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a SOMMARIO u 07/08 - 2010 La Redazione 3 AI LETTORI EDITORIALE Andrea Margheri 7 I riformisti nella crisi attuale TEMPO REALE Umberto Carpi 17 Verso il 150° dell’Unità d’Italia / Dal primo al secondo Risorgimento Silvano Andriani 37 I riformisti nella crisi attuale / 1 I nipotini di Hoover Elio Matassi 51 I riformisti nella crisi attuale / 2 Note filosofiche sull’impotenza della politica Giorgio Macciotta 57 I riformisti nella crisi attuale / 3 Propaganda e realtà del federalismo IL FILO DI ENZO 63 Il Castelli innamorato della secessione ma a Lecco è scivolato a terra Ernest 66 I riformisti nella crisi attuale / 4 Risposta alla Lettera degli economisti Luigi Agostini 79 I riformisti nella crisi attuale / 5 Non ci sono più secoli da contare DISCUTIAMO DI EUROPA (A cura di Carlotta Gualco) Carlotta Gualco 87 Tutela dell’ambiente. Per l’Europa è prima di tutto un affare LETTERATURA, ARTE, SCIENZE UMANE Giorgio Ruffolo 95 Il mare aperto di Eugenio Scalfari / Alle frontiere di una civiltà minacciata Graziella Falconi 107 Il premio Strega a Canale Mussolini / Una velleitaria epica giustificazionista IL FILO DI ENZO 112 Minzolino ha grandi amori ma teme la concorrenza di Rete 4 OSSERVATORIO SOCIALE Agostino Megale e 117 Il voto del lavoro Riccardo Sanna IL CASO POMIGLIANO Luigi Agostini e Marcello Malerba 135 La globalizzazione arriva alla Fiat di Pomigliano /1 Walter Tocci 143 La globalizzazione arriva alla Fiat di Pomigliano /2 NOTE A MARGINE Fabio Nicolucci 47 L’egemonia della geopolitica Marilena Adamo 75 Parliamo di scuola. Ma che riforma è questa? 147 HANNO COLLABORATO

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aSOMMARIO

u07/08 - 2010

La Redazione 3 AI LETTORIEDITORIALE

Andrea Margheri 7 I riformisti nella crisi attualeTEMPO REALE

Umberto Carpi 17 Verso il 150° dell’Unità d’Italia / Dal primo al secondo Risorgimento

Silvano Andriani 37 I riformisti nella crisi attuale / 1I nipotini di Hoover

Elio Matassi 51 I riformisti nella crisi attuale / 2Note filosofiche sull’impotenza della politica

Giorgio Macciotta 57 I riformisti nella crisi attuale / 3Propaganda e realtà del federalismoIL FILO DI ENZO

63 Il Castelli innamorato della secessione ma a Lecco è scivolato a terra

Ernest 66 I riformisti nella crisi attuale / 4Risposta alla Lettera degli economisti

Luigi Agostini 79 I riformisti nella crisi attuale / 5Non ci sono più secoli da contareDISCUTIAMO DI EUROPA (A cura di Carlotta Gualco)

Carlotta Gualco 87 Tutela dell’ambiente. Per l’Europa è prima di tutto un affareLETTERATURA, ARTE, SCIENZE UMANE

Giorgio Ruffolo 95 Il mare aperto di Eugenio Scalfari /Alle frontiere di una civiltà minacciata

Graziella Falconi 107 Il premio Strega a Canale Mussolini /Una velleitaria epica giustificazionistaIL FILO DI ENZO

112 Minzolino ha grandi amori ma teme la concorrenza di Rete 4OSSERVATORIO SOCIALE

Agostino Megale e 117 Il voto del lavoroRiccardo Sanna

IL CASO POMIGLIANOLuigi Agostini e Marcello Malerba 135 La globalizzazione arriva alla Fiat di Pomigliano /1

Walter Tocci 143 La globalizzazione arriva alla Fiat di Pomigliano /2NOTE A MARGINE

Fabio Nicolucci 47 L’egemonia della geopoliticaMarilena Adamo 75 Parliamo di scuola. Ma che riforma è questa?

147 HANNO COLLABORATO

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Mentre avviamo la stampa e la spedizione del numero luglio/ago-sto, augurando ai lettori un buon periodo di riposo e di medita-zione, ci colpiscono da ogni parte i segnali di un aggravamentosempre più rapido della crisi del Paese. Innanzitutto crisi socialeed economica, con l’aumento vertiginoso delle disuguaglianze, ilblocco sulla mobilità sociale, la perdita di posti di lavoro: la vita-lità eccezionale del nostro sistema industriale è messa a dura pro-va dalla crisi del sistema complessivo, a cui la cura della deflazio-ne, imposta a tutta l’Europa dalla Germania e compiutamenterealizzata dalla manovra del centrodestra italiano, chiude le pos-sibili vie di uscita. Sul fronte politico e istituzionale appare sempre più evidenteche il centrodestra è incapace di assicurare il governo del Paeseper le profonde divisioni e contrapposizioni che lo attraversano,per la deriva delle istituzioni che il populismo plebiscitario e pri-vatista di Berlusconi ha aggravato sino alla marginalizzazione delParlamento e ai conflitti tra i diversi poteri dello Stato. Si è aper-to un nuovo fronte, per l’emersione di una serie di comitati d’af-fari che hanno riproposto ancora una volta la «questione mora-le» come degrado inarrestabile dei rapporti complessivi tra lapolitica, la società e l’economia. Continua ad aggravarsi, infine,la divisione già profonda tra il Nord e il Sud del Paese in assen-za di scelte strategiche alternative. Lo scenario italiano impone la necessità di una svolta davvero ra-dicale, di un’inversione dei processi che si sono avviati. Ma tale

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svolta dovrà andare oltre la dimensione nazionale, investire il no-stro ruolo in Europa e l’idea stessa del patto che ci lega agli altriPaesi dell’Unione. Il materiale che proponiamo in questo nume-ro, molto vasto e articolato, riprende con vigore i temi dell’impe-gno di «Argomenti umani»: analisi e denunzia degli aspetti piùgenerali della crisi italiana. Speriamo di contribuire, con il lavorodella rivista, alla costruzione di quella svolta che oramai si impo-ne come passaggio necessario per il futuro del Paese e che certa-mente a settembre sarà al centro del dibattito culturale e politico.Per poter proseguire il suo lavoro nelle difficoltà durissime diquesto periodo, aggravate pesantemente dai provvedimenti delgoverno di centrodestra (che è arrivato, tra l’altro, a raddoppia-re i costi postali della rivista), «Argomenti umani» ha bisognodella vostra fedeltà e del vostro appoggio.

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A N D R E A M A R G H E R I I riformisti nella crisi attuale

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Il ‘paradosso della crisi’ che tante volte abbiamo analizzato suqueste pagine può essere meglio definito «scandalo». Scandaloa dimensione globale, economico e sociale, ovviamente, ma an-che etico. Per giustificare questo richiamo allo ‘scandalo’, vorreiprovare a ricapitolare alcuni punti fermi dell’analisi della crisi sucui si è cimentata, purtroppo, solo una piccola parte della cultu-ra progressista italiana. Sono state scritte tuttavia pagine illuminanti in Italia e, soprat-tutto, negli Usa e negli altri Paesi europei. Mi pare, quindi, addirittura grottesco ciò che stanno dicendo glieconomisti ‘ortodossi’, intendendo con questo termine i numero-si economisti la cui preoccupazione dominante è sostenere proprioquel modello di capitalismo finanziario che nel 2008 ha causato lacrisi drammatica che ancora stiamo vivendo, chiedendo che essovenga restaurato al più presto come unico modello possibile. Possiamo considerarlo il punto di approdo del ‘pensiero unico’dopo che gli eventi dei mesi passati hanno dimostrato che l’in-treccio perverso tra la corsa forsennata dell’indebitamento priva-to nei Paesi ricchi e la disuguale distribuzione del reddito è statola causa principale della crisi del capitalismo globale. Una distri-buzione iniqua che concede moltissimo a pochi (i quali hanno po-

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EDITORIALEAndrea Margheri I riformisti

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co da comprare) e riserva pochissimo ai molti (i quali sono staticostretti a indebitarsi oltre il limite della loro forza). Con un debi-to che era moltiplicato ad arte dalle banche che con i derivati bat-tono moneta, moltiplicando risorse ancora non esistenti nella real-tà e divorando il futuro delle nuove generazioni. La disuguaglian-za è stata momentaneamente mascherata da una massa di debitisino a un limite intollerabile; e la caduta della domanda ha messoin luce la sovracapacità di un sistema produttivo costruito su unoschema di investimenti e di consumi, sospinto dal consumismosulla via del massimo spreco.La rigida ideologia dei ‘mercati che si autoregolano’ e che so-no capaci di creare dalle difficoltà nuovi equilibri e nuovo svi-luppo, si è rivelata in tutto il suo carattere mistificatorio.Appena il meccanismo dell’iper-consumo e dell’iper-debito ame-ricano e in parte europeo si è inceppato, appena la moneta ‘a fu-tura memoria’, nel trionfo della deregulation è diventata unagran massa di spazzatura tossica nei portafogli degli istituti fi-nanziari, è scattato il secondo dogma ideologico: le banche nonpossono fallire, paghino gli Stati. Gli Stati hanno salvato «le ban-che e i banchieri» senza contropartite, aggravando il loro già pe-sante carico di debito. E il loro debito è diventato – a partire dal-la tragedia della Grecia, che è ancora sull’orlo dell’abisso, dopoche l’Europa ha salvato le banche creditrici – il terreno di con-quista dei mercati e della speculazione.Ed ecco due mistificazioni «scandalose», che operano soprat-tutto negli Usa (l’opposizione ai progetti di Obama) e in Europasotto la spinta possente della Germania: una crisi, nata dai mec-canismi di un capitalismo «sregolato» e dai salvataggi sin troppogenerosi da parte degli Stati, è ora attribuita al peso del welfareconquistato nei secoli scorsi dal movimento dei lavoratori inEuropa appunto e, in parte, negli Usa. L’attacco si sposta sui di-ritti che in questi Paesi si sono affermati con un «compromes-so storico» tra il capitalismo e la democrazia, che è il fonda-mento della costituzione materiale del nostro continente.Seconda mistificazione: non c’è altra via che il far pagare la cri-si all’intera società con un’austerità più o meno esplicita, più o

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meno rigida. Questa sola è la strada del riequilibrio dei conti inEuropa, far pagare le perdite ai ceti più deboli.Obama cerca di sottrarsi a questa logica, spinge per un nuovo ti-po di sviluppo. Ma i suoi risultati restano incerti per l’accanita op-posizione che incontra su tutte le questioni essenziali. Nei Paesi in-dustrializzati si è delineata una netta alternativa: o la deflazione, innome di un rigore unilaterale e antipopolare, che rischia di schiac-ciare la domanda, di aumentare a dismisura le disuguaglianze e leiniquità sociali, di compromettere il futuro delle nuove genera-zioni; o la riforma del modello di sviluppo. Non è questa l’alter-nativa che sta di fronte ai Paesi emergenti (alla Cina, al Brasile,all’India ecc.) e alla Russia. Quei sistemi hanno sin da subito af-fermato l’esigenza di proseguire sulla strada della crescita, di man-tenere grandi piani di investimento, di stimolare la domanda in-terna oltre alle esportazioni. Il «multilateralismo cooperativo» si scontra, dunque, con que-sta differenza di strategia per sanare gli effetti della crisi. Ciò chesi intravede del prossimo futuro dell’Europa e dell’Italia è dav-vero fosco: una perdita di competitività e conseguentemente diinfluenza e credibilità politica.In Europa la spinta della Germania nella difesa a oltranza delvecchio patto di stabilità che misura unicamente il debito pub-blico e il Pil e che di fronte alla crisi è servito quanto un fogliodi carta di fronte a un’alluvione, non trova l’opposizione poli-tica necessaria. C’è solo da sperare in un’opposizione socialeche modifichi un panorama così conformista.L’Italia ha galleggiato meglio di altri Paesi nel mare dei prodottitossici (forse perché il sistema bancario è più frammentato edebole), ma l’ortodossia del rigore contro il pubblico e, quin-di, contro i redditi medio bassi è assoluta. La diga deflattivanon ha crepe: il Parlamento, imprigionato dalla regola autori-taria delle nomine dall’alto e dai voti di fiducia a ripetizione,non è in grado di creare una qualche dialettica riformatrice del-la manovra. Siamo in questo momento l’esempio di una peri-colosa «ortodossia tedesca». Siamo all’avanguardia della lottaper la vittoria globale «dei debitori sui creditori».

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Le conseguenze? Tutte ampiamente visibili nella realtà di fatto.Un aumento sempre più rapido delle disuguaglianze sociali (tra ric-chi e poveri, tra Nord e Sud del Paese), aggravato da una disoccu-pazione altissima, specie se messa in rapporto con un tasso di oc-cupazione globale molto basso, con ammortizzatori sociali (Cig)non universali e già ai limiti delle possibilità con una grande massadi lavoratori poveri senza garanzie né prospettive.Per i giovani, uno scenario davvero drammatico e avvilente. Conuna frattura pericolosa: una minoranza esigua che per sue capa-cità e conoscenze acquisite ha rotto le frontiere e ha vinto la sua«gara» globale, e una stragrande maggioranza che affonda nelpantano localista, che rischia la dequalificazione e la precarietàpermanente. Con uno scarto abissale tra Nord e Sud.Ma non è «emergenza» questa? È davvero rinviabile a data dadestinarsi una svolta nella strategia economica?Anche l’Italia partecipa, a modo suo, alla «folle danza sull’orlodell’abisso» a cui si è spinta, per la verità, gran parte dell’uma-nità. In due modi: trascinando nel tempo i guasti all’ambienteprovocati dall’uomo (i gas di serra che contribuiscono ai cam-biamenti climatici) e un uso dissennato delle risorse che stannodiventando scarse. Sappiamo tutti benissimo che uscire da que-sta condizione di follia significa avere un sistema energetico chepunti a minimizzare le emissioni, sia contenendo l’uso del gas(e ancora più del petrolio ovviamente) sia sviluppando le fontialternative. Ma qui viene fuori la ‘specificità’ italiana: per il so-lare, l’eolico, le biomasse abbiamo ridotto le rispettive filiere in-dustriali a una selva speculativa e affaristica, costringendoci aimportazioni massicce di tecnologia e spendendo più del ne-cessario in incentivi. Per il nucleare, l’altra fonte pulita che ha ilvantaggio di costare di meno, mentre il governo fa pura pro-paganda (a un anno dalla legge apposita il ritardo della tabelli-na di marcia è già di un anno!) l’opposizione di sinistra conti-nua la sua campagna religiosa contro il ‘peccato’ nuclearista.Intanto, il nucleare si è rimesso in moto nel mondo: la Cina, adesempio, ha molti cantieri già aperti e moltissimi progetti giàdecisi dall’Assemblea del Popolo. Obama ha rilanciato il nu-

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cleare come componente della Green economy soprattutto do-po il disastro del Golfo del Messico.Si aggrava paurosamente anche il deficit infrastrutturale delPaese, non solo nel senso delle mancate grandi opere (fantasiosapropaganda del governo), ma soprattutto per la mancata riorga-nizzazione del territorio per la sicurezza e la vivibilità. La societàha fame di «beni pubblici» e un’accorta politica non dovrebbefar finta di niente come invece il governo ha deciso di fare.Ma ancora più grave è l’emergenza del sistema produttivo. Nongià perché tutto è ‘allo sfascio’: è sciocca e falsa una simile affer-mazione. Il nostro sistema di imprese ha settori di altissimo li-vello qualitativo, di altissima efficienza competitiva che ha rico-minciato a esportare. In certi settori della meccanica strumenta-le, per esempio, o dell’elettromedicale manteniamo incredibiliprimati mondiali. Ma compiacersi di queste salde tradizioni, acui ovviamente si associa in generale il «made in Italy» della qua-lità e del buon gusto (ma anche del lusso: e questo sino a quan-do?) significherebbe guardarsi l’ombelico, non allargare la vi-suale sul ‘sistema’ nel suo complesso. Si potrà allora ricordareche il motore principale di un sistema davvero moderno ed ef-ficiente è già da molti anni la conoscenza, le risorse di intelligen-za e di professionalità, il sapere. Come ci si può stupire, allora,di un generale ristagno della crescita, che è sostenuta solo dalle«eccellenze», di fronte al panorama di un’occupazione giovani-le così scarsa e così precaria, sempre sull’orlo della dequalifica-zione? E l’innovazione di processo e di prodotto, se non nascein forme spontanee da un’«eccellenza» particolare di un’im-presa (come spesso è avvenuto in passato ma come avvienesempre meno), non nascerà certo né da un’università in crisi si-no al collasso, né da una giungla di incentivazioni pubbliche do-minata da burocrati e affaristi.La totale rinuncia a ogni politica industriale imposta dal privati-smo miope, sostanzialmente illiberale e speculativo, viziato di cor-porativismo, su cui si fonda il berlusconismo, è una via comple-tamente sbagliata. E non è certo una correzione positiva il locali-smo aggressivo della Lega che sacrifica alle cittadelle territoriali la

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esatta percezione del mondo, dei mercati globali, delle grandi einarrestabili trasformazioni demografiche. Se queste cose che ab-biamo da anni letto (e scritto su «Argomenti umani») sono vere(e i fatti le hanno già ampiamente comprovate), di fronte all’op-posizione progressista e al Sindacato si apre un immenso spazioda coprire con un’adeguata iniziativa culturale e politica. Perchéciò non avviene? Perché l’opposizione politica e sociale, ciascunanella sua autonoma sfera, resta impantanata nel giorno per gior-no, nella rete di tante piccole ragioni di scontro fratricida? È ilmomento in cui deve necessariamente arrivare al nocciolo dellaquestione: la principale esigenza è un nuovo meccanismo di svi-luppo, di un nuovo rapporto tra Stato ed economia, di un rilan-cio della programmazione come quello indicato da Delors inEuropa e successivamente dalla Strategia di Lisbona, con unaproposta di concertazione sociale che superi i limiti attuali dellacontrattazione sindacale. Sappiamo bene che parole come quelle che ho appena osatoscrivere sono tacciate con molta facilità di dirigismo statalista o,in modo più grottesco, di nostalgia del comunismo sovietico.Sono ‘mantra’ ideologici, buoni per la predicazione di chi nonvuole alcun cambiamento. Tra l’altro, l’idea di una gestione ra-zionale e condivisa di un sistema economico tanto frammenta-to e differenziato come quello del nostro Paese, sarebbe nellapratica la costruzione politica di una nuova ipotesi di unità e so-lidarietà nazionale. Esattamente l’antidoto al veleno localista, al-lo smembramento, alla contrapposizione territoriale. E non sa-rebbe certo in contrasto a un vero federalismo (con questa pa-rola intendo il processo federale tra macroregioni, ipotizzato daRuffolo, e non la sua esasperazione regionalista). È vero anziche il federalismo per funzionare deve basarsi su un patto di so-lidarietà che ipotizza un governo nazionale dell’economia con-diviso dalle forze sociali per una decisa lotta contro le disugua-glianze. Riavviare un’esperienza di programmazione vorrebbedire – se si interpretano bene le ‘memorie’ di Ciampi come cele ha raccontate nel Prologo al volume collettaneo Pubblico, pri-vato, comune. Lezioni della crisi globale* – rinnovare e rafforza-

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re il patto fondativo della Repubblica, concludere il processodemocratico avviato dalla Costituzione. Esattamente il contra-rio del disegno dell’interventismo e del centralismo statalista.Certo, questa linea confligge con la realtà attuale per molti ver-si: con il liberismo ideologico professato ufficialmente, e con ilprivatismo individualista, speculativo, affarista e a cui il cen-trodestra si ispira nella pratica generando così feroci tensioniinterne. Ma proprio queste caratteristiche della maggioranzadi governo segnano il suo fallimento di fronte alla crisi di cuiné Berlusconi né Tremonti hanno interpretato le cause e il si-gnificato storico. Sento già nelle orecchie l’accusa di «massimalismo» di moltimiei compagni del Pd, che si muove su questo terreno con unacautela che definire eccessiva è eufemistico.Vorrei ricordare che il ‘massimalismo’ è sostenere una strategiache va oltre i limiti materiali dei processi in atto. Il ‘riformismo’è proporsi il governo di tali processi così come essi risultano dal-l’analisi. Ogni proposta per essere realista ed efficace deve esse-re all’altezza esatta del problema concreto che si ha di fronte(secondo la lezione certo parziale, ma indispensabile del prag-matismo). !

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* Laura Pennacchi (a cura di), Pubblico, privato, comune. Lezioni della crisiglobale, presentazione di Agostino Megale, con un prologo di Carlo AzeglioCiampi, Ediesse, Roma, 2010.

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I R I F O R M I S T I N E L L A C R I S I A T T U A L E / 1 S I LVA N O A N D R I A N I I nipotini di Hoover

I R I F O R M I S T I N E L L A C R I S I A T T U A L E / 2 E L I O M ATA S S I Note filosofiche sull’impotenza della politica

I R I F O R M I S T I N E L L A C R I S I A T T U A L E / 3 G I O R G I O M A C C I O T TA Propaganda e realtà del federalismo

I R I F O R M I S T I N E L L A C R I S I A T T U A L E / 4 E R N E S T Risposta alla Lettera degli economisti

I R I F O R M I S T I N E L L A C R I S I A T T U A L E / 5 L U I G I A G O S T I N I Non ci sono più secoli da contare

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1.Dal primo al secondo Risorgimentoovvero il seguente problema,storiografico e politico insieme, come si pose subito dopo il ’45: laResistenza era stata davvero il compimento di una rivoluzione ri-sorgimentale incompleta, realizzata solo istituzionalmente conun’unità politica e amministrativa accentrata in Roma capitale, manon strutturalmente, né come integrazione sociale né come equi-librio dei tempi e modi di sviluppo? Interrogativo, questo, che asua volta ne comportava altri due, essi pure di natura sia storio-grafica sia politica: era stato davvero il Risorgimento quella rivolu-zione mancata, nel senso di mancata riforma agraria, di estraneitàdelle masse popolari e in particolare delle masse contadine, di irri-solta, anzi tendenzialmente accentuata divaricazione fra Nord eSud? E la Resistenza non era stata anch’essa, piuttosto che com-pimento rivoluzionario, una rivoluzione alla fine abortita o, comesi preferì dire, tradita? Tradita nelle sue istanze di defascistizzazio-ne delle strutture statali e dell’apparato burocratico, di radicalitàlaica, di rinnovamento dei rapporti sociali e democratici come lo

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VERSO IL 150° DELL’UNITÀ D’ITALIA Umberto Carpi Dal primo al secondo Risorgimento*

* U. Carpi, Verso il 150° dell’Unità d’Italia: dal primo al secondo Risorgimento,Lectio magistralis pronunciata a conclusione della Seconda festa nazionaleAnpi, Ancona, 24-27 giugno 2010.

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si era embrionalmente vissuto nei Cln settentrionali.Erano davvero rimaste solo le ceneri di Gramsci, come a metà de-gli anni Cinquanta provocatoriamente sintetizzò in versi un irre-golare di genio?Certo c’era stato anche, nell’accezione di ‘secondo Risorgimento’spontaneamente attribuita alla guerra di resistenza dalle deno-minazioni stesse assunte da molte bande partigiane, il richiamoalla tradizionale lotta contro l’invasore tedesco; e c’era stato im-plicito quel tanto di ‘guerra civile’ che accomunava la lotta deipatrioti di oggi contro i fascisti asserviti al Terzo Reich alla lottadei patrioti giacobini contro i sanfedisti, poi dei patrioti mazzi-niani e garibaldini contro borbonici, austriacanti, filopapalini.Patriota era nato di sinistra alla fine del Settecento, lo fu conGaribaldi nel Risorgimento, lo rimase nelle stesse origini dell’irre-dentismo scaturito dal caso Oberdan sullo scorcio dell’Ottocento,di destra non era stato mai: averlo abbandonato al reazionariouso nazionalista per un lungo tratto primonovecentesco, quandonon venne compreso quale contributo decisivo i movimenti di li-berazione nazionale avevano e avrebbero dato al progresso inter-nazionalista, fu errore micidiale. Gran merito della Resistenzaaver rifatto nostra, pratica e concetto, la tradizione patriottica.Comunque, quel che prevalse nell’interpretazione storica dellaResistenza come ‘secondo Risorgimento’ fu la sua istanza di unprofondo rinnovamento sociale e politico, della fondazione di unapatria intrinsecamente rinnovata nei rapporti sociali e nelle istitu-zioni. E dunque, per riprendere gli interrogativi iniziali, istanzerealizzate oppure rimaste inespresse? In altri termini, se ilRisorgimento – come da diversi punti di vista avevano denuncia-to il comunista Gramsci, i liberali Gobetti e Dorso, lo stesso libe-ral-socialista Rosselli degli studi su Pisacane Mazzini Bakunin – erastato intimamente antigiacobino e a salda direzione moderata,non aveva avuto anche la Resistenza (dalla svolta cosiddetta ‘ba-dogliana’ di Togliatti ai primi governi di coalizione e poi alla rot-tura democristiana dell’unità Cln) un esito decisamente antigiaco-bino e moderato rispetto alle aspettative dei settori partigiani piùavanzati? Con un ulteriore interrogativo sotteso a tutti questi, in-

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separabile da ogni problematica resistenziale esistendo laResistenza in quanto movimento di opposizione al Fascismo: co-sa cioè avesse significato il Fascismo al potere nel segmento stori-co fra quel primo e quel secondo Risorgimento, se una malattia ir-razionalmente sopravvenuta in un corpo sano come voleva la sto-riografia liberale, Croce in testa, ovvero l’inevitabile destino dellefallimentari classi dirigenti prefasciste cosiddette liberali, ovveroancora l’espressione di un sovversivismo intrinseco alle classi diri-genti italiane, come l’aveva definito Gramsci e come a noi qui e og-gi pare pericolosamente confermarsi. Oltretutto il fascismo, persuo conto, aveva politicamente e storiograficamente cercato di ac-creditarsi lui, nella sua componente nazionalista da Gentile aVolpe a Rocco, come il vero realizzatore rivoluzionario dei destinirisorgimentali, e questo – fra apologia crociana del Ri-sorgimentoliberale, sua opposta revisione critica da parte dei Gramsci e deiGobetti, nuovo protagonismo nazionale dei cattolici e dellaChiesa dopo Partito popolare e Patti lateranensi – complicava ul-teriormente lo scioglimento di tutti questi nodi.La discussione fu asperrima subito dal 1945 almeno fino al 1960,e condotta senza esclusione di colpi, perché c’era la coscienzache con la risposta a quelle domande si giocava una partita de-cisiva nella battaglia per l’egemonia culturale: basti pensare chenel 1955 il comitato dei ministri incaricati di organizzare le cele-brazioni del decennale patrocinò un corposo volume ufficialeintitolato appunto Il secondo Risorgimento. Nel decennale dellaResistenza e del ritorno alla democrazia, escludendone tutti iprotagonisti o gli studiosi non aderenti ai partiti di governo, inparticolare socialisti e comunisti in quanto estranei alle ideolo-gie della democrazia. E pochi anni dopo, nel 1959, un fortuna-to saggio di Claudio Pavone su antifascismo e fascismo di frontealla tradizione del Risorgimento suscitò discussioni furibondeincentrate su un punto che allora pareva cruciale per il ricono-scimento o no del Partito comunista come partito della tradi-zione nazionale: era stato il suo risorgimentalismo durante laResistenza, nei termini precipui del garibaldinismo, espressionedi una cultura e visione storica autentiche, oppure era stato di

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mera natura pratica, strumentalmente rispondente alle nuoveesigenze unitarie della politica dei fronti popolari?Pavone giudicava dal punto di vista dell’azionista che era stato, ilsuo risorgimentalismo resistenziale era nel solco del Risorgimentodi Giustizia e Libertà (Gobetti e Carlo Rosselli), dunque criticodei comunisti (in particolare del Togliatti che nelle polemiche an-ni Venti con Rosselli e «Quarto Stato» aveva liquidato il cosiddet-to Risorgimento, con il che Pavone isolava il risorgimentalismo diGramsci come fatto intellettuale a sé, non espressivo di un’intrin-seca cultura del Partito); ma critico anche dei liberali crociani che,tipico Omodeo, avevano duramente polemizzato contro la revi-sione gobettiana del Risorgimento. Così accadde che Pavone ve-nisse contestato sia dai comunisti come Battaglia e Spriano, siadai liberali crociani come De Caprariis. Non erano, lo ribadisco,puntigli accademici. Per capire la rilevanza eminentemente poli-tica di contrasti che oggi possono sembrare di astratta schematiz-zazione quando non di pura ritorsione ideologica o nel miglioredei casi di accanimento filologico, ricordiamo come allora neglianni Cinquanta, anche facendo perno sull’impatto formidabiledei Quaderni di un Gramsci sostanzialmente sostituito a Croce(sostituito, più che contrapposto), il Pci puntasse ad accreditarese stesso e la classe operaia quali eredi della grande tradizione li-berale del Risorgimento, dagli Spaventa a De Sanctis fino all’ap-prodo di quella tradizione – con Antonio Labriola – nel marxi-smo e nel socialismo. Su questa linea, è noto, Togliatti era giuntoa esprimere un giudizio storicamente positivo sulla stessa politicadi apertura ai socialisti praticata nel primo Novecento da quelGiolitti che era sempre stato la tradizionale bestia nera della cul-tura salveminiana, gobettiana e ordinovista; e ciò Togliatti avevafatto non solo in polemica politica contro l’ostracismo democri-stiano alle sinistre, ma anche con l’obiettivo storiografico di sot-trarre Giolitti all’apologia e in sostanza appropriazione neolibe-rale operatane da Croce.Le polemiche su Resistenza e Risorgimento si intrecciavano, in-somma, con le concomitanti querelles sull’interpretazione gram-sciana del medesimo Risorgimento (ricordo il memorabile scon-

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tro fra lo storico liberale Rosario Romeo e gli storici marxisti daSereni a Zangheri a Cafagna) e, a questa strettamente connessa,sulla questione del Mezzogiorno e sulla prospettiva dell’alleanzanazionale fra operai del Nord e contadini del Sud. Perché, era sta-ta davvero la Resistenza il compimento del Risorgimento nazio-nale? E se sì, erano state davvero le avanguardie della classe ope-raia forza propulsiva e trainante della Resistenza come la borghe-sia più avanzata lo era stata del Risorgimento? Era questa una con-dizione essenziale per interpretare storicamente il fallimento e lacaduta del fascismo come sconfitta storica delle tradizionali classidirigenti borghesi e come fine dell’egemonia borghese, e per ac-creditare di conseguenza la classe operaia come nuova classe trai-nante ed egemone, come la nuova classe nazionalmente dirigente.Tanto che Togliatti – più culturalmente sensibile al momento ri-sorgimentale – ispirava una storiografia molto attenta alle analogiee alla continuità Risorgimento-Resistenza; Longo invece – più mi-litantemente radicato nel momento resistenziale e autore dell’an-cora oggi essenziale Un popolo alla macchia– preferì richiamare glistorici a una decisa distinzione fra i due Risorgimenti proprio perriaffermare il primo a direzione borghese, il secondo a direzionepopolare, operaia e contadina (la Resistenza, anzi, come innovati-va esperienza storica di partecipazione contadina a un moto di li-berazione nazionale, con il rovesciamento almeno nel Nord diquella tradizione di sanfedismo antigiacobino, antirisorgimentale,in sostanza antinazionale da cui le masse agrarie non si erano inprecedenza mai emancipate).Temi brucianti, e non è un caso che anche nel 1960, anno prepa-ratorio del centenario dell’Unità ma anche anno critico del gover-no Tambroni, si dovettero registrare non poche resistenze alla ce-lebrazione ovvero inclinazioni a una celebrazione debole e distor-ta, sia pur – va detto – imparagonabili per gravità di motivi e perostentata impudenza a quelle odierne in vista del 150° dell’Unità:allora, piuttosto che la negazione e il rifiuto, c’era il tentativo – chia-miamolo così – di delaicizzazione e clericalizzazione del Risorgi-mento per sottrarlo all’egemonia interpretativa e marxista e libe-rale, così come nel 1955 – decennale della Liberazione – c’era sta-

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to un notevole e non banale sforzo (ricordo politicamente Malve-stiti sul «Popolo» e storiograficamente Passerin d’Entrèves su«Civitas» di Taviani) di cattolicizzare la Resistenza, enfatizzandonela dimensione religiosa.Ricordo che a denunciare il tentativo del governo di mettere lasordina sui grandi eventi del triennio 1859-’61 intervenne, conuna lucida polemica dal titolo inequivocabile Antirisorgimento,Alessandro Natta (un dirigente di partito a sua volta acuto sto-rico del pensiero risorgimentale, lui studioso del Cuoco e delColletta, il cui nome mi piace ricordare anche per rimpiangereinsieme a voi quella specie di intellettuali-politici e di politici-in-tellettuali, comunisti, socialisti, azionisti, cattolici, liberali di cuisi erano innervate la resistenza al fascismo e poi la rinascita na-zionale nella Repubblica e nella Costituzione – una specie del-la quale, non ultimo segno del nostro declino democratico eculturale, pare smarrito lo stampo). D’altronde, perché quello del Risorgimento primo e secondo nonpotesse non diventare, anzi restare terreno di confronto ideologi-co e di implicazioni politiche al calor bianco lo aveva spiegato be-ne un grande intellettuale e martire antifascista, Leone Ginzburg,in certe sue pagine del 1943 su La tradizione del Risorgimento ri-maste inedite ed esemplarmente stampate, quasi un messaggio,subito nell’aprile del 1945 da un’indimenticabile rivista napoleta-na, «Aretusa»:

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L’Italia in cui viviamo non è pensabile – ammoniva Ginzburg –senza il Risorgimento. Sorto da un impellente bisogno di adegua-re il nostro paese … alla moderna cultura e vita politica europea,mentre gli Stati italiani erano tanti cadaveri dissepolti che al con-tatto dell’aria sarebbero andati in polvere … Per gli italiani, l’at-teggiamento da assumere nei riguardi del Risorgimento implicaancora, e forse continuerà ad implicare per parecchio tempo, unascelta inequivocabile che precede ogni valutazione storiografica… Risorgimento non è dunque, per gli italiani di oggi, la sempli-ce designazione di un periodo storico, un recipiente in cui si pos-sa versare qualunque liquido: è, invece, una tradizione tuttora vi-

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Su uno dei primi numeri della medesima rivista «Aretusa» ungrande liberale oggi rimosso come Gobetti dai sedicenti libe-rali da cui siamo infestati (tutti inverecondamente liberali e ri-formisti i tristi attori di questa fase illiberale e restauratrice), di-co il liberale Guido Dorso, in certe sue straordinarie pagine del1944 sulla Teoria politica dei “partigiani” dalle quali farei aprireun’auspicabile antologia del pensiero resistenziale, aveva a suavolta avvertito:

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va e gelosamente custodita, a cui ci si richiama di continuo per ri-cavarne norme di giudizio e incentivi all’azione.

Un nuovo incontro di Teano non appare probabile, poiché que-sto tipo di eventi storici presuppone l’assenza delle masse e la ten-denza delle élites rivoluzionarie a transigere. Oggi, invece, il mo-vimento partigiano si sviluppa attraverso il popolo, e ciò dovreb-be essere sufficiente a preservarlo da adulterazioni. Tutto il pro-cesso storico, iniziatosi col Risorgimento e limitatosi finora all’in-dipendenza nazionale, pare voglia concludersi con un nuovoRisorgimento, che artificiosamente si vorrebbe limitare al riacqui-sto dell’indipendenza, ma che in effetti … deve espandersi all’af-fermazione dell’autogoverno come unico mezzo per l’effettivo ac-quisto e garanzia della libertà.

Mettiamo insieme le parole del torinese Ginzburg e del meridio-nale Dorso, il Risorgimento di quello con il nuovo Risorgimentodi questo, e sarà chiaro quale destino di scontro politico dovesseattendere – repubblica, costituzione, strategie economico-sociali– il tema storiografico voluto qui oggi in discussione dall’Anpi.

2. Grande sarebbe dunque la tentazione di sostare analiticamentesul dibattito intorno alla Resistenza come secondo Risorgimentodipanatosi in quella fase storica così decisiva e drammatica per tut-te le forze politiche che avevano costituito il Cln: prima e dopo losnodo del ’48, nella tempesta del ’56, alle soglie contrastatissime

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del centro-sinistra, quando dall’opposizione di popolo al torbidotentativo Tambroni di riportare i neofascisti nell’area di governo edi bloccare la nascita del centro-sinistra venne per un momento ri-lanciato lo spirito militante della Resistenza (che poi del centro-si-nistra non siano state capite e sviluppate tutte le potenzialità sa-rebbe altro discorso, non estraneo alla comprensione della nostraderiva nei decenni successivi).Una tentazione storiografica tanto più forte oggi, ripeto, che sullanostra storia, sulla storia delle nostre idee, si preferisce stendereun’opportunistica cortina di occultamenti, rimozioni, edulcorazio-ni, distorsioni, negazioni, palinodie, quando al contrario un intelli-gente esercizio della ragione storica compiuto a schiena dritta sa-rebbe vitale per uscire dal gorgo di subalternità in cui ci dibattiamoanche nel campo storiografico, Risorgimento e Resistenza in pri-mis: deprecato o affidato a letture deboli e fin caricaturali il Risorgi-mento, ridotta troppo spesso la Resistenza ad un’ormai univoca mi-sura di guerra civile, oltretutto sempre più strumentalmente frain-tesa al fine surrettizio di attribuire pari dignità storica alla pars fa-scista di Salò (come in modo analogo, nel Risorgimento, alla parssanfedista delle insorgenze), ovvero – in qualche caso particolar-mente repulsivo – di ridurre la Resistenza ad equivalente se nonpeggiore storica indegnità. Neppure nel buio della guerra fredda siera osato tanto. Una brutta china lungo la quale, comunque, co-minciammo a scivolare vent’anni fa, nel disastroso bicentenariodell’Ottantanove: perché alla fine, lasciatemelo confessare, di que-sto sono sempre più convinto, ‘dimmi cosa pensi dell’Ottantanovee ti dirò chi sei’.Tentazione storiografica grande, anzi di storia della storiografia,ma altro preme qui e oggi, quando – con martellante insistenza– vengono messi in discussione i due cardini dell’assetto statualeuscito dalla Resistenza, l’unità repubblicana e la carta costituzio-nale. Quando, cioè, all’ordine del giorno non è il movimentoprogressivo di rinascenza insito nel concetto di risorgimento,bensì un movimento regressivo di corruzione e restaurazione: ri-cordo che risorgimento, prima di venir a designare il processo diunificazione nazionale, periodizzava quello che ora si nomina ri-

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nascimento, ‘rinascimento’ dalle tenebre medievali affondante lesue primi radici nazionali nei liberi comuni di popolo; poi ‘risor-gimento’ dal sistema di antico regime e dalla sua reviviscenza nel-la restaurazione; poi ancora ‘liberazione’ dal fascismo.Rinascimento, Risorgimento, Resistenza. Un filo rosso di svilup-po storico sulla linea della rivoluzione razionalista rinascimenta-le e poi illuministica (il calle dal risorto pensier segnato innanti co-me lo sintetizzò Leopardi), dipanatosi nella modernità lungo ledirettrici rivoluzionarie e fra loro variamente conflittuali del libe-ralismo borghese, del socialismo proletario, dei filoni democrati-ci e laici cresciuti dentro il cattolicesimo. Non si intende, nella suaforza propulsiva ma anche nelle sue contraddizioni, il complessodella resistenza al fascismo e poi l’esito repubblicano e costitu-zionale senza tener conto di questa spinta storica radicata nelleforze sociali e nel loro patrimonio culturale, la spinta storica chereagì ai movimenti regressivi saldatisi nella monarchia fascista.Non è un caso che i critici più radicali e conseguenti dello Stato re-pubblicano e della Costituzione antifascista, come i cattolici inte-gralisti di Baget Bozzo dagli anni Cinquanta e Sessanta di «Terzagenerazione» e di «Ordine civile» fino al supporto ideologico perForza Italia, abbiano contestato in radice la legittimità medesimadi quello Stato repubblicano e di quella Costituzione antifascista,legittimità declassata sottilmente a «quasi legittimità» proprio peri cardini rivoluzionari e dell’uno e dell’altra; appunto – a ritroso –la Resistenza, il Risorgimento, e a risalire l’Ottantanove e il Rina-scimento stesso antimedievale.Rileggiamo, ci serve a capire come vengano da lontano, a riflette-re dove siano andati via via incubando e serpeggiando e a cosa siispirino certo attuale sovversivismo anticostituzionale (la Costi-tuzione catto-comunista quando non bolscevica tout court deni-grata giornalmente dal Presidente del Consiglio) e insieme certoneoclericalismo sanfedista anche di marca laica; rileggiamo quelche in tema di Stato e Rivoluzione scriveva il futuro consiglieredell’on. Berlusconi nel 1960, proprio – guarda caso – in piena cri-si ‘tambroniana’: lo Stato liberale uscito dal Risorgimento essere«esempio classico del regime “quasi legittimo”, ossia del regime

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che copre sotto una legittimità apparente una illegittimità sostan-ziale, del regime che nasconde la rivoluzione nelle pieghe delloStato»; essere analogamente illegittimo – dopo la Resistenza/se-condo Risorgimento, lo Stato repubblicano con la Costituzionedel 1948, proprio in quanto «costituzione antifascista: e anche inessa, l’antica “quasi legittimità”, il connubio tra Stato e rivoluzio-ne»; in mezzo invece la parentesi del regime fascista e, suggerivapuntualmente Baget Bozzo, «il fantasma di un vero Stato non ven-ne mai come allora evocato: e i cuori semplici del popolo italianone furono commossi e sedotti». Attacco all’Italia repubblicana ealla sua Carta? Esso non sarebbe dunque una sovversione, ma an-zi il ristabilimento di una piena e superiore legalità: siamo alle ra-dici, come si vede, del populismo postfascista attuale e delle sue te-lecomandate commozioni e seduzioni. Ma, quando andremo a ri-costruire le matrici culturali dell’attuale pensiero reazionario – re-visionismo storiografico, individualismo antiegualitario e antista-tuale, subalternità del politico all’economico – le sorprese e gli in-croci saranno molti e talvolta dolorosi, per esempio anche a cari-co del Sessantotto e dei suoi miti neoromantici e neovitalistici, diuna tal sua idea minoritaria e ribellistica della Resistenza, soprat-tutto del suo disprezzo per quel nazional-popolare che, dal primoal secondo Risorgimento, in politica e in cultura – attraverso ilcomplesso costituirsi dei partiti nuovi e via via rinnovati e articola-ti nel corso del Novecento e della stessa esperienza resistenziale, ilcomunista, il popolare, il socialista, l’azionista … – aveva comin-ciato a formare un’identità popolare, appunto, della nazione e na-zionale del popolo.Comprendere le basi sociali e le componenti culturali di questanuova destra; ma comprendere anche le ragioni del declino del-la sinistra, a sua volta da ricercare – oltre che nelle profonde tra-sformazioni dei suoi tradizionali ceti di riferimento (e nel falli-mento, diciamolo, della classe operaia come nuova classe diri-gente, cioè del presupposto essenziale della politica di via italianaal socialismo) – in un molecolare assorbimento nella sua culturadi essenziali ragioni della destra: è una riflessione storica e politi-ca insieme, da svolgere intorno al recente passato con gli occhi ri-

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volti al prossimo futuro, cui io credo l’Anpi dovrebbe dare mol-to impulso attraverso l’offerta di se stessa come luogo di incontroe di iniziativa e la sistematica promozione di discussioni e di ri-cerche su temi, come usa ora dire, particolarmente ‘sensibili’.Ricordiamo come, durante e dopo la Resistenza, le grandi cor-renti ideali di pensiero e i loro partiti si impegnassero – molti po-litici in prima fila – nella ricerca storica e documentaria non solosu primo e secondo Risorgimento ma anche sulle origini del fa-scismo e sulle origini e vicende proprie e dei propri gruppi diri-genti. Del resto, la differenza fra piccola e grande politica l’avevaspiegata in una pagina famosa dei Quaderni Antonio Gramsci,appunto riflettendo – radicalmente e però tutto fuor che setta-riamente – con lo sguardo al futuro sulle cause storiche dellapropria sconfitta e della vittoria fascista. Altrimenti il destino disubalternità è sicuro: già vediamo come accada che ai rumoridella destra, alla predicazione del mercato quale suprema deitàregolatrice, all’invocazione di un esecutivo rafforzato rispetto alParlamento anzi svincolato affatto dalle sue pastoie, alla quoti-diana esecrazione della Carta come infernale camicia di forzaburocratico-statalista, al feroce perseguimento di un federalismodai palesi intenti separatisti, le nostre proteste suonino – comedire? – accorata raccomandazione di minor invasività e di piùsobrio stile piuttosto che strategica opposizione di una prospet-tiva riformatrice davvero culturalmente altra in quanto pensatae perseguita in nome di soggetti, di bisogni, di obiettivi a lorovolta altri socialmente e politicamente. Lasciamo pur stare le sce-neggiate televisive, ma i convegni ‘culturali’ bi- quando non tri-partisan oggi di moda fra i politici e anche fra gli intellettuali van-no in direzione opposta, servono solo a tattiche di schieramentotrasformistico o a semplici ammiccamenti nel chiuso di un cetopolitico autoreferenziale: il fatto è che, quanto a pensiero, quel-lo multipartisan non potrà mai avere altri destini che la confu-sione o la connivenza.

3. Cominciamo allora – per alcuni pensieri conclusivi di questanostra odierna riflessione monopartigiana – col dire prima di tut-

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to, e seccamente anche in risposta agli antichi interrogativi di me-todo richiamati in apertura, che il Risorgimento non fu rivoluzio-ne mancata, fu rivoluzione vera, certo non sociale e solo istituzio-nale, ma autentica: come chiamare altrimenti l’unificazione in unnuovo Stato indipendente di un coacervo di Stati (non regioni)variamente e secolarmente ‘dipendenti’? Quando Croce affermòche storia d’Italia in quanto tale si poteva fare solo ora, come sto-ria dell’Italia unita, forse eccedette in un poco di paradosso, peròaveva nella sostanza ragione e voleva dire a modo suo proprioquesto, essersi trattato di una rivoluzione nazionale in un conte-sto europeo che ne veniva – come dall’analoga tedesca – profon-damente mutato (e infatti le sue storie d’Italia e d’Europa furonoe vanno lette complementari). Rivoluzione unitaria, dunque, ilprimo Risorgimento.Dico in secondo luogo, altrettanto seccamente, che la Resistenzanon fu tradita, diede a sua volta – oltre al contributo alla libera-zione da nazisti e fascisti – esiti rivoluzionari come la Repubblicademocratica a suffragio autenticamente universale e la Costitu-zione fondata sul lavoro. Certo la rivoluzione sociale, o diciamopure socialista, nei voti di una parte della Resistenza non ci fu néci poteva essere; altrettanto certamente fra laici e cattolici furonoindispensabili compromessi insidiosi, proverbiale quello sull’ar-ticolo 7, che solo in parte sanavano – e in realtà sancivano cer-cando di regolarla – una sofferenza intrinseca ab origine al no-stro Stato, dal tempo della questione romana, ma alla fine Re-pubblica e Costituzione (fondata peraltro sul lavoro, non lo si di-mentichi, come non lo dimenticano gli attuali picconatori dellasua stessa parte prima) furono acquisizioni assolutamente rivo-luzionarie, rispondenti fra l’altro alle aspirazioni a suo temposconfitte delle ali più avanzate del movimento risorgimentale, di-ciamo per intenderci la mazziniana e la garibaldina. Esiti rivolu-zionari, dunque, anche quelli del secondo Risorgimento.Dal primo al secondo Risorgimento, unità nazionale e Costitu-zione repubblicana fondata sul lavoro: proprio le ossessioni pole-miche dell’integralismo cattolico alla Baget Bozzo e del complot-tismo laico siglato P2, ed era nella logica delle cose – diciamo nel-

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la convergenza degli obiettivi – che queste due linee di attacco al-la Costituzione fossero destinate a incontrarsi e allearsi per unlungo percorso comune iniziato già negli anni Ottanta. Pure nel-l’ordine delle cose che il revisionismo della Costituzione (del qua-le il revisionismo storiografico di Risorgimento e Resistenza co-stituisce un’essenziale espressione ideologica) potesse incrociare,traendone e a vicenda conferendole ulteriore linfa, la patologiadello Stato unitario da sempre più acuta, la piena integrazionecioè fra Nord e Sud. Postasi subito come ‘questione napoletana’per Cavour, indusse alla scelta del centralismo di Ricasoli e al-l’abbandono del federalismo ‘regionalista’ di Minghetti (quellopiù radicale, repubblicano, di Cattaneo con la sua Italia delle cen-to città non fu mai realmente in gioco). Fu poi la ‘questione me-ridionale’, in realtà – sempre – la primaria questione nazionale, al-la cui storia secolare qui non è possibile neppure far cenno. Senon per dire che nel nuovo contesto europeo, monetariamenteintegrato ma politicamente privo di costituzione e di effettivi or-ganismi di governo, viene dovunque acutizzata una sorta di po-larità fra macroarea continentale e microaree regionali a danno epericolo dei depotenziati Stati nazionali, soprattutto di quelli apiù fragile equilibrio dei sistemi produttivi, delle tradizioni cultu-rali, linguistiche, in qualche caso religiose; in Italia, la ‘questionesettentrionale’ posta soprattutto dalla Lega nei termini brutali diun federalismo ad alto tasso separatista: separatista e dal Mezzo-giorno e da Roma capitale eminentemente accentratrice. Nonsottovalutiamo Pontida, gli insulti alla bandiera, all’inno, al Risor-gimento: i minacciosi protagonisti di questa via celticopadana al-la secessione sono ministri dello Stato. Il capo del governo controla Costituzione, il ministro dell’Interno contro l’Unità.Vale la pena di ricordare, a proposito di Unità e della questionedel rapporto Nord-Sud, come essa fosse ben presente, nei ter-mini specifici della Resistenza e delle divaricazioni che nel suo di-verso svolgimento si accentuavano fra Settentrione e Meridione,dentro la stessa direzione del Clnai. Rodolfo Morandi, un altrointellettuale-politico di quella specie estinta, si preoccupava, inun intervento del 1945 dal significativo titolo Unire per costruire,

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della divisione latente che minacciava di acuirsi:

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Ci sono degli sfasamenti nell’ordine politico che conseguono aduna esperienza particolare del Nord, e noi ci disponiamo a risol-verli con una unificazione … di metodi e di sistemi, nel consolida-mento della neonata democrazia italiana, da qui alla Costituente.Ma in più ci sono dissonanze nella vita nazionale e lacerazioni cheurge eliminare e sanare, e il farlo dipende soltanto dalla nostra vo-lontà di uomini del Nord e del Sud, che si sentono in verità soltan-to italiani.

Perché poi Morandi sapeva bene (e il futuro avrebbe confer-mato tanti suoi timori) come l’Italia non si potesse governare cheda Roma, ma che in quella grande palude della burocrazia mini-steriale le nuove energie rischiassero di perdersi e sia per il Nordsia per il Sud fosse vitale che lo Stato italiano non si rifacesse sul-la Babele fascista. E sapeva altrettanto bene che la saldatura delSud col Nord era resa difficile anche dal fatto che del Nord c’e-ra da valorizzare una esperienza più avanzata e più matura a prodi tutta la Nazione, come diceva nel giugno dello stesso 1945, ri-volgendosi ai Cln regionali dell’Alta Italia. Una questione, unalatente insoddisfazione settentrionale nei confronti della centrali-tà romana e del ritardo meridionale, presto confermata dai ri-spettivi esiti del referendum istituzionale, acuta in questo 1945 delCnlai in polemica con Roma nel momento stesso che dall’Italia‘divisa in due’ bisogna tornare all’Italia una, ma già insorta nelCavour e nei settentrionali e toscani subito angosciati dalla ‘que-stione napoletana’, borbonica. Questioni antiche di patologia sta-tuale, della cui storia è politicamente indispensabile aver precisacoscienza: e sul problema tipicamente postrisorgimentale del rap-porto Nord-Sud come si pose nella cultura e nella politica dellaResistenza, in particolare nel Nord, e come non è stato risolto neidecenni successivi sarà necessario che noi torniamo. A partire for-se da un dato bibliografico che fu come la sanzione fissata dallastoriografia che quel problema era ben chiaro, ma appunto irri-

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solto e come acquisito da una divaricante lettura della storia na-zionale diventata acquisito senso comune: quando attorno al1960, come a consuntivo delle discussioni postresistenziali, daCafagna e da Villari furono messe assieme le due grandi antologierispettivamente dedicate al Nord e al Sud nella storia d’Italia, laprima venne sottotitolata antologia politica dell’Italia industriale, laseconda antologia della questione meridionale. Il Nord nella storianazionale come luogo dello sviluppo produttivo, il Sud come que-stione, come luogo cioè della questione del sottosviluppo.Duplice oggi, comunque, il progetto revisionista della Carta daparte della Destra: per un verso, più libertà di mercato e più po-tere dell’esecutivo a detrimento della centralità del lavoro e delParlamento; per altro verso, introduzione di un sistema federali-stico entro uno Stato senza più strutturazione sovraordinamenta-le, dunque – nella nostra realtà economica, sociale, amministrati-va – ad alto rischio di un esito disgregativo fra le regioni, non giàdi piena attuazione dell’autonomia prevista dalla Carta stessa.Che poi si tratti di due disegni eversivi della Costituzione non ne-cessariamente fraterni fra loro, anzi passibili di qualche reciprocaconflittualità, è altro discorso: se mai preoccupa ancor più che sisiano invece potuti saldare in un’alleanza micidiale e in un unicodisegno fra iperliberismo economico, egoismo sociale, autoritari-smo politico. In un tale contesto un federalista democratico (vo-gliamo dire di cultura catteneana e perfino minghettiana?) difronte alla deriva ‘padana’ non si astiene, si oppone; così come unsincero liberista vota contro, senza apertura alcuna, la strutturalederegolamentazione implicita nella sovversione dell’articolo 41magari in combinato disposto con quella dell’articolo 1.E attenzione: prima ancora dell’eversione formale della Carta,abbiamo già in atto una sua strisciante eversione materiale. Ildepotenziamento del sistema scolastico e universitario pubbli-co e la sua regionalizzazione, lo svuotamento dei pubblici isti-tuti di ricerca e di cultura, la sottomissione del dettato costitu-zionale e legislativo sulla tutela del lavoro alla contrattazione lo-cale, le cosiddette semplificazioni e sburocratizzazioni di inizia-tiva privata, l’ossessionante tentativo giornaliero di imporre lac-

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ci e vincoli alla magistratura, la costrizione stessa del presidentedella Repubblica a un continuo interventismo in difesa dellaCostituzione quasi per supplenza di un Parlamento infiacchito equasi inebetito dalla natura medesima del sistema elettorale at-traverso cui si forma, tutto questo converge in modo univoco aconfigurare un Paese squilibrato, diviso, privatizzato, presiden-zializzato (ieri Scalfaro, Ciampi, oggi Napolitano, tutte coscienzedel secondo Risorgimento, ma domani?). Accettare un contrattocon certe clausole a Pomigliano in Campania ma non mai aMirafiori in Piemonte? Già nella logica del disgregante federali-smo leghista. Tagliare indiscriminatamente le risorse di scuole eatenei? Stessa strada di ulteriore divaricazione fra le regioni luo-go dello sviluppo e le regioni luogo del sottosviluppo.Così procedendo, rischiamo di avere, uno strappo qua e altre ri-cuciture e rattoppi là, una Carta e un Paese devastati e sformatialla stregua d’un Frankenstein costituzionale; né possiamo illu-derci che, alla fine, di un’Unità e di una Costituzione quantunquecosì deturpate, anzi della storia nazionale dal primo al secondoRisorgimento, resti tuttavia l’anima, nella presunzione che similichirurghi all’anima non possano giungere e che poi anche il viso,a maggioranza parlamentare riconquistata, possa venir restaura-to con qualche tocco di chirurgia plastica: no, non è così. Questinon sono processi transeunti o semplici parentesi, la lunga storiadella crisi dello Stato liberale e poi lo sbocco nel fascismo inse-gnino: Frankenstein del resto un’anima ce l’ha, ma brutta, per-versa, con una brutale intelligenza capace di distorcere a propriaimmagine e servizio la storia stessa e i principî fondanti. Ricordateil Machiavelli di Mussolini? Non illudiamoci: è ben vero anche inquesto caso che la storia non si ripete mai uguale, tuttavia essa èmagistra proprio perché le sue sequenze sono regolate da una lo-gica implacabile. È sotto questa luce che dobbiamo guardare al150° anniversario dell’Unità: dunque con un’intelligenza affattoaliena da spiriti celebrativi che non hanno alcune ragion d’essere,ma con la consapevolezza che siamo a uno snodo storico di crisidella Repubblica postresistenziale analogo per intensità – e siapur diversissimo per culture e problematiche e contesti e sogget-

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ti sia sociali che politici – a quello vissuto nei primi anni Venti dal-lo Stato postrisorgimentale.

4. Noi oggi, qui, parliamo di storia, di politica toccando solo nelsenso che l’intelligenza storica deve tenere i piedi saldi nel pre-sente e lo sguardo volto al futuro. Parliamo di storia, qui all’Anpivoi vecchi militanti partigiani e tanti come me ormai a nostra vol-ta vecchi militanti democratici, non per autogratificante nostalgiabensì per partecipare all’oggi nell’unico modo che ci compete:parlare ai più giovani, collaborare alla ricostruzione di un dialogofra le generazioni, la cui perdita costituisce una delle lacerazionipiù pericolose e intimamente regressive del tessuto democratico.Ma parlare ai giovani di che? Forse della nostra recente storia bre-ve, delle complicate, acrimoniose, inestricabili se non per noi stes-si e solo per noi stessi pronunciabili vicende di appartenenze per-sonali e correntizie in un quadro di modernariato politico che hapassato gli ultimi venti o trent’anni a sgranarsi, a stingersi, spessoa far macchia in puntigliose sopravvivenze senza più vita? No, igiovani non ci ascolterebbero, da queste querimonie nulla hannoda trarre ora: forse domani, quando da stanca cronaca recrimi-natoria esse, selezionate criticate ragionate, diventeranno a lorovolta storia. Ma fatta, vivaddio, da altri. Oggi, rifuggendo dallastoria (quella lunga che abbiamo alle spalle, scomoda e non ri-muovibile, da cui ci sottraiamo quanto più essa ci impone contioggettivi e forti), tendiamo a consolarci con la memoria, con lasua plasmabile soggettività debole. Un diluvio memorialistico: semateria di studio per i posteri, passi (decideranno loro quel chevarrà la pena di leggere); ma se memoria magistra vitae, allora no:spesso noiosa, infida sempre.Come la pratica delle interviste: facile discorsività evasiva, un pen-siero ‘di rimessa’ spezzettato e stuzzicato dall’esterno, nessunatraccia di visione complessiva, di quella che si chiamava e resta lafatica del concetto.Allora la storia, non quella breve delle nostre vite e carriere, ben-sì quella lunga – poiché di primo e secondo Risorgimento si trat-ta – della difficile, contraddittoria e insieme lineare storia della

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formazione della nostra Repubblica e della nostra Carta costitu-zionale, delle sue forze e ragioni promotrici, economiche, socia-li, culturali, politiche. Questa dobbiamo ripensare e riproporre,ritrovarne l’orientamento e il destino dopo le difficoltà, le scon-fitte, le perdite stesse di senso accumulatesi in questi anni: lascomparsa dei Partiti del Cln, il quadro internazionale sconvol-to, il declino della classe operaia… Ridare un senso a questa sto-ria, ha invocato un intelligente slogan lanciato di recente daPierluigi Bersani: ma che non resti uno slogan d’occasione, chenon sia lasciato cadere né da noi né dall’elaborazione culturalecollettiva che tutte le forze democratiche dovranno pur affron-tare se vorranno darsi un respiro, se non vorranno soffocare nel-le memoriette correntizie di strumentale e corta veduta.Difendere l’Unità conquistata dal primo Risorgimento e la Co-stituzione repubblicana conquistata dal secondo: il farlo impo-ne oggi una cosciente, attiva, propositiva resistenza politica eculturale. Perché essa non si risolva in resistenza pur nobilmen-te conservatrice e anzi diventi propulsiva di efficaci riforme pro-gressive da opporre al processo restauratore in atto, cioè di unanuova capacità di indirizzo culturale e di governo politico, nonpossiamo aggrapparci ai rami vecchi e spezzati o intestardirci araccattar mucchietti di foglie marce: dobbiamo riandare alle ra-dici vitali delle correnti ideali e dei grandi movimenti riforma-tori che cominciarono a trasformare in senso democratico loStato classista uscito dal Risorgimento, idealità e movimenti cheil fascismo non riuscì a stroncare e che si rinnovarono e fra lo-ro si confrontarono e poi collaborarono nella Resistenza e nellaCostituente. E che, ancora, pur in una conflittualità esasperatadalla situazione internazionale e dalla crescita stessa della nostrasocietà, procurarono lo sviluppo del Paese in un quadro di so-stanziale tenuta democratica e laica. È a loro e a quelle loro sto-rie di vocazione nazionale che dobbiamo impegnarci a ridare unsenso oggi, un nuovo senso storico, nuove forme politiche, nuo-ve declinazioni culturali: d’altronde, se del Risorgimento e del-la Resistenza, di minimizzarne e denigrarne l’immagine tanto sipreoccupa revisionisticamente la destra, ciò accade perché essa

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ne avverte e teme il peso storico e la pregnanza politica nella dif-ficoltà medesima di smantellarne le realizzazioni istituzionali esociali; badiamo a nostra volta di non rinunciare a quel peso ea quella pregnanza, di ribadirne con fiducia le ragioni storichee di ridar loro ragione e accelerazione attuale. Le idee per un terzo Risorgimento? Nessuna enfasi e nessunapresunzione, anzi la consapevolezza del disorientamento con cuici si avvia all’imminente 150° dell’Unità. Certo è però che unaprospettiva politica senza forte battaglia delle idee resta una pro-spettiva politica debole, priva di futuro: e di questa battaglia iocredo che l’Anpi, per la sua storia e per il suo intatto prestigio inun momento di difficoltà e distrazione dei partiti, possa costitui-re un prezioso, cruciale luogo di aggregazione e di rilancio. !

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La recente riunione dei G20 a Francoforte, che ha avallato lascelta europea dell’austerità, ha suscitato il diffuso timore chela stretta dei bilanci pubblici in tutti i Paesi avanzati possa man-dare di nuovo in recessione l’economia mondiale. Timori con-divisi da Obama, che, tuttavia, deve fare fronte in casa propriaall’offensiva dei nipotini di Hoover, che evidentemente sonodisseminati in tutto il mondo, e che ritengono che le crisi si cu-rano con l’austerità. Si sprecano, naturalmente, le assicurazioniche l’austerità deve essere coniugata con la crescita, ma nessu-no ci dice come. Solo il governatore della Bce, Trichet, che nonsi capisce chi abbia nominato speaker della politica economicacomunitaria, ci assicura genericamente che «… politiche cheispirano fiducia favoriscono e non ostacolano la ripresa econo-mica». Altri hanno sostenuto più chiaramente che l’annunciodi politiche fiscali «responsabili» indurrebbe i privati ad au-mentare consumi e investimenti e con ciò a sostenere la ripre-sa. Si tratta di una stanca riesumazione della «teoria della aspet-tative razionali» che furoreggiò nei decenni liberisti.Ora, a parte il fatto che quella teoria nei suoi quasi quarant’an-ni di vita non è stata mai seriamente verificata, a parte il fattoche, se davvero le politiche economiche dei trascorsi decenni –promesse di riduzione della pressione fiscale, politiche mone-

I RIFORMISTI NELLA CRISI ATTUALE / 1Silvano Andriani I nipotini di Hoover

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tarie e creditizie lassiste – hanno generato delle aspettative, que-ste, alla prova dei fatti, si sono rivelate decisamente irrazionali;immaginare che, mentre si bloccano o si tagliano retribuzioni epensioni, si aumentano le imposte, cresce la paura dei licenzia-menti, la gente abbia voglia di aumentare i consumi e gli im-prenditori gli investimenti ci vuole una bella fantasia.C’è poi la teoria dello spiazzamento: la crescita dei deficit pub-blici, si sostiene, finisce con l’assorbire le risorse finanziarie esi-stenti e con ostacolare gli investimenti privati, che potrebbero in-vece ripartire se si riducono i deficit pubblici. Recenti dati Ocseci informano che, in seguito all’incertezza generata dalla crisi ealla conseguente caduta della domanda privata, il risparmio neiPaesi avanzati è aumentato di tre trilioni di dollari e non sa dovecollocarsi. C’è un eccesso di risparmio e dunque nessuno spiaz-zamento. Se le imprese non investono non è per mancanza diquattrini, ma perché le banche non fanno credito per i ben notimotivi e, soprattutto, in quanto la capacità produttiva inutilizza-ta è tanta e le prospettive di domanda deprimenti.Più concreta è l’altra ipotesi, quella che l’Europa possa avvan-taggiarsi per la svalutazione dell’euro. Ciò sta già avvenendo:l’indebolimento dell’euro è già in corso e lo stentato 1% di cre-scita previsto quest’anno per l’Europa deriva tutto dalla cresci-ta delle esportazioni. Soprattutto stanno aumentando le espor-tazioni tedesche e con esse aumenta l’attivo strutturale della bi-lancia dei pagamenti germanica che si era dopo la crisi forte-mente ridotto. E un modo per fregare i vicini: e, in effetti, la ri-presa Usa, che l’anno scorso è stata a sua volta trainata dalleesportazioni, con il rafforzamento del dollaro sta rapidamenterallentando e il Fondo monetario internazionale ha già espressoil timore che ciò possa preludere al rallentamento dell’interaeconomia mondiale. Il deficit della bilancia dei pagamenti Usa, da tempo ritenuto laprincipale distorsione dell’economia mondiale, che si era forte-mente ridotto a causa della crisi, sta ora nuovamente aumen-tando. In risposta Obama ha costituito una commissione ad al-to livello con l’obiettivo di trovare il modo di raddoppiare le

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esportazioni statunitensi in cinque anni e uno dei componenti lacommissione ha già avvertito che ciò non potrà realizzarsi senzauna svalutazione del dollaro. La sterlina si sta già svalutando. Ilrischio che si diffondano i tentativi di operare sui cambi per au-mentare la propria competitività e scaricare su altri il peso dellarecessione diventa così forte e ciò potrebbe rafforzare le ten-denze protezioniste.D’altro canto una ripresa europea trainata dalle esportazioni fa-vorirebbe quei Paesi che storicamente hanno puntato sulle espor-tazioni, Germania, Olanda, Finlandia e finirebbe con l’accentua-re le divergenze con i Paesi più deboli dell’area euro e le difficol-tà a gestire la moneta unica. Aggraverebbe anche gli squilibrimondiali, visto che la Germania ha un attivo strutturale di bilan-cia dei pagamenti che non ha nulla da invidiare a quello cinese eche andrebbe ridotto per riequilibrare l’economia mondiale.

La scelta dell’austerità rischia dunque di innescare, se non pro-prio quella che Krugman ha chiamato «la terza depressione»,terza dopo quelle successive alle crisi finanziarie del 1876 e del1930, una stagnazione di tipo giapponese, che è già durata ven-ti anni. In tal caso anche l’obiettivo di ridurre i deficit fallireb-be per la inevitabile riduzione delle entrate: il debito pubblicoin Giappone ha superato il 200% del Pil.Al di là dello scarso realismo che ha la scelta dell’austerità, un al-tro interrogativo si pone: se, riducendo i deficit pubblici, si pun-ta su un rilancio dei consumi e dei conseguenti investimenti pri-vati, che tipo di sviluppo si auspica per il futuro?Sembrerebbe uno sviluppo simile a quello passato, ora entratoin crisi. E poiché di quel modello di sviluppo trainato dalla cre-scita dei consumi privati, il motore è stato l’indebitamento dellefamiglie e delle banche che ha raggiunto livelli insostenibili, co-me si dovrebbe finanziare la crescita dei consumi in futuro?Il problema del modello di sviluppo esiste, tuttavia, anche peri sostenitori della necessità di continuare con gli stimoli fiscali econ politiche monetarie espansive. Lo sviluppo dei decennipassati ha accumulato grandi squilibri nell’economia mondia-

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le, ne è conseguita la formazione di eccessi di capacità produt-tiva, soprattutto nel campo dei beni di consumo e delle abita-zioni, e difetti di capacità in altri campi, come l’energia, l’ali-mentazione, la cura del territorio, la sanità, le infrastrutture. Larivoluzione tecnologica è stata orientata di conseguenza, men-tre enormi potenzialità di ricerca e di innovazione in altri cam-pi sono state inadeguatamente alimentate. Il semplice sostegnoquantitativo della domanda non risolve il problema degli squi-libri e può ulteriormente alimentarli. Del resto, dopo l’esplo-sione della bolla tecnologica, anche Bush ha utilizzato il deficitspending e una politica monetaria molto espansiva per contra-stare la recessione, ma, inserite nel solito modello di sviluppo,tali politiche hanno generato un’altra bolla speculativa. Stimolofiscale e politica monetaria espansiva vanno usati invece comeleva per cambiare il modello di sviluppo.Commentando su «Financial Times» del 9/7 la decisione diObama, Michael Spence, premio Nobel per l’economia nel2001, dopo avere ricordato che «… una tendenza al sottoinve-stimento in infrastrutture ha lasciato l’economia meno compe-titiva di come potrebbe essere. Il tema del prezzo dell’energia èstato ignorato causando sottoinvestimenti nelle infrastruttureurbane e nei trasporti», conclude che TE

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… la nuova commissione per le esportazioni, annunciata ieri, èun passo nella giusta direzione, ma una mossa più coraggiosa ènecessaria: una larga partnership pubblico privato per investirein quelle parti dei beni in competizione dove esistono opportu-nità per i Paesi avanzati di essere competitivi. L’obiettivo deveessere di creare posti di lavoro ad alta intensità di capitale cheabbiano un livello di produttività confacente a Paesi avanzati adalto reddito.

Qui si sta parlando di un nuovo modello di sviluppo e di politi-che industriali ed è un approccio che riguarda tutti i Paesi avan-zati. Un nuovo ciclo di sviluppo sarà sostenibile se non sarà più

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trainato da una crescita dissennata di consumi privati, ma da unpoderoso e prolungato flusso di investimenti diretto a fare com-piere un salto di qualità all’apparato produttivo e a potenziare laproduzione di beni pubblici – messa in sicurezza e valorizzazio-ne del territorio e dell’ambiente, infrastrutture e trasporti, ener-gia, formazione, sanità, sicurezza, giustizia – che migliori le con-dizioni del vivere civile e aumenti l’efficienza del sistema. L’aumento del tasso di risparmio dovrebbe diventare sistemati-co, ma il problema sarà di trasformare le maggiori risorse finan-ziarie verso investimenti confacenti col nuovo modello di svilup-po. Una tale svolta non sarà realizzata dai mercati. Spetta agliStati produrre una visione dello sviluppo confacente con le po-tenzialità, le risorse e le vocazioni di ciascun Paese e adottare po-litiche e avviare progetti in grado di generare e mobilitare in quel-la direzione risorse private e pubbliche. La formazione di una co-alizione per l’innovazione dovrebbe perciò formarsi non solo sul-l’individuazione dei nuovi bisogni prioritari e delle conseguentistrategie di investimento, ma anche sui meccanismi distributivi esugli incentivi confacenti con un nuovo tipo di sviluppo.

Si potrebbe dire, in termini teorici, che si tratta di combinare unapproccio keynesiano con uno shumpeteriano. Si tratta, da unaparte, di essere consapevoli della necessità di una politica delladomanda, ma non solo per i tempi di crisi, tipo deficit spending,di tipo sistematico. Questo vuol dire mettere in campo un mo-dello distributivo che risulti non solo più giusto, ma anche fun-zionale alla qualità e alla stabilità dello sviluppo desiderato, ingrado anche di generare un livello adeguato della domanda in-terna senza che sia necessario fare crescere il livello dell’indebi-tamento pubblico e privato, cosa possibile come dimostra l’e-sperienza dei «trenta anni gloriosi» successivi alla Seconda guer-ra mondiale. Una tale distribuzione il mercato non è in grado digenerarla da sé, come dimostra l’esperienza degli ultimi trenta an-ni, e deve perciò essere orientata politicamente. D’altra parte sitratta di avere consapevolezza che crisi di questa portata, che se-gnano la fine di un modello di sviluppo e di un ciclo tecnologico

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impetuoso ma distorto da una distorta distribuzione del reddito,comportano una inevitabile «distruzione creatrice» e che si trattadi rafforzarne la componente creativa con politiche dirette a fa-vorire modifiche strutturali che sostengano il passaggio a un nuo-vo modello di sviluppo e a un nuovo ciclo tecnologico.

Una tale svolta richiede la rottura con l’ortodossia per quanto ri-guarda la politica economica. Ma non solo: ancora più impor-tante sarà un cambiamento culturale che faccia da base al mu-tamento dello stile di vita delle persone e dei popoli. Ogni mo-dello di sviluppo incorpora un sistema di valori. Nel modello so-stenuto dal pensiero unico le figure centrali sono i consumatorie i proprietari. La Thatcher, che ripetutamente ha affermato chela società non esiste ed esistono solo gli individui, cantò vittoriaquando poté annunciare che il numero degli azionisti aveva su-perato quello degli iscritti ai sindacati. Lo sviluppo doveva cosìessere trainato dai consumi privati, ma il titolo per parteciparealla distribuzione del maggior reddito prodotto era non il lavo-ro e l’impegno continuo a migliorarne la qualità, ma l’astuta ge-stione dei beni patrimoniali. E poiché la maggior parte della po-polazione non era in grado di concorrere a quell’aumento le dis-uguaglianze sono aumentate e la crescita dei consumi e il man-tenimento del consenso sono stati ottenuti con la continua cre-scita del debito delle famiglie, favorita da politiche monetariecostantemente espansive e garantito dall’aumento inflazionatodel valore dei beni patrimoniali, che è alla base delle varie bollespeculative che con crescente violenza sono scoppiate negli ul-timi venti anni.

Uno stile di vita edonistico in quella che è stata definita «socie-tà del desiderio» e comunque appiattito sul presente ha orien-tato i comportamenti delle imprese e delle persone, prodottoun eccesso di beni di consumo e il deperimento di beni pub-blici a partire dall’ambiente. Tale andazzo deve essere rovescia-to. In un nuovo modello di sviluppo lo stile di vita andrebbeorientato a guardare di più al futuro, a richiedere alle persone

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un impegno continuo a migliorare le propria professionalità ea realizzare le proprie capacità. Anche la governance delle im-prese andrebbe ri-orientata di conseguenza. Ciò richiederebbeun sostanziale cambiamento del sistema di incentivi e un po-tenziamento dei beni pubblici che possa sostenere l’impegnodelle persone e delle imprese. Il tasso di risparmio dovrebbeaumentare non per paura, ma per capacità di guardare al futu-ro e i mezzi finanziari da esso derivanti andrebbero orientati afinanziare le nuove strategie di investimento.Nel mezzo della crisi degli anni Settanta, che nacque dal con-flitto tra i Paesi industrializzati, che avevano già conseguito livellidi consumo e di benessere rilevanti, e i Paesi arretrati venditoridi materie prime, Enrico Berlinguer già propose un cambia-mento del modello di sviluppo. Sbagliò la scelta del nome, giac-ché la parola «austerità» aveva e ha un significato consolidatoche non può essere modificato e il contenimento dei consumiprivati in società come le nostre non vuol dire stare peggio, senel frattempo migliora l’offerta di beni pubblici e si riduce l’in-certezza. Ma quello che lui proponeva era il passaggio a un tipodi sviluppo meno alimentato da consumi privati e più dal po-tenziamento dei beni pubblici, compresa la tutela dell’ambien-te. La risposta vincente a quella crisi, quella liberista, andò nelladirezione opposta, quella di inglobare anche i Paesi emergentinel paradigma consumista indicendoli ad adottare modelli disviluppo trainati dalle esportazioni. E siamo arrivati al punto chePaesi ancora poveri hanno alimentato la crescita insensata deiconsumi di Paesi ricchi non solo con l’esportazione di beni abassissimo costo, ma anche prestando loro quattrini per acqui-starli. Ora che questo modello è in crisi sarebbe oggettivamen-te più forte la proposta di un modello alternativo.

Vi è poi il problema dell’enorme debito accumulato dai Paesiavanzati. Il Fmi ha finalmente cominciato a formulare una clas-sifica dell’instabilità nella quale non si tiene conto solo del de-bito pubblico di ciascun Paese, ma del debito totale: sommadel debito pubblico, di quello delle famiglie e di quello delle

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imprese. Adottando questo criterio Paesi a più alta instabilitàrisultano Usa, Inghilterra, Spagna, Portogallo, Paesi dai quali lacrisi è nata o che da essa sono stati più pesantemente colpiti eche, tuttavia, con i criteri dell’ancora vigente «patto di stabili-tà» europeo, parametrato solo sul debito pubblico, risultanotra i Paesi più stabili in quanto caratterizzati da un debito pub-blico inferiore alla media anche se afflitti da un enorme debitoprivato. La prima conclusione dovrebbe essere che è necessa-rio cambiare il «patto di stabilità» parametrandolo non al solodebito pubblico, ma al debito totale, al tasso di risparmio, allasituazione della bilancia dei pagamenti. Qui ciò che stupisce èche da parte italiana, neanche da sinistra è mai venuta una pro-posta a cambiare il patto di stabilità in tale direzione.Il livello del debito totale è comunque enorme; secondo i daticitati va da circa quattro volte il Pil negli Usa a circa due volteper il Paesi più virtuosi, Finlandia e Germania. Si tratta di unrecord storico. Riferendosi a questa realtà, l’introduzione di unrapporto speciale sul debito pubblicato in «The Economist»del 26/6/00 così conclude:

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Questo rapporto speciale sosterrà che, per il mondo sviluppato, ilmodello finanziato dal debito ha raggiunto il suo limite. La mag-gior parte delle opzioni per fare i conti con l’eccesso di debito so-no impalatabili. Come è già stato visto in Grecia ed in Irlanda, cia-scun governo dovrà trovare la propria via per ridurre il peso. Labattaglia tra i debitori ed i creditori può essere lo scontro deter-minante della prossima generazione.

Se ci si chiede in che direzione sono andate finora le scelte fattenon ci sono dubbi: a favore dei creditori, cioè dei più ricchi.Quando si sostiene che le banche non possono fallire e vengonosalvate con denaro pubblico, che Stati come la Grecia non pos-sono ristrutturare il loro debito per non causare perdite alle ban-che e ai risparmiatori e vanno salvati con denaro pubblico, cheil tasso di inflazione accettabile non può essere elevato, anche se

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ciò viene ora proposto perfino dal direttore del dipartimentoeconomico del Fmi con altri economisti, si sta scegliendo di ono-rare fino in fondo il debito accumulato anche se i crediti corri-spondenti sono il frutto di un meccanismo distorto e anche dicomportamenti speculativi. Da queste scelte sono colpiti non so-lo i debitori, ma anche i contribuenti che sono chiamati a paga-re il conto e i giovani che lo pagheranno per molti anni futuri. In pratica pagherà la società nel suo complesso, visto che l’espe-rienza ci dice che situazioni di eccesso di indebitamento possonoportare a lunghe fasi di depressione o stagnazione necessarie persmaltire il debito. Già negli anni Trenta il più grande economistadell’epoca, Irving Fisher, spiegò la grande depressione con la«debt-deflation theory», come deflazione causata dall’eccesso didebito. Da quella situazione gli Usa e gli altri Paesi industrializ-zati uscirono solo in seguito all’impetuoso sviluppo e soprattuttoalla forte inflazione successivi alla Seconda guerra mondiale.L’inflazione allora colpì i risparmiatori, ma aiutò le giovani gene-razioni impegnate a ricostruire i propri Paesi.Anche su un tema come questo bisognerebbe riflettere se sivuole aprire la strada a un nuovo modello di sviluppo. !

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Talvolta, occorre riconoscerlo, il livello delnostro dibattito nazionale sulla politica este-ra è deprimente e asfittico. Spesso ciò è do-vuto a fatti e polemiche contingenti, ma amonte vi è comunque un’asfissia dovuta apovertà di risorse e di investimenti. Poche ri-sorse finanziarie, ma anche politiche, umanee intellettuali. Dunque, un errore di sistema.Che il sistema sia più rigido e meno ricco diqualche lustro fa, e abbia perso carica inno-vativa, lo segnala anche un curioso fatto ‘in-tellettuale’: l’onnipresenza della parola «geo-politica», che fa oramai da prefisso e suffissodovunque si parli di politica estera. Oramaisiamo in presenza di una sempre più impe-riosa ‘dittatura’ della geopolitica e all’eclissi diogni categoria alternativa o anche solo com-plementare. Il termine «geopolitica» è oramaidivenuto sinonimo di «politica estera», men-tre dovrebbe esserne solo un attributo.Un’egemonia intellettuale resa più forte dalfatto che a una destra naturalmente e storica-mente incline alle categorie geopolitiche si èunita una sinistra incapace oramai di elabora-zione autonoma anche in questo campo, equindi preda di una subalternità crescente aun dibattito generato altrove. Perché un con-to è giustamente dismettere l’ideologica ostra-cizzazione della geopolitica avvenuta fino allafine della Guerra fredda, un altro è però dive-nire incapaci di contenere l’entusiasmo deineofiti e prendere la parte per il tutto.L’entusiasmo era comprensibile, visto che pro-prio un esemplare fatto geopolitico come ildramma dei Balcani e l’intervento in Koso-voè stato fondativo per la nuova politica esteradel centrosinistra. Che ha scambiato il vec-chio realismo bipolare per un nuovo realismo

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L’egemonia dellageopolitica

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«scientifico». Ma così si è prodotta una re-ductio ad unum che contribuisce a ingessare erendere asfittica la sfera del discorso pubbli-co e politico sulla politica estera. Un proble-ma serio per un Paese che vuole avere consa-pevolezza di sé, e un problema serio per queiriformatori che la volessero rafforzare.

Che la geopolitica sia categoria egemonica èevidente, basta notare la quantità di pubbli-cazioni e corsi universitari con tale titolo. Mache la crescente sinonimia e sovrapposizionetra geopolitica e politica estera non solo esistama sia anche un problema lo segnala peresempio il recente libro Geopolitica delle emo-zioni di Dominique Moïsi. Lo stesso Moïsi loscrive, infatti, per introdurre categorie più di-namiche e meno statiche di quelle della geo-politica, ma anche lui non può sfuggire all’u-so della parola sin dal titolo per poter indica-re che si tratta di politica estera e non di psi-cologia clinica, anche se ammette che «il tito-lo stesso del libro sembrerà a molti critici unamera provocazione se non un ossimoro» per-ché «la geopolitica non è forse imperniata sul-la razionalità, sui dati oggettivi quali frontiere,risorse economiche, potenza militare e il fred-do calcolo dell’interesse?».

Tali dati analitici sono essenziali in ogni anali-si. Sempre più però si avverte con Moïsi chela loro staticità e fissità li rende insufficienti adar conto della fluidità del mondo di oggi.Fluidità innanzitutto dovuta al fatto che nelmondo post-bipolare e globalizzato è l’identi-tà il centro delle relazioni internazionali. Unaquestione che diventa fissa ed eterna se la siconsidera come un dato ipostatizzato – come

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fanno i neocon creatori della griglia dello«scontro di civiltà» – ma è invece dinamica sese ne considerano le interdipendenze.Ipostatizzati, tali freddi dati analitici diventa-no a loro modo ideologia. Del resto la geo-politica ha tanto successo forse anche perchéquella in voga oggi è anche «rappresentazio-ne»: di territori e diritti storici. A cominciaredalla sua unità di misura, uno Stato nazioneipostatizzato, avulso da interdipendenze alcontrario di quello che avviene nei processireali. Non a caso la geopolitica sembra avereun istinto antifederalista e dunque euroscet-tico. La geopolitica è così diventata negli ul-timi lustri non solo conoscenza e strumentoanalitico ma anche azione, progetto e strate-gia. Nella cui definizione intervengono atto-ri, élite e interessi nazionali e internazionali.Che però vengono ammantati di «terzietàscientifica» oggettiva perché i dati naturalidella geografia non cambierebbero. Ma se so-no le sole leggi di natura a determinare la po-litica degli Stati e i conflitti, in questo modonon solo ogni conflitto apparirà giustificato –non a caso i primi geopolitici impliciti sono gliislamisti radicali – ma anche non si capirà piùogni cambiamento e nuova variabile. Lo spa-zio della libertà ne viene compresso. Forse acausa anche di questa egemonia lo schemaconcettuale dello scontro di civiltà è risultatocosì utile e difficile da confutare. Non sarà al-lora il caso di far tornare la geopolitica nel rea-me degli strumenti analitici, spingendola piùlontano dalla politica e più vicino alla geosto-ria? Magari appaiandole anche altri strumen-ti concettuali e tenendo conto che ogni «rap-presentazione» è necessariamente parziale eogni memoria è necessariamente selettiva?

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Del resto anche il teorico geopolitico YvesLacoste scrive che «le rappresentazioni geo-politiche non appartengono inizialmente auno Stato o a un popolo, ma a personaggi epiccoli gruppi che le hanno formulate o in-ventate»: come accadde nella ex Jugoslavia eforse sta accadendo in Italia con la Padania ela Lega.L’assolutizzazione della geopolitica e il suopassaggio da strumento analitico ad azione eprogetto, e da attributo a sostantivo, è un’o-perazione che propugna l’ideologia della«non ideologia» in modo del tutto simile aquello che avvenne con l’ultimo e fallito libe-rismo finanziario. Ma così la geopolitica di-venta un altro muro tra i popoli e tra le ana-lisi. Se vogliamo che torni a essere un pontedobbiamo restituirla all’ambito strumentalee pluralista dell’analisi politica. !

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È opinione diffusa che il capitalismo abbia trionfato sul socialismo.Ma si tratta di una interpretazione della contemporaneità sostan-zialmente fuorviante, perché, in realtà, il trionfo è dovuto in largamisura alla democrazia piuttosto che alla economia di mercato.Qualora il capitalismo, trascendendo la politica, diventasse un si-stema ‘totalitario’, come di fatto sta avvenendo negli ultimi diecianni con le ricorrenti crisi finanziario-sistemiche, rischierebbe dicrollare a sua volta, in quanto in nessun ciclo della nostra storia re-cente – eccezion fatta per il periodo degli anni Trenta – le disfun-zioni dell’economia provocate dal capitalismo globale sono statetanto gravi quanto lo sono oggi: disoccupazione crescente, cresci-ta esponenziale dell’illegalità e povertà nei Paesi sviluppati, miseriainsostenibile in molti Paesi in via di sviluppo, incremento delle disuguaglianze di reddito pro capite tra i Paesi. Il capitalismo globale sta di fatto provocando un’alterazione pro-fonda degli equilibri internazionali con effetti devastanti sulla so-stanza stessa della democrazia.È doveroso precisare che ogni sistema economico non può aspi-rare a rappresentare immediatamente – direttamente il sistemapolitico; l’economia di mercato non può esprimere, senza me-

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I RIFORMISTI NELLA CRISI ATTUALE / 2 Elio Matassi Note filosofiche sull’impotenza della politica

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diazione e controlli, un principio di democrazia e che, pertanto,entro quest’ottica peculiare, possono sussistere solo sistemi ‘spu-ri’. Esistono ‘democrazie di mercato’ ma non ‘economie di mer-cato’. Si tratta di una differenza rilevante che tiene nel debitoconto i due contrapposti poli di riferimento che governano o chedovrebbero governare la totalità sociale. Da un lato, il mercato esprime una vocazione individualistica; dal-l’altro, la democrazia, costruita sul principio del suffragio universa-le, esprime quella opposta. Una contraddizione che era stata per-cepita fin dalle origini dalla teoria politica della Grecia antica.Soltanto la ricerca di un equilibrio tra queste due vocazioni con-trapposte potrà continuare a far vivere degnamente la democrazia.Qualsiasi lacerazione di tale equilibrio non può che risultare deva-stante per la costruzione di un autentico assetto democratico.All’interno di tale campo di tensione, tuttavia, deve rimanerefermo quale quadro di riferimento valoriale la priorità della de-mocrazia sull’economia di mercato, in altri termini, il principioeconomico dovrà essere subordinato alla democrazia e non vi-ceversa. La democrazia non può, infatti, essere considerata allastregua di un semplice sistema politico, rappresentando anche esoprattutto un sistema di valori, mentre l’economia di mercato èsemplicemente uno strumento che può risultare compatibilecon essa ma che, estremizzandosi, potrà diventare anche incom-patibile, come stanno dimostrando gli eventi degli ultimi anni. Un tale quadro analitico, per quanto elementare, consente di ri-mettere in discussione due questioni strettamente interconnessee molto dibattute nella contemporaneità: l’economia di mercatoe la globalizzazione, dove la prima è il motore della seconda. La storia degli ultimi trent’anni può essere ricostruita in manie-ra plausibile con una suggestiva allegoria di Jean-Paul Fitoussi,politologo ed economista che insegna all’Institut d’études politi-ques di Parigi, di cui presiede il Consiglio scientifico:

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Alla vigilia della globalizzazione, le popolazioni europee si riuni-scono in una stanza; al suo interno si colgono differenze di ric-chezza, di reddito e di classi sociali; ma quali che siano le difficol-

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L’allegoria di Fitoussi rappresenta compiutamente il program-ma-progetto politico dell’attuale blocco neopopulista, che go-verna il nostro Paese, un programma-progetto inaccettabile pro-prio sul piano della democrazia stessa. Si tratta di un’allegoriamolto efficace che fa apparire la globalizzazione per ciò che essaè realmente: un alibi, un discorso puramente retorico. I vincito-ri, sapendo che i dadi del destino sono caduti a loro favore, nonvogliono più partecipare al sistema di protezione sociale. Si trat-ta della stessa situazione in cui l’Europa e il mondo intero sem-brano essere caduti in una deriva senza ritorno. In Italia questi tratti comuni si presentano ancor più radicalizzati:il duplice trionfo dell’individualismo e del mercato privo di rego-le finisce con il limitare le ambizioni redistributive della società (laresistenza del contribuente) e quelle interventiste del governo.La tutela fine a se stessa del mercato, l’inasprimento degli obblighiimposti ai governi nazionali, la riduzione progressiva delle pretese

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tà della vita quotidiana, ciascuno è socialmente integrato, ciascu-no possiede un impiego e prevede un aumento del proprio reddi-to lungo il corso della sua esistenza; ciascuno, infine, è certo che ipropri figli avranno un futuro migliore. Nell’arco di una sola not-te, ecco la globalizzazione. Il giorno dopo, le stesse persone – esat-tamente le stesse – si ritrovano nella medesima stanza; alcune, in unnumero esiguo, si sono considerevolmente arricchite; altre, un nu-mero più elevato, hanno guadagnato molta sicurezza, sono più scal-tre perché hanno applicato il dogma che i primi hanno loro ordina-to di predicare: «Non ci sono alternative». Una parte non trascura-bile della classe media ha perduto molto e piange per il proprio av-venire e per i propri figli. Una minoranza consistente è disoccupatao ridotta in povertà. Allora i vincitori dicono ai vinti: «Siamo since-ramente desolati della sorte che vi è toccata, ma le leggi della globa-lizzazione sono spietate, e bisogna che vi adattiate rinunciando alleprotezioni che vi restano. Se volete che l’economia europea conti-nui a crescere, è necessario che accettiate una precarietà maggiore.Questo è il contratto sociale del futuro, quello che ci farà ritrovarela strada del dinamismo».

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redistributive dei governi sono tutti aspetti che stanno modifican-do in profondità ‘il sistema di equità’ delle nostre società median-te il ritorno a un principio ultraliberista che entra in collisione conla stessa democrazia, indebolendone struttura e finalità. Il processo di globalizzazione, concepito nella sua irreversibili-tà priva di regole, rovescia quel principio di equità su cui era sta-ta finora fondata la democrazia: prima, la democrazia e, solo insecondo luogo, il mercato; in questo caso vi è un autentico ro-vesciamento prospettico che accresce il ruolo del mercato, svi-lendo quello della democrazia, un fenomeno che attraversa or-mai in profondità l’Europa e che coinvolge in maniera partico-lare la situazione del nostro Paese, un fenomeno che ricade sot-to la formula, ‘impotenza della politica’, descrivendo compiu-tamente in tutta la sua regressività la presunta stagione politicadel blocco neopopulista. Il mutamento radicale del principio diequità non deriva, infatti, da una decisione politica ma da unacostrizione esterna imposta alla democrazia in nome di un’effi-cacia solo presunta. In tal modo l’attuale blocco neopopulista,oggi al potere, rovescia il principio-sistema di equità, collocan-do al primo posto il mercato e solo, al secondo, la democrazia.Sembra ormai scontata l’equazione: se la globalizzazione gene-ra vincitori e vinti, non si ha altra scelta se non quella di pre-miare i vincitori con un ulteriore sovrappiù, un premio supple-mentare che i perdenti devono loro. Il che dimostra in manierainequivoca come la globalizzazione, interpretata quale princi-pio trascendentale di organizzazione, entri in rotta di collisionecon il fondamento stesso della democrazia.Questa diagnosi cerca di entrare nel merito di quello che sta ac-cadendo nel nostro sistema economico e delle risposte o, meglio,non-risposte che l’attuale blocco neopopulista sta proponendo.La distruzione ormai sistematica con cui si sta legiferando con-tro il pubblico – università, scuola, magistratura – è ormai giun-ta a un punto di non ritorno; di contro, il crescente tasso di eva-sione fiscale che pesa sul nostro Paese e che si aggrava giornodopo giorno in maniera esponenziale, lungi dall’essere colpito eridimensionato, viene addirittura incoraggiato. La politica eco-

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nomica del blocco neopopulista, per arrestare questa emorragiae creare nuovo dinamismo, ha scelto come soluzione quella diabbassare le imposte pagate sui redditi elevati, rafforzando ul-teriormente le disuguaglianze e distruggendo in maniera defi-nitiva l’idea stessa della democrazia. È indispensabile rimuovere il discorso retorico di legittimazionedi un capitalismo liberista e dominante che considera democra-zia e politica come ostacoli per lo sviluppo, in netta contrappo-sizione con i fatti. Quest’ideologia, più mercantilistica che nonglobale, ha ormai pervaso nel profondo le linee-guida dell’azio-ne politica nostrana.Il blocco neopopulista, al cui interno cominciano a verificarsi leprime crepe, sta di fatto minando progressivamente la demo-crazia; stiamo entrando progressivamente in una forma di de-mocrazia sempre più autoritaria o, meglio ancora, come sugge-risce qualcuno, in una fase caratterizzabile dalla formula, tut-t’altro che paradossale, ‘democrazia senza democrazia’. Fanno pertanto sorridere dichiarazioni come quelle argomen-tate da Francis Fukuyama sulla democrazia liberale:

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La democrazia liberale potrebbe, a lungo andare, venire sovvertitainternamente sia da un eccesso di megalotimia che da un eccesso diisotimia, cioè dal desiderio fanatico di un riconoscimento paritario.A mio parere sarà la prima che alla fine costituirà la maggiore mi-naccia per la democrazia. Una civiltà che indulge ad un’isotimiasfrenata, che cerca fanaticamente di eliminare ogni manifestazionedi riconoscimento ineguale, si troverà ben presto a fare i conti con ilimiti imposti dalla natura stessa.

L’esaltazione conseguente dell’attività imprenditoriale, «una for-ma regolata e sublimata di megalotimia», in quanto spinge unproduttore a far meglio dei suoi rivali-competitori, contestualiz-zata in un ambito psicologico-individuale non riesce a restituirequello che sta accadendo realmente nella contemporaneità; sitratta di un’analisi, molto ‘datata’ che non approfondisce il ver-

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sante del supercapitalismo finanziario, della sua onnipotenza,della sua capacità onnivora di impadronirsi dei mercati e di sna-turarne il normale svolgimento. Quando Francis Fukuyama af-ferma:

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Il fatto che le nature più dotate ambiziose tendano a darsiagli affari anziché alla vita politica e alle carriere militari, uni-versitarie o ecclesiastiche fa parte del progetto stesso dei pae-si capitalistici democratici come gli Stati Uniti,

non riesce a rendersi conto che è venuto il momento di una pau-sa di riflessione e che il progetto di un’attività imprenditoriale fi-ne a se stessa, incontrollata, è un progetto che può condurre, co-me di fatto sta avvenendo dinnanzi ai nostri occhi, non allo svi-luppo ma alla graduale consunzione della democrazia. !

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La Relazione sul federalismo fiscale del Governo alle Camere* sipresta, come spesso accade, a una duplice possibilità di letturache consenta di isolare una serie di indicazioni utili sul pianometodologico dall’insopportabile torsione propagandistica, chele accompagna, determinando l’uso distorto di alcuni tra i datiquantitativi e rischiando di occultare anche gli aspetti positivisui quali sarà necessario lavorare.Non ci può esser dissenso sull’indicazione della fondamentaledistorsione del sistema istituzionale italiano: il disaccoppiamen-to tra poteri di spesa e poteri di imposizione che ha origine nel-la riforma fiscale degli anni Settanta del secolo scorso, quandoalla prima operatività delle Regioni ordinarie e al conferimentodi maggiori poteri agli Enti Locali si accompagnò la centraliz-zazione del prelievo (il gettito dell’unica imposta locale, l’Ilor, furapidamente acquisito dallo Stato che lo commutò in trasferi-menti a carico del suo bilancio). La ipotesi di riunificare le duefunzioni (spesa e prelievo) costituisce la principale scommessa

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I RIFORMISTI NELLA CRISI ATTUALE / 3Giorgio Macciotta Propaganda e realtà

del federalismo

* Relazione sul federalismo fiscale del Governo alle Camere in ottemperanzaalla disposizione dell'art. 2, comma 6, della legge 5 maggio 2009, n. 42(“Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'art.119 della Costituzione”).

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di chi ritiene che dall’attuazione del Titolo V della II parte del-la Costituzione (e in particolare dalla «autonomia di entrata e dispesa» prevista dall’articolo 119 della Costituzione) e dalla pos-sibilità di sanzionare (attraverso il voto) sprechi nella spesa edeccessi nel prelievo possa derivare una maggiore efficienza del-la complessa macchina amministrativa pubblica.Meno convincente è, invece, l’analisi dell’evoluzione del feno-meno. Il primo ventennio dell’esperienza regionalistica si conclu-de, nei primi anni Novanta, con un’autonomia tributaria dei li-velli di governo sub statuali inferiore ai 5 punti percentuali.Comincia, poi, un lento processo che, a partire dall’Ici, dalle ad-dizionali Irpef, e dall’Irap (senza menzionare le compartecipa-zioni Irpef e Iva, che, per le modalità della loro distribuzione era-no in continuità con il vecchio regime dei trasferimenti), com-porta, sul finire di quel decennio, entrate tributarie il cui gettitoforniva entrate, nella media nazionale, pari a circa il 30% dellespese iscritte a bilancio.Quel processo si inverte con l’inizio del nuovo secolo (e con i pri-mi prolungati governi di centrodestra). Dai ripetuti interventi diriduzione dell’Irap, al blocco di ogni manovra delle addizionaliIrpef, alla soppressione totale dell’Ici sulla prima casa, si deter-mina un processo che non solo riduce fortemente le entrate tri-butarie complessive dei livelli di governo regionali e locali, mamuta anche qualitativamente il ruolo di alcuni di tali tributi. Suquesto aspetto tornerò, in relazione alle ipotesi, contenute nellaRelazione circa il nuovo regime della tassazione comunale.Anche una seconda critica contenuta nella Relazione è larga-mente condivisibile. Il fenomeno che porta Regioni, Province eComuni a esternalizzare molte loro funzioni e a costituire, perla loro gestione, un reticolo di società di diritto privato è già sta-to denunciato dalla Corte dei Conti per la opacità che esso de-termina, per via dei discutibili criteri di consolidamento, nei co-sti complessivi delle funzioni pubbliche, quale che sia il regimegiuridico dei soggetti erogatori finali del servizio. La Corte deiConti ha anche di recente denunciato come il capitale di tali so-cietà sia spesso interamente in possesso di una Regione o di un

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Ente Locale e come tale «societarizzazione» abbia dato luogo anomine di amministratori con rilevanti responsabilità senza lerigorose regole di selezione che sarebbero state richieste per laselezione di pubblici dipendenti di pari funzioni.C’è però da interrogarsi se la motivazione di tali scelte sia solo de-terminata dalla ‘resistibile’ pulsione al clientelismo dei livelli localidi Governo (fenomeno che, peraltro, non è esclusivo delle am-ministrazioni locali) o se essa non sia da ricercarsi, almeno in par-te, nelle regole ‘occhiute’ che i Governi, a parole più federalisti,hanno dettato, non per impedire disavanzi al di fuori delle rego-le europee ma per limitare fortemente (sino ad eliminarla) l’au-tonomia di «entrata e di spesa» garantita dalla Costituzione (ve-di, ad esempio, i decreti legge 112/2008 e 78/2010).E tale controllo si è esercitato non solo con le disposizioni cen-trali sulle regole di bilancio, ma anche con l’esplosione della spe-sa degli uffici di supporto delle funzioni centrali di Governo cheè cresciuta, nel corso degli ultimi dieci anni a ritmi doppi rispet-to a quelli del Pil nominale (e più di quella degli analoghi ufficiregionali e locali, nonostante le accresciute competenze funzio-nali di tali livelli periferici di governo).Ci sono nella Relazione (e negli Allegati) numerosi esempi disprechi e distorsioni derivanti dai perversi canali di finanzia-mento: dalle regole opache di contabilità (sino all’assenza, inqualche caso, di credibili documenti contabili) agli intollerabilisprechi nel campo della sanità (dai differenziali nella spesa me-dia pro capite per farmaci a quella per l’acquisto di macchine odiagnostici), assai rilevante sia per il forte impatto sociale sia peril peso sulla spesa complessiva. Ma su due tra gli sprechi citati forse la spiegazione assunta nel-la relazione è un po’ troppo semplicistica. In primo luogo per quanto riguarda l’uso delle risorse comunita-rie, se è fondata la critica sulla loro utilizzazione limitata nella quan-tità e scadente nella qualità (difetto anche di molte amministrazio-ni centrali), occorre interrogarsi se tale cattiva programmazionenon dipenda da una più complessiva scelta del Governo centraledi escludere i Governi regionali e locali dalla definizione degli

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obiettivi di politica economica della Repubblica (come dimostra-no anche alcune correzioni alla legge 42/2009 dalla nuova legge dicontabilità, legge 196/2009), assecondando una loro tendenza aporsi come soggetti che «chiedono» più che come «codecisori» dìcomuni politiche. In questa prospettiva il blocco sulla program-mazione dei fondi Fas (rispetto ai quali le risorse europee dovreb-bero essere aggiuntive) ha fornito non pochi alibi. Non si trattavadi assecondare programmi sbagliati delle Regioni, ma di sostituireal silenzio/rifiuto una serrata contestazione sul merito.Ancor meno convincente è l’uso della tabella relativa alla dinami-ca sorprendente delle pensioni di invalidità «rispetto alla quale ilruolo non positivo delle Regioni è stato non marginale». La cre-scita delle pensioni (e delle indennità di accompagnamento) tra il2003 (quando la decisione passa a commissioni presso le Asl) e il2008 è abnorme. La spesa relativa è passata da 6 a 16 miliardi.«Escluso» si dice «che in così breve periodo di tempo ci sia statain Italia una mutazione strutturale sociale così forte, nella formadella proliferazione su vasta scala di patologie invalidanti, è evi-dente che la causa del fenomeno è stata una causa politica».Nella utilizzazione dei dati si è in particolare sottolineata la quotaabnorme, rispetto al totale della popolazione, delle pensioni in al-cune regioni del Mezzogiorno. Che il problema meriti di essereesaminato analiticamente (con una rigorosa verifica delle condi-zioni di reale invalidità e non con un improprio innalzamento del-le percentuali, come si è incautamente proposto nel Dl 78/2010)non è discutibile. Forse occorrerebbe approfondire maggior-mente la struttura demografica delle diverse regioni e la qualitàe quantità dei servizi sociali nei diversi territori. Ma, soprattutto,se si vuole sottolineare il mancato controllo e il ruolo negativo del-le Regioni la denuncia sarebbe stata più efficace se si fosse preci-sato che la dinamica delle due macroaree del Paese è sostanzial-mente simile (il numero delle pensioni cresce del 49,07% nelCentro Nord e del 50,68% nel Sud), che la crescita nel Veneto(+54,19%) supera di quasi 5 punti quella media nazionale(49,77%), che la crescita in Lombardia (45,93%) supera larga-mente quella della Basilicata (41,2%), della Sardegna (40,77%),

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dell’Abruzzo (37,26%), della Sicilia (34,78%).La seconda parte della relazione è dedicata alla formulazione dialcune ipotesi metodologiche per la costruzione di una concre-ta «autonomia di entrata e di spesa». Il processo sin qui realizzato ha comportato un primo, positivo,lavoro, ancora in corso, per definire metodologie di armonizza-zione dei bilanci e per la identificazione delle voci del bilanciodello Stato che alimentano i trasferimenti ai livelli regionali e lo-cali di governo. Si tratta di un lavoro che richiede ancora un qual-che affinamento (e che richiede, soprattutto, un trasparente con-fronto interistituzionale) ma che appare, a un primo esame, cor-rettamente impostato sul terreno metodologico. Si formulanopoi alcune ipotesi, non del tutto chiare, sulla metodologia peridentificare i costi e i fabbisogni standard (in particolare non sicomprende perché la società incaricata di costruire i valori signi-ficativi per quanto riguarda gli studi di settore non debba esserepiù utilmente impegnata a ricostruire il gettito potenziale di cia-scun territorio, sulla base della sua struttura economico sociale) esi procede poi alla analisi delle possibili modalità del finanzia-mento partendo da una condivisibile critica all’attuale sistema dialimentazione dei bilanci regionali e locali fondato su «ben 45fonti di gettito, stratificate e frammiste a zone grigie di parafisca-lità che alimentano enormi contenziosi, senza garantire la effetti-va tracciabilità dei tributi che è condizione indispensabile per at-tivare la trasparenza nei confronti degli elettori».L’ipotesi, condivisibile, è quella del superamento di un simile si-stema attraverso una più trasparente concentrazione delle capa-cità impositive su un limitato numero di tributi che conferiscanoai poteri locali una maggiore capacità di manovra e, insieme, con-sentano ai cittadini una maggiore capacità di controllo sul rap-porto tra prelievo e qualità e quantità della spesa locale.Se l’impostazione è condivisibile, le prime indicazioni concretedeterminano non poche perplessità anche, per limitarci a un so-lo esempio, nel caso più concretamente indicato (e, apparente-mente, convincente), relativo alla finanza comunale.La sostituzione della gran parte dei tributi attuali con un consi-

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stente potere impositivo sugli immobili si presta a non pocheobiezioni. In primo luogo, come è già stato notato, la sostituzio-ne dell’attuale Ici, dell’Irpef sulle seconde case, e delle altre for-me di imposizione erariale sugli immobili con una cedolare sec-ca a un’aliquota del 20% avrebbe non banali (e perversi) effettiredistributivi: essa premierebbe i contribuenti con maggior red-dito (sostituendo un’aliquota marginale tendenzialmente del43% con una del 20%).Ma al di là di questo c’è una critica più di fondo circa la possi-bilità che, dopo la soppressione dell’Ici e dell’Irpef sulla primacasa (confermata dalla Relazione secondo la quale «sarebbe co-munque esclusa la prima casa, destinata a restare esente dal tri-buto»), un’imposizione sugli immobili garantisca, all’universodei Comuni, un complesso equilibrato di entrate. Quale gettitopuò fornire, fuori dalle città medio grandi e dai comuni turisti-ci, il prelievo sulle sole seconde case?Sono temi sui quali si potrà tornare quando dalle esemplifica-zioni si comincerà a delineare un più compiuto progetto. !

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«Federalismo o secessione»ammonì l’anfitrionenella piana di Pontidasuscitando vaste gridatra i leghisti d’ogni foggianon coperti dalla pioggia.Chi era quel genio minacciosocol sorriso più che gioiosocon il vento tra i capelli?Non va dubbio, era Castelliche per due volte fu ministroin un ruolo per lui sinistrodella Giustizia a far la balianel nome orribile di Italiacon la sede a via Arenulae la voce mai tremula.All’Europa dichiarò guerranel nome sacro della sua terraper dire no alla catturadi chi esercita la brutturadi xenofobia e di razzismocon la bandiera del leghismo.Siccome è meccanico ingegnereper un ventennio senza piegheprese i soldi del losco Parlamentoe con essi il legittimo impedimentoper due volte fu salvatodalla chiamata ad esser giudicatoe pensò d’alzar la voceproponendo che la Crocefosse messa con furorenell’odiato tricoloreliquidando in un momentol’aborrito Risorgimentoe insieme a lui quel Mamelicol suo inno senza veli.Ispirato da padan patriottismolanciò l’orribile sillogismo:

IL FIL

ODI E

NZO

Il Castelli innamoratodella secessione ma a Lecco è scivolato a terra

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«Chi non salta con meitaliano è».Ha lavorato da mane a seraper rafforzar la sua carrierama l’ha punito la sua cittàa Lecco voleva far il podestàma la gente a quella vistafece vincere il centrosinistra.

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Così la Lettera degli economisti*, firmata da oltre duecento tradocenti e ricercatori di Università o di Enti di ricerca nazionali edesteri e inviata alle principali autorità dello Stato, del Governo edel Parlamento, pone finalmente in discussione i dogmi dell’og-gettività e dell’inevitabilità delle politiche economiche attuate daigoverni europei per affrontare i problemi posti dalla gravissimacrisi economica e individua gli obiettivi politici, sociali e ideolo-gici delle strategie portate avanti dalle oligarchie politico-finan-ziarie dominanti per cogliere, appunto, l’occasione della crisi e im-porre una vera e propria, gigantesca, riorganizzazione della so-cietà fondata sul superamento definitivo del compromesso traCapitalismo e Democrazia e sul conseguimento del controllo del-le risorse finanziarie, delle istituzioni, del sistema informativo glo-bale e delle reti di produzione scientifica e culturale:

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I RIFORMISTI NELLA CRISI ATTUALE / 4Ernest Risposta alla

Lettera degli economisti

*Lettera degli economisti Ai membri del Governo e del Parlamento - Ai rap-presentanti delle forze politiche e delle parti sociali - Ai rappresentanti italia-ni presso le Istituzioni dell’Unione europea e del SEBC e per opportuna co-noscenza al Presidente della Repubblica, La politica restrittiva aggrava la crisi,alimenta la speculazione e può condurre alla deflagrazione della zona euro. Serveuna svolta di politica economica per scongiurare una caduta ulteriore dei reddi-ti e dell’occupazione, 14 giugno 2010.

È bene ... chiarire che l’ostinazione con la quale si perseguono lepolitiche depressive non è semplicemente il frutto di fraintendi-menti generati da modelli economici la cui coerenza logica e rile-

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Promotori dell’iniziativa sono stati Bruno Bosco (Università diMilano Bicocca), Emiliano Brancaccio (Università del Sannio),Roberto Ciccone (Università Roma Tre), Riccardo Realfonzo(Università del Sannio), Antonella Stirati (Università Roma Tre).La Lettera ha suscitato un significativo confronto su molti blogdella rete e sulle colonne di molti giornali e riviste, in particolare«Il Sole 24 Ore», che ha pubblicato le sdegnate repliche diAlesina-Perotti e Bisin-Boldrin e alcune controrepliche tra cui sisegnala quella di Sergio Cesaratto. Stranamente, mentre i santua-ri del «pensiero unico» neoliberista si sono subito mobilitati indi-viduando nella Lettera un obiettivo polemico, ha, invece, taciuto,salvo poche eccezioni, il campo della sinistra e del centrosinistra,preferendo, nella migliore delle ipotesi, restare sulla difensiva ecombattere la manovra economica dedicandosi spesso all’esege-si della ripetizione del nulla, oppure, come parti importanti delPd, riproponendo, purtroppo, l’illusione di un «liberismo di si-nistra» capace di far meglio della destra la sua stessa politica. LaLettera non è ovviamente perfetta e risente sicuramente dei limi-ti di una cultura che sta ancora attraversando le conseguenze de-vastanti di storiche sconfitte, ma contiene, sia in termini di anali-si che di proposte, una serie di importanti elementi positivi checonsentirebbero, ove ve ne fosse la volontà politica (e ideale...),l’apertura di un confronto per l’elaborazione di un’alternativaforte, anche in termini di prospettiva generale, alle politiche eco-nomiche e sociali dei governi europei, in particolare, a quelle por-

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vanza empirica è stata messa ormai fortemente in discussione nel-l’ambito della stessa comunità accademica. La preferenza per lacosiddetta “austerità” rappresenta anche e soprattutto l’espres-sione di interessi sociali consolidati. Vi è infatti chi vede nell’at-tuale crisi una occasione per accelerare i processi di smantella-mento dello stato sociale, di frammentazione del lavoro e di ri-strutturazione e centralizzazione dei capitali in Europa. L’idea difondo è che i capitali che usciranno vincenti dalla crisi potrannorilanciare l’accumulazione sfruttando tra l’altro una minor con-correnza sui mercati e un ulteriore indebolimento del lavoro.

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tate avanti dal governo italiano. Saper ascoltare un pezzo impor-tante delle energie intellettuali di questo Paese che si mobilitaspontaneamente per avanzare una proposta sui problemi strate-gici, dovrebbe essere l’abc per una politica esangue che rischiasempre di più di trasformarsi in una mera funzione tecnica sub-alterna al potere delle oligarchie (purtroppo anche di quelle cri-minali), ma, tant’è, si preferisce dedicarsi al chiacchericcio, all’in-vettiva, al proprio «particulare». Ilvo Diamanti ha dedicato unadelle sue Mappeal «lessico politico degli italiani» che, secondo lui,«offre due indicazioni critiche»:

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a) È in atto un confronto tra progetti e valori diversi. Conflittuale,attraversa in parte gli stessi settori e perfino le stesse persone.Divise tra voglia di privato e richiesta di pubblico, domanda – epaura – di concorrenza e merito. Stressate fra Nazione e locali-smo. Anche nel linguaggio. b) Si conferma il deficit – il vuoto – di rappresentanza politica esociale. Da cui emerge una sindrome da abbandono. Una societàpriva di padri e di maestri. Partiti, leader, chiese e sindacati. Nonsono in grado di dar loro casa né rifugio. Tanto meno un futuro.Per cui gli italiani – gran parte di essi – si affidano alle apparte-nenze – e ai miti – del territorio. L’Italia e il Nord, l’Europa, l’u-nità e il federalismo. In attesa di altri attori in grado di interpre-tarli. Di dar loro immagine, parola e significato.

Non bastano, dunque, anche se sono, ovviamente, necessarie, leprimarie, i leader più o meno nuovi e attraenti, le strategie relati-ve alle alleanze, se non si entra nel cuore delle questioni che fon-dano la credibilità di una prospettiva di cambiamento. Torniamo, dunque, alla Lettera e anche ai suoi critici. Accusati dinon voler rinunciare «all’oppio del socialismo» e, addirittura, –testuale! – di voler «restaurare l’Unione Sovietica» sui blog deipasdaran del pensiero unico, i nostri duecento economisti, inrealtà, con tono abbastanza moderato e compassato si limitanoad avanzare una serie di proposte e di riflessioni critiche analo-

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ghe a quelle di tantissimi altri. La reazione un po’ isterica che ac-coglie in Italia le loro tesi è data dal fatto che con chiarezza met-tono in discussione il paradigma secondo cui la crisi non sarebbealtro che il risultato degli allegri eccessi di spesa pubblica cheavrebbero impedito e impedirebbero un’allocazione razionaledelle risorse secondo le sacre logiche del mercato. Tale allocazio-ne, ovviamente, sarebbe l’unica soluzione per garantire una ri-presa duratura della crescita e il presupposto dell’intera opera-zione dovrebbe consistere in un taglio drastico e strutturale delletasse e dello Stato Sociale in tutte le sue articolazioni fastidiose, acominciare, ovviamente, da scuola e sanità. Basta con l’ideologiadel lavoro e dei diritti contenuta in una troppo vecchia Costitu-zione, basta con lacci e lacciuoli all’iniziativa imprenditoriale.Ovviamente, la ripresa sarebbe poi l’unico modo per garantire laripresa dei redditi individuali e, quindi, dei consumi individuali.Quelli «sociali» e «collettivi», sono considerati delle mere inven-zioni ideologiche di pericoloso stampo «neomarxista», o più, be-nevolmente, «neokeynesiane» o «monetariste».Colpisce il fatto che la spesa pubblica sia considerata improdut-tiva solo quando si occupa dei servizi ai cittadini, sicurezza in-clusa, ma diventa improvvisamente «strategica» solo se si occu-pa di ‘salvare’ le banche, di incrementare le spese militari e gliammortizzatori sociali che consentano le ristrutturazioni azien-dali, per non parlare dell’esplosione della nuova questione mo-rale alla quale stiamo assistendo quotidianamente. Ma colpisceancor di più la lontananza di queste costruzioni teoriche dallarealtà che abbiamo vissuto in questi anni. Come sottolinea laLettera, infatti,

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... si corre il serio pericolo che l’attuazione in Italia e in Europadelle cosiddette “politiche dei sacrifici” accentui ulteriormente ilprofilo della crisi, determinando una maggior velocità di crescitadella disoccupazione, delle insolvenze e della mortalità delle im-prese, e possa a un certo punto costringere alcuni Paesi membria uscire dalla Unione monetaria europea. Il punto fondamentaleda comprendere è che l’attuale instabilità della Unione monetaria

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In sostanza, l’accusa che viene rivolta alle strategie proposte dal-la Lettera di poter provocare la caduta del Paese e dell’Europaverso scenari greci o argentini è un vero e proprio rovescia-mento ideologico della realtà. Sono proprio le attuali politicheeconomiche che hanno prodotto la crisi e l’attuale destabilizza-zione. Afferma ancora la Lettera:

E di fronte alla crisi si rischia una vera e propria «deflagrazionedella zona euro» provocata da manovre speculative di caratterefinanziario. Di qui nasce la critica alle politiche restrittive portateavanti dalla Germania che, con buona pace di Alesina e Perotti,ostacolano, anziché favorire una strategia di sviluppo dell’Europain grado di fare da sponda agli Usa di Obama. La «mano magi-ca» dei mercati finanziari lungi dal collocare razionalmente le ri-sorse le ha indirizzate a dispetto delle teorie economiche domi-nanti verso bolle speculative destinate fatalmente ad esplodere.Sottolinea giustamente la Lettera come

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non rappresenta il mero frutto di trucchi contabili o di spese fa-cili. Essa in realtà costituisce l’esito di un intreccio ben più pro-fondo tra la crisi economica globale e una serie di squilibri in se-no alla zona euro, che derivano principalmente dall’insostenibileprofilo liberista del Trattato dell’Unione e dall’orientamento dipolitica economica restrittiva dei Paesi membri caratterizzati daun sistematico avanzo con l’estero.

... La crisi mondiale esplosa nel 2007-2008 è tuttora in corso. Nonessendo intervenuti sulle sue cause strutturali, da essa non siamodi fatto mai usciti ... Siamo insomma di fronte alla drammaticarealtà di un sistema economico mondiale senza una fonte prima-ria di domanda, senza una “spugna” in grado di assorbire la pro-duzione.

... sia vano sperare di contrastare la speculazione tramite meri ac-cordi di prestito in cambio dell’approvazione di politiche restrit-

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Si rischia concretamente, insomma, «una gigantesca deflazioneda debiti, paragonabile a quella degli anni Trenta». I critici dellaLettera, ovviamente, non riescono a dire nulla rispetto al fattoche, proprio com’è accaduto in Argentina e in tanti altri Paesi, ladisarticolazione dell’economia e della società in termini di de-pressione sia talmente profonda da azzerare non solo la possibi-lità di qualsiasi ripresa, ma anche quella di salvaguardare la co-esione sociale e, addirittura, nel caso dell’Italia, statuale del Paese.Si tratta, insomma, di politiche oggettivamente insostenibili de-stinate a produrre un drammatico arretramento sul piano civile,ma anche a non affrontare le cause strutturali della crisi.La Lettera propone di muoversi secondo alcune direttrici fonda-mentali:

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tive da parte dei paesi indebitati. I prestiti infatti si limitano a rin-viare i problemi senza risolverli. E le politiche di “austerità” ab-battono ulteriormente la domanda, deprimono i redditi e quindideteriorano ulteriormente la capacità di rimborso dei prestiti daparte dei debitori, pubblici e privati.

• ... l’Europa intraprenda un autonomo sentiero di sviluppo del-le forze produttive, di crescita del benessere, di salvaguardia del-l’ambiente e del territorio, di equità sociale. ...• ... proponiamo di introdurre immediatamente un argine allaspeculazione. ... Bisogna quindi che la BCE si impegni pienamen-te ad acquistare i titoli sotto attacco, rinunciando a “sterilizzare” isuoi interventi. Occorre anche istituire adeguate imposte finaliz-zate a disincentivare le transazioni finanziarie e valutarie a brevetermine ed efficaci controlli amministrativi sui movimenti di capi-tale. Se non vi fossero le condizioni per operare in concerto, saràmolto meglio intervenire subito in questa direzione a livello na-zionale, con gli strumenti disponibili, piuttosto che muoversi in ri-tardo o non agire affatto. ...• ... bisogna imporre un pavimento al tracollo del monte salari,tramite un rafforzamento dei contratti nazionali, minimi salariali,vincoli ai licenziamenti e nuove norme generali a tutela del lavo-ro e dei processi di sindacalizzazione. ...

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• ... In coordinamento con la politica monetaria, occorre solleci-tare i Paesi in avanzo commerciale, in particolare la Germania, adattuare opportune manovre di espansione della domanda al finedi avviare un processo di riequilibrio virtuoso e non deflazionisti-co dei conti con l’estero dei Paesi membri dell’Unione monetariaeuropea. ...• ... Bisogna istituire un sistema di fiscalità progressiva coordina-to a livello europeo, che contribuisca a invertire la tendenza allasperequazione sociale e territoriale che ha contribuito a scatenarela crisi. Occorre uno spostamento dei carichi fiscali dal lavoro aiguadagni di capitale e alle rendite, dai redditi ai patrimoni, daicontribuenti con ritenuta alla fonte agli evasori, dalle aree poverealle aree ricche dell’Unione. ...• ... Bisogna ampliare significativamente il bilancio federaledell’Unione e rendere possibile la emissione di titoli pubblici eu-ropei. ...• ... Si deve puntare a coordinare la politica fiscale e la politica mo-netaria europea al fine di predisporre un piano di sviluppo fina-lizzato alla piena occupazione e al riequilibrio territoriale non so-lo delle capacità di spesa, ma anche delle capacità produttive inEuropa. Il piano deve seguire una logica diversa da quella, spessoinefficiente e assistenziale, che ha governato i fondi europei di svi-luppo. Esso deve fondarsi in primo luogo sulla produzione pub-blica di beni collettivi, dal finanziamento delle infrastrutture pub-bliche di ricerca per contrastare i monopoli della proprietà intel-lettuale, alla salvaguardia dell’ambiente, alla pianificazione del ter-ritorio, alla mobilità sostenibile, alla cura delle persone. ...• ... Si deve disciplinare e restringere l’accesso del piccolo rispar-mio e delle risorse previdenziali dei lavoratori al mercato finan-ziario ... • ... Si deve ripristinare il principio di separazione tra banche dicredito ordinario, che prestano a breve, e società finanziarie cheoperano sul medio-lungo termine. ...• ... Contro eventuali strategie di dumping e di “esportazione del-la recessione” da parte di paesi extra-Ume, bisogna contemplareun sistema di apertura condizionata dei mercati, dei capitali e del-le merci. L’apertura può essere piena solo se si attuano politicheconvergenti di miglioramento degli standard del lavoro e dei sa-lari, e politiche di sviluppo coordinate. ...

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Non c’è dubbio che queste proposte possano apparire vere eproprie bestemmie per i neoliberisti, fondate per di più, dal lo-ro occhiuto punto di vista, sulla riprosizione anche a livello teo-rico del valore economico di eguaglianza, solidarietà e diritti edel nesso democrazia/sviluppo economico e civile. La Letterasottopone, inoltre, a una critica vigorosa anche alcuni dei falsimiti su cui si sono basate molte delle politiche economiche diquesti anni, dalla promessa di finanziare il risanamento del de-ficit mediante le privatizzazioni, alla connessione automaticache esisterebbe tra tagli alla spesa pubblica (e fiscali) e rilanciodello sviluppo e della crescita. In realtà, dunque, la salva di can-nonate «a palle incatenate», che ha accolto la Lettera sta cer-cando di stoppare alla radice quasiasi possibile riflessione criti-ca sull’esito fallimentare e per certi versi drammatico delle poli-tiche neoliberiste nel governare i processi di globalizzazione. Ilconfronto su come uscire dalla crisi può rappresentare unagrande occasione anche per l’Europa, per la sinistra e il centro-sinistra. È vero, come dice la Lettera, che

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è in atto il più violento e decisivo attacco all’Europa come sog-getto politico e agli ultimi bastioni dello Stato sociale in Europa.Ora più che mai, dunque, l’europeismo per sopravvivere e rilan-ciarsi dovrebbe caricarsi di senso, di concrete opportunità di svi-luppo coordinato, economico, sociale e civile.

Ma allora, forse, se per fare i conti fino in fondo con la crisi, oc-corre un nuovo europeismo, allora, nel continuare a rispondereal fuoco dei neoliberisti, occorre anche saper affrontare con co-raggio i pesanti limiti della nostra cultura, limiti che, peraltro, so-no stati ben evidenziati nelle diverse esperienze di governo a li-vello europeo, nazionale e locale del centrosinistra. La Lettera –capace, comunque, di mettere finalmente in discussione il nefa-sto paradigma della politica dei «due tempi», prima il risana-mento e poi lo sviluppo – è ancora ben dentro quei limiti e nonpoteva essere altrimenti anche se contiene indicazioni program-matiche preziose, e uno sforzo teorico di notevole valore.

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Nell’ambito della giusta critica alla litania del ‘riformismo’ tec-nocratico, «senza popolo e senza riforme», subalterno al capita-lismo neoliberista, fa capolino l’idea di rilanciare, magari, su sca-la europea, una vecchia impostazione di carattere protezionistae «neostatalista». È necessario, invece, che la nuova Europa ipo-tizzata si batta per il rilancio di istituzioni internazionali demo-cratizzare e rafforzate adeguate ad un governo multipolare deiproblemi globali. Occorre saper distinguere tra la giusta criticaalle privatizzazioni, in particolare quelle che mettono in perico-lo i beni comuni e i diritti fondamentali alla salute e all’istruzio-ne, e, invece, la necessità di combattere gli egoismi corporativi.E se la sostenibilità del Welfare è un problema stutturale che nonpuò essere affrontato in termini di meri equilibri economici, è purvero che deve essere rinnovato il concetto di pubblico attraversol’idea comunitaria di una società in grado di promuovere nuoveforme di cooperazione, gestione e autogestione. Così come la sa-crosanta indicazione di una nuova espansione delle tutele dei di-ritti e della dignità del lavoro ha certamente anche un grande va-lore economico, ma deve fare i conti fino in fondo con la realtàattuale del mercato e dell’organizzazione del lavoro e dello sfrut-tamento. L’attuale divisione internazionale del lavoro costringepoi a ridefinire, oltre agli obiettivi economici quantitativi anchequelli qualitativi. La crescita deve poter essere trainata da grandiobiettivi di sviluppo sociale e civile come indica giustamente laLettera, ma, allora, occorre porsi il problema di una riconversio-ne complessiva del sistema produttivo e del suo funzionamento.La prospettiva, dunque, come ha scritto Ruffolo, è quella epoca-le di un capitalismo dai secoli contati e, quindi, di un nuovo gran-de compromesso tra capitalismo e democrazia capace di imbri-gliare nuovamente le forze distruttive del mercato e di promuo-vere quel nuovo umanesimo socialista di cui ha bisogno la civiltàumana. Anche perché, come ha scritto Loretta Napoleoni: «C’èspazio quindi per la crescita economica, ma per averla bisognache la torta venga divisa più equamente, le briciole non bastanopiù. Se non lo facciamo, nessuno mangerà più: l’ha predetto duesecoli fa Carlo Marx». !

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«La Riforma Gelmini», così ci si esprimeabitualmente per definire l’insieme di prov-vedimenti, che dall’agosto 2008 si sono ab-battuti sulla scuola italiana. Ma siamo dav-vero di fronte a una Riforma? E se sì con checaratteri?Naturalmente è tutt’altro che semplice dareuna risposta prescindendo dal contesto at-tuale di scontro, mentre cioè è in corso unacosì pesante operazione di ridimensiona-mento di personale e di risorse per il fun-zionamento: 8 miliardi di euro nel triennio2009/2011 cui si aggiungono i blocchi deibenefici contrattuali previsti dalla manovraanticrisi. Chi si oppone a questi tagli lineariche prescindono da qualsiasi valutazione dimerito, chi ricorda che proprio perché c’è lacrisi il Paese dovrebbe investire in formazio-ne come stanno facendo gli altri grandi Paesieuropei a fronte di manovre più pesanti del-la nostra, si sente accusare di conservatori-smo, di difesa corporativa di una categoriadi assistiti.Dare una risposta che sfugga alla semplifi-cazione del «non è una riforma, sono solotagli per risparmiare», non è facile, perchél’intreccio tra i due piani è evidente.Proviamo allora a partire da un altro quesi-to, in qualche misura preliminare: ma c’erabisogno di una riforma? Sicuramente sì. Ciha provato il centrosinistra con il progettodi Luigi Berlinguer, e l’autocritica non saràmai sufficiente a giustificare il fatto che nonfu portata fino in fondo quella riforma dicui solo ora sembra emergere la portata in-novativa e la modernità, la cui abrogazionea opera della Moratti nel 2001 ha fatto per-dere alla scuola italiana dieci anni. Ci haprovato poi la Moratti, con un progetto di

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Parliamo di scuola.Ma che riforma èquesta?

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segno diverso, ma anch’esso interrotto finoal compimento attuale a opera di questo go-verno. Necessità suffragata da due fonda-mentali ragioni: • il basso livello di preparazione raggiuntadai nostri ragazzi, certificata anno dopo an-no, impietosamente, dai dati Ocse-Pisa; • la fine del ruolo della scuola come «ascen-sore sociale», come indispensabile strumen-to per la garanzia di pari opportunità, se-condo Costituzione. Sorvoliamo sul fatto che i dati Ocse salvanosolo la Scuola dell’Infanzia (una delle miglio-ri al mondo) e la primaria, non a caso le più«riformate», mentre quest’ultima è stata laprima a essere investita da cambiamenti e ta-gli di organico, per arrivare al punto dellaqualità della formazione dei nostri ragazzi dai12 anni in poi, tema cruciale. La risposta da-ta dalla Gelmini è semplice: troppi insegnan-ti per giustificare i quali troppi insegnamenti,troppo tempo scuola, troppi indirizzi, troppolassismo (i famosi danni del Sessan-totto). Laricetta: semplificare, abbreviare, selezionare evalutare con severità.«Ritornare», questa è una parola molto usa-ta dal ministro nei suoi messaggi lanciati alPaese per dare un senso all’insieme di prov-vedimenti che chiamiamo riforma: il grem-biulino, il 5 in condotta che fa media, l’unicainsufficienza che preclude l’accesso alla ma-turità (norma poi affidata al buon senso de-gli insegnanti!), il maestro unico, l’abbassa-mento dell’obbligo scolastico, la scelta pre-coce tra liceo e formazione professionale. Uninsieme di messaggi, all’insegna del ritornoagli anni Cinquanta, appena camuffato daqualche riferimento all’informatica o all’in-glese. Quando Berlusconi dice: «La nostra è

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la più grande riforma dopo quella Gentile»,non si tratta solo della solita trombonata pro-pagandistica, ma di un accostamento indiret-to di principi e valori. Non credo sia questa la strada che può crea-re condizioni diverse rispetto alle due ragionidi fondo prima indicate. Si osserva che anchel’opposizione, dopo il tentativo di Berlinguer,non abbia un progetto organico, al di là di al-cuni interessanti spunti, che lo rivisiti davveroalla luce dei tempi. Dopo quindici anni, qualè l’effettiva situazione della scuola italiana?Ci prova a descriverla Andrea Gavosto e ilgruppo di ricercatori della FondazioneAgnelli nel Rapporto sulla scuola in Italia2010 (Laterza).Efficienza, efficacia, economicità, equità i para-mentri considerati. Emerge un quadro piùcomplesso e problematico di quanto non ap-paia dalle medie dei dati Ocse. In un Paesedisomogeneo, una scuola fortemente disomo-genea, fatta di eccellenze e di situazioni da ter-zo mondo, di divari diversità. Insomma unascuola che registra e rafforza le iniquità, inve-ce di contrastarle. Ecco questo credo sia il ter-reno su cui cimentarsi per il Pd e per le forzedi sinistra, il bandolo da cui ripartire anchenell’affrontare quel «federalismo scolastico»già nell’agenda politica. !

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La grande crisi, esplosa con il fallimento della Lehman-Brothers,alla maniera di un vorticoso processo di combustione, è giuntaal terzo atto: dagli iniziali piani di salvataggio delle banche, ai pia-ni di stimolo fiscale, agli attuali piani di austerità. Il processo dicombustione procede secondo le linee di faglia interne alle sin-gole economie e ha raggiunto ormai direttamente le condizioniconcretissime di lavoro e di vita. Pomigliano docet, anche in ter-mini simbolici. Il rischio politico che si corre come Sinistra, senon si appronta una sistematica narrazione della crisi, è quello difinire prigionieri delle sue singole fasi. La crisi, infatti, nel suoconcreto procedere, porta a concentrare la luce dei riflettori sul-la ultima linea raggiunta dal fuoco, con la conseguenza che il po-tenziale di conflitto teorico e politico, prodotto dalle cause origi-narie e strutturali della crisi, può perdersi per strada, nei mille ri-voli delle situazioni particolari, progressivamente coinvolte e col-pite. È facile cioè smarrire una visione d’assieme, tra le tante af-fermazioni che il peggio è passato, la ripresa è iniziata ecc., conla conseguenza non solo di liberare da ogni responsabilità le for-ze che la crisi hanno incubato e poi scatenato, ma anche di im-pedire una valutazione politica generale, e quindi una capacitàdi proposta e di mobilitazione sociale e politica alla altezza pro-

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I RIFORMISTI NELLA CRISI ATTUALE / 5Luigi Agostini Non ci sono più

secoli da contare

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spetticamente della questione. La crisi insomma ridotta ad acci-dente persino esterno, figlia di padre ignoto. I passaggi internidella crisi invece, dalle iniziali politiche di salvataggio, alle suc-cessive politiche di stimolazione e infine alle politiche di austeri-tà, se ben analizzati, ci consegnano due temi di riflessione di im-portanza strategica: la natura della crisi, in primo luogo, il suoaspetto dominante, cioè sempre più chiaramente, l’eccesso di ca-pacità produttiva; in secondo luogo, il carattere dei singoli pas-saggi, che, prodotti per svolgere una funzione risolutiva, diven-tano invece momenti di accumulo di problemi ancora maggiori,bombe a orologeria, atti che innescano conflitti ancora più aspritra aree e classi sociali, forieri di uno stadio ancor più virulento esistemico della crisi.Ancora alla fine del 2009, negli Stati Uniti e in Europa, oltre il 35 percento della capacità produttiva era inutilizzata (Nouriel Roubini). Lacrisi, cioè, pur prendendo origine da fenomeni di carattere finan-ziario, si rivela sempre più come una crisi classica da sovrappro-duzione. Da decenni, il fenomeno crisi era scomparso dal pen-siero dominante. Le crisi-boom insostenibili seguite da declini ca-tastrofici, anche quando venivano evocate, erano considerate al-tamente improbabili, estremamente inusuali, e dalle conseguen-ze circoscrivibili; comunque la crisi era ormai un fenomeno dieconomie e di Paesi scarsamente sviluppati.L’irrompere della crisi nel cuore sviluppato dell’Occidente, an-che per questo ha un valore epocale.Altro che 11 settembre: il vero spartiacque di questo decennio èrappresentato ormai dal fallimento della Lehman Brothers!Decenni di fondamentalismo liberista hanno gettato le basi deltracollo del 2007: i cosiddetti ‘riformatori’, progressivamente,hanno spazzato via la regolamentazione bancaria introdotta daRoosevelt dopo la Grande Depressione degli anni Trenta, e legrandi banche d’affari di Wall Street – i signori dell’universo –hanno trovato il modo di evadere le poche regole rimaste.In quel clima culturale – che ha portato nel 1999 a cancellare ilGlass-Steagal Act, cioè la separazione tra banca di investimento ebanca commerciale – un secondo sistema bancario ombra si è svi-

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luppato, al riparo di ogni ogni vigilanza, e si è adottato un sistemadi retribuzione come i bonus, che incoraggiavano le operazioni abreve termine, ad alto rischio, e con un grado elevatissimo di levafinanziaria. La crisi da sovrapproduzione apre due enormi que-stioni, sia sul versante della distribuzione del reddito sia sul versan-te della attività produttiva, ineludibili proprio ai fini del supera-mento della crisi stessa; ci propone, cioè, nello specifico della in-sufficienza della domanda, sia il peso che la diseguaglianza socialeha avuto nella determinazione del livello della domanda stessa, siail problema della produzione, nello specifico dell’eccesso di capa-cità produttiva, del come si è formata, degli errori di previsione del-le imprese nella strategia di investimento sulla grande scala. La cri-si da sovrapproduzione muove inoltre le domande più elementari:perché in un contesto di eccesso di capacità produttiva le impresedovrebbero intraprendere nuove spese in conto capitale? perchéconsegnare – visto l’esito – solo a decisioni private le strategie degliinvestimenti futuri? fino a quanto il costo delle politiche di salva-taggio e di stimolazione può essere scaricato sui bilanci pubblicisenza arrivare al fallimento? Viene in mente la celebre battuta di ungrande imprenditore che diceva che pensare il capitalismo senza ilfallimento era come pensare la chiesa senza l’inferno.Ma, prima di tutto, l’irrompere della crisi da sovrapproduzione,manda in mille pezzi la grande costruzione egemonica del merca-to che si autoregola dei Chicago Boys. «La guerra fredda è finita:l’hanno vinta i chicago boys», titolava un noto giornale ormai ven-t’anni fa. La storia è finita, faceva eco Francis Fukuyama. La storia invece, intesa come un processo che avanza per con-traddizioni, continua; la storia richiama a nuova vita i pensatoridella economia della crisi, come Marx, Keynes, Schumpeter ecc.,cioè di coloro che consideravano proprio il capitalismo intrinse-camente instabile e soggetto alle crisi, un modo di produzione cheprocede per cicli. Lo stesso procedere della ultima crisi, oltre alcarattere di tamponamento e di palliativo di molte politiche as-sunte, porta a una evidenza mai così esplicita il nocciolo dei pro-blemi – economici, politici istituzionali – delle aree principali delpianeta. Fino a ora l’unico vero erede di Roosevelt sembra esse-

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re Hu YnTao. Infatti il socialismo di stato cinese, con una fortecapacità di dirigismo pianificatore, ha retto meglio di ogni altroall’esplodere della crisi.Ma fino a quando può reggere il dollaro come moneta di riserva,se gli Usa continuano a indebitarsi con politiche di salvataggioall’insegna del «troppo grande per essere lasciato fallire» e conpolitiche di stimolo a carico del bilancio pubblico? Già oggi gliStati Uniti sono diventati il più grande debitore mondiale, e le lo-ro passività verso il resto del mondo raggiungono cifre da leg-genda (3000 miliardi di dollari).Fino a quando può reggere l’euro senza disintegrarsi, di fronte allavaria consistenza dei debiti sovrani dei singoli Paesi, senza unoStato alle spalle, senza cioè un governo unificato delle politiche eco-nomiche e fiscali alla scala europea? Nella storia, nessuna unionevalutaria è mai sopravissuta senza una unione fiscale e politica. Lacrisi greca dimostra l’intima fragilità del punto a cui è giunta la co-struzione europea; l’adozione inoltre di rigide politiche di austerità,con le loro conseguenze politiche e sociali inevitabili, potrebberoaccelerarne le difficoltà, invece che scongiurale.Fino a quandocapitali finanziari vaganti, che entrano ed escono daspecifici mercati e da singole economie, possono esacerbare la vo-latilità dei prezzi delle attività e l’intensità delle crisi finanziarie?Globalizzazione e innovazione tecnologica sono andate in questianni di pari passo, rafforzandosi a vicenda. Ciò ha permesso il pie-no dispiegamento dei movimenti dei capitali, ma mentre la finan-za si è globalizzata, la sua regolamentazione è rimasta una que-stione nazionale. Dopo il fallimento di Toronto, in cui nessun pas-so avanti si è fatto sulla strada della regolamentazione globale deimeccanismi finanziari, lo scenario concreto che si annuncia è soloquello di una grande deflazione. Il cuore del processo di finanzia-rizzazione della economia che ha portato al peggior disastro daitempi della grande depressione – piena liberalizzazione del mer-cato dei capitali, banca universale, società di rating, sistema retri-butivo centrato sui bonus – non viene sfiorato da nessuna misura,dopo il tanto parlare di riforme nella prima fase della crisi, mentrela crisi, per i suoi automatismi interni, approda alle politiche di au-

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sterità. D’altra parte le politiche di austerità, se non si mette manoa un nuovo modello di sviluppo, sono le più adatte per smaltirel’eccesso di capacità produttiva e possono persino funzionare co-me armi di distrazione di massa per oscurare le responsabilità del-le forze che hanno portato alla crisi stessa. Il potere assoluto dellafinanza, la riconferma di fatto a Toronto dei suoi meccanismi es-senziali, in nome della innovazione finanziaria, lasciano intatti i fat-tori che hanno provocato la crisi. Ciò non fa che accrescere le pro-babilità di una crisi ancor più globale e sistemica. La Sinistra ha difronte anni duri e può affrontarli solo recuperando il grande pen-siero della crisi, attualizzarlo al tempo della globalizzazione, met-tere al centro il grande tema del nuovo modello di sviluppo e del-le istituzioni (europee) per governarlo.La crisi sistemica che si sta preparando, non potrà, per la Sinistra,essere un cigno nero, per usare l’immagine simbolica di NassimN. Taleb, cioè una sorpresa, un evento impossibile da prevedere,come in gran parte è avvenuto nel settembre del 2007. Pena lacondanna alla sua inutilità storica. Non ci sono secoli da contare,direbbe con la consueta ironia, Giorgio Ruffolo. !

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A cura di Carlotta Gualco

C A R L O T TA G U A L C O Tutela dell’ambiente. Per l’Europa è prima di tutto un affare

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I dati d’assieme della Lista Rossa dell’Unio-ne mondiale per la conservazione della na-tura1 (Iucn) sulle specie animali e vegetali inpericolo e minacciate sono allarmanti. Forsefa più male leggere la colonna delle specieestinte, per le quali non c’è più nulla da fare.Sta di fatto che la biodiversità, cioè l’insiemedelle specie viventi, continua a ridursi non-ostante, ad esempio in Europa, la Ue abbialanciato quasi un decennio fa un piano di in-terventi che avrebbe dovuto arrestare quellaperdita proprio nel 2010.Secondo le stime di Eurobarometro, lo stru-mento di rilevazione dell’opinione pubblicaeuropea, solo il 37,5% degli Europei cono-sce il significato del termine «biodiversità».In Italia, la percentuale scende al 21,8 percento. Il 39,9% dice di non essere affatto in-formato sulla perdita di biodiversità, ed è lapercentuale più alta nella Ue. È l’81% delcampione italiano a non considerarsi beneinformato su questo tema2. Alcune organizzazioni internazionali hannotentato di contrastare questa scarsa consape-volezza. Il 2010 è stato proclamato dalle Na-zioni Unite anno internazionale della biodi-versità. La Commissione europea ha anch’es-sa lanciato una campagna d’informazione at-traverso eventi e pubblicazioni. Un filmato inbianco e nero avverte che la perdita di biodi-versità non è un problema esclusivo delle spe-

Tutela dell’ambiente.Per l’Europa è primadi tutto un affare

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1 http://www.iucnredlist.org/about/summary-statistics.2 Attitudes of Europeans towards the issue of biodiver-sity; Analytical report; Wave 2, Fieldwork, February2010; Publication: March 2010;http://ec.europa.eu/public_opinion/flash/fl_290_en.pdf.

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cie vegetali e degli «altri» animali. Prima o poia farne le spese saremo anche noi. Eloquenteil nome del sito dal quale trarre notizia di quan-to sta facendo l’Unione europea e su come siapossibile per ogni cittadino adottare stili di vi-ta compatibili: www.siamotutticoinvolti.eu.Un evento di tale campagna, lanciata a Milanonell’aprile scorso, si è svolto anche a Genova il5 luglio, organizzato dall’associazione culturaleCentro In Europa con la partecipazione, fra glialtri, di Carlo Corazza, direttore della Rappre-sentanza a Milano della Commissione euro-pea, del presidente nazionale del Wwf StefanoLeoni e dell’assessore all’ambiente dellaRegione Liguria Renata Briano. Il territorio italiano dispone, com’è noto, diuna eccezionale varietà di habitat. La percen-tuale protetta dalla rete Natura 2000 è pari al19%, superiore alla media europea (17%). Ilrispetto della normativa europea non è solo af-fare della Commissione europea, che spessoavvia procedure di infrazione, ma una respon-sabilità congiunta degli Stati, delle Regioni,delle comunità locali e della società civile. Se l’impoverimento del nostro ecosistema nonè un argomento abbastanza convincente percercare di contrastarlo, Carlo Corazza, ha ri-cordato che la biodiversità è la prima risorsa,anche economica, della quale disponiamo inEuropa. La stima dei danni provocati dalla ra-pida diminuzione delle specie si aggira fra 1,34e 3 trilioni di euro all’anno. Tremila miliardi dieuro, equivalenti agli investimenti che si sti-mano necessari per completare la rete delle in-frastrutture energetiche necessarie per con-nettere Unione europea e Mediterraneo daqui al 2030.L’Unione europea ha avvertito da tempo lanecessità di cambiare radicalmente politica

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in materia ambientale, facendone una prio-rità. La «crescita sostenibile» è uno dei trepilastri della strategia europea per usciredalla crisi, accanto alla «crescita intelligen-te» e a quella «inclusiva». La tutela dellabiodiversità è anche la tutela della vita uma-na. Non ha senso quindi, come si continuaancora oggi a fare, contrapporre crescita eambiente. Piuttosto, l’innovazione in cam-po ambientale può diventare un driver del-la crescita e della competitività, un nuovomercato nel quale investire, proponendonuove tecnologie e, aspetto non secondario,creando posti di lavoro.Il cambiamento climatico – che ha già pro-dotto danni consistenti anche in termini so-ciali (decessi, migrazioni) – è il banco diprova su cui l’Unione europea ha testato laserietà della sua politica ambientale. È del2007 la scelta della Ue di «decarbonizzare»la sua economia, attraverso lo sviluppo del-l’efficienza energetica delle sue produzioni,la scelta di dare un prezzo alle emissioni diCO2, con ciò vincendo le fortissime resi-stenze delle associazioni imprenditoriali eu-ropee. Dal 2013, il 40% del settore produt-tivo europeo dovrà andarsi a comprare inaste pubbliche il diritto di emettere dellaCO2 nell’atmosfera. Non va dimenticato che questo, su scalamondiale, è il primo vero meccanismo di cor-rezione di diseconomie delle quali tutti noipaghiamo le conseguenze. L’Unione europeatenterà di estenderlo gradualmente al merca-to mondiale, a cominciare dagli Stati Uniti,dove una legge su energia e clima giace alSenato da più di un anno. Si parla spesso, an-che in questa rubrica, di «Europa che nondecide». Ma negli ultimi tre anni l’Ue ha por-

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tato a casa un pacchetto di legislazione all’a-vanguardia nonostante si trattasse di dossiercomplessi e discussi, come in materia di ener-gie rinnovabili, di emissioni delle auto e degliimpianti industriali. La prospettiva di un’Europa a emissioni ri-dotte non è fantascientifica, ma dipendepiuttosto dalla volontà politica di realizzar-la3. Quello fra crescita e ambiente è già inEuropa un matrimonio indissolubile, conimpegni e obiettivi definiti, fatti propri an-che dalle rappresentanze imprenditoriali. Ilfatto che un quarto degli scambi avvenganoin Europa rende probabile che agli standardivi adottati – come quelli recenti in materiadi eco design – si debbano adeguare altriproduttori, come quelli cinesi, indiani e sta-tunitensi. C’è in Italia una sufficiente determinazionepolitica a far proprio fino in fondo l’orien-tamento europeo e a scommettere concre-tamente sull’economia verde? Proprio il ri-spetto degli obiettivi del pacchetto ambien-tale europeo sarà uno dei criteri con i qualisaranno valutate le economie europee nelnuovo sistema di controllo ex ante adottato

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3 Lo studio Roadmap 2050: a practical guide to a pro-sperous, low-carbon Europe realizzato dalla EuropeanClimate Foundation (aprile 2010), con il supporto diuniversità, centri di ricerca, aziende (fra le qualil’Enel) e Ong, conclude che per il 2050 l’Europa po-trebbe ottenere una riduzione dell’80% dei gas a ef-fetto serra utilizzando tecnologie che sono già oggidisponibili sul mercato o in avanzato stato di svilup-po, ed espandendo la rete transeuropea di trasmis-sione dell’energia. Ovviamente ciò postulerebbe unatransizione verso un nuovo sistema energetico tantonel modo in cui l’energia è usata quanto in quello incui è prodotta.http://www.roadmap2050.eu/downloads.

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dalla Ue all’indomani della crisi greca. Le scelte del governo italiano non sembranoandare risolutamente in quella decisione. Lascelta annunciata del nucleare forse impedi-sce un investimento più deciso nei confrontidelle energie rinnovabili, il cui target europeodel 17% non pare in realtà così irraggiungi-bile considerati i livelli attuali (10%). Il greening delle economie europee non è af-fare immediato ma implica la capacità di pro-grammare su orizzonti di almeno 10–20 anni,ad esempio, l’utilizzo di veicoli ibridi, di tec-nologie di risparmio energetico nell’edilizia.La continua riduzione delle risorse del mini-stero dell’Ambiente, la mancanza di una nor-mativa adeguata in materia di parchi eolici, lebattaglie in fase di approvazione della mano-vra economica sul sostegno ai parchi natura-li, alla prosecuzione degli incentivi per la pro-duzione di energia da fonti rinnovabili e, daultimo, la «deregulation edilizia» lo fanno du-bitare seriamente. !

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I L M A R E A P E R T O D I E U G E N I O S C A L F A R I G I O R G I O R U F F O L O Alle frontiere di una civiltà minacciata

I L P R E M I O S T R E G A A C A N A L E M U S S O L I N IG R A Z I E L L A FA L C O N I Una velleitaria epica giustificazionista

aLETTERATURA, ARTE, SCIENZE UMANE

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Dalla prima rapida lettura di questo libro avevo tratto due sin-tetici giudizi. Affascinante. Importante. Dopo averlo letto e ri-letto li confermo in pieno.

Affascinante per la ricchezza delle immagini, che trascorrono tal-volta in musicalità pura, per la raffinatezza delle analisi, per l’ele-ganza del discorso. E anche per la disinvoltura del ‘montaggio’,dal racconto al colloquio, dalle ampie citazioni all’intervista: unaforma che Scalfari giornalista ha trattato da maestro e che tra-sferisce qui, felicemente, nelle conversazioni con i suoi ospiti.

Importante perché costituisce un contributo originale alla com-prensione del nostro tempo. Non una semplice rassegna di pen-satori e di pensieri, ma una struttura articolata attorno a una te-si. La tesi è che la nostra storia, da quattro secoli a questa parte,si debba intendere nel segno della modernità. Cioè, di una con-cezione del mondo affrancata dal dogmatismo della metafisica,dalla sottomissione all’autorità, dalla nozione dell’assoluto; fon-data, invece, sull’autonomia della coscienza, sull’osservazione di-

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IL MARE APERTO DI EUGENIO SCALFARI Giorgio Ruffolo Alle frontiere di una

civiltà minacciata

* E. Scalfari, Per l’alto mare aperto. La modernità e il pensiero danzante,Supercoralli, Einaudi, Torino, 2010.

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retta della realtà, sul riconoscimento del suo carattere relativo.È un modo di vedere e di concepire il mondo. È, in senso pro-prio, un linguaggio.

Secondo Scalfari la modernità comincia alla fine del Cinque-cento. Lui sceglie Montaigne come «fondatore». Finisce ai gior-ni nostri: ma Nietzsche ha emesso la sentenza di morte, già pri-ma del Novecento.Noi non siamo pienamente consapevoli di questa epoca, e delsuo inizio e, soprattutto, della sua fine. L’importanza del libro diScalfari sta proprio qui. Nel risalto che dà a quest’epoca. Nelmessaggio sulla sua fine.

Non si tratta soltanto di filosofia. I personaggi che Scalfari sceglieper il rilievo che hanno avuto nel caratterizzare la modernità sonofilosofi, ma anche romanzieri, critici, poeti. L’area culturale non silimita alla filosofia ma riguarda anche la storia, la letteratura e so-prattutto la musica (molto meno la scienza, ed è un peccato).Direi che la modernità investe, anche al di là della cultura, le for-me e gli stili di vita della quotidianità. Penso al rilievo assunto neldiscorso moderno dall’ironia, dalla dissacrazione, dall’irriveren-za rispetto alla gravità e austerità del discorso ‘serio’ nelle socie-tà autoritarie.Ma il centro della modernità, l’impegno attorno a cui ruota la suavicenda, è la creazione dell’«Io». Una volta tramontato, comecentro dell’esperienza umana (non come credenza, che ancoradura) il regno di Dio, è possibile edificare il regno dell’uomo.

Questa pretesa ha impegnato le migliori intelligenze: per soste-nerla o per negarla.

Lungo il corso della modernità incontriamo le due grandi cor-renti dell’illuminismo e del romanticismo.

Scalfari sceglie tra i protagonisti della modernità quelli che gli sem-brano i più significativi e intreccia con loro una conversazione.

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L’autore avverte che non si tratta di saggi sulla loro vita e sullaloro opera.

Quei personaggi non sono presentati di faccia ma di profilo: e,cioè, solo in quanto collegati col tema del suo saggio: con la mo-dernità.

Sono saggi brillanti. Alcuni, splendidi.Scalfari dimostra una padronanza impeccabile della materia,frutto di sistematiche letture, delle quali ci si chiede come abbiatrovato il tempo, in una vita di impegno politico e professiona-le di prima linea, di seguire una riflessione che sembra ininter-rotta; e soprattutto come sia riuscito a collegare quei saggi nellalogica espositiva e coerente di un «viaggio».Si tratta di analisi di primo piano, condotte con grande corret-tezza professionale quanto ai documenti e alle fonti. E soprat-tutto, quanto alla capacità di calarsi nei personaggi, rivissuti nel-la costruzione del loro pensiero e nel vigore delle loro passioni.

Non sono in grado, e non soltanto per ovvie ragioni di spazio, masoprattutto di preparazione professionale, di seguire EugenioScalfari in questo suo viaggio.

Mi limito a qualche osservazione di carattere generale su tregrandi protagonisti che sollevano aspetti centrali e ben noti dellamodernità: Marx, Freud e Nietzsche.

Karl Marx«I filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo; ora sitratta di cambiarlo». «Proletari di tutto il mondo unitevi».Queste due frasi, inscritte sulla tomba di Karl Marx, nel cimite-ro di Highgate, non potrebbero compendiare meglio il suo mes-saggio: un giudizio sul senso della storia; un grido di battaglia.Marx riscrive la Storia. Marx pronuncia la sua profezia. Da quiparte Scalfari per tracciare il profilo di questo grande rivoluzio-nario. Profeta sì, ma di una profezia scientifica: una ragionata

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proiezione della Storia. Grandiosa. Appiccò un incendio chedoveva cambiare il mondo e che si risolse in un disastro. Ma lebraci che quell’incendio ha lasciato non sono spente.Responsabile, Marx, del disastro del comunismo? Non più diquanto Gesù lo sia dell’Inquisizione ed Hegel del nazismo.Di fronte a personaggi così poliedrici e complessi nasce negliesegeti la tentazione di scomporne la vita e l’opera, come si usacon certi grandi pittori: periodo rosa, periodo blu. Così si è di-stinto il giovane filosofo hegeliano dei «manoscritti» dall’econo-mista del Capitale per chiedersi quale sia il ‘midollo’ del suomessaggio. Scalfari non ha dubbi. Quale che sia la sua ispirazio-ne originaria e la piega filosofica che essa gli ha dato (ci torneròtra poco) il centro del suo messaggio sta nella teoria del mate-rialismo storico, base del suo socialismo scientifico. Chi gli negala qualità scientifica contestandone l’ideologia non riflette a ciòche Scalfari giustamente afferma: l’ideologia è uno schema sem-plificatore di una realtà complessa, e come tale è forma e stru-mento inevitabile di ogni grande sistema di pensiero. È visionee passione, due grandi forze che fanno di Marx un gigante delpensiero; e un fiammeggiante scrittore. E che tuttavia – questaè la vera insidia – possono degenerare nell’utopia e nel determi-nismo. Utopia: come quando Marx si lascia andare alla visionealquanto candida della giornata dell’uomo nella società sociali-sta, trascorrente tra la caccia e la filosofia. Determinismo: quan-do, forzando la «necessità» delle «leggi» della storia, finisce, co-me hanno rilevato acutamente, tra gli altri, Claudio Napoleonie Lucio Colletti, per sottovalutare la potenza decisiva del movi-mento operaio.Questo ci porta direttamente (la faccio corta) a un nodo crucia-le e fatale della teoria marxista: la prevalenza determinante, nel-l’individuare la direzione della storia, della semplificazione sullacomplessità. Esempio significativo: la proletarizzazione dellemasse, considerata come inevitabile conseguenza della concen-trazione capitalistica, clamorosamente contraddetta dalla diffe-renziazione e articolazione della struttura sociale, con tutte leimplicazioni che ne derivano sulle motivazioni politiche del mo-

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vimento operaio: di freno dell’impeto rivoluzionario e di incen-tivo all’azione riformista.Qui si coglie la funzione ideologicamente negativa esercitata dallagrande ispirazione filosofica hegeliana, la «dialettica», sull’analisistorica realistica della società, il contrasto tra la visione di un gran-de progetto inscritto nella storia, in qualche modo inevitabile, e ilfarsi concreto della storia, con tutte le incognite che esso presentaall’interpretazione e ai gradi di libertà che offre alla politica. Insomma, la dialettica hegeliana finisce per agire da limite e pri-gione al potenziale creativo del materialismo storico.L’economista marxista dovrà subire le conseguenze di questa li-mitazione nel totale fallimento della teoria del valore-lavoro didar conto dell’effettivo movimento dei prezzi e delle loro impli-cazioni distributive tra profitti e salari.Difficoltà analoghe dovrà affrontare l’economista marxista nel-le teorie marxiste sulle crisi, delle quali dà conto tra gli altri PaulSweezy (nella sua teoria dello sviluppo capitalistico). Né in quel-le di sottoconsumo, né in quelle di sproporzione si può indivi-duare quella catena catastrofica che dovrebbe condurre «neces-sariamente» il capitalismo alla sua estinzione, mentre sia nell’u-na sia nell’altra vi sono le premesse di un approccio riformista diun tipo non dissimile da quello keynesiano.Se la visione dialettico-catastrofista del marxismo ortodosso in-contra queste smentite sul terreno dell’economia, deve subiresconfessioni parallele sul terreno della politica.Il modello marxista comporta, sul suo sfondo storico, la scom-parsa dello Stato in una condizione di felice scioglimento dei con-flitti nell’autogestione sociale. Questa clamorosa utopia raggiun-se il culmine del grottesco in un libro scritto da Lenin proprio al-la vigilia della rivoluzione che egli guidò vittoriosamente: libro nelquale egli prospettava, prendendola sul serio la metafora dellacuoca che in un regime socialista si sarebbe incaricata senza pro-blemi della cucina politica. Lenin non poteva sospettare di averegià quella cuoca in casa. Si chiamava Stalin.

Scalfari coglie una delle conseguenze più gravi della «semplifica-

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zione» marxista: l’incapacità di capire il processo di differenzia-zione e di autonomizzazione dello Stato moderno che accompa-gna lo sviluppo del capitalismo; e che permette alla borghesia dinon governare direttamente il conflitto sociale, come aveva fattol’aristocrazia. Il governo è assunto da una forza interclassista, «bo-napartista», come paradossalmente lo stesso Marx la definisceparlando dell’ascesa di Napoleone.Non si può spiegare né Robespierre, né Napoleone in termini mar-xisti, di conflitto di classe. Entrambi si sottraggono a quella logicaper svolgere un loro disegno autonomo. Lo Stato bonapartista se-gna il primato dell’azione politica sui condizionamenti sociali.

Questo ruolo politico autonomo della politica nell’epoca capita-listica assumerà due forme estreme: quella riformistica di un com-promesso di classe e quella nazionalistica della politica imperiali-sta. Giolitti in Italia tentò, con l’accordo per lo più tacito dei so-cialisti, di realizzare la prima. Bismarck in Germania le realizzòmagistralmente ambedue. Mussolini e Hitler, più tardi, pratica-rono decisamente la seconda. Stalin, con una vera e propria con-trorivoluzione, piegò verso di essa la Rivoluzione d’ottobre.Si può dunque affermare, come in sostanza fa Scalfari, che la po-litica, pur condizionata dal conflitto sociale, svolge un ruolo deci-sivo e determinante. È la politica che ci ha dato il riformismo, ilwelfare, il keynesismo, il new deal. È la politica che ci ha precipi-tato nelle guerre mondiali, nei lager, nei gulag. Se vogliamo dirlafino in fondo, essa ha le sue radici più profonde non nell’econo-mia ma nell’etica.Marx disponeva, con la sua teoria della storia, di uno strumentoformidabile di analisi e di interpretazione. Ma quello strumento,egli lo forzò entro la gabbia ideologica della dialettica hegelianache lo aveva sedotto in gioventù con la sua pretesa di disvelareagli uomini il segreto della storia.Bisogna dire che quel modello, che costituisce l’illusione tragicadel comunismo, fornì originariamente la sua grande forza: laforza volontaristica del determinismo. Come nelle religioni il«Dio lo vuole», così nella ideologia marxista, «è la storia che lo

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vuole» conferì alla persuasione dei capi e all’azione delle masseuna sicurezza e una foga travolgenti.

Sigmund FreudScalfari vede in Marx e in Freud «due giganti contrapposti, dueantitetiche concezioni del mondo, due modi di pensare la storia».C’è chi ha ritenuto che le due concezioni, la prima delle quali na-sce dai conflitti sociali, l’altra dalle nevrosi individuali, possano con-fluire in una sintesi che permetta di affrontare al tempo stesso lecause dell’infelicità individuale e quelle dell’iniquità sociale.Freud stesso, a un certo punto dell’evoluzione tormentata del suopensiero, ha spostato, in quella che è sembrata una svolta, la sua at-tenzione dai conflitti della psiche individuale (le nevrosi) a quellidella psiche collettiva, che egli individuò nel «disagio della civiltà». Come Scalfari ricorda, è stato per questo criticato severamenteda amici, collaboratori e discepoli che hanno considerato quel-la svolta come una devianza dal terreno «scientifico» della psi-coanalisi a quello opinabile della filosofia.Ma quella svolta è anche stata considerata da altri suoi seguacicome il felice e audace approccio a una psicanalisi sociale, chesarebbe toccato ad altri di sviluppare (Eric Fromm).Anche nella società, come nell’individuo, c’è un agglomerato dipulsioni, «erotiche» e «aggressive» (basta pensare all’ esplosio-ne delle passioni rivoluzionarie) che deve essere necessariamen-te contenuto entro limiti che impediscano la sua distruzione. Lafelicità deve essere moderata.

Nell’opera Il disagio della civiltà Freud analizza il modo in cui èstata data risposta a questa esigenza.La risposta è stata affidata alla civiltà (Kultur): all’incivilimento.Che ha due funzioni essenziali: proteggere l’uomo dalla natura,regolare le relazioni tra gli uomini. Da una parte Freud ricono-sce lo straordinario successo colto dall’umanità nel persegui-mento della prima funzione. Quel successo ha reso l’Uomo si-mile all’idea che egli si è fatta di Dio. Non si tratta solo di potenza tecnica ed economica. La civiltà ha

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promosso quelle che Stuart Mill definiva le «grazie della vita»:la bellezza, l’ordine, la pulizia.Ma a che prezzo?La potenza non si è tradotta in felicità, ma, per alcuni aspetti, nelsuo contrario. Di qui la necessità, proposta da alcuni seguaci di Freud, di ri-nunciare all’aumento della potenza umana, ma di dare pienosfogo ai desideri individuali (Reich, Marcuse).Tornare al regno pastorale, per non dire a quello animale dalquale l’umanità si è faticosamente districata?Freud, che non è un pastore, ma uno scienziato, non intendequesto. Egli osserva però come la cultura affronti il problema della in-compatibilità tra felicità e coesione sociale in due modi: la sub-limazione degli istinti, che si ottiene deviando gli impulsi dei de-sideri (potere, sesso) verso il mondo dell’arte e della conoscen-za in generale; e la repressione degli istinti, che è causa di fru-strazioni e di infelicità.Questa ultima è ottenuta non soltanto attraverso la forza dellalegge (non sarebbe sufficiente) ma, come dice Freud, «in un mo-do curioso». «L’aggressività viene introiettata, interiorizzata, pro-priamente viene rimandata là donde è venuta, ossia è volta con-tro il proprio Io». Una parte dell’Io reagisce contro sé stesso, di-ventando SuperIo.Questo curioso processo si chiama «senso di colpa». «Il Super-Io infiacchisce e disarma l’Io, facendolo sorvegliare da una istan-za nel suo interno, come da una guarnigione nella città conqui-stata». La morale poggia su questa intimidazione, dalla qualederiva una profonda infelicità».Come si può ridurre questa frustrazione? Come si può combatte-re questa infelicità dalla quale in ultima analisi deriva il disagio del-la civiltà? Freud non fornisce una risposta a questo interrogativo.Avanza qualche proposta concreta, come quella (nell’«avvenire diun’illusione») di abolire l’insegnamento religioso nelle scuole e diintrodurvi l’educazione sessuale. Ma, nell’insieme, non è ottimistasulla possibilità di eliminare un disagio che è iscritto nella costitu-

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zione psichica della società.Mi pare che a questo punto si ponga la riflessione di Scalfari.Freud, egli afferma, sembra non essersi accorto che la socievo-lezza non scaturisce solo dalla razionalità, ma è una delle caratte-ristiche congenite della nostra specie, «una pulsione primaria ac-canto a quella della felicità». Il SuperIo sociale, dice, nasce an-ch’esso da un bisogno inconscio, di socievolezza. Non ha dunquenatura esclusivamente repressiva, ma mista (Kant aveva parlato diinsocievole socievolezza). È la stessa tesi di Eric Fromm, che haindicato l’origine inconscia della socievolezza nei «bisogni esi-stenziali di correlazione e di trascendenza».Freud, partendo dall’eros e dalla felicità, assegnava alla morali-tà un ruolo esterno rispetto all’inconscio.Mi pare di capire che Scalfari giunga a una conclusione diversa:e cioè che tra socievolezza collettiva e felicità individuale non esi-ste una contrapposizione così recisa, poiché entrambe «affonda-no le loro radici nell’inconscio e innalzano le loro fronde nei ter-ritori dell’Io e della ragione».

Io mi chiedo però se la contrapposizione così netta che Freudstabilisce tra pulsioni individuali e vincoli sociali non rischi diapparire sorpassata per un’altra ragione, che investe la psicoa-nalisi nel suo complesso: il venir meno, nella società di massa, diquella cultura weberiana della sobrietà dei consumi e dell’au-sterità dei costumi che era tipica di un capitalismo basato sullosfruttamento del lavoro e sul risparmio e non, come oggi, sulladomanda e sull’indebitamento.Quella nella quale siamo immersi è la società dei consumi di mas-sa sul piano economico e della permissività sul piano sociale. Ilproblema che abbiamo di fronte non è quello della repressionedegli istinti individuali, ma quello del loro scatenamento. La con-trapposizione non è più tra pulsioni individuali volte al soddisfa-cimento del desiderio ed obbligazioni sociali repressive, ma quel-lo di pulsioni collettive (consumi di massa, indebitamento ecce-tera) incompatibili con il ricorso distruttivo a risorse economichepresenti e limitate, a carico dell’ambiente, e risorse ancora inesi-

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stenti, a carico delle generazioni future. Pulsioni collettive, chepongono un problema economico e un problema politico e mo-rale, di scelta di «civiltà»: tra le pretese dissipatrici del consumoe i bisogni esistenziali di correlazione e di trascendenza.

Friedrich NietzscheScalfari fa della figura di Friederick Nietzsche l’espressione piùalta e insieme il suggello finale della modernità. Egli considera il pensiero e la figura di Nietzsche un’espressioneconclusiva degna di chiudere quella vicenda storica. Su questatormentata figura chiude il suo libro in un «gran finale».Cita, aderendovi sostanzialmente, anche quando li ritiene esage-rati, i giudizi di alcuni tra i suoi illustri biografi ed esegeti. Comequesto di Gottfried Benn: «Nietzsche è la gigantesca figura do-minante dell’epoca post-goethiana; dopo Lutero, il più grandegenio della lingua tedesca. Colui che ha anticipato e sofferto tut-te le esperienze spirituali decisive dei tempi moderni».Altri, con espressioni non meno ispirate, affermano: «Nietzschenon è un problema. È una malattia» (Montanari).

Che si tratti di un personaggio eccezionale, in tutti i sensi, nonc’è dubbio. Ma che esso chiuda la vicenda storica della moder-nità? Certamente questo è vero per Nietzsche. Ma mi doman-do se sia del tutto vero per Scalfari.Certamente egli non condivide il giudizio sprezzante di Nietzsche,sulla svalutazione di tutti i valori supremi della modernità. Altri-menti non avrebbe scritto il suo libro. La grandezza di Nietzsche sta nel fatto che egli ha denunciato il tra-monto di quei valori. E questo giudizio può essere condiviso an-che da chi, come Scalfari, è nato e cresciuto nella loro ombra.La sua esplicita ammirazione per Nietzsche non è dunque adesio-ne alla sua filosofia (che non c’è) ma alla tragica denuncia del vuo-to che si apre dopo la filosofia, dopo la modernità. Un vuoto cheannuncia l’avvento di un uomo nuovo, di un «oltre-uomo». E que-sto oltre-uomo non può essere che lui, Zarathustra-Nietzsche.«Un giorno» scrive Nietzsche «sarà legato al mio nome il ricor-

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do di qualcosa di enorme – una crisi quale mai si era vista sullaterra, la più profonda collisione di conoscenze, una decisioneevocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, con-sacrato». «Così parlò Zarathustra e lasciò la sua caverna. Ardentee forte come un sole al mattino, che venga da nere montagne».La sua non è una filosofia, è un annuncio. I profeti non scrivonotrattati. Gesù si esprime per parabole, Nietzsche per aforismi.Non ci porge un testo, ma una bevanda, come quel filtro, ilkykeion, usato nei misteri eleusini, che ristorò Demetra nella ri-cerca della figlia e che Circe porse a Odisseo per stregarlo. Unfiltro di intensità tale che, bevutolo, cambi il mondo.Serviva a Nietzsche, insomma, un linguaggio speciale, non quel-lo logico e razionale del discorso, ma quello del pensiero um-bratile, evanescente e colorato. Un pensiero concepito in unostato di trance. Ai limiti, come di fatto lo fu, del delirio e dellafollia. Qualche cosa di indefinibile che non ha a che fare con ilfilo del discorso, ma con l’ebbrezza della danza.Indefinibile. Anche, incomprensibile. In un saggio su Heidegger(Heidegger e il suo tempo) Rudiger Safranski afferma che «non sipuò nemmeno chiedere a Heidegger che cosa sia l’essere; in que-sto caso infatti si pretenderebbe da lui una definizione di qualco-sa che è a sua volta l’orizzonte di ogni possibile definizione».Ciò vale anche per Nietzsche: non è tanto importante capirloquanto berlo.Soltanto dopo il filtro, si schiuderanno le porte della compren-sione. Ma a me pare che la sconfinata ammirazione per Nietzsche siapossibile condividerla solo dopo aver bevuto il ciceone. Cosa chefrancamente non mi sento di fare, perché non intendo rinun-ciare, insieme a tutti i valori dell’Occidente, cui resto particolar-mente affezionato, a quello dell’ironia.Infine. Non stupisce che il messaggio nicciano sia stato colto contanto entusiasmo dagli ideologi del nazionalsocialismo. Certo, sitratta di una manipolazione: che relazione può esserci tra l’ab-bandono panico all’ebbrezza nicciana e il passo dell’oca? E pe-rò… E però! Nel rifiuto così totale e così sprezzante dei valori

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dell’Occidente non c’era materia per questo fraintendimento?E di più: si tratta di un fraintendimento e basta, o in quella de-nuncia della verità, della morale, del progresso, della democra-zia, della scienza come pure finzioni, non c’era l’espressione diuna disperata solitudine che si rivolta per compensazione nel so-gno di una sovrumana pre-potenza? Il fatto che una manipola-zione così smaccata sia stata non soltanto accettata ma esaltatada una delle più grandi menti filosofiche del Novecento, MartinHeidegger, è il segno di un volgare fraintendimento o la spia diun «mascheramento» eguale e opposto rispetto a quello de-nunciato da Nietszsche? Mascheramento di pulsioni intolleran-ti e aggressive maturate sotto il peso di una insopportabile fru-strazione? Se così fosse, certo non verrebbe meno l’ammirazio-ne per l’arte di un grande poeta. Ma apparirebbe quanto menodiscutibile l’iscrizione del suo messaggio tra quelli che segnanoun’epoca della nostra storia.

Anche il libro di Scalfari è un filtro. Ma non nel senso dell’in-cantesimo. Nel senso proprio del filtraggio degli elementi essen-ziali di una grande civiltà, nel momento in cui è minacciata danuove invasioni barbariche. Penso che dobbiamo ringraziarloper questo libro. Ha fatto molto lavoro per noi. !

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Pare che un giornalista chiedesse a Giovanni Verga, mentre que-sti passeggiava per la via Etnea, «Maestro, cosa legge?» e che que-gli rispondesse «Io non leggo, io scrivo». Una risposta parimentisecca – ed egualmente, intrinsecamente fragile – la dà AntonioPennacchi a Maria Serena Palieri in un’intervista su «l’Unità» ap-parsa il 3 luglio scorso, dopo la vittoria del Premio Strega per ilsuo Canale Mussolini (Mondadori, 2010, pp. 460). «Io non inse-guo l’intenzione di fare l’epica» dice Pennacchi «io l’epica la fac-cio». Intendendo con ciò che l’aver raccolto, l’aver assemblatostorie vere – i filò del focolare –, non frutto di invenzione, attornoa un’impresa gigantesca, costituisca di per sé il facimento dell’epi-ca. Un’epica che per alcuni starebbe a fondamento di una rico-struzione storica finalmente condivisa dopo tanta divisività con-sumata intorno alla storia del nostro Paese.Ma è veramente così? Partiamo dalla lingua. Pennacchi, che ri-lascia interviste quasi sempre in dialetto romanesco con qualcheintrusione di italiano, usa nel romanzo una lingua bastarda, unalingua mista, un impasto di rovigotto, ferrarese, trevigiano, friu-lano, un lessico familiare tramandato e trasmutato che mentredialoga ancora con i suoi morti, continua a segnare una diversi-tà dura con la lingua e gli abitanti del basso Lazio. Una lingua

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IL PREMIO STREGA A CANALE MUSSOLINIGraziella Falconi Una velleitaria epica

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usata, nel romanzo, dallo stesso Duce, poiché, spiega Pennacchial suo immaginario interlocutore, le frasi di Mussolini gliele han-no raccontate in «dialetto e io le ripeto così in questo dialetto …ciò che conta è la tradizione, la lingua che parla, colui che rac-conta e a me l’hanno raccontata così e io così la racconto a lei».Una lingua cispadana, incomprensibile per gli abitanti di Sezzee dintorni, che vengono sberleffati a sangue, apostrofati comemarochin, gente di un altro continente, africani. «Fu un esodo.Trentamila persone nello spazio di tre anni dal Nord, portati al-la ventura in mezzo a gente straniera che parlava un’altra lingua.Ci chiamavano polendoni o peggio cispadani». Un esodo, cheper alcuni rappresentò una deportazione, per altri, come la fa-miglia Peruzzi protagonista del romanzo, un premio per la suafedeltà al fascismo. Un esodo il cui denominatore comune era lafame. Fame come campo minato da cui fuoruscire, una fameche si alimenta del sogno della ricchezza e del benessere. Una fa-me che produce guerra fra poveri, come lo erano i nativi di quel-le paludi in lotta da secoli contro quell’acqua stagnante, le «ter-re sommerse impenetrabili forre, rovi animali e spinacci»; quelliavevano combattuto da generazioni per vederle poi assegnare,come ulteriore punizione, una volte risanate, a gente esterna: «èuna vita che stiamo qua a penare e ora chiamate gli altri?»L’unica speranza, per i locali, era che i nordici morissero; «nonsi sono mai capiti». Una differenza profonda politica e cultura-le: se per quelli del Nord le donne latine sono schiave dei mari-ti, le venete al contrario vengono considerate dai sezzesi tutteputtane. A fascismo caduto, la Democrazia cristiana cercò di ri-mediare e riequilibrare il radicamento della destra in quella pro-vincia ridistribuendo i poderi della zona di Pontinia. Sarebbeutile da scrivere, il racconto degli anni di lavoro e degli uominiche arrivarono al risultato di quei tremilacinquanta poderi ordi-nati, «i campi già divisi per ogni capezzagna e con le pendenzegiuste segnati … i campi belli e arati scassati per oltre un metrodalle Fowler». Per essere epica e condivisa sarebbero occorsenelle pagine del romanzo parole scavate come pietre per la sto-ria delle schiene e delle vite spezzate, dei ricatti, della fame, del-

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le fratellanze e degli odii consumati in quei lunghi anni di lavo-ro per consentire quel fiore all’occhiello del fascismo. Regime,secondo Pennacchi, accettato da tutti.

E già perché l’unico errore del Duce, in questa ricostruzione, èstato quello di aver seguito quel matto di Hitler nella guerra, ol-tre che nella promulgazione delle leggi razziali, non già di avernegato la libertà. «Lei dice che la libertà in Italia l’avrebbe leva-ta il fascismo?» scrive Pennacchi rivolto al suo immaginario let-tore «Ma in Italia non c’è mai stata la libertà, che t’ha potuto le-vare il fascismo? Ai signori magari gliel’avrà levata, ma i pove-racci non ce l’avevano mai avuta». Forse: ma è altro conto nonfargliela coltivare la libertà. Oppure incarnare l’idea che questoè l’inevitabile esito della lotta politica per il potere, che «il pote-re è così ci si arriva con la merda e col sangue altrimenti non civai. Se tu sei pulito al potere non ci vai, fa un altro mestiere, nonti metti a cercare il potere». Non vi è quindi altro esito in questavisione che una dittatura, come quella istaurata dopo il delittoMatteotti, prodotto non già della volontà del Duce, ma dell’im-perizia del Dumini. Il romanzo di Pennacchi è un interessantissimo documento del-lo stato confusionale prodotto dal combinato disposto di popu-lismo e demagogia, che da malattia infantile di una giovane na-zione può trasformarsi in tragedie multiple. La nazione italiana,il plebiscito quotidiano della comunità, era una formazione re-lativamente recente, con rossi e i socialisti da una parte e i fasci-

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vedendo che con questo nostro Duce ormai c’era, come si suol di-re, chi governava davvero il paese e tu potevi stare tranquillo che aogni cosa c’era finalmente qualcuno che ci pensava – però non era-no neanche fascisti sfegatati; non gli sentivi dire una parola contro ilDuce e contro il fascio e se c’erano delle adunate in piazza ci veni-vano pure, però dentro di sé tu capivi che pensavano: «va bene, va;attacchiamo l’asino dove vuole il padrone, ma non sia mai che ungiorno cade, io di sicuro non mi metto a piangere».

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sti da quell’altra, e tutti volevano fare la rivoluzione. «Questoqua, il Mussolini aveva testa e fascino “aghemo da far la rivo-lussiòn”». Ed ecco che nel 1920/21 «dove prima era pieno dicamere del lavoro, leghe e sezioni socialiste, adesso la gente sicancellava in massa e si veniva a iscrivere tutta quanta al fascio,perché vedevano la forza, la decisione, un’idea univoca “questice la fanno anzi ce l’hanno fatta!”» Il romanzo testimonia di una confusione tutta italiana all’insegnadel particulare di ciascuno, un sentire maturato, come ci inse-gnano i classici, all’ombra della divisione del Paese e delle inva-sioni da esso subite. Per Pennacchi invece vi è un solo responsa-bile: «Se in Italia ci sono la mafia e la camorra, se i politici ruba-no a rotta di collo, se la gente parcheggia in doppia fila e nessu-no paga le tasse, la colpa sta tutta di quell’otto settembre, la mor-te dello Stato. Ognun per sé e Dio per tutti scappi tu e non scap-po io?». Più che un’epopea della bonifica fascista delle terre pon-tine, il romanzo si pone come l’epopea della famiglia contadinain quanto tale, con il suo rigido ordine gerarchico, con i suoi riti,specialmente le sue maledizioni, i ceffoni ai bambini, il sesso con-sumato in modo primitivo. I Peruzzi, come tanti altri hanno laforza e la furia primigenia, quella della terra, quella fondatrice. Idelitti commessi sono di natura storica (appiccare fuoco allaCamera del lavoro, uccidere un povero prevosto, sparare sugliamericani ecc.), ma questi trovano assoluzione. Dei delitti priva-ti consumati nel chiuso orto segreto viene a galla soltanto quelloperpetrato contro Armida, l’amazzone cui vengono tolti i figli,ma anche questo trova una sua spiegazione. Il massimo del ri-spetto, infine, per l’imperativo categorico assunto e onorato, conla furia dei Peruzzi, dall’Autore:

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Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mon-do … ogni altra cosa che ho fatto – bella o brutta che sia – l’ho sem-pre sentita come preparazione e interludio a questa. Anche gli altrilibri sono nati in funzione di questo e solo per lui mi sono messo astudiare le storie più strambe di questo mondo.

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Non diversamente Armida e Pericle, nel loro primo incontrodicono:

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Oggi ho generato dentro di te tutti i miei figli e le mie generazio-ni. Pure lei, però – pure l’Armida – quando lui s’era svuotato, ave-va sentito entrare in sé il fiume sacro delle sue generazioni: Oggiho concepito dentro di me come le mie api tutti i tuoi figli checonserverò gelosamente e metterò uno per uno, come le mie api,quando sarà l’ora al mondo. !

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Ogni giorno Minzolinodirettore sopraffinoapre il suo telegiornalecome regola normalecol nome sacro di Berlusconiil campione dei campioniche tutto fa e tutto ottienedell’Italia per il bene.È un amore senza controllocome la chioccia per il polloe così Minzolino ce lo diceche siamo un popolo felicesiamo il meglio del Pianetagrazie a Silvio gran profeta.Non ci son disoccupatisolo comunisti scatenatiun minuto per Bersanie un vaffa a piene manidi cinque servi del padroneper convincer le personee se non fa abbastanza malelui spara l’editoriale.Sono tre i suoi amoririservati agli ascoltatoriGasparri, Cicchitto e Alfano polemisti a tutto spianocon l’orribile opposizionech’è faziosa senza ragione.È un’offensiva permanentesenza pace per la genteche non crede nel miracolodel berluscan abitacoloqual è l’Italia al giorno d’oggicon gli scandali degli alloggidei signori della castaed è inutile dire «basta».Minzolino è soddisfattoma ha paura di Rete 4che gli fa la concorrenza

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nella gloria senza prudenzaal Berlusca onnipresenteper stordir tutta la gentee così tiene nascostoche il TG1 perde ascolto.

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A G O S T I N O M E G A L E E R I C C A R D O S A N N AIl voto del lavoro

IL CASO POMIGLIANOLa globalizzazione arriva alla Fiat di Pomigliano

L U I G I A G O S T I N I E M A R C E L L O M A L E R B A•

WA LT E R T O C C I

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L’Osservatorio sociale è lo spazio che «Argomenti umani» de-dica all’analisi delle trasformazioni del lavoro, del sistema diwelfare, dell’impatto dell’economia pubblica e delle scelte dipolitica industriale, in Italia e in Europa, con particolare at-tenzione ai riflessi sulla società del futuro.

Il coordinamento è a cura di Agostino Megale, Riccardo Sannae Riccardo Zelinotti.

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Qualsiasi analisi dei comportamenti elettorali deve partire dalpresupposto che non si esaurisce mai il campo di indagine sullemotivazioni che hanno portato gli elettori a esprimere una prefe-renza piuttosto che un’altra e che la profondità di tali scelte è am-pia almeno quanto le relazioni che intercorrono tra le suddettemotivazioni e le variabili di tipo socio-demografico, economico eperfino psicologico. Detto ciò, osservando le ultime tornate elet-torali si possono riconoscere alcuni tratti distintivi delle preferen-ze elettorali se ricondotte allo status professionale dell’elettore.Per questo e per l’importanza ‘politica’ che scaturisce dal consi-derare l’elettore (e la cittadinanza che porta con sé) dal punto divista professionale, l’Ires-Cgil e l’Swg conducono da 5 anni l’ana-lisi del voto del lavoro.

Analisi di fondoPartiamo dalle tendenze di fondo e dal divenire della storia chestiamo attraversando. Già nelle elezioni europee del 2009 si èassistito a una sostanziale sconfitta di tutti i partiti che sotto di-versa forma e dimensione possono essere ascritti al Partito so-cialista europeo. Tutti gli economisti hanno riconosciuto all’ori-gine della crisi l’accentuazione delle disuguaglianze economi-che e sociali, fondate sulla deregolazione e la degenerazione del-la finanza, come su un’iniqua distruzione del reddito a scapitodel lavoro. Eppure, ancora oggi, nel 2010, appaiono deboli ipensieri di solidarietà e di lotta alle ingiustizie e alle disugua-

Agostino Megale e Riccardo SannaIl voto del lavoro

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glianze, anche se riconosciute come causa della stessa crisi.Sebbene la crisi in atto si possa attribuire a un fallimento delmodello neoliberista a cui le forze politiche di centrodestra sisono legate, i partiti di centrosinistra dei Paesi dell’Unione eu-ropea non recuperano terreno. E questo malgrado nello scena-rio mondiale si stia affermando una politica di più o meno espli-cita ispirazione socialdemocratica, quale quella sostenuta dagliStati Uniti di Obama o dalle democrazie sudamericane. GadLerner ha più volte sottolineato come il fuoco dell’analisi siarappresentato da quella «speranza fallace che l’arricchimento dipochi generasse maggior benessere per tutti», affidando il pro-prio destino nelle mani di imprenditori che perseguivano l’ar-ricchimento personale e questo figurava come l’unico modellodi comportamento imitabile. Questo appare ancor più marca-to in Italia dove oltre 4 milioni 400 mila imprese hanno una di-mensione media di 3,9 addetti; dove l’incidenza della partite Ivasupera ogni altro Paese europeo. Si può allora ricondurre tuttoa un individualismo estremo sollecitato proprio dalla globaliz-zazione? Quali sono invece le mancanze della sinistra moder-na? Quali sono le mancanze da attribuire a un sindacato sem-pre più disarmato?Proprio in questi giorni, mentre il G20 in Canada ci restituisceun quadro praticamente immutato, i governi europei hannoscelto la linea dell’euro-austerity e di una strategia nazionalisticae conservativa basata su una riduzione del perimetro pubblicoe su un attacco al welfare.In Italia tutto questo si combina con: un’economia già in decli-no prima della crisi a cui si lega la frammentazione e la preca-rizzazione del mondo del lavoro; le difficoltà dei partiti di mas-sa, soprattutto quelli legati al movimento operaio; la «proleta-rizzazione» della destra estrema unita con l’affermazione dellatelevisione commerciale; i conflitti legati al tema della sicurezzae dell’immigrazione, problema da sempre irrisolto a sinistra.La società italiana può essere definita come uno «specchio rot-to» – definizione coniata da diversi illustri pensatori e studiosi –nel quale è diventato impossibile ritrovare un’identità collettiva,

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una visione unitaria del bene comune e l’esistenza operante d’u-na classe dirigente degna del nome. Un’immagine frantumatache è arrivata a non riflettere neppure i nostri personali egoismi,data l’incapacità di comprendere l’interesse concreto da perse-guire egoisticamente e persino l’esistenza stessa di un interessein grado di dare felicità.

Le elezioni regionali del 2010Queste considerazioni trovano un primo riscontro già nell’ana-lisi dei dati e dei flussi elettorali delle regionali 2010.

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Il voto aggregato nelle 13 regioni dal 2005 ad oggi (dato re-lativo al voto ai partiti)

Fonte: IRES-SWG.

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Il quadro emerso dalle regionali evidenzia che i rapporti di forzafra le coalizioni di centrosinistra e di centrodestra, in Italia, ri-mangono pressoché inalterati rispetto ai risultati fatti segnare alleelezioni europee e, in misura approssimativa, alle elezioni politi-che del 2008, dove quegli stessi rapporti di forza sono cambiati.Ciò che è mutato da allora è la ricomposizione dei consensi e deirapporti di forza all’interno delle due coalizioni e, in particolare,nella coalizione di centrodestra, dove si registra invece che la LegaNord – oltre a portare alla vittoria i propri candidati in due re-gioni – avanza prepotentemente in tutte le aree del Settentrionee in quelle centrosettentrionali, surclassando il Pdl in Veneto.Resta da osservare che in Piemonte il centrosinistra recupera con-sensi rispetto alle elezioni europee, ma viene frenato dalla dimen-sione erosiva della lista di Beppe Grillo. La vera novità elettoraledegli ultimi anni è rappresentata dalla Lega Nord, oggi più di ie-ri baricentro autentico della maggioranza di governo e delle di-namiche della politica italiana.In realtà, a fronte di ogni crisi economica – dalla recessione del1992 all’attuale crisi globale – e della rapida espansione della po-polazione migrante, la Lega Nord ha sempre riscosso maggiorisuccessi, interpretando meglio di altri le esigenze della popola-zione locale, da un lato con l’azione degli amministratori comu-nali, e dall’altro attraverso le dichiarazioni, talvolta aggressive, dei«colonnelli» di partito tutte orientate all’affermazione di un’i-dentità i cui argomenti si concentrano tutti su sicurezza, etica,rinnovamento.L’Idv, in diverso modo, resiste alla prova dell’alternativa e dopo lasvolta riformista del Congresso di partito, il gruppo «dipietrista»perde un po’ di elettorato della protesta, ma acquista fiducia nel-le regioni rosse e si avvantaggia dell’abbraccio con il Pd. Pur allaricerca di un maggiore consenso, continua a delinearsi come unpartito che trova seguito in una fascia d’età medio-alta, mai di cen-trodestra, anzi contro Berlusconi, che dai «girotondini» ai «mal-dipancisti» risiedono in più aree del Paese e della società, cheesprimono il loro voto di protesta collocandosi in un’area cultu-rale apparentemente laica ma buona parte dell’elettorato di riferi-

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mento risulta cattolico, non radicale e non particolarmente «pro-positivo». Un’area pressoché «antipolitica», non nuova, che, a dif-ferenza della Lega, in altro modo «antipolitica», non conquisteràprobabilmente più spazio di quanto già raccolto, malgrado il pri-mo appoggio del «movimento viola». La prospettiva strutturalesviluppata da Maurice Duverger che crea una tripartizione delprocesso di creazione dei partiti colloca tale formazione tra i co-siddetti partiti antiparlamentari, che raccolgono appunto malcon-tento e insoddisfazione nei confronti del Parlamento.Il primo dato da considerare, però, è quello di una duplice scon-fitta complessiva che segna i due principali partiti. Pdl e Pd, ri-spetto alle politiche, perdono oltre 5 milioni di votanti il primo e4,5 milioni il secondo. Mentre il Pd cede parte dei suoi consensiall’Idv, il Pdl li cede direttamente all’astensione e in piccola partealla Lega. Messo da parte questo dato generale, se osserviamo letrasformazioni della geografia politica tra la precedente tornataelettorale per le regionali e quella attuale, possiamo aggiungere al-cuni ulteriori elementi. In primo luogo è cambiato il colore politi-co dell’Italia. Il Pdl, nonostante la caduta di consensi, diventa ilpartito di maggioranza relativa nelle 13 regioni (con il 26,8% deiconsensi), tallonato a brevissima distanza dal Pd (che registra il26,1 dei consensi). Cinque anni fa il quadro era invertito: nelle 13regioni il partito di maggioranza era il Pd (34,1%, contro il 30,9%del Pdl). Vincitori di questa tornata elettorale sono, invece, le alipiù estreme dei due schieramenti. Rispetto al 2005 la Lega Nordfa registrare un raddoppio dei consensi (dal 5,7% al 12,3%) el’Idv (dall’1,4% al 7%).Le regionali, nonostante il successo di Vendola, non portanobuone novelle alla sinistra radicale: il loro vecchio popolo nonc’è più. L’ex arcipelago di sinistra, nel 2005, portava a casa unsecco 10,9% dei consensi. Oggi quel patrimonio resta un pio ri-cordo e i voti si fermano al 5,8 per cento. Infine, i dati concretici dicono che il progetto terzopolista è indebolito. Se l’Udc nel2009 aveva superato il 6% dei voti, oggi, il quadro sembra unpo’ più grigio e il partito di Casini cede voti sia al Pdl (7,5%) siaal Pd (7%).

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Il confronto fra Pd e Pdl si colloca così su un piano minore. Il pri-mo regge sui risultati delle europee anche se considerando i flus-si di consenso verso le liste dei Presidenti apparirebbe in leggeraripresa. Il Pdl, al Nord, vive un’emorragia di voti, in primis, versol’astensione e successivamente verso la Lega, mentre al Sud, non-ostante la vittoria in Campania e in Calabria, sembra aver esauri-to la sua fase espansiva. Degno di attenzione il risultato di RenataPolverini nel Lazio, che recupera a livello personale e di lista, iconsensi virtuali al Pdl. Nella sua affermazione non è probabil-mente estranea una chiave empatica suscitata nell’opinione pub-blica su un percepito di vittimizzazione.

Il non votoIl non voto è il primo partito. Centrodestra e centrosinistra la-sciano a casa milioni di elettori: la fuga dal voto di un elettoratostanco si ritrova nell’analisi dei flussi di voto in ogni regione. NelLazio e in Toscana si è registrato il più alto calo di votanti rispet-to alle elezioni europee del 2009. In Calabria più astenuti. InBasilicata il minor crollo di partecipazione. In definitiva, 8 milio-ni di persone dalle politiche del 2008 alle regionali del 2010, nel-le 13 regioni che sono andate al voto, hanno deciso di stare a ca-sa e di non partecipare a questa competizione. Le Regioni resta-no degli attivatori politici a bassa intensità, ma la nuova geogra-fia dei rapporti di forza politici, a livello nazionale, che esce dalleurne è segnata da questa ritirata politica di massa. L’aumento progressivo del numero di astensioni, fino al 36% at-tuale (dato più alto dal Dopoguerra), non è altro che il perpe-tuarsi dell’effetto di distacco dalla politica che avevamo registra-to anche nelle precedenti elezioni politiche (2008) e che, in real-tà, conferma una tendenza in atto dalla fine degli anni Ottanta:le astensioni alle politiche (per la Camera dei Deputati) nel 1987risultavano pari all’11,1 per cento. L’astensionismo inizialmentecolpisce più l’area di centrosinistra, nelle Regionali 2010, invece,investe di più il centrodestra.Ilvo Diamanti (il 12 aprile 2010 su «la Repubblica») si interro-ga se si può parlare di «Partito del non-voto» e sottolineando l’e-

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terogeneità dei non votanti, ne descrive alcune tipologie: «quel-li che non votano per forza maggiore; le persone marginali, apa-tiche e disinteressate; quelli che esprimono protesta contro il si-stema; quelli che non si sentono rappresentati; quelli che si fida-no chiunque vinca; quelli convinti che il loro voto non conti;quelli che intendono usare il (non) voto come ammonimento aipartiti, soprattutto di governo». Insomma, i non votanti per for-za maggiore si riducono e gli «intermittenti» aumentano. La fe-deltà ai partiti ormai è molto ridimensionata e gli incerti (i tiepi-di danteschi) sono tanti.Tuttavia, il fenomeno dell’astensionismo rientra in quelle dina-miche da studiare con estrema attenzione e profondità (comeaccennato all’inizio).

Il voto del lavoroL’analisi del voto dei lavoratori dipendenti italiani si confermaanche nell’ultima tornata elettorale in linea con il voto generale,confermando una tendenza a preferire il centrodestra dal 2008.

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Il voto dei lavoratori dipendenti aggregato nelle 13 regionidal 2005 ad oggi (relativo al voto ai partiti)

Fonte: IRES-SWG.

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Scomponendo ulteriormente il voto del lavoro dipendente, siriescono a distinguere alcune altre dinamiche. Mentre il votodegli impiegati privati si mostra sostanzialmente allineato con ilpiù generale voto del lavoro, il voto degli operai (sempre più adestra) risulta amplificare la stessa tendenza.

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Il voto degli impiegati privati aggregato nelle 13 regioni dal2005 ad oggi (relativo al voto ai partiti)

Fonte: IRES-SWG.

In controtendenza, si afferma il voto dei lavoratori pubblici edei pensionati (che confermano il centrosinistra).

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Il voto degli operai aggregato nelle 13 regioni dal 2005 adoggi (relativo al voto ai partiti)

Il voto degli impiegati pubblici aggregato nelle 13 regionidal 2005 ad oggi (relativo al voto ai partiti)

Fonti: IRES-SWG.

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Un dato su cui corre l’obbligo di soffermarsi, invece, è quello delvoto delle nuove generazioni. I giovani studenti scelgono il cen-trosinistra e si spaccano di fronte ai due partiti maggioritari. Igiovani lavoratori votano per il centrodestra. La chiave di lettu-ra possiamo ricondurla a quella speranza che in giovane età, so-prattutto per i «figli dell’89», fa la differenza nella scelta di unpartito (e di una politica) piuttosto che di un altro (e di un’altrapolitica!). Jack Kerouac almeno diceva: «Dove andiamo? Nonlo so, ma dobbiamo andare».

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Il voto dei pensionati aggregato nelle 13 regioni dal 2005 adoggi (relativo al voto ai partiti)

Fonte: IRES-SWG.

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Secondo Umberto Galimberti se manca lo scopo, manca il per-ché. Di conseguenza, anche la forza, la fiducia che qualcosa possacambiare. Non basta l’ottimismo che i nostri canali televisivi ognigiorno cercano di diffondere, perché il pessimismo e la sfiducia so-no ormai dentro l’anima, e la consumano privandola di slanci eideazioni. Siccome il disagio giovanile oggi non è tanto «esisten-ziale» quanto «culturale», c’è bisogno di una politica che non siasolo una difesa strenua di interessi, o peggio di clientele, ma sap-pia offrire almeno la fiducia che non tutto è immodificabile.

Il voto di classeOggi, per alcuni, anzi per molti, i termini Sinistra e Destra nonesprimono più la natura politica della realtà – fenomeno che la ca-duta delle ideologie ha accelerato. È altrettanto vero, però, che re-stano alcuni elementi distintivi di una visione piuttosto che di

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Il voto dei giovani alle elezioni regionali 2010

Fonte: IRES-SWG.

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un’altra della società. Alcuni tratti distintivi della collocazione po-litica ancora si intravedono nella classe occupazionale, nell’appar-tenenza religiosa e nell’area geografica di residenza. Anche se la verità è che i comportamenti elettorali non corrispon-dono quasi più a condizioni specifiche «di classe», sia secondo ladefinizione marxista, sia secondo quella weberiana. Non è più l’es-sere sociale a determinare la coscienza, ma sempre di più l’identi-tà del contesto territoriale e, più in generale, gli interessi. La letteratura sociologica degli ultimi vent’anni ha prodotto mol-to sul declino delle classi sociali e sulla fine del proletariato (daAndré Gorz che già nel 1980 parlava di «addio al proletariato»nella prospettiva di un marxismo post-classista, fino a The break-down of class politics di Clark e Lipset del 2001). Il punto a cui siè arrivati oggi, nell’era del cosiddetto postfordismo, risiede quin-di nell’integrazione «individuale» del lavoro nelle logiche d’im-presa: il lavoro si dis-integra (come afferma Salvo Leonardi) o side-massifica (come invece afferma Aris Accornero) come sog-getto collettivo. E di fronte a tutto questo, solo dal 1968 al 1976 la somma di tut-ti i partiti di sinistra superò il 50 per cento. Negli anni Settanta eOttanta, poi, la possibilità di prevedere il voto di un elettore inbase alle sue caratteristiche sociali era molto più alta di quanto losia stata nell’ultimo decennio proprio per quegli elementi distin-tivi di cui sopra. Nello scenario attuale il voto del lavoro, più li-quido, rappresenta più che mai la frontiera da conquistare pervincere le elezioni. Questo come portato di un voto che avevageneralmente basi consolidate, collettivamente coese e riprodu-ceva negli emicicli del Parlamento fratture – tra laici e cattolici,tra datori di lavoro e salariati, tra subculture territoriali appunto– che avevano radici lontane nel tempo ma che tuttavia erano an-cora facilmente osservabili nella società italiana di allora. Comesostengono Salvatore Vassallo e Simone Sarti, la prevalenza diuna cultura laica nelle regioni dell’Italia centrale, il radicamentocattolico nelle regioni del Nord e in particolare nella piccola pro-prietà agricola, la diffusione della classe operaia in alcune aree adaccentuato sviluppo industriale, così come l’arretratezza econo-

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mica del Sud e la propensione pro-governativa del suo elettora-to, o la coesione degli occupati in alcuni settori della PubblicaAmministrazione, disegnavano confini tra gruppi sociali omoge-nei, in cui i principali partiti politici, Dc, Pci e Psi, trovavano ba-cini stabili di voti. La conseguenza, quindi, è che, dai primi anni Novanta a oggi, sog-gettivizzazione, globalizzazione e sviluppo tecnologico (compresala rete in cui si riversano anche i rapporti interpersonali) hanno ali-mentato la spinta individualistica, dettata dall’emergere di insicu-rezze sociali ed economiche, che ha investito la maggior parte deilavoratori (votanti). E nell’era della globalizzazione, purtroppo, so-lo il centrodestra sembra saper rispondere all’angoscia, alla paura,alla solitudine. Insicurezze che, al contrario, dovrebbero ricevererisposte in termini di uguaglianza, compresa la lotta al razzismo,giustizia, libertà, termini che distinguono la sinistra dalla destra(Norberto Bobbio). La verità è che spiegare una visione della società da sinistra è mol-to più complesso. È necessaria indubbiamente una grande spin-ta culturale che usi le principali elaborazioni degli ultimi decenni(ad esempio di Amartya Sen, Zigmund Bauman, Ulrich Beck,Manuel Castells, Anthony Giddens) non solo come descrizionedei problemi della postmodernità – la società in rete, la società li-quida, la società dell’incertezza, l’integrazione e il multiculturali-smo –, ma come spunto per soluzioni riformiste e riformatrici chediano senso ai gruppi sociali (non alimentandone semplicementele frustrazioni). Serve un grande progetto culturale da affermarequasi pedagogicamente. Antonio Gramsci sosteneva che «[si de-ve] costruire un blocco intellettuale-morale che renda politica-mente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo discarsi gruppi intellettuali … per una riforma culturale e moraledella società». Un’idea di squadra. Una linea che, superando il lea-derismo e il personalismo, affermi una nuova etica della respon-sabilità politica e sociale, nella quale deve sempre venire prima lo«spirito di servizio», verso il Paese e chi si rappresenta.È evidente che di fronte all’ormai riconosciuta «laicizzazione del-le preferenze», dinnanzi alla caduta certificata delle ideologie, il

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principale raccoglitore e beneficiario, in Italia come in altri Paesi,sembra essere il centrodestra. Nel 2008 i dati elettorali già mo-stravano come la conquista maggioritaria degli operai e, in gene-rale, dei lavoratori dipendenti privati risultasse decisiva per il suc-cesso elettorale. E questo evidenzia che, al di là delle intenzioni, illavoro sia «politicamente centrale». Da un punto di vista geogra-fico, si attenuano le tendenze del secolo scorso. Coesistono, però, da sempre più fattori che tracciano tendenzediverse: una tradizione subculturale nel Nord e, in particolare,nel Nord Est che si trasmette dai datori di lavoro ai lavoratori sa-lariati, a volte in termini di subalternità; una cultura «inversa»che trasmette valori dai lavoratori e dai ceti popolari agli im-prenditori (nelle cosiddette Regioni rosse). I sindacati debbono perciò interessarsi del voto del lavoro.Nonostante, infatti, si sia allentata dal 1987 la correlazione tratasso di sindacalizzazione e voto (in rapporto ai ‘ponti’ tra Cgil ePci, oppure tra Cisl e Dc), i sindacati – apparentemente non toc-cati da fenomeni di erosione – non possono ritenersi al sicuro enon possono disinteressarsi del «voto operaio» essenzialmenteper due ragioni:• potrebbe crescere il malessere anche rispetto a come i sinda-cati affrontano la caratterizzazione di classe e, più in generale lastessa questione sociale, dal lavoro, ai salari, alla democrazia;• la domanda di regolazione che viene dai lavoratori non sem-bra orientarsi solo su temi territoriali o di sicurezza locale ma ri-guarda in generale il futuro che i soggetti di rappresentanza pro-spettano o offrono ai lavoratori dipendenti al di là delle tuteleimmediate. E questo non riguarda solo le forze politiche ma an-che i sindacati.Bruno Trentin affermava che «la politica deve convincere i lavora-tori, non tanto nella loro collocazione politica, quanto nel costrui-re un progetto sociale fondato sul lavoro». Lo stesso Segretario del-la Cgil, a Chianciano nel 1989, nella relazione alla Conferenza diprogramma che cambiò la storia della Cgil, sosteneva anche che «ilprogramma diventa vincolo, e dunque richiede coerenza di com-portamento, verifica dei risultati, responsabilità dei gruppi dirigen-

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ti». In tal senso, il sindacato fonda il suo progetto e la sua azione suuna forte autonomia, ma non su indifferenza e neutralità politica.Il sindacato si è battuto e deve continuare a battersi per affer-mare valori, principi, politiche sociali e di diritto all’insegna del-l’uguaglianza e dell’equità.

La visione della società Alfredo Reichlin (il 21 aprile su «l’Unità») sostiene che «il pro-blema non è più battere Berlusconi ma salvare il paese dal decli-no e coinvolgere gli italiani in un forte e moderno progetto di uni-tà nazionale» (proprio nel 150° anniversario dell’unità d’Italia). Ilproblema però è che lo stesso presidente del Consiglio e quel po-pulismo plebiscitario fondato su una bassa alfabetizzazione poli-tica rappresentano una parte importante del declino del Paese,che vanno quindi affrontati insieme alla costruzione di un nuovo«risorgimento».Senza entrare in questa sede sulla definizione della filosofia poli-tica più idonea e sul conflitto redistributivo più adatto a perse-guire gli obiettivi utili a un «progetto paese»dumpi in cui ritrova-re la crescita e lo sviluppo, la buona e sicura occupazione, il so-stegno ai redditi e il risanamento dei conti – e per questa via usci-re dalla crisi –, appare intuitivo un ventaglio minimo di respon-sabilità che devono assumersi i diversi attori istituzionali e sociali. Cominciamo dal Sindacato. Estendere la rappresentanza, rinno-vare la rappresentatività e allargare la contrattazione sono i pri-mi passi per riunificare e ricomporre il mercato del lavoro. Fortidella solidarietà del e nel lavoro il Sindacato deve contrattare lecondizioni di lavoro tanto quanto contrastare gli abusi e le pre-potenze. Chiaramente, in questa strategia è necessario ricostrui-re l’unità sindacale. E bisogna farlo in funzione della democra-zia stessa, obiettivo che senz’altro riguarda le forze politiche delcentrosinistra, non solo il sindacato. Il sindacato diviso non aiu-ta a creare un’alternativa di governo, sebbene oggi non si possapiù contare più sull’automatismo tra iscrizione ed espressione divoto come nel passato. Una cosa però è certificata: la divisionedel sindacato rappresenta un valore aggiunto per il centrodestra.

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Bisogna ritrovare dunque un respiro unitario della rappresentan-za sociale e fare più contrattazione, fino ad arrivare a contrattarelo stesso sviluppo delle imprese, concertare lo sviluppo dell’eco-nomia, sulla base della competenza, dei saperi e del merito, sianell’industria moderna, sia nei servizi e nei settori strettamente ri-conducibili all’economia della conoscenza. Il modello tedesco dicogestione e codeterminazione dei processi d’impresa deve rap-presentare una tensione ideale. In tre parole: democrazia sinda-cale, democrazia industriale e democrazia economica.Il governo, qualsiasi governo, invece, dovrebbe innanzitutto farele riforme necessarie a imprimere equità al sistema cominciandodal fisco, dal welfare e dall’istruzione. Il governo non può e nondeve esimersi dal governare il mercato, che rappresenta un’istitu-zione alla pari dello Stato. La politica industriale è indispensabi-le per far crescere il sistema di imprese e creare buona occupa-zione. Il caso della Fiat di Pomigliano – prima ancora che unproblema di turni, demansionamenti, o di assenteismi e deroghea leggi e contratti – si presenta come un problema di produzio-ne (la Panda!), connesso all’innovazione necessaria per conqui-stare quote di mercato internazionale. Di fronte all’assenza distandard internazionali di tutela non si può continuare a com-petere sui costi della produzione e dei diritti. Si deve investire,investire e investire, per trovare la via alta della competitività, so-spinta dall’alta intensità della tecnologia e della conoscenza neiprocessi e nei prodotti, per «scoprire» le quote di mercato glo-bale da conquistare e aprire la strada della qualità, dello svilup-po e del lavoro. Vale per il sindacato ma – anche qui – vale pertutte le forze politiche del centrosinistra: il modello di sviluppoglobale che ha portato alla crisi implica una riflessione sulla «so-glia» da raggiungere per contrastare l’attuale dumping sociale, equello futuro, che investirà milioni di lavoratori che si affacce-ranno sul mercato del lavoro già senza diritti. Questo è il ruolo delle imprese. Cercare di non essere un mo-mento, ma «un’attività economica professionalmente organizzataal fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi» (art.2082, Cod. Civile) che cresce, guida l’economia e lo sviluppo.

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Ai partiti, tutti, Alfredo Reichlin attribuisce «la colpa di non pro-durre idee ma “uomini soli al comando”, tanto pericolosi quan-to impotenti». Un problema che riguarda tutta la società e nonsolo i partiti. Ma il problema dei partiti è che «non fanno piùStoria, non fanno più Stato».Un altro ammonimento, un anno prima, viene fatto dal Presidentedella Repubblica Giorgio Napolitano, che spinge a proteggere leistituzioni dalla sfiducia verso i partiti, sostenendo la partecipazio-ne come anticorpo affinché non contino solo i «notabili». A questo punto abbiamo tutti gli elementi per comprendere le di-rettrici di quella buona politica a cui deve aspirare un partito, co-me il Pd, a vocazione maggioritaria, un partito di governo. E tut-te vanno nella stessa direzione: recuperare una visione della socie-tà, una narrazione, una capacità immaginativa, in un’idea di parti-to fondata su identità, radicamento, disciplina e sintesi.Recuperare, insomma, una visione e un ruolo della Politica (e deipartiti) dalla Costituzione, dove, oltre ai «fondamentali», già sitrova la società del futuro, le cui parole-chiave sono: uguaglianza,equità, libertà, dignità, giustizia, partecipazione, sviluppo, pub-blico, merito, cultura e, soprattutto, lavoro.In conclusione, il Pd deve essere capace di rappresentare il mo-tore per costruire una robusta alleanza tra tutte le forze del cen-trosinistra. Qui si ripropone l’antica domanda del che fare.Un’alternativa si costruisce solo ricostituendo un blocco sociale,che va dai lavoratori, ai pensionati, ai giovani professionisti, almondo dei saperi, agli immigrati, alle imprese innovative, e chesi ritrovi in un progetto per il Paese. Un progetto sorretto daun’alleanza politica nel centrosinistra che porti a scegliere un pro-gramma e a renderlo chiaro: contenuti chiari e alternativi al rigo-rismo che difende gli interessi precostituiti del ministro Tremontio al populismo della Lega. Un progetto che si fondi su forme dipartecipazione, politica e sociale, organizzate e radicate nella so-cietà civile (come i partiti dovrebbero essere). Un programma,quindi, che tragga la giusta lezione dalla crisi e che si concentri sualcuni punti per il futuro dell’Italia: lavoro; uguaglianza; crescita;ambiente; democrazia. !

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Giunti al momento della verità, la Fiom Cgil ha detto «no». Datala situazione, non esistevano altre strade. Un brivido è corso nellaclasse operaia italiana al cui interno si è discusso più di Pomiglianoche dello stesso sciopero generale indetto dalla Cgil. La Fiom hainterpretato un largo sentire: Pomigliano è stato il segno più pla-stico dell’irrompere della globalizzazione nella concreta organiz-zazione e condizione di lavoro di milioni di lavoratori.Ma se riavvolgiamo il film e ipotizziamo una riflessione ripar-tendo da zero, quali considerazioni è possibile trarre? È neces-sario porsi la domanda sia perché la storia non è conclusa, e sa-rebbe privo di senso aspettare l’esplodere delle contraddizioni,sia perché molti esplicitamente puntano ad attribuire alla vicen-da lo stesso significato di spartiacque attribuito al referendumsulla scala mobile: Pomigliano diventa la prova che si possonocioè gestire le dinamiche aziendali, senza o contro la Fiom e sen-za o contro la Cgil.«Conosci te stesso e il tuo nemico: cento battaglie cento vittorie»così il grande Sun Zhe fissava nell’antica Cina uno dei più gran-di principi strategici. Applicando tale principio, bisogna convenire con Marchionnesu alcune questioni essenziali: la crisi attuale è crisi da sovrap-produzione a livello mondiale, l’eccesso della capacità produtti-

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IL CASO POMIGLIANO

Luigi Agostini e Marcello MalerbaLa globalizzazione arriva alla Fiat di Pomigliano

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va nei settori fondamentali supera il trenta per cento; produrreauto nel mercato globale, significa produrre secondo regole ecriteri di costi ed efficienza confrontabili su scala globale: in pri-mo luogo secondo due regole, massima utilizzazione degli im-pianti e massima flessibilità; a Pomigliano esistono vari proble-mi di governo della forza lavoro che vanno persino oltre la logi-ca del conflitto puramente sindacale e che devono essere risolti. A ciò Marchionne aggiunge l’esigenza, per rendere mondial-mente competitivo lo stabilimento, di introdurre le più «moder-ne tecniche» di organizzazione del lavoro: la cosiddetta ‘metricagiapponese’. Inoltre tale scelta avviene in un contesto in cui ilmondo occidentale ha deciso, di fatto, dopo il grande salvatag-gio finanziario, una politica deflazionistica e in cui la globalizza-zione lavora a rendere comparabili nel tempo e nello spazio i li-velli salariali e le condizioni di lavoro. Difficile, quindi, per il sin-dacato, pensare, a breve, di invertire la tendenza, dati i rapportidi forza e le tendenze di fondo: la globalizzazione, come ci ri-corda Luciano Gallino, è in primo luogo una politica del lavoroalla scala del mondo.Da un punto di vista strategico il problema principale è qualestrategia un sindacato con la storia della Cgil può darsi in unquadro dove il gioco si fa stretto fra deflazione-austerità (quindirecessione economica) e globalizzazione delle condizioni di la-voro. Dal nostro punto di vista, che sconta una analisi sufficien-temente realistica, è tutto discutibile, tranne ciò che serve a con-trastare l’aumento delle disuguaglianze e il peggioramento dellacondizione concreta di lavoro. La condizione di lavoro diventail punto chiave, la distribuzione del reddito segue; in generale èsempre stato così, la distribuzione del reddito è sempre stata as-soggettata ad avanzate e ritirate secondo i cicli economici. Macon la globalizzazione e con l’attuale crisi, la gerarchia tra i dueaspetti è diventata ancora più ferrea, e impone delle scelte.La condizione di lavoro, la sua organizzazione, rappresenta quin-di il cuore della discussione e del confronto. Tale condizione de-ve fare i conti con lo stato dello sviluppo tecnologico, le tenden-ze che ne sono intrinseche, i vincoli che, di fatto, si presentano

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come difficilmente superabili o aggirabili. Ora l’organizzazionedel lavoro che Marchionne vuole introdurre è durissima da sop-portare. È sbagliato pensarla come una nuova forma di schiavi-tù. Di nuovi iloti. Essa è molto di più. Essa tende a trasformarel’operaio letteralmente in un robot. Chi non ha mai lavorato infabbrica e nel lavoro vincolato purtroppo non percepisce nean-che con l’immaginazione che cosa vuol dire.Chi ha lavorato nel lavoro a catena, sa quanto duro esso possarisultare. Ma l’introduzione della «metrica» cancella ogni e qual-siasi soggettività nel lavoro. La vecchia catena poteva ancora lasciare qualche spazio alla sog-gettività. Il nuovo sistema azzera ogni possibilità. Qui sta il cuo-re del problema da affrontare, qui sta lo «scandalo» della nuo-va organizzazione del lavoro, su cui riflettere, dopo anni di frasienfatiche sul superamento del fordismo.Alla durezza della vecchia catena le lotte sindacali avevano rispo-sto con proposte tese a ricomporre il lavoro o a creare isole di la-voro non vincolato, finalizzate alla realizzazione di un prodottopiù complesso e finito, anche se a sua volta sottoparte. A ciò ve-niva legata anche qualche forma di arricchimento professionale.Lo sviluppo tecnologico ha permesso di aggirare tale risposta.Il punto analitico dal quale partire è che per produrre in grandeserie un prodotto identico a se stesso al minor costo possibile, di-venta irresistibile concepire questo prodotto come il risultato del-la somma delle operazioni elementari fisiche e chimiche che sononecessarie per la sua realizzazione. Il prodotto come algoritmo. Losviluppo tecnologico delle operazioni di lavorazione macchina el’introduzione del robot in molte operazioni anche di montaggio,rese possibili dalla rivoluzione del calcolo computerizzato, hannodi fatto relegato l’operaio a riempire i buchi del processo che unosviluppo tecnologico ancora insufficiente non ha saputo per ilmomento riempire. In ultima analisi i buchi in fondo coincidonocon i compiti nei quali soprattutto il senso della visione, e la con-seguente elaborazione dell’informazione che ne deriva, è essen-ziale per prendere la decisione operativa e metterla in pratica. In fondo è difficile negare che produrre in modo efficiente pro-

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dotti tutti uguali, o con varianti che non cambiano il concetto,una volta progettati, coincida con la riduzione del processo pro-duttivo a una somma di operazioni elementari da svolgere ideal-mente in modo automatico. La tecnologia meccanica è stata que-sto. L’introduzione dell’informatica ha portato tutto ciò all’estre-mo (e vi ha aggiunto la flessibilità), applicando la logica dell’algo-ritmo, che altro non è che la scomposizione matematica e proce-durale di un compito altrimenti complesso e non ha fatto altroche estendere il metodo a lavori e compiti nei quali erano impe-gnati i vari sensi dell’uomo. Il limite tecnologico di questo svilup-po del processo produttivo si colloca oggi là dove il senso umanoè in modo incompleto sostituito da quello tecnologico e dove lacomplessità della decisione che ne deriva subisce conseguente-mente limitazione nella sua trasformazione in algoritmo. Ma que-sto limite è tecnologicamente e scientificamente mobile e non vi èricerca scientifica che non lavori per superarlo continuamente.Conseguentemente ogni ricerca di nuovi modelli produttivi è,nella sostanza, spinta alla base da questa strutturazione dello sta-dio attuale dello sviluppo della scienza e della tecnica e ciò ne con-forma anche gli aspetti sociali riducendo, per via mercato e glo-balizzazione, gli spazi di soggettività oggettivamente possibili.Dunque, potremmo dire che in attesa della fabbrica automaticadi auto abbiamo l’operaio che ne riempie i buchi non ancora tec-nologicamente superati. L’operaio come interstizio fra processiautomatici e robot. Ridotto conseguentemente pure lui alla stessalogica. A robot. Al fondo, le basi concettuali della «metrica» giap-ponese, sono da ricercare nei concetti di realizzazione e program-mazione dei robot. Questa volta applicata all’uomo. Allora, a me-no che qualcuno non proponga un modo diverso di lavorare checontraddica quanto sopra e sia capace di competere sul mercatoglobale, l’alternativa diventa drammatica: o lavorare secondo unprocesso di lavoro di difficile modificabilità o non lavorare.D’altronde, c’è sempre qualcuno nel mondo al quale il capitalepuò chiedere di trasformarsi in robot. E con successo.Eppure un’altra via per fare auto a Pomigliano era e può essere,al momento, ravvisabile.

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Dal profluvio di stampa di questi giorni, risulta che oggi si lavo-ri a turni di otto ore su cinque giorni con due pause di quindiciminuti, una di dieci minuti e mezzora di pausa mensa. Ciò si-gnifica un utilizzo degli impianti, fatto per due turni giornalieri,di ore 13.40. Un po’ più di 68 ore settimanali. Con dentro 20 in-terruzioni di produzione giornaliera, 100 interruzioni settima-nali. Di fatto l’equivalente – in termini di interruzioni – di unosciopero fortemente articolato, finalizzato a pesare il massimosul processo produttivo.Difficile negare che un grande investimento come quello pro-messo da Marchionne, debba scontare un utilizzo degli impiantitendenzialmente continuo. Solo che nella attuale fase economicaesso rischierebbe paradossalmente di introdurre rigidità non gra-dite creando periodi dove si finirebbe per produrre per i piazza-li e magazzino. Ecco dunque la ragione di un aumento dell’uti-lizzo degli impianti che lasci spazio a una flessibilità di scelta: i seigiorni su tre turni più la possibilità di 120 ore di straordinario ob-bligatorie. E le altre modalità previste dall’accordo non firmatoda Fiom: modalità tese a imporre una disciplina a qualunque co-sto, proprio perché, a parte le caratteristiche specifiche dello sta-bilimento, l’azienda sa che chiede modi di lavorare durissimi.Ma davvero non ci sono altre strade? Perché non esplorare, ad esempio, la possibilità di lavorare susei giorni su quattro turni di sei ore ciascuno con una sola pau-sa intermedia e con l’eliminazione della mensa, non più neces-saria data la modalità di turnazione, e prevedere la possibilità direcuperare l’ora e mezza mancante alle 40 (2,30 essendo già pre-viste dal Ccnl come pausa pagata) sotto forma di flessibilità pro-duttiva aggiuntiva e normalizzare per questa via, l’orario di la-voro al dettato contrattuale: l’azienda avrebbe un aumento stra-tosferico dell’utilizzo degli impianti, superiore a quello previstodall’accordo, avrebbe la sua flessibilità aggiuntiva a costo stan-dard e non straordinario, recupererebbe interruzioni di proces-so passando dalle attuali 100 settimanali a 72 su sei giorni effet-tivi di utilizzo impianti. Ipotizzando una pausa intermedia nelturno di un quarto d’ora si passerebbe a un utilizzo degli im-

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pianti di 138 ore rispetto alle 68 attuali. Più del doppio.La condizione di lavoro sarebbe incomparabile per stress e fati-ca rispetto a ciò che si è deciso e la necessità di una dura disci-plina enormemente ridotta e affrontabile in un quadro rispetto-so dei principi sindacali e costituzionali, tra parentesi: anche unaautoregolamentazione dello sciopero temporanea non farebbescandalo, l’orario di lavoro ridotto alla sua componente mitica, le40 ore. Le esigenze di flessibilità familiare e personali dei lavora-tori rese incommensurabilmente più affrontabili. Riducendo unacausa fondamentale di assenteismo. Certo, si dovrebbero assu-mere altri lavoratori su 5000 per riempire i turni. Ma senza un au-mento di costo orario del lavoro – che è quello che conta in ter-mini di produttività – rispetto alla soluzione scelta con l’accordo.Anzi! Ci sarebbero certamente dei mal di pancia, forse anche distrati di qualche consistenza di dipendenti, abituati allo straordi-nario. D’altra parte, schemi di orario particolari, per le lavorazio-ni più pesanti e nocive fanno parte della storia sindacale dei tes-sili, dei siderurgici, dei chimici ecc. Ma si pensi a quale consensopolitico la Proposta qui avanzata avrebbe in quel territorio, affa-mato di occupazione e nel Paese. Tale proposta è comunque ingrado di tenere insieme condizione di lavoro e diritti nella globa-lizzazione, mostrando la percorribilità di altre strade. D’altra par-te i diritti sono sempre una conseguenza della condizione di lavo-ro e non viceversa. I diritti vengono sempre dopo, nella dinamicastorica e il cui destino non lo decidono i giuristi e tanto meno gliavvocati. Ora non si può escludere che Fiat e Marchionne abbia-no deciso di farsi strumento politico in una strategia tesa all’isola-mento politico della Cgil e che, quindi, questo ragionare sia inuti-le in quanto eccentrico rispetto a una sfida padronale decisa su al-tri piani. Ma l’equazione Sacconi =Marchionne sembra molto in-verosimile. Marchionne, per dirla con Marx, sembra più «un fun-zionario del capitale» al tempo della globalizzazione, del dopoCristo, che un padrone dedito a intrighi domestici di altri tempi,del prima di Cristo. E in ogni caso di fronte al concretissimo pro-blema della produzione e del lavoro industriale nel nuovo conte-sto della globalizzazione e della crisi, non esiste né una strategia

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dell’attesa, né una strategia della resistenza, che possa reggere alungo l’onda d’urto congiunta di tali fenomeni: solo una più ade-guata capacità di proposta sindacale può rendere l’attacco più de-bole – anche quando l’attacco dovesse essere squisitamente poli-tico – e può evitare la contrapposizione frontale tra lavoro e dirit-ti. Non sempre comunque paga buttarla solo in politica. L’esitodel referendum di Pomigliano ha rimesso in partita la Fiom e laCgil. Come diceva un saggio latino: Hic Rhodus, hic salta. !

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Non è un buon segno per la salute della democrazia quando si co-mincia a limitare anche di poco il diritto di sciopero. Quello cheinquieta di più in questa vicenda è la sproporzione tra la richiestaindecente di derogare alla Costituzione repubblicana e l’esigenzadi nuovi turni di lavoro, la quale poteva essere soddisfatta, a det-ta della Fiom, all’interno del contratto nazionale dei metalmecca-nici. I pasdaran annunciano che è l’inizio della fine dei contratti dilavoro. Ma i moderati vorrebbero rassicurare dicendo che èun’eccezione e non verrà applicata ad altri casi. Perché allora ciòche la legge e i contratti vietano alle altre aziende dovrebbe essereconcesso alla Fiat? E questa la chiamano concorrenza? Ai libera-li del dopolavoro bisogna ricordare che le leggi garantiscono nonsolo i diritti delle persone, ma perfino quelli delle imprese.Si vuole stravincere molto al di là dei problemi dell’organizza-zione del lavoro. Perché tanta furia ideologica? Per quale moti-vo in un Paese come l’Italia e in una regione come la Campaniagià segnati da tante lacerazioni si vuole aprire un’altra ferita?Come mai si sceglie la strada più difficile e aspra quando sareb-be bastato un appello ai lavoratori, ai sindacati e alle comunità lo-cali a rimboccarsi le maniche per far rivivere un grande impian-to industriale meridionale?

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IL CASO POMIGLIANO

Walter TocciLa globalizzazione arriva alla Fiat di Pomigliano

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No, ci sono tante cose che non tornano in questa vicenda.Dovremmo credere che è una decisione razionale chiudere unafabbrica polacca che funziona, spendere 700 milioni e ricomin-ciare tutto a Pomigliano? Dovremmo credere che tutto ciò si rea-lizzerà nel quadro di un raddoppio della produzione automobi-listica in Europa? È possibile in un mercato ormai saturo? Oggisotto il ricatto dell’occupazione si cancellano i diritti, domani sidirà che il mercato non tira e le promesse industriali non po-tranno essere mantenute. È un dubbio legittimo. Non sarebbe laprima volta che la Fiat non rispetta le promesse. Dobbiamo spe-rare a scatola chiusa che con Marchionne non si ripeta, solo per-ché è una persona simpatica e conosce il mondo? E poi facciamoci anche domande scomode: che Europa è maiquesta se si fa dumping sociale tra Paesi membri? A che vale scri-vere trattati sui diritti, tenere corti di giustizia comuni e spanderefiumi di retorica europeista? Se, a parti invertite, avessero sottrat-to Mirafiori per portarlo a Varsavia come avremmo reagito? Enon era questo dell’auto un settore industriale a domanda calan-te nel quale si dovevano concertare politiche di integrazione in-dustriale proprio per giocare le carte europee nella competizionemondiale? Si è lasciato gestire alla sala ovale la trattativa tra Opele Fiat, quando sarebbe stato lungimirante per la classe imprendi-toriale e politica europea trovare accordi di partnership indu-striale almeno venti anni fa. E oggi gli strateghi dell’establishmentvengono a fare lezioni di globalizzazione ai lavoratori? Tutto sembra un pretesto per cogliere un obiettivo diverso dal-l’organizzazione del lavoro. Siccome c’è l’assenteismo si devenegare il riconoscimento dell’assenza per malattia anche al lavo-ratore onesto? Le leggi ci sono, si facciano rispettare con i con-trolli necessari. Sembra però che la Fiat voglia espungere la leg-ge dai suoi stabilimenti. Eppure da oltre un secolo in Italia nonsi è approvata una legge che la Fiat non volesse. I suoi interessihanno condizionato tutte le decisioni politiche, hanno succhia-to le prebende statali, hanno preteso inutili incentivi alla rotta-mazione, hanno modificato il paesaggio italiano. Alle cure deisuoi manager sono state affidate le privatizzazioni dall’Alfa alla

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Telecom e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Per garantire ilsuo monopolio si è impedito per decenni l’ingresso in Italia adaltri industriali. Alla sua influenza sono stati sottomessi i princi-pali giornali nazionali e questa è la qualità dell’informazione, so-prattutto economica, che ci ritroviamo. Ora i manager si lamen-tano perfino delle troppe assenze degli operai che vanno a faregli scrutatori; forse hanno esagerato in passato nell’assecondarele richieste di assunzioni clientelari dei partiti. Certo, l’Italia ha avuto dei vantaggi dalla sua principale aziendaautomobilistica, ma ha pagato anche dei prezzi, non sappiamo seil saldo è positivo o negativo, ma certo i prezzi sono stati salati. Tutto ciò in passato serviva per lo sviluppo seppure distorto delPaese, ma ora dovremmo continuare a svenarci nei diritti per unsettore industriale senza futuro come quello dell’auto? Si torna aproporre al Meridione lo sviluppo basato su grandi impianti in-dustriali, secondo una strategia che non solo non ha dato frutti,ma forse ha perfino desertificato le pur deboli capacità impren-ditoriali locali. E oggi nell’economia della conoscenza le classi di-rigenti nazionali non hanno nient’altro da proporre per lo svilup-po del Sud che catene di montaggio più veloci. Ora ci vengono a dire che l’azienda torinese è diventata un’im-presa globale. Ma se è diventata grande dipende anche da ciò cheha ricevuto dall’Italia. E allora non può dire o così o me ne vadoall’estero. La Fiat non può fare ricatti, ha una responsabilità ver-so il Paese. A ricordarlo a nome del popolo italiano dovrebbe es-sere il governo in carica. Se al ministero ci fosse stato un demo-cristiano avrebbe già convocato le parti e trovato una mediazio-ne. Ora ci sono i nipotini di Craxi e i dipendenti di Berlusconiche sanno seminare solo la divisione tra i sindacati. Risparmiateci almeno il chiacchiericcio politico giornalistico, i so-liti editorialisti che dagli uffici ovattati discettano di turni di lavo-ro, i sindacalisti che fanno accordi tramite le interviste senza maimettere piede dentro una fabbrica, i capicorrente di questo oquel partito che rilasciano dichiarazioni per dimostrare di esiste-re anche se non hanno mai visto una catena di montaggio in vi-ta loro. Fateci il favore di smetterla, stavolta la questione è trop-

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po seria, non si fa ridurre ai soliti schemini del politichese.Ci avevano spiegato che il conflitto capitale-lavoro era finito, cheeravamo ormai nell’era postfordista, che gli operai erano scom-parsi. Eppure ci ritroviamo di fronte a un duro conflitto di lavo-ro che l’impresa vuole rendere inconciliabile. Se è così possiamosolo dire: siamo al fianco degli operai di Pomigliano. !

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UMBERTO CARPI , a lungo docente di Letteratura italiana nell’Università di Pisa, già senatore e consulente per l’Energia

del ministero delle Attività ProduttiveSILVANO ANDRIANI , economista, presidente della Fondazione Cespi

FABIO NICOLUCCI , analista strategico ed esperto di questioni mediorientaliELIO MATASSI , direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma

Tre e della rivista online «InSchibboleth»GIORGIO MACCIOTTA, studioso di problemi di finanza pubblica,

consigliere del CnelENZO ROGGI , giornalista, direttore del settimanale online «Ponte di Ferro»

MARILENA ADAMO, parlamentare PdLUIGI AGOSTINI , direttore della Fondazione Cespe

CARLOTTA GUALCO, direttore del Centro In EuropaGIORGIO RUFFOLO, economista, presidente del Cer

GRAZIELLA FALCONI , saggista, della redazione della rivista «Le nuove ragioni del socialismo»

AGOSTINO MEGALE, segretario generale Fisac Cgil, presidente dell’Ires-CgilRICCARDO SANNA, del Dipartimento economico Cgil Nazionale,

ricercatore dell’Ires-CgilMARCELLO MALERBA, Cgil Padova, segretario Fillea

WALTER TOCCI , parlamentare Pd, direttore della Fondazione Crs (Centro per laRiforma dello Stato)-Archivio Pietro Ingrao

«Argomenti umani» ha ottenuto nel 2005 un sostegno dal Ministero dei Beni culturali come rivista di alta cultura

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