con buona tollerabilità in entrambi i gruppi e nessuna tossicità sistemica (Palou et al., 2004). Uno studio in vitro su colture cellulari riporta i risultati relativi all’associazione della gemcitabina con altri chemioterapici, mostrando come l’efficacia del farmaco sia strettamente correlata allo schema impiegato (Zoli et al., 2004). Il BCG è attualmente il trattamento di scelta nelle forme multiple del carcinoma superficiale della vescica ed è l’unico approvato per via intravescicale dall’FDA per il trattamento del CIS (Lamm et al., 2000). Il meccanismo d’azione del BCG non è a tutt’oggi chiaro; probabilmente l’effetto antitumorale si manifesta attivando la cascata di processi immunomodulanti correlata alle condizioni genetiche e allo stato immunitario dell’ospite, alla dose e alla schema impiegato. Il BCG è superiore ai chemioterapici nel prevenire le recidive, ma dovrebbe essere impiegato solo nei pazienti con alto rischio di recidiva e di progressione per la sua tossicità. Lamm suddivide la tossicità del BCG in reazioni avverse minori (cistite nel 91% dei casi) e maggiori (febbre, prostatite granulomatosa, polmonite, epatite, sepsi da BCG, reazioni

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allergiche, ostruzione ureterale e coartazione vescicale) e complicanze rare (glomerulonefrite da immnucomplessi, cardiotossicità, linfadenite suppurativa). Millan-Rodriguez e collaboratori (2000) definiscono i gruppi di rischio in base allo stadio, grado, presenza di CIS e numero di lesioni. Il trattamento ottimale per i pazienti appartenenti alla classe a basso rischio, TaG1 ed il T1G1 con tumore singolo, è la resezione completa seguita da una singola instillazione di chemioterapico (Sylvester et al., 2004). Ad un follow-up mediano di 3.3 anni circa un terzo di questi pazienti recidiva, ma il rischio di progressione è approssimativamente nullo. In tumori T1G2, Ta T1G3 con o senza CIS e nel CIS da solo, il rischio di progressione è del 15% o più e pertanto il BCG è il farmaco d’elezione (Sylvester et al., 2002). Il trattamento dei pazienti a rischio intermedio (T1G1 multifocali, TaG2 e T1G2 unico) è controverso. In questo gruppo di pazienti il rischio di recidiva è del 50%, mentre solo nell’1,8% vi è progressione a malattia muscolo-invasiva (Millan-Rodriguez et al., 2000) e pertanto la scelta fra l’utilizzo di chemioterapici o del BCG va fatta considerando la maggiore efficacia del BCG a fronte di una maggiore tossicità. In una recente metanalisi dell’EORTC (Sylvester et al., 2002) sono stati analizzati 24 studi clinici randomizzati su 4863 pazienti: in 20 studi è stato utilizzato BCG con vari schemi di mantenimento e solo nei rimanenti 4 è stata eseguita la sola terapia di induzione. Ad un follow-up mediano di 2,5 anni è stata evidenziata una riduzione del 27% relativamente al rischio di progressione solo nel gruppo che aveva eseguito la terapia di mantenimento. Bohle e collaboratori (2003), in un successivo lavoro, concludono che la terapia di mantenimento andrebbe proseguita per almeno un anno per mostrare la superiorità del BCG alla mitomicina senza per questo aumentare la tossicità rispetto al gruppo che non ha eseguito la terapia di mantenimento. Shelley e collaboratori (2004), in una metanalisi di studi clinici randomizzati su 1901 pazienti ad alto rischio di recidiva, sottolineano la superiorità del BCG rispetto alla mitomicina in termini di recidività, pur in assenza di differenze nella progressione o sopravvivenza, lasciando la decisione sul farmaco da adottare a criteri di costi e tossicità. Lo schema ottimale della terapia di mantenimento non è ancora definito, anche se il protocollo SWOG, che consiste in schema di induzione più mantenimento di tre instillazioni settimanali a tre e sei mesi e successivamente ogni sei mesi per tre anni, ha evidenziato un vantaggio

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nel trattamento del CIS nel ridurre le recidive (83% verso 50%) e nel prolungare la sopravvivenza (92% verso 86%) (Lamm, 1992b). In uno studio in corso dell’EORTC, Zlotta et al. (2000) confrontano l’efficacia di un terzo di dose rispetto alla dose standard ed un anno di trattamento rispetto ai tre anni di trattamento nei pazienti a rischio intermedio ed alto, suggerendo come lo schema ottimale per dose, frequenza e numero di instillazioni dipenda verosimilmente dallo stato immunitario del paziente al momento dell’inizio del trattamento con BCG. L’impiego di interferone alfa–2b in associazione a basse dosi di BCG è stato proposto già da tempo, al fine di diminuire la dose del BCG e limitarne così gli effetti collaterali (Bercovich et al., 1995). Sulla base dei risultati incoraggianti, O’Donnell lo ha proposto come terapia di seconda linea nei pazienti BCG refrattari avendone valutato i risultati su 40 pazienti recidivati dopo uno o più cicli di BCG (O’Donnell et al., 2001); la sopravvivenza libera da malattia era 63% ad un anno e 53% a due anni. Lo stesso autore riporta uno studio multicentrico di fase II con BCG ed interferone alfa in pazienti BCG-naive ed in pazienti BCG refrattari. La dose impiegata era la stessa, ad eccezione del ciclo di induzione che veniva eseguito solo per i pazienti BCG-naive. La percentuale di ripresa era rispettivamente del 40% e 52% per i BCG-naive e i BCG refrattari (O’Donnell et al., 2004a). Il BCG associato ad interferone è una alternativa efficace e ben tollerata tanto da essere proposta come terapia di prima linea. Il Keyhole-limpetHemocyanin (KLH) (immunostimolatore non specifico), la bromopirina (immunomodulatore orale) e la terapia fotodinamica hanno prodotto risultati incoraggianti, ma necessitano di ulteriori conferme. Berger propone l’impiego della terapia fotodinamica come seconda linea di trattamento nei pazienti recidivi dopo BCG con comorbidità, non canditati alla terapia chirurgica. La tecnica consiste nella instillazione di una soluzione di acido aminolevulinico e successivo irraggiamento laser per via transuretrale. 16 dei 31 pazienti trattati erano liberi da malattia a 23.7 mesi, mentre 15 svilupparono una recidiva a 8.5 mesi (Berger et al., 2003). Al fine di ottimizzare la chemioterapia intravescicale, è stato proposto l’impiego dell’ipertemia associata alla mitomicina verso la sola mitomicina, evidenziando una differenza statisticamente significativa fra i due gruppi ad un follow-up di 24 mesi: 17,1% di recidive per il gruppo

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sottoposto a chemio-ipertemia e 57.5% per il gruppo della sola chemioterapia (Colombo et al., 2003). Di Stasi e collaboratori (2003) propongono inoltre l’instillazione di mitomicina in associazione ad una corrente elettrica EMDA al fine di aumentare l’assorbimento del farmaco ottenendo una percentuale di risposta del 53% per il primo gruppo rispetto al 28% per il gruppo trattato con sola mitomicina. Lo stesso autore ha riportato risultati superiori per la terapia sequenziale con BCG ed electromotive mitomicina rispetto al BCG da solo nei pazienti ad alto rischio di recidiva (Di Stasi et al., 2004). Protocolli clinici attivi

EORTC Genito-Urinary Tract Cancer Group ha attualmente due protocolli in corso: - Protocollo 30692: l’obiettivo dello studio di fase III è dimostrare

l’efficacia di basse dosi (1/3) e cicli di mantenimento a breve termine di BCG verso la dose standard e cicli di mantenimento a lungo termine sull’intervallo libero da malattia, ripresa, percentuale di pazienti con aumento della categoria T ed incidenza di CIS durante il follow-up.

- Protocollo 30993: lo studio randomizzato di fase II è basato sulla chemio-immunoterapia sequenziale verso l’immunoterapia, nel carcinoma in situ della vescica.

L’obiettivo primario è quello di valutare la percentuale di risposte complete in pazienti sottoposti a instillazione sequenziale con mitomicina C e BCG verso un gruppo trattato con solo BCG. Prospettive future

Nuove terapie sperimentali in corso di valutazione propongono di aumentare la risposta immunitaria mediante DNA vaccini o di potenziare l’effetto citotossico dei chemioterapici con vettori marcati, microsfere bioadesive od oligonucleotidi antisenso. O’Donnell ha evidenziato, su topi infettati con cellule di carcinoma vescicale, l’effetto inibente tumorale dose-dipendente dell’inter-leuchina-12 (IL-12). Tale risultato era indipendente dalla via di somministrazione (intravescicale o sistemica) ed inoltre IL-12, nei topi curati, induceva una risposta immunitaria di tipo protettivo contro le cellule tumorali reinfuse per via parenterale (O’Donnell et al., 2004b).

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Leakakos propone per il trattamento di carcinomi della vescica superficiali l’impiego di MTCs-DOX: si tratta di microparticelle di ferro e carbone attivato legate alla doxorubicina che dopo l’instillazione endovescicale vengono concentrate su una specifica regione della vescica utilizzando un campo magnetico (Leakakos et al., 2003). Paclitaxel e docetaxel hanno un effetto inibente sulla crescita delle cellule tumorali del carcinoma vescicale anche a basse dosi, ma per la loro scarsa solubilità non sono stati impiegati per via intravescicale. Le Visage riporta l’impiego di microsfere bioadesive di paclitaxel per ottimizzarne il rilascio e l’adesione alle cellule uroteliali su un modello murino (Le Visage et al., 2004). Un altro interessante studio è quello proposto da Miyake sull’uso di oligonucletidi antisenso per diminuire l’espressione del gene clusterina, che quando è iperespresso determina un fenotipo anti-apoptotico in diversi tumori, potenziando l’azione citotossica della gemcitabina (Miyake et al., 2004). Conclusioni

Esiste un ampio consenso sulla codifica della terapia dei tumori superficiali della vescica, intesa come ablazione endoscopica associata ad un regime di instillazioni endovescicali. I farmaci in uso pur avendo contribuito, anche se non uniformemente, ad abbassare la percentuale di recidiva, la progressione e la mortalità cancro-specifica non hanno risolto definitivamente le problematiche e pertanto sono in corso ricerche focalizzate alla tipologia dei farmaci impiegati, sullo schema di somministrazione e sulla risposta immunitaria dell’ospite. In conclusione, pur valutando positivamente le nuove linee di ricerca, al momento attuale possiamo solo ribadire che il BCG è la terapia più valida nel trattamento e nella profilassi del carcinoma della vescica, agendo in modo efficace nei riguardi della ripresa, della progressione di malattia e sulla sopravvivenza, mentre la chemioterapia intravescicale riduce il tasso di recidiva, ma non ha alcun impatto sulla progressione di malattia (Tabella 1).

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Tabella 1

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Basso rischio

Rischio intermedio

Rischio elevato

Scelta del farmaco chemioterapico chemioterapico o BCG BCG

Schema di somministrazione

singola instillazione

entro 6 ore dalla TUR

chemioterapico: 1 instill./sett. x 6 sett. (4-8 sett.) BCG: 1 instill./sett. x 6 sett.

1 instill./sett.

x 6 sett.

Terapia di mantenimento no

chemioterapico opzionale BCG almeno 1 anno, opzionale 3 anni

BCG almeno 1

anno opzionale 3

anni Complicanze correlate alla dose ed allo schema impiegati

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5.0 TERAPIE BIOLOGICHE: I TUMORI DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE Radioimmunoterapia locoregionale nei gliomi ad alto grado di malignità Introduzione e principi della metodologia

La strategia terapeutica per molte neoplasie maligne prevede un approccio chirurgico, spesso seguito da chemioterapia e/o radioterapia. Sebbene la resezione chirurgica del tumore sia molto efficace e talvolta curativa nelle forme localizzate, nei casi in cui la lesione non sia aggredibile chirurgicamente o in presenza di diffusione metastatica, le uniche opzioni terapeutiche rimangono la chemioterapia e/o la radioterapia. Se l'agente chemioterapico o radiante potesse essere selettivamente convogliato sulle cellule tumorali, si potrebbe evitare o almeno limitare la tossicità sui tessuti sani e, al tempo stesso, accrescere l’efficacia del trattamento (Wawrzynczak, 1991). Gli anticorpi monoclonali, in grado di legare specifici antigeni tumore-associati, possono essere impiegati quali modulatori della risposta biologica cellulare o come vettori di molecole citolesive quali agenti chemioterapici, tossine o radionuclidi. In particolare, la coniugazione di un anticorpo monoclonale (MoAb/s), specifico per un determinato antigene (Ag), con un opportuno radioisotopo consente di ottenere un efficace vettore in grado di irradiare le cellule tumorali in modo selettivo. La potenzialità di questo concetto, già introdotto per scopi diagnostici circa 50 anni fa, è stata dimostrata inizialmente da Goldenberg, intorno ai primi anni ‘80 (Goldenberg et al., 1978). Dapprima, un'intensa attività di ricerca in campo diagnostico ha provato l'utilità di questa tecnica (utilizzando isotopi a bassa energia) mettendo a punto la radioimmunoscintigrafia (Mach et al., 1981; Buraggi et al., 1985; Hirai, 1990). Il successo nelle applicazioni cliniche della radioimmunoscintigrafia ha aperto le porte ad un’estensione terapeutica della metodica. La radioimmunoterapia che si avvale dell’iniezione per via sistemica di anticorpi monoclonali coniugati in vitro con isotopi β-emittenti (Yttrio-90: 90Y, Iodio-131:131I) è potenzialmente in grado di rilasciare radiazioni ad alta energia sul tessuto patologico.

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La principale limitazione all'impiego di questo modello terapeutico consiste nel fatto che solo una piccolissima frazione di anticorpi monoclonali radiomarcati si lega al tumore (meno dell'1%), mentre una grande quantità di radioattività -legata agli anticorpi che non si sono localizzati sul tumore- rimane in circolo, irradiando per tempi più o meno lunghi i tessuti sani: ne consegue una tossicità elevata, che limita fortemente l'applicazione clinica della radioimmunoterapia nell’uomo (Larson, 1985; Jain, 1991; Leichner et al., 1993). Al contrario, la somministrazione di anticorpi monoclonali radioconiugati con isotopi ad alta energia (β o α emittenti) all'interno di cavità naturali o neocavità, coinvolte da patologia neoplastica, è potenzialmente in grado di determinare un elevato effetto terapeutico locale e ridurre drasticamente la tossicità a livello del compartimento emopoietico e degli organi non coinvolti nel processo patologico. Tale metodica terapeutica denominata radioimmunoterapia (RIT) locoregionale (LR) costituisce una evoluzione, in termini di specificità, della terapia radiocolloidale (particolarmente studiata negli anni ‘60-‘70) che consiste nella somministrazione di particelle di albumina colloidale radiomarcate con isotopi ad alta energia (189Oro, 72Zinco, 32Fosforo) all'interno della cavità peritoneale, pleurica, pericardica o articolare per il trattamento delle forme essudative di origine neoplastica e per la cura delle artriti di origine infiammatorie (Pezner et al., 1978; Van Soesbergen et al., 1988). Patologie bersaglio

Teoricamente, il modello radioimmunoterapico potrebbe essere applicato in tutti quei tumori per cui sia disponibile un MoAb specifico in grado di legare un determinato Ag tumore-associato. La RIT-LR è attualmente utilizzata come trattamento palliativo della carcinomatosi peritoneale secondaria a cancro dell'ovaio o dello stomaco, ma la maggior parte degli studi riguardano il suo impiego nel trattamento delle recidive locali dei tumori cerebrali. I tumori cerebrali, ed in particolare modo i gliomi ad alto grado di malignità (HGG), che comprendono circa il 40% delle neoplasie maligne dell'encefalo, costituiscono il banco di prova ideale per quasi tutte le terapie antitumorali innovative. Nonostante l'applicazione di protocolli terapeutici che prevedono l'asportazione chirurgica della lesione, la radioterapia esterna e varie linee di chemioterapia, la prognosi di queste neoplasie rimane

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estremamente severa, con una mediana di sopravvivenza di 6-12 mesi per i pazienti affetti da glioblastoma (GBM) e 15-27 mesi in caso di astrocitoma anaplastico (AA) (Ahlbom et al, 1989). Raramente gli HGG danno metastasi a distanza, ma costantemente mostrano la tendenza a recidivare localmente e ad accrescersi rapidamente infiltrando il tessuto cerebrale adiacente (Gaspar et al., 1992). Tale comportamento biologico giustifica pienamente la ricerca di presidi terapeutici locoregionali. Il vantaggio derivante dalla somministrazione locale di molecole terapeutiche consiste, infatti, nella possibilità di by-passare la barriera emato-encefalica riducendo al minimo i rischi di tossicità sistemica e incrementando, di fatto, il tempo di residenza di radiofarmaco a livello tumorale. Nel corso degli ultimi dieci anni, numerosi studi hanno confermato l'efficacia della brachiterapia e della gamma-knife (Ostertag et al., 1992; Dempsey et al., 1998). Altri ancora hanno dimostrato l'utilità terapeutica dell'ipertermia locale (Kida et al., 1990), dell'impianto intratumorale di LAK-cells o di interleuchina-2 (Barba et al., 1989), di tossine ricombinanti (Rand et al., 2000), di interferone-α e di varie molecole chemioterapiche (Boiardi et al., 1996; Enelhard, 2000). La RIT-LR, che si aggiunge alle altre metodiche innovative sopra citate, trova negli HGG un ideale campo di applicazione. Questa affermazione è suffragata dal fatto che queste neoplasie esprimono rilevanti quantità di tenascina, un Ag non presente nelle cellule cerebrali normali, per il quale è disponibile uno specifico MoAb (Zagzag et al., 1996). La somministrazione di anticorpi monoclonali radiomarcati con isotopi β−emittenti per via LR determina la distruzione delle cellule neoplastiche, attraverso due distinti meccanismi fisiopatologici. Il primo è innescato dalla reazione Ag-anticorpo, prosegue con l'internalizzazione dell'anticorpo radioattivo all'interno della cellula tumorale con conseguente danneggiamento del DNA. Il secondo, di natura aspecifica, sfrutta l'emissione radioattiva indiretta sulle cellule tumorali: sia di quelle provviste di Ag sia di quelle che, nell'ambito della stessa popolazione neoplastica, risultano prive di Ag (cross-fire effect). Gli studi fino ad ora condotti confermano che la RIT-LR è potenzialmente in grado di prolungare la sopravvivenza dei pazienti affetti da glioma maligno, senza aumentare la morbidità già indotta dai trattamenti convenzionali (Riva et al., 2000; Paganelli et al., 2001; Reardon et al., 2002; Boskovitz et al., 2004; Zalutsky, 2004).

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Descrizione della tecnica

La somministrazione di un medicamento per via locale presuppone l'introduzione del medicamento stesso in una cavità naturale del corpo (cavità peritoneale, pleurica, pericardica, articolare) o in una cavità neo-formata quale, per esempio, la cavità chirurgica che residua all'interno di un organo dopo l'asportazione di tessuto patologico. L'iniezione del farmaco può avvenire mediante agopuntura guidata da metodiche radiografiche (stereotassi) o ecografiche o attraverso specifici cateteri, posizionati durante la procedura di debulking. Sempre più frequentemente, in occasione di interventi neurochirurgici di asportazione di HGG, viene programmato il posizionamento di un presidio atto a consentire, in tempi successivi, la somministrazione di farmaci all'interno della cavità poro-encefalica o l'aspirazione di liquor o sangue dalla medesima. Questo approccio deve essere ulteriormente incoraggiato. I dispositivi più usati sono composti da due parti: un catetere ed un serbatoio, entrambi in materiale plastico bio-compatibile (Figura 1a). Il catetere (catetere di Cordis) che ha un diametro interno di 1-2 mm, presenta una lunghezza variabile ed è dotato di due estremità: una distale, intra-tecale, che pesca all'interno della cavità chirurgica ed una prossimale, extra-tecale, saldamente connessa al serbatoio. Il serbatoio (o recervoir), che una volta posizionato si colloca tra la superficie esterna della teca cranica e il sottocutaneo del cuoio capelluto, è disponibile in vari modelli che si differenziano per capacità e distensibilità (Figura 1b-c). Il modello di Rickam, di piccole dimensioni, fabbricato con materiale inestensibile è preferito dagli operatori per le RIT perché facilita le manovre di somministrazione ed è ben accettato dai pazienti in quanto risulta quasi invisibile, anche su un cuoio capelluto affetto da alopecia post-attinica (Figura 1d). In RIT-LR la prima somministrazione del radioconiugato, nel trattamento degli HGG, può avvenire già dopo 10-30 giorni dall'intervento chirurgico (per evitare complicanze emorragiche); il trattamento è ripetuto in genere ogni 6-8 settimane. Sebbene la somministrazione LR non comporti rischi legati alla presenza di anticorpi anti-immunoglobuline murine (HAMA), è bene effettuare il test HAMA prima di ripetere il trattamento radioimmunoterapico. La somministrazione dei radioconiugati avviene in apposita zona controllata del reparto di Medicina Nucleare. In accordo con la normativa vigente, la dimissione può avvenire alcune ore dopo la

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somministrazione del radiofarmaco (se si usa 90Y) o dopo un periodo di ricovero in ambiente protetto (131I). Figura 1

a) Vari modelli di dispositivi per la somministrazione intracranica di

sostanze terapeutiche b) Il posizionamento del dispositivo al termine dell’escissione

chirurgica del tumore c) Il dispositivo nelle immagini RM: il recervoir poggia sulla teca

cranica, il catetere attraversa la teca e termina all’interno della neocavità chirurgica

d) Il recervoir sottocutaneo è poco visibile e ben tollerato dal paziente Stato dell'arte

Nella maggioranza dei protocolli clinici riguardanti la RIT applicata ai tumori cerebrali, sono stati utilizzati anticorpi monoclonali radiomarcati in grado di legare l'Ag Tenascina.

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La Tenascina-C è una glicoproteina presente in grande abbondanza nella matrice extracellulare (in particolar modo attorno ai vasi sanguigni neoformati) degli HGG ed in altri istotipi tumorali. La quantità di Tenascina espressa è direttamente correlata al grado tumorale: nel 90% dei glioblastomi multiformi sono stati dimostrati livelli altissimi di questo Ag, mediante tecnica immunoistochimica (Zagzag et al., 1996). Esistono diversi epitopi della Tenascina e, per alcuni di questi, mediante l'uso di ibridomi, è stato prodotto un MoAb specifico. Il MoAb anti-Tenascina 81C6, una IgG2b in grado di legarsi ad un epitopo della Tenascina sito nella regione CD della fibronectina tipo III (costituente della matrice extracellulare), è stato ampiamente studiato dal gruppo della Duke University. Gli studi preclinici condotti su roditori hanno escluso la possibilità di un suo impiego, come radioconiugato, in modelli di RIT sistemica a causa della potenziale tossicità sugli organi sani. Al contrario studi di fase I e II hanno dimostrato le potenzialità di questa immunoglobulina, marcata sia con 131I che con 211Astato, nella RIT-LR dei gliomi ad alto grado (Bigner et al., 1998; Boskovitz et al., 2004; Zalutsky, 2004). Altri due anticorpi monoclonali antitenascina, il BC-2 e il BC-4 (in grado di riconoscere due ulteriori epitopi della Tenascina), sono stati impiegati nel trattamento RIT-LR di pazienti affetti da glioma cerebrale da Goetz e Riva. Nei loro studi di fase I e II, gli autori hanno ottenuto risultati confortanti in termini di tossicità e di risposta terapeutica, sia impiegando 131I che 90Y (Riva et al., 2000; Goetz et al., 2003). Nella Tabella 1 sono schematizzati i risultati dei principali studi relativi agli anticorpi monoclonali anti-Tenascina 81C6, BC-2, BC-4 in RIT-LR.

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Tabella 1 Risultati dei principali studi relativi agli MoAbs anti-Tenascina 81C6, BC-2, BC-4 utilizzati in RIT-LR per il trattamento di HGG

MoAbs Isotopo Studio n. Pazienti OS

mediana (settimane)

Tossicità Referenza

81C6 (murino)

131I Fase I 34 (26 GBM) 60 – 56 Neurologica Ematica

Bigner, 1998

81C6 (murino)

131I Fase I 42 (32 GBM) 79 – 69 Neurologica Cokgor, 2000

81C6 (murino)

131I Fase II 33 (27 GBM) 87 – 79 Neurologica Ematica

Reardon, 2002

81C6 (chimerico)

211At Fase I 17 (14 GBM) 60 Nessuna Zalutsky, 2002

BC-2 o BC-4 (murini)

131I Fase II 91 (74 GBM - 17 AA) 76 - > 184 Nessuna Riva,

2000

BC-2 o BC-4 (murini)

90Y Fase II 43 (35 GBM - 8 AA) 80 – 360 Nessuna Riva,

2000

BC-4 (murino)

131I o 90Y Fase II 37 (24 GBM) 68 Neurologica Goetz, 2003

Il principale limite della RIT-LR (che convenzionalmente prevede l'utilizzo di anticorpi monoclonali radiomarcati in vitro) è rappresentato dalla lenta diffusione delle radioimmunoglobuline (a causa delle grosse dimensioni) attraverso il cercine di tessuto tumorale che circonda la cavità chirurgica e verso il tessuto adiacente alla lesione, macroscopicamente sano, ma sede sicura di cellule neoplastiche (Jain et al., 1988). Inoltre, è stato documentato che il radioconiugato, subendo un rapido processo di auto-radiolisi, perde rapidamente la sua specifica capacità immunoreattiva (DeNardo et al., 2000). Protocolli clinici attivi

Nel tentativo di incrementare la captazione di anticorpi radioattivi a livello tumorale sono stati studiati modelli di pre-targeting, in cui le somministrazioni del MoAb specifico e dell'isotopo radioattivo avvengono in momenti distinti (Goodwin et al., 1988; Paganelli et al., 1988; 1995a). I modelli basati sul pre-targeting richiedono l’uso di anticorpi monoclonali modificati, che permettono ad un secondo componente di

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legarsi, in vivo, in modo specifico. In particolare, gli anticorpi modificati (molecole vettrici) sono somministrati per primi e vengono lasciati interagire, per un opportuno periodo di tempo, con gli Ag espressi dai tessuti tumorali. Quindi si somministra l'isotopo (molecola effettrice) che va a rendere radioattivi gli anticorpi fissati al tumore. Tra le diverse strategie di pre-targeting studiate, il gruppo Paganelli, presso l’Istituto Europeo di Oncologia, ha applicato il metodo del 3-step, basato sull’impiego del sistema avidina-biotina (Paganelli et al., 1991; 1999; Grana et al., 2002). Dapprima, tale metodica è stata applicata a protocolli clinici di RIT sistemica con lo scopo di limitare le problematiche legate alla tossicità sistemica, quindi è stata trasposta e convalidata anche nel trattamento LR delle carcinosi peritoneali (Paganelli et al., 1992) e negli HGG (Paganelli et al., 2001). Il sistema avidina-biotina è largamente utilizzato per applicazioni in vitro (Wilchek et al., 1988). L’avidina (estratta dall'albume delle uova) è una piccola proteina oligomerica (66-KDa) composta da quattro sub-unità identiche che contengono, ognuna, un sito di legame per la biotina. La biotina (vitamina H) è una molecola di 244-Da disponibile commercialmente con diversi linker, che facilitano la reazione con le proteine. La principale caratteristica funzionale dell'avidina consiste nella sua capacità di legare con alta affinità e specificità la biotina (Green, 1963). Il legame tra le due molecole, praticamente irreversibile, è alla base del sistema denominato PAGRIT® (Pre-Targeted Antibody Guided Radio Immuno Therapy). In sintesi, vengono somministrati degli anticorpi monoclonali specifici biotinilati, che andranno a fissarsi agli Ag espressi dal tumore (step 1). Il giorno seguente si somministra l'avidina, la quale, mediante uno dei suoi 4 siti di legame, si fissa saldamente alla biotina legata all'anticorpo (step 2). Due-quattro ore dopo si procede con l'iniezione della biotina radioattiva, che andrà a saturare i tre siti di legame ancora liberi per ogni molecola di avidina (amplificazione recettoriale) (Paganelli et al., 1995b) (Figura 2). Per le applicazioni terapeutiche, la scelta del radionuclide è piuttosto limitata. L’Yttrio-90 (90Y), utilizzato presso l’Istituto Europeo di Oncologia per tutti i protocolli 3-step finora eseguiti, è indicato come uno dei migliori radionuclidi per la terapia con anticorpi, poiché ha caratteristiche fisiche appropriate ed è facilmente disponibile. Ha tempo di dimezzamento pari a 2,7 giorni ed è un beta emettitore puro di alta energia (Emax = 2.28 MeV; Eave= 0.94 MeV) (Wessels et al., 1984; Chinol et al., 1987).

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Anche il Lutezio-177 (177Lu), con il suo lungo tempo di dimezzamento (6, 7 giorni) e il suo minor range di penetrazione (massimo 2 mm) potrebbe trovare opportuna applicazione in RIT, specie nei casi in cui si debbano irradiare piccole lesioni (De Jong et al., 2002). Figura 2

a) Modello di radioimmunoterapia convenzionale: l’anticorpo

monoclonale è radiomarcato in vitro con l’isotopo radiattivo: il radiofarmaco così formato è somministrato all’interno della cavità poroencefalica.

b) Reagenti della metodica a 3 step: l’anticorpo biotinilato, l’avidina e la biotina radiattiva vengono somministrati separatamente.

c) Disposizione molecolare in vivo dei componenti il 3-step.

Cellula tumorale Ag Cellula tumorale Ag MoAb I-131 MoAb I-131

Cellula tumorale Ag MoAb Biotina Cellula tumorale Ag MoAb Biotina Avidina Biotin Avidina Biotin Y-90Y-90

a

b

c

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In un recente studio di fase I-II (Paganelli et al., 2001), è stata studiata la tossicità e l'efficacia terapeutica della RIT-LR, basata sulla metodica del 3 step. E’ stato preso in considerazione un gruppo di 24 pazienti affetti da recidiva di HGG, documentata dopo i trattamenti convenzionali (chirurgia, radioterapia, chemioterapia). I pazienti sono stati sottoposti ad un secondo intervento chirurgico di asportazione di recidiva ed a contemporaneo posizionamento di un dispositivo intracranico del tipo sopra descritto. Otto pazienti erano affetti da recidiva di AA e 16 pazienti da GBM. In tutti i casi, un indagine immunoistochimica condotta sul pezzo operatorio ha documentato alta densità di Ag per la Tenascina a livello lesionale. Durante il 1° step sono stati somministrati 2 mg di MoAb anti-tenascina biotinilato BC-4 attraverso il catetere endocranico; 24 ore dopo, in occasione del 2° step, 10 mg di Avidina; quindi, si è provveduto al 3° step con la somministrazione intracavitaria della biotina radiomarcata con Y-90 (Figura 3a). Ciascun paziente ha ricevuto un duplice trattamento, con un intervallo di 8-10 settimane tra una somministrazione e l'altra. L'attività è stata somministrata in un range tra 0.555 e 1.110 GBq (15-30 mCi) per trattamento, seguendo uno schema di escalation dose, con incrementi di 0.185 GBq (5 mCi). La corretta somministrazione del radiofarmaco è stata accertata mediante immagine scintigrafica (acquisizione Bremsstrahlung) (Figura 3b). Figura 3

a b

a) Modalità di somministrazione dei componenti il 3-step. b) La corretta somministrazione del radiofarmaco è verificata attraverso

un’immagine scintigrafica eseguita 10-20 minuti dopo l’inoculo del radiofarmaco.

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Il trattamento è stato ben tollerato da tutti i pazienti (senza manifestazioni si tossicità acuta o tardiva), che hanno ricevuto attività comprese entro i 0.740 GBq (20 mCi). La massima dose tollerata è stata definita in 1.110 GBq (30 mCi): 2 dei 6 pazienti che hanno ricevuto tale attività hanno mostrato segni di tossicità neurologica. Per contro, nessuno dei pazienti ha manifestato segni di tossicità midollare, renale od epatica. I calcoli dosimetrici, di cui si parlerà in un paragrafo a parte, hanno dimostrato che la dose assorbita dal tessuto cerebrale sano era trascurabile rispetto a quella assorbita dal tessuto patologico attorno alla cavità chirurgica (vedi Appendice). Una rivalutazione RM dell'encefalo, eseguita due mesi dopo il secondo trattamento (e comparata con quella eseguita prima del primo trattamento), ha mostrato una risposta obiettiva (PR+MR) in 6 pazienti (3 AA e 3 GBM), stabilità del quadro neuroradiologico in 12 pazienti (5 AA e 7 GBM) e progressione in 7 pazienti affetti da GBM. La sopravvivenza mediana, calcolata dal momento del secondo intervento chirurgico al decesso, è stata di 18 mesi per i pazienti con AA e di 11,5 mesi per quelli con GBM. La sopravvivenza globale mediana è stata rispettivamente di 42 e 18,5 mesi. I risultati ottenuti, incoraggianti per quel che riguardava la tossicità e la risposta obiettiva, hanno spinto a continuare la sperimentazione e, in una recente analisi retrospettiva sono stati valutati la sopravvivenza globale (OS) e l'intervallo di sopravvivenza libero da progressione (PFS) di un gruppo più ampio di pazienti affetti da recidiva di glioblastoma, trattati con RIT-LR secondo la tecnica del 3 step descritta sopra (Bartolomei et al., 2004). I 73 pazienti studiati, tutti affetti da ripresa di malattia, dopo il primo intervento chirurgico seguito dalla radioterapia esterna conformazionale, sono stati sottoposti ad un secondo intervento chirurgico di asportazione di recidiva e posizionamento di catetere intracranico munito di recervoir. Ogni paziente è stato, quindi, trattato con almeno due cicli di RIT-LR (range 2-7 cicli), con un’attività mediana somministrata di 740 MBq di 90Y-biotina per ciclo e con un intervallo di circa due mesi tra un ciclo e l'altro. Inoltre, a 35 dei 78 pazienti trattati è stata associata una chemioterapia sistemica orale con Temozolomide (TMZ): due cicli di TMZ (200 mg/m2 al giorno per 5 giorni consecutivi ogni 28 giorni) tra un ciclo di RIT-LR e quello successivo. Nei 38 pazienti trattati esclusivamente con RIT-LR sono stati osservati una sopravvivenza globale mediana ed

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un intervallo mediano di sopravvivenza libero da progressione rispettivamente di 17,5 mesi (95% CI=17-20) e di 5 mesi (95% CI=4-8). Nel gruppo di 35 pazienti trattati con RIT-LR in associazione con TMZ sono stati osservati una OS mediana di 25 mesi (95% CI=23-30) ed un PFS mediano di 10 mesi (95% CI=9-18, p<0,01). Non sono stati osservati effetti collaterali dovuti a tossicità neurologica o ematica. Le conclusioni che possono essere tratte dalla revisione di questi dati possono essere così sintetizzati: è stata confermata la tollerabilità e l'efficacia terapeutica della RIT-LR in 3-step nei pazienti affetti da HGG; i risultati ottenibili da tale metodica, in termini di efficacia terapeutica, sono stati ulteriormente migliorati dall'associazione di una chemioterapia sistemica, quale per esempio la Temozolomide.

Conclusioni e prospettive future

Certamente, gli studi finora condotti in merito alla RIT-LR negli HGG, debbono essere considerati come preliminari e necessitano di ulteriori conferme mediante studi prospettici controllati e multicentrici. Tuttavia, le informazioni ricavate dai dati disponibili in letteratura confermano le potenzialità della metodica radioimmunoterapica. Questa metodica potrebbe divenire in futuro parte integrante dell'approccio terapeutico multimodale (già in uso ormai da più di 30 anni) che prescrive, quali procedure standard, la chirurgia, la radioterapia esterna e la chemioterapia. Attualmente, il timing dei vari presidi terapeutici disponibili è oggetto di studio: Stupp e colleghi, per esempio, hanno recentemente dimostrato, mediante uno studio randomizzato multicentrico, che l'associazione contemporanea di radioterapia esterna e chemioterapia (Temozolomide) procura tangibili vantaggi per i pazienti affetti da glioma (Stupp et al., 2004). Allo stesso modo, sarebbe interessante verificare i potenziali vantaggi derivanti da un uso precoce della RIT-LR, in questo tipo di pazienti. In quasi tutti gli studi effettuati finora, la RIT-LR risulta essere uno degli ultimi atti terapeutici eseguiti e quasi sempre è stata proposta in pazienti in stadio avanzato di malattia. Il posizionamento del dispositivo per somministrazioni locoregionali potrebbe avvenire già durante il primo intervento chirurgico (e non, come avviene attualmente, in occasione dell'asportazione della recidiva)

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e il primo trattamento con anticorpi monoclonali ed isotopi radioattivi potrebbe essere collocato in quell'intervallo di tempo (1-2 mesi), che intercorre tra la chirurgia e l'inizio della radioterapia esterna. In questo caso, probabilmente, il MoAb, a contatto con un tessuto ancora non sclerotizzato dalla radioterapia esterna, potrebbe diffondere meglio attraverso il residuo tumorale e legare più facilmente con il suo antigene specifico. Al di là della scelta del miglior timing procedurale, che potrebbe accrescere il significato terapeutico della RIT, la ricerca in questo campo ha recentemente fornito nuovi anticorpi monoclonali in grado di garantire maggiore affinità e reattività nei confronti dei corrispondenti antigeni tumore-associati. Per esempio, è stato recentemente sviluppato un nuovo anticorpo antitenascina, denominato ST2146, che dagli studi pre-clinici appare molto promettente e che sarà prossimamente testato, in ambito multicentrico, per studi di RIT nei pazienti affetti da HGG (De Santis et al., 2003). Appendice Valutazioni di dosimetria e di farmacocinetica nella radioimmunoterapia in 3 step applicata ai gliomi cerebrali E’ noto che l’efficacia della terapia è strettamente legata al rapporto tra l’attività localizzata sul tessuto tumorale (T) e l’attività presente nei tessuti sani (NT). Il rapporto T/NT è inteso come l’attività presente nel tessuto tumorale e l’attività presente in una regione immediatamente circostante il tumore oppure in una regione simmetrica rispetto al tumore (sempre all’interno dell’organo coinvolto, in questo caso il cervello). Tale rapporto in caso di somministrazione locoregionale è molto elevato, circa 20 e stabile nel tempo. Il radiofarmaco rimane ben localizzato a livello della lesione, senza irraggiare i tessuti circostanti. Nella Figura 4 è rappresentata la curva media dell’attività percentuale somministrata, presente in cavità in funzione del tempo; la curva ha andamento mono-esponenziale.

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Figura 4 Curva media dell’attività (%) somministrata presente in cavità in funzione del tempo

La percentuale di attività presente nel circolo ematico, dopo una somministrazione LR, è molto bassa e varia in funzione della vascolarizzazione della zona trattata. La variazione tra i diversi pazienti è notevole, ma l’attività presente nel circolo ematico è in ogni caso inferiore al 4%, raggiungendo valori inferiori al 1% dopo 30 ore dalla somministrazione. La percentuale di attività somministrata cumulativa eliminata per via urinaria raggiunge un valore limite compreso tra 20 e 40%. Questo limite dipende dalla vascolarizzazione dell’area della somministrazione: maggiore la vascolarizzazione, maggiore la quantità di attività non legata a cellule neoplastiche che sarà eliminata per via urinaria. Dosi assorbite nella regione tumorale

Le dosi assorbite dalla regione attorno alla cavità bersaglio variano notevolmente in funzione della distribuzione che gli anticorpi assumono all’interno della cavità. Maggiore sarà il legame degli anticorpi alle cellule tumorali, maggiore sarà la dose impartita ai tessuti circostanti la cavità. In caso di legame totale tra le molecole di 90Y-biotina e anticorpi e in caso di non legame specifico le dosi assorbite sono quelle illustrate nella Figura 5 (a e b) nel caso di cavità di dimensione pari a 0,5 e 1,0 cm di raggio, rispettivamente. In realtà, poi, la dose assorbita dalle regioni bersaglio sarà una combinazione di due frazioni, a seconda della

10

100

0 10 20 30 40 50 60

ore

Att

ivit

à

som

min

istr

ata

(%)

ore

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percentuale di radiofarmaco che si lega alle cellule neoplastiche, perciò si può affermare che le dosi ottenute considerando i due diversi legami (0 e 100%) possono essere valutate come gli estremi del range di variabilità delle dosi assorbite dalle regioni bersaglio, poiché non è possibile determinare la percentuale di molecole di 90Y-biotina legate agli MoAbs presenti nelle cellule neoplastiche. Figura 5 Dosi assorbite dalle regioni circostanti la resezione tumorale di raggio pari a 0,5 cm (A) e 1,0 cm (B) nel caso di una somministrazione locoregionale di 555 MBq di 90Y

Dose assorbita dagli organi sani

La dose assorbita dal midollo rosso è estremamente contenuta (0,014 mGy/MBq) anche se particolare attenzione deve essere posta alla presenza di 90Y libero nella soluzione somministrata, poiché a causa del tropismo di 90Y per le ossa, una considerevole frazione di 90Y libero

Dosi assorbite dalla regione attigue alla cavità - raggio cavità: 0.5 cm, attività somministrata 555 MBq -

0

1

100

10000

0 0,5 1 1,5 2

distanza dal centro della cavità - cm -

dose

ass

orbi

ta -

Gy

-

legame 0% legame 100%

a

Dosi assorbite dalla regione attigue alla cavità - raggio cavità: 1 cm, attività somministrata 555 MBq -

0

10

1000

100000

0 0,5 1 1,5 2distanza dal centro della cavità - cm -

dose

ass

orbi

ta -

Gy -

legame 0% legame 100%

b

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circolante nel sangue si localizza sulle ossa corticali e trabecolari, irradiando direttamente il midollo rosso. Quest’ultimo assorbe una dose addizionale pari a 3.3 mGy per ogni MBq di 90Y libero circolante nel sangue (Cremonesi et al., 1999). Perciò la resa di marcatura e la stabilità del radiocomposto devono essere accuratamente valutati. La dose assorbita dalla vescica risulta essere pari a 0.32 mGy/MBq. Questa dose non risulta essere particolarmente importante, ma potrebbe in ogni caso essere ridotta facilitando la minzione. La dose assorbita dal corpo intero risulta essere pari a 0,003 mGy/MBq, mentre la dose efficace risulta essere pari a 0,022 mSv/MBq. Radiobiologia e confronto dell’efficacia terapeutica tra radioimmunoterapia e radioterapia Le radiazioni ionizzanti inducono cambiamenti che causano un danno biologico nei sistemi viventi. La relazione tra la dose assorbita (cioè la quantità di energia impartita per unità di massa) e l’efficacia biologica è una delle associazioni più importanti, ma anche più problematiche della ricerca nel campo delle applicazioni mediche delle radiazioni ionizzanti ed è perciò fonte di intensi e nuovi studi. Alcuni Autori (Wong et al., 1991; Dale, 1996) hanno raccolto le informazioni disponibili sulla radiobiologia dell’irradiazione a basso rateo da fascio esterno e della RIT applicandola alla dosimetria del tumore, allo scopo di cercare un confronto tra le due tecniche. Sono state riviste le relazioni tra rigenerazione (repair) del danno da radiazione, ridistribuzione del ciclo cellulare, proliferazione delle cellule tumorali, riossigenazione e eterogeneità delle dosi con la risposta dei tumori al basso rateo di dose con RIT. Da questo studio è emerso che i tumori che sembrano rispondere maggiormente alla RIT sono quelli che sono intrinsecamente radiosensibili (inherently), che hanno una scarsa capacità di riparazione del danno da radiazioni o che hanno bisogno di lunghi tempi per tali riparazioni, che sono suscettibili al blocco nelle fasi sensibili del ciclo cellulare ed infine quelli che si riossigenano rapidamente. Paragonando su animali l’efficacia terapeutica della RIT con quella da irradiazione esterna, la RIT è risultata essere meno efficace in alcuni studi, in altri ugualmente efficace e in altri ancora maggiormente efficace nell’inibire la ricrescita tumorale (Ning et al., 1997). Le ricerche preliminari porterebbero a concludere che i tumori caratterizzati da una larga spalla (maggior capacità di riparazione), un

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piccolo rapporto α:β associato al modello quadratico di sopravvivenza cellulare ed un corto tempo di duplicazione tendono a mostrare un significativo effetto del rateo di dose tra i due metodi di irradiazione. Quando il rateo di dose è limitato, i fattori quali la riossigenazione e l’arresto delle cellule nella fase G2, la più radiosensibile del ciclo cellulare, potrebbero risultare in un effetto inverso del rateo di dose e si spiegherebbe così la maggior efficacia della RIT rispetto alla radioterapia con fascio esterno che si è osservata in alcuni esperimenti. Un confronto tra α e β-emettitori per RIT indicherebbe i β-emettitori quali più appropriati, nel caso in cui il rapporto lineare quadratico α:β per i tumori sia maggiore di quello per l’organo critico per tossicità. Tuttavia, è prevista una maggior potenzialità terapeutica delle particelle α quando il midollo osseo (alto rapporto lineare quadratico α:β) sia considerato come organo critico. Il problema fondamentale è che purtroppo dal confronto tra RIT e RT non emergono differenze significative, almeno allo stato attuale delle conoscenze. Infatti, per prima cosa, molto spesso si osserva in RIT una regressione tumorale con dosi assorbite dal tumore che sono più basse rispetto a quelle che la radioterapia prescriverebbe (ai canoni della RT). La differenza tra RT e RIT è notevole, prime fra tutte è il frazionamento in RT e il diverso rateo di dose, costante durante le sedute di RT e variabile nel tempo in RIT (dapprima molto elevato in una fase iniziale e poi molto basso, chiamato continuous slowing down rate). Ricerca di correlazione tra dose ai tessuti sani e complicanze

Tra i tanti aspetti delicati che sono ancora in discussione e che sono fonte di intenso studio c’è il problema di poter avere dei valori di riferimento validi per RIT che possano indicare da una parte la dose al tumore auspicabile per l’efficacia terapeutica e dall'altra le dosi ai tessuti sani da considerare come limiti per evitare complicanze. Una prima possibilità, la più semplice, è quella di considerare i parametri ricorrenti nei trattamenti di radioterapia (RT): in radioterapia, si definiscono i parametri TD 5/5 e TD 50/5, che definiscono le dosi che comportano rispettivamente il 5% e il 50% di probabilità di indurre complicazioni ai tessuti sani entro 5 anni (Emami et al., 1991). Accettando un confronto di questo tipo, si può osservare in Tabella 2 che le dosi agli organi sani (vescica, midollo rosso, encefalo) sono comunque notevolmente inferiori ai valori di TD 50/5 e di TD 5/5.

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Tabella 2 Confronto fra dosi medie assorbite per una

somministrazione locoregionale di 555 MBq di 90Y e i parametri TD 50/5 e di TD 5/5

organo dose

(Gy)

TD 50/5

(Gy)

TD 5/5

(Gy)

vescica

midollo rosso

encefalo

178 × 10-3

7.8 × 10-3

13.7 × 10-3

-

4.5

60

60

2.5

45

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6.0 TERAPIA GENICA E CELLULARE: I TUMORI DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE Principi della metodologia

La terapia genica prevede il trasferimento di un gene terapeutico nel contesto della cellula bersaglio. Nel caso dei tumori cerebrali, la terapia genica appare come un esempio tipico di trattamento locoregionale, principalmente a causa del comportamento recidivante in loco del più maligno e frequente tra i tumori cerebrali primitivi, il glioblastoma multiforme (Chiocca, 2003; Rainov et al., 2003). In una accezione più ampia il termine di terapia genica può indicare la manipolazione del genoma della cellula tumorale. Il trasferimento genico o la manipolazione del genoma implicano l’uso di vettori per il trasferimento del materiale genetico. Questi vettori possono derivare da plasmidi (Yoshida et al., 2004) o da virus (Chiocca et al., 2003). In questo secondo caso, il genoma virale e’ manipolato per impedire che sia patogenico. Questo può essere ottenuto impedendone la replicazione in assoluto (vettori difettivi) o permettendone una replicazione selettiva nel contesto esclusivo delle cellule tumorali. E’ comunque possibile che tale manipolazione avvenga usando semplici filamenti di DNA, ad esempio oligonucleotidi (Hall et al., 1996): in questo caso, l’ingresso del DNA nella cellula bersaglio è favorito con modalità differenziate. A livello clinico sono, in genere, utilizzati liposomi, vescicole lipidiche artificiali che possono contenere il DNA e favoriscono l’ingresso nella cellula fondendosi con la sua membrana plasmatici (Sugawa et al., 1998). Descrizione della tecnica

Tre sono gli approcci possibili per il trasferimento genico nella cellula tumorale bersaglio. I liposomi, in particolare lipofectamina, sono mescolati in vitro con il DNA libero (oligonucleotidi) o con DNA plasmidico in rapporti stechiometrici definiti sperimentalmente (Zhang et al., 2002). Nel caso di DNA inserito in un vettore retrovirale difettivo (tipicamente derivato dal virus della leucemia murina di Moloney) la particella virale è particolarmente instabile. Questo ha implicato la necessità di iniettare nelle cellule bersaglio le cellule che producono la particella virale. In questo caso, dunque terapia cellulare e terapia genica coincidono (Culver

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et al., 1992). Le cellule in questione sono fibroblasti murini, in cui è stata trasferita parte del genoma retrovirale, specificamente i geni gag, pol ed env. Per diminuire le possibilità che durante la replicazione di queste cellule si riformi un genoma wild-type virale (Figura 1), cioè non difettivo, questi geni sono inseriti nelle cellule di packaging in plasmidi diversi (quindi con siti d’integrazione differenti). La sequenza che contiene il gene terapeutico è inserita in un vettore che contiene le sequenze di packaging a monte del promotore e, in genere, un gene che conferisce resistenza ad un antibiotico (Benedetti et al., 1997; 1999). Figura 1 Il ciclo vitale di un vettore retrovirale

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Accanto ai vettori retrovirali anche i vettori adenovirali hanno avuto un certo ruolo nella sperimentazione clinica e pre-clinica (Chen et al.,1994; Lang et al., 2003) (Figura 2). Si tratta di vettori più ampi, che possono ospitare sequenze estese del transgene terapeutico, con una struttura a DNA, un tropismo per cellule sia replicanti che post-mitotiche ed una localizzazione citoplasmatica. La mancata integrazione di informazione genetica nel genoma della cellula bersaglio implica una progressiva “diluizione” del vettore nelle cellule che si replicano, ma d’altra parte elimina il rischio di eventi inserzionali mutagenici. Inoltre, i vettori adenovirali possono essere concentrati a titoli molto elevati (1010-11 pfu/ml vs le 105-7 dei retrovirus). In considerazione della diffusione di infezioni benigne adenovirali nella popolazione generale e’ significativa la possibilità di immunizzazione contro proteine adenovirali, come pure la possibilità di immunizzazione in corso di terapia (Dewey et al., 1999). Figura 2 Struttura di un vettore adenovirale

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Vettori adenovirali in grado di replicare selettivamente in cellule tumorali sono stati proposti come strumento terapeutico in tempi abbastanza recenti (Alemany et al., 1999) (Figura 3). In particolare il vettore Onyx-015 è stato testato in clinica anche per i tumori cerebrali (Vecil et al., 2003). Figura 3 Modalità di funzionamento di un vettore oncolitico

Un altro sistema vettoriale, in cui è il potere oncolitico del virus ad essere sfruttato, è quello dell’Herpes Simplex. Due vettori oncolitici a replicazione selettiva nella cellula tumorale sono in corso di studio in pazienti con recidiva di glioblastomi: G207, con difetti in due geni, UL39 e ICP34.5 (Todo et al., 2000); 1716 con difetti di ICP34.5 (Detta et al., 2003).

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Per tutti i vettori considerati, l’approccio utilizzato per il delivery è stato essenzialmente locoregionale. Il metodo usato principalmente e’ stato quello dell’iniezione diretta di plasmidi o particelle virali nel contesto del tumore. Due varianti fondamentali sono state considerate: l’inoculo, spesso multiplo, per via stereotassica, utilizzato per il trattamento di lesioni non suscettibili di debulking per la loro sede o per le loro dimensioni; l’inoculo multiplo ai margini di una cavità post-operatoria, residuata dopo l’intervento a cielo aperto di una lesione aggredibile chirurgicamente. Una variante d’interesse per il delivery locoregionale è legata all’uso di serbatoi, denominati di Ommaya o di Rickham. Tali serbatoi sono piazzati in loco al termine dell’intervento, quando la sede e la conformazione del tumore e della cavità post-operatoria lo consentono, quando cioè vi sono ragionevoli probabilità che la maggior parte del prodotto somministrato (sia esso un farmaco, una sospensione virale o cellulare) possa raggiungere grande parte del tumore residuo e non rischi di diffondersi per via liquorale. Il serbatoio è raggiungibile a livello sottocutaneo per iniezione e la punta del catetere è in una sede, che permette la diffusione efficiente del prodotto al tumore residuo. Un’altra variante d’interesse è quella dell’inoculo per via intra-carotidea del prodotto terapeutico, considerabile se la valutazione angiografica della lesione è compatibile. La Convection Enhanced Delivery è stata poi proposta come strumento di delivery loco-regionale per la terapia genica dei tumori cerebrali, con risultati d’interesse in otto pazienti trattati in una sperimentazione di fase I-II (Voges et al., 2003). Patologie bersaglio I tumori maligni del sistema nervoso costituiscono il target principale degli approcci recenti di terapia genica. Tra essi il glioblastoma multiforme (GBM) ha rappresentato di gran lunga il target di maggiore rilievo. Il GBM è il tumore cerebrale più frequente (25% circa di tutte le neoplasie primitive del SNC) e la sua prognosi rimane molto seria con una sopravvivenza media di circa 12 mesi dopo il trattamento standard, che include la rimozione chirurgica e la successiva radioterapia (Holland, 2000). Studi recenti dimostrano che l’aggiunta di chemioterapia con temozolomide può prolungare di alcuni mesi tale aspettativa di vita (Stupp et al., 2002).

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Stato dell’arte: risultati validati od interlocutori

I risultati di un importante studio di fase III basato sulla traduzione mediata da retrovirus del gene HSV-tk e sul successivo trattamento con Ganciclovir in GBM alla prima diagnosi è stato pubblicato nel 2000 (Rainov, 2000). Lo studio ha coinvolto più di 250 pazienti e non ha dimostrato alcun effetto terapeutico di questo tipo di terapia genica. Il vettore adenovirale oncolitico a replicazione selettiva Onyx-015 è stato testato in clinica anche per i tumori cerebrali (Chiocca et al., 2004). Due vettori oncolitici erpetici a replicazione selettiva nella cellula tumorale hanno completato una prima verifica di fase I o I-II in pazienti con recidiva di glioblastomi: G207, con difetti in due geni, UL39 e ICP34.5 (Markert et al., 2000); 1716 con difetti di ICP34.5 (Harrow et al., 2004). I risultati, in particolare per quanto riguarda il vettore 1716, suggeriscono l’utilità di studi ulteriori. Protocolli clinici attivi

Su 84 studi clinici sponsorizzati dal National Cancer Institute (NCI; www.clinicaltrials.gov) per il trattamento del GBM, solo uno implica l’uso di tecniche di terapia genica. Il titolo dello studio è: Gene Therapy Plus Chemotherapy in Treating Patients With Advanced Solid Tumors or Non-Hodgkin's Lymphoma (NCT00003567). Responsabile dello studio è Stanton L. Gerson, MD, Ireland Cancer Center (Ohio, US). Lo studio prevede il trattamento con chemioterapici e O6-benzilguanina e la trasduzione ex vivo in cellule staminali ematopoietiche tramite retrovirus di una variante genetica del gene MGMT, che conferisce resistenza alla O6-benzilguanina. Su 7 studi clinici per il GBM sponsorizzati da EORTC (European Organization for Research and Treatment of Cancer: www.eortc.be) nessuno è basato su tecniche di terapia genica. Uno studio clinico multicentrico sponsorizzato da Antisense Pharma è al momento in corso principalmente in Europa. L’approccio in questo caso è tipicamente locoregionale. Lo studio infatti è basato sulla diffusione nel tumore di nucleotidi antisenso anti TGF-beta2, che in modelli sperimentali aveva dimostrato una notevole efficacia anti-tumorale (Fakhrai et al., 1996). TGF-beta2 è una citochina prodotta dal GBM in quantità rilevanti e che è in grado di inibire (rendere anergici) i linfociti che infiltrano il tumore. La diminuita/abolita sintesi di TGF-beta2 può quindi favorire una risposta del sistema immunitario contro il GBM (Figura 4).

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Figura 4 Funzionamento di oligonucleotidi antisenso per TGF-beta

Prospettive future

Al momento attuale, le prospettive di terapia genica locoregionale con vettori difettivi appaiono indebolite. Due eventi avversi hanno contribuito a determinate questa situazione di stallo. In un caso, un paziente è morto in seguito alla somministrazione di una quantità elevata di vettore adenovirale nel fegato (Marshall, 1999). Nel secondo caso, due pazienti hanno sviluppato una leucemia linfatica, attribuibile all'inserzione di sequenze retrovirali a monte di un potenziale oncogene, in corso di trattamento con un vettore retrovirale per una forma ereditaria di immunodeficienza (Hacein-Bey-Abina et al., 2003). Al di là dell’effetto frenante che tali eventi hanno avuto sullo sviluppo di nuove sperimentazioni cliniche, vi è stato un serio problema di efficienza, in particolare nei tentativi di terapia genica con vettori retrovirali difettivi, in rapporto con una struttura così malignamente dinamica quale il glioblastoma multiforme. Migliori prospettive potrebbe avere l’impiego di vettori adenovirali come suggerito da un recente studio randomizzato (Immonen et al., 2004). E’ possibile che l’utilizzo di vettori oncolitici abbia sviluppi più promettenti. Questo approccio terapeutico, pur non essendo basato sul trasferimento di un gene terapeutico nelle cellule tumorali (non è quindi una forma di terapia genica, sensu stricto), ha dato buone evidenze di efficienza in sperimentazioni precliniche, non è stato associato a

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significativi eventi avversi in studi di fase I o I-II ed il suo uso si è associato a qualche parziale remissione in pazienti con recidive di GBM (Harrow et al., 2004). L’inoculo locoregionale di vettori oncolitici (Ochiai et al., 2004) può apparire particolarmente appropriato, in corrispondenza delle capacità di spreading di tali vettori, che ne sconsigliano l’applicazione a livello sistemico. Si sta inoltre sviluppando la sperimentazione con terapie cellulari, con particolare enfasi per quanto riguarda le immunoterapie basate sull’uso di cellule dendritiche, i più potenti presentatori di antigeni al sistema immunitario, indotte alla maturazione in presenza di proteine espresse dal tumore (Figura 5). Figura 5 Schema terapeutico per l’utilizzo di cellule dendritiche per la vaccinazione anti-tumorale

I risultati di alcuni studi clinici in Giappone, USA ed Europa sono stati pubblicati recentemente (Yamanaka et al., 2003; Rutkowski et al., 2004; Yu et al., 2004). Tutti questi studi hanno dato buona evidenza della

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sicurezza e della mancata tossicità di questo approccio, con particolare riferimento al rischio di provocare una reazione auto-immune nei confronti del tessuto cerebrale sano. Lo studio di Yu e collaboratori, in particolare, ha fornito dati interessanti sull’aumentata sopravvivenza di pazienti sottoposti a questa sorta di vaccinazione. Lo spazio che si apre per un trattamento locoregionale è qui d’interesse, se si considera la necessità di accoppiare ad una efficiente presenza di linfociti T citotossici, istruiti dalle cellule dendritiche mature a riconoscere epitopi immunogenici del tumore, una modificazione del microambiente immunosoppressivo che il tumore crea, in particolare grazie alla produzione di fattori quali TGF-beta, IL-10 e PGE2 (Akasaki et al., 2004). In questo senso, la somministrazione locoregionale di oligonucleotidi o plasmidi mirati ad inibire l’espressione di tali fattori, per esempio con tecnologie basate sull’uso di small interfering RNA (siRNA) potrebbe fornire uno strumento di potenziamento dell’attività antitumorale del vaccino (Friese et al., 2004). Più lontano nel tempo, anche se promettente, può essere l’impiego di cellule staminali come vettori per l’espressione di geni terapeutici. E’ stato dimostrato che cellule staminali neurali possono esprimere efficientemente, per esempio, geni che codificano per citochine anti-tumorali (Benedetti et al., 2000). Inoltre, tali cellule sembrano attratte dal tumore stesso (Aboody et al., 2000), aumentando quindi le possibilità di combattere una eventuale recidiva. Anche cellule di origine mesenchimale, il cui utilizzo clinico appare forse più vicino, sembrano poter arrivare al tumore con qualche efficienza (Annabi et al., 2004) ed il loro utilizzo andrà verificato in maniera più ampia nel prossimo futuro. In questa prospettiva, una somministrazione locoregionale per via intra-carotidea potrebbe garantire l’arrivo al target di una frazione significativa di cellule. Bibliografia

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