Il ”regime ibrido”: un caso di gerrymandering conce ... · Ciascuna ondata di democratizzazione...

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CONVEGNO ANNUALE DELLA SOCIETA’ ITALIANA DI SCIENZA POLITICA (S.I.S.P.) 8/10 settembre 2011, Palermo PANEL: CHIARE LETTERE. ANALISI DEI CONCETTI POLTICI Chairs: Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi Titolo del paper: Il ”regime ibrido”: un caso di gerrymandering concettuale? di Mara Morini Università degli Studi di Genova ([email protected] ) ABSTRACT Con la nascita del paradigma delle democratizzazioni ad opera di O’Donnell, Schmitter e Whitehead (1986), lo studio del cambiamento di un regime politico è stato affrontato attraverso numerose prospettive, volte ad analizzare realtà geograficamente e temporalmente divergenti, cercando di inserirle all’interno di uno schema concettuale che descrive le particolarità intrinseche delle transizioni democratiche, dall’America Latina ai paesi dell’Est. Ciascuna ondata di democratizzazione nelle scienze sociali ha, infatti, contribuito ad una fase di grande riflessione teorica e analisi empirica, ma ha, al contempo, prodotto una vigorosa discussione sugli strumenti di analisi impiegati e sui risultati ottenuti attraverso i quali si può offrire una spiegazione, rigorosamente scientifica e concettualmente valida dell’entità, delle forme e delle cause del mutamento politico. Ulteriori sviluppi teorici e ricerche empiriche si sono concentrate sull’analisi di un tema più specifico che è diventato un «trend dominante» nella teoria democratica e negli studi sulla democratizzazione (Morlino 2008): il caso dei regimi ibridi. Termine, utilizzato per la prima volta da Terry Lynn Karl (1995) in riferimento all’America Centrale, che indica la formazione di un regime politico con caratteristiche miste, in parte democratiche e autoritarie che permangono nel tempo, è stato successivamente declinato in diverse etichette: democrazie semi-consolidate; regimi autoritari semi-consolidati (Freedom House), democrazie parziali (Epstein et al. 2006), democrazie elettorali (Diamond 1999), democrazie illiberali (Zakaria 1997), democrazia imperfette (Croissant e Merkel 2004), autoritarismi competitivi (Levitsky e Way 2002), semi-autoritarismi (Ottaway 2003), autoritarismi elettorali (Schedler 2006), regimi misti (Bunce e Wolchik 2008). La molteplicità di definizioni e attributi di questo concetto producono risposte alquanto vaghe al quesito della stabilità politica che sollecitano una riflessione (non solo in chiave critica) sullo sviluppo politico ed istituzionale degli emergenti sistemi politici. Se, da un lato, la diffusione di tali regimi nella terza ondata sembra costituire la parte del «leone», è plausibile affermare che siamo dinanzi all’elaborazione di una nuova categoria con la quale classificare i regimi in transizione ovvero si tratta di una contaminazione – una “zona grigia” – tra generi dicotomici? Il concetto di regime ibrido richiede, pertanto, una maggiore articolazione. Non si tratta soltanto di capire la sua rilevanza nell’analisi politica sulle democratizzazioni, ma anche di verificarne la validità nella operazionalizzazione in chiave empirica al fine di riformulare e apportare elementi di originalità al dibattito scientifico. Do not quote without author’s permission

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CONVEGNO ANNUALE DELLA SOCIETA’ ITALIANA DI SCIENZA POLITICA (S.I.S.P.)

8/10 settembre 2011, Palermo

PANEL: CHIARE LETTERE. ANALISI DEI CONCETTI POLTICI Chairs: Gianfranco Pasquino e Marco Valbruzzi

Titolo del paper:

Il ”regime ibrido”: un caso di gerrymandering concettuale?

di Mara Morini

Università degli Studi di Genova ([email protected])

ABSTRACT Con la nascita del paradigma delle democratizzazioni ad opera di O’Donnell, Schmitter e Whitehead (1986), lo studio del cambiamento di un regime politico è stato affrontato attraverso numerose prospettive, volte ad analizzare realtà geograficamente e temporalmente divergenti, cercando di inserirle all’interno di uno schema concettuale che descrive le particolarità intrinseche delle transizioni democratiche, dall’America Latina ai paesi dell’Est. Ciascuna ondata di democratizzazione nelle scienze sociali ha, infatti, contribuito ad una fase di grande riflessione teorica e analisi empirica, ma ha, al contempo, prodotto una vigorosa discussione sugli strumenti di analisi impiegati e sui risultati ottenuti attraverso i quali si può offrire una spiegazione, rigorosamente scientifica e concettualmente valida dell’entità, delle forme e delle cause del mutamento politico. Ulteriori sviluppi teorici e ricerche empiriche si sono concentrate sull’analisi di un tema più specifico che è diventato un «trend dominante» nella teoria democratica e negli studi sulla democratizzazione (Morlino 2008): il caso dei regimi ibridi. Termine, utilizzato per la prima volta da Terry Lynn Karl (1995) in riferimento all’America Centrale, che indica la formazione di un regime politico con caratteristiche miste, in parte democratiche e autoritarie che permangono nel tempo, è stato successivamente declinato in diverse etichette: democrazie semi-consolidate; regimi autoritari semi-consolidati (Freedom House), democrazie parziali (Epstein et al. 2006), democrazie elettorali (Diamond 1999), democrazie illiberali (Zakaria 1997), democrazia imperfette (Croissant e Merkel 2004), autoritarismi competitivi (Levitsky e Way 2002), semi-autoritarismi (Ottaway 2003), autoritarismi elettorali (Schedler 2006), regimi misti (Bunce e Wolchik 2008). La molteplicità di definizioni e attributi di questo concetto producono risposte alquanto vaghe al quesito della stabilità politica che sollecitano una riflessione (non solo in chiave critica) sullo sviluppo politico ed istituzionale degli emergenti sistemi politici. Se, da un lato, la diffusione di tali regimi nella terza ondata sembra costituire la parte del «leone», è plausibile affermare che siamo dinanzi all’elaborazione di una nuova categoria con la quale classificare i regimi in transizione ovvero si tratta di una contaminazione – una “zona grigia” – tra generi dicotomici? Il concetto di regime ibrido richiede, pertanto, una maggiore articolazione. Non si tratta soltanto di capire la sua rilevanza nell’analisi politica sulle democratizzazioni, ma anche di verificarne la validità nella operazionalizzazione in chiave empirica al fine di riformulare e apportare elementi di originalità al dibattito scientifico.

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“I concetti senza intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”.

(E. Kant,1724-1804)

1. Introduzione

Il tema della nascita, dello sviluppo e della crisi dei regimi politici democratici e non democratici è sempre stato oggetto di riflessione di varie discipline nelle scienze sociali e, al contempo, sono esponenzialmente proliferate le definizioni e le classificazioni, basate su diverse dimensioni analitiche, che spiegano il mutamento politico di quei paesi che non hanno ancora raggiunto livelli soddisfacenti di qualità democratica o, al contrario, si evolvono verso forme più autoritarie e stabilizzate. Con la nascita del paradigma delle democratizzazioni ad opera di O’Donnell, Schmitter e Whitehead (1986), lo studio del cambiamento di un regime politico è stato affrontato attraverso un approccio prevalentemente monodimensionale, volto a comprendere le diverse fasi del processo di democratizzazione (instaurazione, transizione e consolidamento) e ad analizzare l’affermazione e le modalità di interazione delle cinque arene democratiche – la società civile, politica, economica, la sovranità della legge e la burocrazia –, decisive per il raggiungimento del consolidamento democratico di un paese (Linz e Stepan 2000). Ulteriori riflessioni teoriche e ricerche empiriche hanno, da un lato, confermato come una teoria generale delle democratizzazioni non esiste a causa delle difficoltà di includere processi eterogenei all’interno di un unico framework teorico, che tenga conto della rilevanza delle condizioni favorevoli allo sviluppo della democrazia1 in differenti aree geografiche e, dall’altro, rivolto l’attenzione all’individuazione di un explicandum quale il peso delle eredità del passato2 (Grilli di Cortona e Lanza 2011), il ruolo delle condizioni socio-economiche (Moore 1966; Lipset 1960; trad. it. 1963, 1994) e il ruolo dei fattori esterni (Schimmelfennig e Sedelmeier 2005, Magen e Morlino 2008) che possono influenzare e/o indirizzare positivamente o meno l’esito del processo di democratizzazione. Altri approcci metodologici e indagini empiriche si sono concentrate sull’analisi di un tema più specifico che è diventato un «trend dominante» nella teoria democratica e negli studi sulla democratizzazione: il caso dei regimi ibridi (Karl 1995; Morlino 2003, 2008, 2009, 2010). La diffusione di tali assetti politici nella terza ondata sembra costituire la parte del «leone» dei regimi in transizione3 su cui sussistono, tuttavia, ancora limiti conoscitivi riguardo le cause e i confini tra il passaggio di una democrazia consolidata ad una “parziale” e da quest’ultima ad un regime più autoritario (Epstein 2006, 556, 564-565). Come si vedrà nei prossimi paragrafi, il termine “regime ibrido” appare in un contributo di Terry Lynn Karl (1995) in riferimento all’America Centrale, ma diverse etichette sono state coniate, successivamente, per indicare un regime politico che presenta caratteristiche sia democratiche sia autoritarie: democrazie semi-consolidate; regimi autoritari semi-consolidati, regimi ibridi (Freedom

1 A tal riguardo Morlino (1998, 2003) si chiede se la teoria dell’ancoraggio possa essere esportabile anche ad altre aree. L’ipotesi centrale della teoria dell’ancoraggio è che quanto minore è la legittimità goduta da un certo assetto democratico tanto più forti e sviluppate devono essere una o più ancore, in una o più delle loro diverse forme; e, al contrario, se esiste o si sviluppa gradualmente un’ampia legittimazione allora le ancore possono rimanere deboli e non sono essenziali al consolidamento. 2 Per eredità s’intendono valori, identità, norme, istituzioni, comportamenti e prassi che sopravvivono alla transizione. In particolare, Hite e Morlino (2003) hanno evidenziato tre fattori che determinano il grado di incidenza delle eredità: 1) la durata temporale del vecchio regime; 2) la sua capacità di influenzare la società e la politica del paese; 3) la modalità con cui si è compiuta la transizione alla democrazia. Per una recente esplorazione degli effetti delle eredità in alcuni paesi e una sistematizzazione teorica del concetto si veda Grilli di Cortona e Lanza (2011). 3 In base ai recenti dati di Freedom in the World 2011, 60 nazioni su 194 sono definiti paesi parzialmente liberi, 47 non liberi e 87 liberi. Cfr. www.freedomhouse.org, rilevazione del 3 luglio 2011.

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House), democrazie parziali (Epstein et al. 2006), democrazie elettorali (Diamond 1999), democrazie illiberali (Zakaria 1997), democrazia imperfette (Croissant e Merkel 2004), autoritarismi competitivi (Levitsky e Way 2002), semi-autoritarismi (Ottaway 2003), autoritarismi elettorali (Schedler 2006), regimi misti (Bunce e Wolchik 2008). In realtà, come osserva Morlino (2008), il concetto di regime ibrido è presente nella letteratura da diversi decenni4, ma solo recentemente tale fenomeno ha assunto una varietà e vastità considerevole, una vera e propria “ondata di ibridazione” su cui i comparativisi si stanno confrontando. Basti pensare al contributo di S. Finer (1970) che ha elaborato i concetti di democrazia di facciata e di quasi-democrazie per indicare regimi ambigui che non sono più autoritari, ma non minimamente democratici, pur in presenza di una carta costituzionale non del tutto attuata e di elezioni semi-competitive. Dello stesso avviso R. Dahl che, nel descrivere i diversi percorsi che conducono alla poliarchia, afferma: “”non significa che nel mondo manchino regimi che si potrebbero situare in quest’area intermedia: anzi, si può dire che essi siamo la maggioranza e molti dei cambiamenti significativi che si registrano, riguardano spostamenti all’interno, verso o al di fuori di quest’area intermedia, a seconda che i regimi diventino (più o meno) inclusivi e aumentino (o si riducano) le possibilità di una contestazione pubblica. Per riferirmi a un regime dell’area intermedia ricorrerò all’uso di termini come “vicino” o “quasi”. (…) L’arbitrarietà dei confini tra “piena” e “quasi” è un segno dell’inadeguatezza di ogni tipo di classificazione, ma fino a quando terremo per fermo che quelli a cui siamo ricorsi sono modi utili, ma arbitrari di dividere lo spazio nella fig. 1.2., i concetti proposti potranno assolvere il compito loro assegnato (1971; trad. it.1981, 33-34)”. Il tema dei regimi misti o ambigui costituisce, pertanto, una sfida concettuale per gli studiosi del mutamento politico che ha origini ben più lontane rispetto alla vastità dei regimi post-autoritari che si sono affermati in diverse zone geografiche - America Latina, Africa, Asia, paesi post-comunisti – in questi ultimi decenni. Dinanzi all’eterogeneità dei termini, racchiusi nella categoria dei “regimi ibridi”, il paper si propone di analizzare l’applicazione del concetto, mettendo in luce eventuali elementi di vaghezza, ambiguità, indeterminatezza e stiramento concettuale, seguendo l’impostazione metodologica di Giovanni Sartori (1970, 1979, 1984, 2009). In primo luogo, si delineeranno i confini semantici tra i regimi politici – democratici, ibridi e non democratici – per fornirne un’adeguata definizione e comprensione dei loro elementi costitutivi da cui avviare una successiva mappatura dei termini e sinonimi su cui sono state costruite le definizioni dichiarative e connotative del regime ibrido. Selezionare le proprietà di tali regimi consentirà, inoltre, di verificare la plausibilità dell’ipotesi di una nuova categoria con la quale classificare i regimi in transizione all’interno della politica comparata ovvero approfondire le direzioni di ricerca che hanno prodotto una contaminazione – una “zona grigia” – tra il genus democratico e non democratico. Una particolare attenzione sarà rivolta alla formulazione delle dichiarazioni denotative e operative fra il significato del termine ed il suo referente, prendendo in esame i contributi più significativi per la verifica della validità nella operazionalizzazione in chiave empirica del concetto. Si cercherà, altresì, di individuare elementi di criticità, disaggregando il concetto in diverse dimensioni per ridurne la vaghezza ed equivocità, sistematizzando il dibattito scientifico e formulando un’alternativa agenda di ricerca per le future ricerche. 4 Altri autori come Rouquie (1975) e O’Donnell e Schmitter (1986) si sono occupati del caso spagnolo e americano-latino parlando di dictablandas e democraduras.

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2. Regimi politici, democratici e non democratici

Un corretto approccio all’elaborazione dei concetti nelle scienze sociali richiede un’accurata definizione dei termini impiegati nell’analisi dei fenomeni empirici. Per comprendere fino a che punto il concetto di regime ibrido “viaggia” nella disciplina della politica comparata, è opportuno, in via preliminare, chiarire altri concetti quali regime politico, democratico e non democratico per delineare i confini, le differenze e le eventuali sovrapposizioni tra quei termini che condividono il medesimo campo semantico, oggetto del presente lavoro. Nel linguaggio giuridico, un regime politico è un insieme di norme scritte e non-scritte e di istituti che disciplinano comportamenti e formano un sistema in un contesto geograficamente e temporalmente definito. L’organizzazione del potere politico si sviluppa nell’adozione e riconoscimento di fonti giuridiche (carta costituzionale, leggi ordinarie e costituzionali) che legittimano il funzionamento delle istituzioni e costituiscono l’arena entro la quale si manifesta la lotta per l’esercizio del potere. La struttura delle norme, delle prassi e dei valori di un regime politico determina le modalità dell’azione di governo nell’ambito di principi, volti a garantire il mantenimento del regime stesso. Nel linguaggio ordinario e in quello specializzato un regime politico si distingue da altri termini, spesso, impropriamente, utilizzati come sinonimi: 1) il governo, una struttura istituzionale che detiene il potere esecutivo; 2) lo Stato come forma giuridica di procedimenti di legittimazione e struttura dell’amministrazione; 3) il sistema politico ovvero “un insieme di istituzioni, di gruppi e di processi politici caratterizzati da un certo grado di indipendenza reciproca5” Nella scienza politica, la prospettiva sistemica adottata da David Easton (1953; trad. it 1963) ha contribuito all’analisi degli elementi costitutivi di un sistema politico, delle interdipendenze reciproche e dei confini entro i quali gli attori svolgono funzioni determinanti per la sopravvivenza e l’ordine sociale e politico. Tra gli elementi costituivi di un sistema politico, Easton inserisce il concetto di regime, oltre a quello di comunità politica e di autorità, inteso come l’insieme delle istituzioni, dei valori, delle procedure e delle regole che ha al suo interno componenti democratiche, autoritarie e totalitarie (Pasquino 209, 15). Rientrano nel concetto di regime: la costituzione con le sue regole fondamentali, il governo, i corpi rappresentativi, se ve ne sono, e i rapporti reciproci tra le diverse istituzioni, il sistema elettorale, ma anche l’organizzazione politica della società civile, quali i partiti, associazioni con fini politici, gruppi d’interesse e movimenti, e ovviamente le persone che coprono tutti i relativi ruoli. Quando si parla, invece, di tipologia dei regimi politici si è soliti fare riferimento alla tripartizione aristotelica – monarchia (governo di uno solo), aristocrazia (governo di pochi) e democrazia (governo di molti) e alla rispettiva degenerazione nella forma di tirannide, oligarchia e demagogia. Il principio aristotelico, criticato essenzialmente per l’utilizzo di un mero criterio numerico che non coglie la molteplicità degli aspetti costituenti di un regime politico, sembra attribuire l’azione politica ad un solo individuo, non tenendo conto del fatto che anche nelle monarchie, al pari degli altri regimi, può esservi un nucleo ristretto di persone che ruotano attorno alla figura del sovrano. Un altro tentativo di analizzare i diversi regimi politici è stato elaborato da Charles-Luis de Secondat, barone di Montesquieu che, tenendo conto del criterio numerico e del principio di governo, distingue tra: la repubblica in cui tutto o una parte del popolo detiene il potere ed il suo principio fondante è la virtù, la monarchia ed il dispotismo in cui il potere è nelle mani, rispettivamente, di un solo individuo che governa sulla base di leggi stabili e dell’onore o in uno stato di anomia e di paura. L’approccio sociologico avanzato da Montesquieu, che mette in relazione la natura del regime politico e la sua base sociale, sposta l’attenzione alle dinamiche sociali e politiche della lotta per il potere che caratterizzano il funzionamento dei diversi regimi. In tale prospettiva il materialismo storico ha esaminato le relazioni ed il condizionamento reciproco fra società civile e Stato, 5 Per le definizioni in ambito giuridico e nelle scienze sociali, cfr: http://www.treccani.it/enciclopedia/tag/regime%20politico/

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mettendo in luce il processo storico di trasformazione degli schiavi in mezzi di produzione. Il conflitto schiavi-padrone su cui le comunità sociali si sono organizzate, ha generato una prima forma embrionale di Stato, che in tempi storici e aree geografiche diverse, ha contribuito alla nascita dei regimi di dispotismo orientale, feudale, signorie e liberi comuni fino a giungere, in seguito alla rivoluzione industriale, alla democrazia rappresentativa6. Nella letteratura politologica, una prospettiva istituzionale, basata sul rapporto fra potere esecutivo e legislativo, ha suddiviso i regimi in presidenziale, semi-presidenziale e parlamentare. Altre dimensioni analitiche, come il livello di cultura politica e di differenziazione strutturale di un regime politico, individuate da Almond e Powell (1966) hanno prodotto un’ulteriore distinzione in regimi democratici alta autonomia sottosistemica, limitata autonomia dei sottosistemi e bassa autonomia; in relazione al ruolo dei partiti e alla configurazione del sistema dei partiti il regime presidenziale statutinetense e quello parlamentare britannico presentano un sistema bipartitico, laddove i regimi parlamentari delle democrazie occidentali hanno un sistema multipartitico (Bobbio, Matteucci e Pasquino 1996, 941-944). Un primo elemento di riflessione che scaturisce da questa breve rassegna delle principali definizioni del concetto di regime politico, è rivolto alla molteplicità delle dimensioni di analisi, utilizzate dai diversi autori che hanno consentito lo sviluppo di una molteplicità di approcci, prospettive e tecniche di ricerca. Occorre, quindi, impostare con maggiore rigore logico il problema della creazione di tipologie, facendo opportuno esercizio di distinzione concettuale. A tal riguardo tre direzioni di ricerca che si sono concentrate sull’analisi della dimensione orizzontale della politica, sull’ampliamento del referente empirico e i processi di democratizzazione degli ultimi cinquant’anni, hanno comportato una prima differenziazione tra due genus: i regimi democratici e quelli non democratici. Fenomeno politico assai complesso, la democrazia ha costituito oggetto di analisi di diverse discipline – filosofia, sociologia, storia, diritto e scienza politica – che hanno elaborato sia teorie e modelli prescrittivi sia studi empirici, volti a spiegare le fasi di nascita, di sviluppo e declino e le dinamiche endogene del suo mantenimento, funzionamento, trasformazione e diffusione, intercorse nel tempo. Nell’economia di questo saggio è stata, pertanto, operata una selezione, riduttiva ed arbitraria, delle definizioni di democrazia, ma che, in realtà, ha come fondamento metodologico la selezione delle dimensioni analitiche, impiegate nella costruzione di concetti alternativi o di sotto-tipi come quello del regime ibrido dagli autori analizzati. Non si potrebbe procedere diversamente visto che, come hanno rilevato Collier e Levitsky (1997), il concetto di democrazia è stato declinato in almeno 350 definizioni, includendo anche i sottotipi di regime democratico. Alla fine degli Sessanta, Sartori rilevava: “Il termine democrazia indica sia un insieme di ideali, sia un sistema politico, caratteristica che condivide con i termini comunismo e socialismo …(a differenza di questi) la democrazia non si è mai identificata con una specifica corrente di pensiero: essa è piuttosto un prodotto di tutto lo sviluppo della civiltà occidentale. E quanta più democrazia ha assunto un significato elogiativo universalmente riconosciuto, tanto più ha subito una evaporazione concettuale diventando l’etichetta più indefinita del suo genere. Non tutti i sistemi politici si professano socialisti, ma anche i sistemi comunisti affermano essere democratici…democrazia abbrevia tutto (1969, 321)”. La complessità del referente empirico anche in questo caso è costituito dalle dimensioni sulle quali costruire il concetto e la sua applicazione. Nel lessico politologico il concetto di democrazia costituisce il caso più significativo di stiramento concettuale in virtù di un alto livello di generalità che consente di produrre numerosi sotto-tipi sulla base delle proprietà caratterizzanti il concetto.

6 Oltre allo studio della struttura sociale e la sua implicazione nella formazione dei diversi regimi politici, la prospettiva della ragion di Stato prende in considerazione l’assetto dei rapporti internazionali di potere (Bobbio, Matteucci e Pasquino 1996, 943-944).

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Nel caso del regime ibrido, la definizione caratterizzante, come vedremo nei prossimi paragrafi, contiene, tra gli elementi di natura democratica, aspetti essenzialmente riconducibili ad una definizione procedurale e competitiva della democrazia. Come Schumpeter ha precisato, “il metodo democratico è quell’assetto istituzionale per arrivare a decisioni politiche nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il voto popolare” (1947, 269). Criticato per aver fornito un’interpretazione elitistico-competitiva della democrazia in cui la partecipazione della popolazione è limitata alla mera fase elettorale, i detrattori di Schumpeter hanno privilegiato un’altra teorizzazione della democrazia di natura partitica, parlamentare e rappresentativa ad opera di Kelsen (1929; trad. it. 1966) nella quale i cittadini sono considerati politicamente attivi e interessati a prender parte al processo di produzione delle decisioni politiche7. Se si tiene conto, inoltre, della sostanza delle decisioni e di come nascono le democrazie, il contributo di Przeworski (1986) fornisce un’interpretazione della democrazia intesa come un insieme di norme e procedure che scaturiscono da accordi-compromessi tra i diversi attori che partecipano alla decisione pubblica. L’approccio culturale allo studio dei regimi democratici è stato, invece, condiviso da Lijphart (1968; 1999, trad. it. 2001) il quale, analizzando il comportamento delle élites più o meno conflittuale ed il tipo di cultura politica in alcuni paesi, è pervenuto alla classica distinzione fra democrazia Westminster e consensuale8. Infine, la concezione democratica di Dahl (1970, 3) si basa sull’interazione tra le dimensioni della partecipazione politica e della contestazione nei confronti delle autorità nel processo di democratizzazione che sfocia nella poliarchia, caratterizzata da alcuni requisiti fondamentali relative all’opportunità di formulare ed esprimere preferenze che saranno valutate in modo eguale dai governanti. Sostanzialmente una definizione minima di democrazia, condivisa nella letteratura politologica prevede le seguenti caratteristiche: un suffragio universale, maschile e femminile, elezioni libere e competitive, ricorrenti e corrette, multipartitisimo ed il pluralismo delle fonti di informazione. Se le definizioni di democrazia oscillano tra tensioni normative ed empiriche, i regimi non democratici sono stati oggetti di analisi approfondite e classificazioni tra le quali merita segnalare il contributo di Linz e Stepan (1996; trad. it. 2000, 63-89) che ne elaborano quattro sotto-tipi: autoritari, totalitari, post-totalitari e sultanistici9. Prendendo in esame la definizione elaborata da Linz si definisce un regime autoritario i sistemi “a pluralismo politico limitato, la cui classe politica non rende conto del proprio operato, che non sono basati su un’ideologia guida articolata, ma sono caratterizzati da mentalità specifiche, dove non esiste una mobilitazione politica capillare e su vasta scala, salvo in alcuni momenti del loro sviluppo, e in cui un leader, o a volte un piccolo gruppo, esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili (1991, 444)”. La principale dimensione politicamente rilevante di questo regime è il pluralismo limitato in cui una pluralità di organizzazioni è autorizzata a possedere ed esercitare un quantum di potere attraverso

7Come sottolinea Pasquino anche una democrazia partecipativa consta ex ante di una democrazia procedurale ed elettorale in cui i cittadini attraverso il meccanismo delle reazioni previste di C. Friedrich (1963, 119-215), consentirebbero l’attuazione della responsabilità e rispondenza politica dei governanti. Come Sartori ha rilevato la democrazia procedurale di Schumpeter, combinata al meccanismo delle reazioni previste costituisce un elemento esplicativo dle funzionamento delle democrazie, del loro rendimento, della loro qualità e livello di accountability. 8 I vantaggi del modo di procedere di Lijphart sono evidenti. Rispetto alle tipologie tradizionali, il numero di informazioni perdute è notevolmente inferiore in quanto si considerano più dimensioni; si possono combinare dati quantitativi con dati qualitativi, guadagnando in rigore e precisione; infine, all’interno di ciascuna dimensione si può vedere meglio come si caratterizza ciascun paese” (5) 9 Nell’Enciclopedia delle scienze sociali Morlino propone la seguente suddivisione in: autoritari, totalitari, tradizionali e ibridi istituzionali i quali includono i casi di regimi in fase di mutamento per un periodo di tempo limitato. Morlino sottolinea che all’interno dei regimi autoritari sussistono diverse gradi di variazione

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meccanismi burocratici e di cooptazione, stabiliti dal leader o dal partito al governo, senza alcuna responsabilità politica nei confronti dell’elettorato. La presenza di elezioni, anche se non pienamente competitive, assume una valenza simbolica di legittimazione della classe dirigente da parte di una società civile, controllata e non autonoma (Hermet 1973). Inoltre, il pluralismo limitato ammette anche la presenza di una qualche forma di opposizione, semi-opposizione o pseudo-opposizione che non ha alcuna prospettiva di diventare un’alternativa classe dirigente. Altra caratteristica di questo regime è la presenza di mentalità specifiche ovvero un insieme di credenze e di valori – patria, Dio e famiglia – diffusi nel regime per ottenere acquiescenza, legittimazione e rappresentativi del sistema culturale, tradizionale, religioso e sociale del paese. Solitamente i regimi autoritari non promuovono la mobilitazione politica delle masse, fatta eccezione per una fase più intensa di instaurazione del regime o di reazione a qualche sfida allo status quo, sia per motivi di natura organizzativa sia per un’accentuazione della dimensione privata dell’individuo. L’individualità nella detenzione del potere costituisce, infatti, una specificità di questi regimi che poggiano sull’esistenza di un leader (spesso di natura carismatica) che esercita il potere con discrezionalità e finalizzato al mantenimento del regime in assenza della certezza del diritto. Il leader rappresenta sia l’elemento unificante e di coesione del regime attraverso la sua capacità di creare un sistema di deferenza e sostegno della popolazione e del suo gruppo dirigente sia il punto debole della catena autoritaria che si spezza nel momento in cui si apre la successione al potere; una situazione che, storicamente, nelle democratizzazione del XXº secolo ha dimostrato di costituire una tappa decisiva verso un processo di liberalizzazione di questi regimi. L’individuazione delle caratteristiche del regime totalitario è stata fornita da due politologi, Carl J. Friedrich e Zbigniew Brzezinski (1956) e consta dei seguenti elementi: l’ideologia ufficiale; la presenza di un partito unico; una polizia segreta notevolmente sviluppata; il monopolio statale dei mezzi di comunicazione; il controllo centralizzato di tutte le organizzazioni politiche, sociali, culturali, fino alla creazione di un sistema di pianificazione economica; la subordinazione completa delle forze armate al potere politico (Pasquino 2009, 264). Rispetto alle proprietà del regime autoritario, vi sono differenze sostanziali sia nell’esercizio del potere attraverso meccanismi di repressione violenta, di controllo costante delle attività della popolazione da parte di una polizia di Stato e di forze armate che rispondono solamente al partito unico sia nel utilizzo dei mezzi di comunicazioni, volti a diffondere un’ideologia specifica, capace di plasmare i sistemi sociali e politici e di diffondere il “terrore” coadiuvati dalla repressione poliziesca ovvero l’essenza del potere totalitario, come ha descritto Hannah Arendt (1951; trad. it. 1967, 636). Si tratta dell’universo concentrazionario, delineato da Domenico Fisichella (2002, 57), inteso come “una istituzione penale, creata per la punizione e la repressione di delitti e crimini, ma piuttosto una struttura politica per lo sradicamento del tessuto sociale mediante lo strappo e la cancellazione dalla società di interi settori e gruppi”. Dai regimi totalitari, discende un’altra c ategoria, definita post-totalitaria, che, a sua volta, si dirama in tre modalità: iniziale, congelata e matura. Il post-totalitarismo iniziale rappresenta una fase di cambiamento nella quale vi è un passaggio da una leadership individuale carismatica ad una collegiale burocratica; il congelamento dei meccanismi di controllo del partito sulla società permane sino a quando non si verifica una fase di scongelamento nella transizione verso un regime più democratico; il post-totalitarismo maturo ha come principale punto di riferimento il partito unico che rimane una componente essenziale e statica del regime. Infine, il regime sultanistico riprende l’analisi weberiana del patrimonialismo, basato sulla conquista del potere da parte di un sultano che non utilizza né mentalità o ideologie, bensì la forza delle proprie idee, né tanto meno favorisce alcuna forma di mobilitazione dei sudditi in

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assenza del pluralismo dei gruppi e in una gestione del potere famigliare e/o ristretta ad un gruppo di collaboratori del sultano. Nella classificazione di Linz e Stepan, in questa sede adottata, si tiene conto anche della varietà dei regimi autoritari che vengono distinti nel seguente modo: 1. regimi autoritari modernizzanti (Messico e Turchia a partire dalla prima guerra mondiale); 2. regimi fascisti; 3. regimi di statismo organico con forte presenza di elementi clerico-fascisti; 4. regimi autoritari emersi dopo la seconda guerra mondiale come presunte “democrazie guidate dall’alto” (l’Indonesia di Sukarno e il Pakistan); 5. regimi di presunto socialismo africano o islamico; 6. regimi autoritari post-totalitari comunisti (non quelli derivanti dal crollo del comunismo, ma da sue trasformazioni post-staliniste (Pasquino 2009, 266). Fig. 1. Caratteristiche fondamentali dei regimi politici, democratici e non democratici

Regimi politici

Norme Istituzioni Procedure

Comportamenti Valori

Dimensioni dei regimi democratici Dimensioni dei regimi non democratici - suffragio universale, maschile e

femminile; - elezioni libere, segrete, ricorrenti e

competitive; - multipartitismo; - pluralismo dell’informazione

- pluralismo limitato; - ideologia; - mobilitazione; - leadership

Tipologia Tipologia - democrazia maggioritaria; - democrazia consensuale; - democrazia procedurale; - democrazia partitica; - poliarchia

- Autoritarismo; - Totalitarismo; - Post-totalitarismo; - Sultanismo

Da questo quadro teorico di riferimento la figura 1. riassume le distinzioni concettuali, relative alle proprietà caratterizzanti i regimi politici summenzionati, dalle quali si procederà alla ricostruzione di una mappatura delle definizioni dei regimi ibridi istituzionali o in transizione.

Regimi ibridi

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3. Regime ibrido: definizioni e sinonimie

Nella letteratura politologica sui processi di democratizzazione il termine “regime ibrido” appare, per la prima volta, in un contributo di Terry Lynn Karl del 1995 nel quale è analizzato lo sviluppo politico di alcuni paesi dell’America Centrale (Nicaragua, El Salvador, Guatemala e Costa Rica). Richiamando il concetto di democraduras (O’Donnell e Schmitter 1986), l’autrice sottolinea che questi regimi non sono solamente semplici democrazie di facciata, ma “rappresentano un genuino avanzamento dal passato e un significativo passo nel processo di lungo periodo verso la costruzione della democrazia (1995, 74)”. Un’analisi dettagliata di questi paesi che non ricada, come avverte l’autrice, in una mera fallacia elettorale, mette in luce come la situazione di incertezza istituzionale, nel medio periodo, possa determinare il consolidamento di tratti autoritari e, al contempo, democratici in un sistema politico (1995, 73). La presenza di un’insieme di elementi relativi ad un pluralismo limitato, ai diritti civili e politici de facto non garantiti, ad una diffusa ed endogena corruzione sistemica, a tentativi di golpe falliti e ad un conflitto politico che si è spostato dall’arena militare a quella politica, con nuove regole del gioco che favoriscono l’azione politica di coalizioni dispotiche-reazionarie, fornisce una descrizione piuttosto pessimistica dello stato di avanzamento dei processi di democratizzazione in questi paesi. Rispetto alle dimensioni generalmente impiegate nell’analisi delle transizioni democratiche (capacità organizzativa delle forze sociali, prerequisiti di natura economia, sociale, culturale e politica) che costituiscono elementi indispensabili per il processo di costruzione democratica, i regimi ibridi, qualora presentino elezioni sostanzialmente libere e corrette, hanno settori politicamente ed economicamente ancora emarginati; il potere giudiziario è debole e i diritti sono violati; non vige lo Stato di diritto e non vi è controllo civile sui militari. Nel contesto dell’America centrale, sono presenti movimenti popolari divisi e disarticolati, sconfitti da una “nuova destra” che si propone come un gruppo politico dominante che mina l’equilibrio tra le forze politiche che è un prerequisito fondamentale per la tolleranza reciproca ed il compromesso. Un altro fattore che differenzia il percorso di democratizzazione in America centrale da quello sud-americano è il ruolo del condizionamento esterno, operato dagli Stati Uniti che, nel caso dell’area centrale, ha creato un rapporto assimetrico, di dipendenza e di mantenimento delle eredità del passato che non hanno consentito ai gruppi emergenti di emanciparsi. Infine, anche la situazione economica incide sul percorso di democratizzazione10. “In this respect, Central America resembles Eastern europe, not only because a number of major transformatioms are on the agenda at the same time, but also because there is little authoratative capacity to establish priorities among them. The close connection between politics and economics leaves Central American polities extremely vulnerable to economic fluctations (1995, 79). Il consolidamento democratico dei paesi dell’America centrale, secondo le riflessioni teoriche della Karl, dipende dall’incidenza dei fattori istituzionali, capaci di imprimere una direzione realmente democratica ovvero il grado di strutturazione del sistema partitico e la presenza di partiti forti e organizzati e dalla reazione della società civile. Cile, Venezuela e Costa Rica hanno, infatti, dimostrato di avere partiti che hanno saputo collegarsi alla società civile, parallelamente alla capacità di rappresentare una classe media emergente; Brasile, Ecuador e Colombia hanno partiti clientelari, deboli e la partecipazione si attesta su bassi punti percentuali11.

10 Ciò che contraddistingue questi regimi ibridi da quelli del passato, rileva l’autrice, sono le trasformazioni agrarie e sociali degli anni Settanta e le divisioni tra le élites economiche, i militari e i proprietari terrieri. 11 Karl ha criticato coloro che eguagliano la presenza di elezioni multipartitiche e competitive all’individuazione di un regime democratico, rilevando che l’abuso dei diritti umani e il dominio militare nell’America centrale del 1980 e 1990 hanno prodotto regimi ibridi e non assetti democratici.

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Tab. 1. Definizioni e sinonimie del concetto di regime ibrido AUTORE REGIME IBRIDO

Terry Lynn Karl “Today’s regimes are not merely reconstitutions of previous authoritarian coalitions; rather, they are a hybrid form that has the potential to mobilie mass pressures for increased political contestation and inclusion (1995, 80)”. “By ‘hybrid regime’, I mean a certain functional and territorial political mix that exists, at least in broad outline, in every Central American country but democratic Costa Rica (1995, 80)”.

Larry Diamond “Some of the countries that fall into the ‘political grey zone’ between fullfledged democracy and outright dictatorship are in fact electoral dmeocracies however ‘feckless’ and poorly functioning, but many fall below the threshold of electoral dmeocracy and are likely to remain there for a vey long time (2002, X)”.

Leonardo Morlino “si tratta di regimi che hanno acquisito certe forme proprie della democrazia, ma non altre, e al tempo stesso conservano aspetti autoritari. Tali assetti sono a metà strada tra autoritarismo e democrazia e, dunque, configurano dei veri e propri regimi di transizione (2003, 43). Regime di transizione: relativo rispetto dei diritti civili che consente ad un’opposizione di partecipare alle elezioni semi-competitive, ma non di accedere al governo. Il sistema è multipartitico, ma con un partito che rimane dominante-egemonico; partecipazione ridotta alla mera fase elettorale. assenti forme di repressione poliziesca e scarso ruolo dell’apparato militare; scarsa organizzazione dello Stato (2003, 43).

“tutti quei regimi preceduti da un’esperienza autoritaria o tradizionale, cui faccia seguito un inizio di apertura, liberalizzazione e parziale rottura della limitazione del pluralismo ovvero tutti quei regimi che dopo un periodo di democrazia minima, nel senso sopra indicato, vedono interventi di personale non eletto – i militari soprattutto – che pongono restrizioni al pluralismo competitivo senza creare un regime autoritario, più o meno stabile” (2008, 175).

(…) regimi che hanno acquisito alcune istituzioni e procedure proprie della democrazia, ma non altre, e al tempo stesso conservano aspetti autoritari o tradizionali, ovvero sono quei regimi che hanno perduto elementi propri della democrazia introducendo aspetti autoritari (2008, 122).

(…) hybrid regime as a set of institutions that have been persistent, be they stable or unstable, for about a decade, have been preceded by an authoritarianism, a traditional regime (possibly with colonial characteristics), or even a minimal democracy and are characterized by the brak-up of limited pluralism and forms of independent, autonomous participation, but the absence of at least one of the four aspects of a minimal democracy” (2010, 38).

Thomas Carothers Grey zone: “they have some attributes of democratic political life, including at least limited political space for opposition parties and independent civil society, as well as regular elections and democratic constitutions. Yet they suffer from serious democratic deficits often including poor representation of citizen’s interests, low levels of political participation beyond voting, frequent abuse of the law by government officials, elections of uncertain legitimacy very low institutional performance by the state (2002, 9)

Marina Ottaway “They are ambigous systems that combine rhetorical acceptance of liberal dmeocracy, the existence of some formal democratic institutions, and respect for a limited sphere of curl and political liberties with essentially illiberal or even authoritarian traits (2003, 3)”.

Mikael Wigell The two constitutive dimensions of liberal democracy are electoralism and constitutionalism. Equipped with this two-dimensional classificatory device, the conceptual space can be expanded beyond uni-dimensional and aggregated indices of ‘democraticness’ to the entire semantic field of regimes analysis. Accordingly, the article proposes a regime typology with four main types of regime: democratic, constitutional-oligarchic, electoral-autocratic, and authoritarian. This provides us with a classificatory map in which the categories and subcategories developed by the literature on hybrid regimes can be located and analytically related to each other, bringing order to the ‘terminological Babel’ that has marked the field of comparative regime analysis in recent years. As such, the purpose of this article is not to actually classify cases, but rather to deal with the challenges involved with the mapping of political regimes on a conceptual level, although references will be made to some relevant cases, especially in Latin America, for illustrative purposes (2008, 3).

Valerie Bunce e Sharon Wolchik

“By mixed regimes, we refer to regimes that combine elements of dictatorship and democracy. Thus, mixed regimes fall in the sprawling middle of a political continuum anchored by democracy on one end – that is, a type of regime where elections are regular, free, fair and competitive, where political institutions are representative, and where there are significant civil liberties and political rights guaranteed by law – and dictatorship on the other end – or a regime where government lacks accountability to its citizenry as a result of the absence of competition, widespread rights, rule of law, and representative institutions. While mixed regimes usually share the commonality of having an authoritarian leader in office who governs within the context of at least formally democratic institutions, and while all such regimes feature degrees of political competition that give oppositions some opportunity to win power, they nonetheless diverge from one another and over time with respect to where they are located along the continuum running from dictatorship to democracy. Thus, some mixed regimes are more competitive than others; the independence of the media and the courts varies; legislatures can be relatively powerful or relatively weak; and laws can be more or less concistent across time, space and circumstances. At the same time, a given mixed regime can limit liberties more in one period than another; elections can be rigged in one round and more open in another; and the powers of representative institutions can also change over time. It is precisely because of such variations within and across such regimes and the importance of agency, as well as structures in shaping these differences across country and over time that we prefer the looser category, mixed regimes, to the more precise (but ultimately misleading precise) designations of illiberal democracies, electoral democracies, semi-authoritarianism, or competitive authoritarianism (...) (2010, 60-61).”

Fonte: Karl (1995), Diamond (2002), Carothers (2002), Ottaway (2003), Morlino (2003, 2008, 2010), Wigell (2008), Bunce and Wolchik (2010).

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Successivamente a tale contributo, sono emerse alcune riflessioni sulle caratteristiche dei nuovi regimi che, da un alto, hanno determinato una proliferazione di termini e definizioni che, in larga parte, coincidono con il concetto di regime ibrido, elaborato nel 1995, e, dall’altro lato, hanno reso più complesso, indefinito e confuso il quadro teorico e l’approccio metodologico, impiegato nell’analisi del mutamento politico dei paesi in transizione. La tabella 1 ricostruisce la mappatura delle definizioni di regime ibrido e degli altri termini che costituiscono esempi di sinominia del concetto. L’autore che, nell’ultimo decennio, ha gradualmente approfondito e sviluppato il concetto di regime ibrido è Leonardo Morlino il quale, in diversi contributi, apporta progressivamente nuovi elementi per identificare come regime ibrido quel sistema politico che non presenta i requisiti minimi della democrazia (suffragio universale, maschile e femminile; elezioni libere, competitive, ricorrenti, corrette; più di un partito; diverse e alternative fonti di informazione), ma ha sviluppato “alcune istituzioni e procedure proprie della democrazia, ma non altre”, e, contemporaneamente, conserva “aspetti autoritari e tradizionali”ovvero ha, altresì, perso le caratteristiche democratiche, introducendo elementi autoritari (Morlino 2001, 122). Le definizioni di Morlino, riportate nella tabella 1, consentono di formulare alcune ipotesi sul contesto entro il quale il regime ibrido12 si sviluppa. Esso può affermarsi conseguentemente a qualche esperienza di autoritarismo o di regime tradizionale ovvero può costituire il risultato di una decolonizzazione, seguita da una mancata stabilità in senso né autoritario né democratico e, meno frequentemente, come i dati empirici dimostrano, da una crisi di un regime democratico. Nel primo caso una parziale apertura (liberalizzazione) consente alle opposizioni al regime di partecipare al processo politico, anche se permangono difficoltà di accesso alle sedi decisionali e all’assunzione di cariche pubbliche. Nonostante la possibilità di organizzarsi in forze politiche a cui è riconosciuto il diritto di competere alle elezioni, i partiti rimangono strutture debolmente organizzate e diffuse nel territorio, con qualche forma di competizione intra-partitica. Solitamente emerge un partito dominante-egemonico che riesce a massimizzare i propri voti e ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in virtù di un sistema elettorale che tende, spesso, a produrre effetti distorcenti al fine di rafforzare il partito dominante nell’arena parlamentare e come forza di governo, accompagnato da una struttura burocratico-clientelare con uno scarso ruolo degli apparati militari. Inoltre, la caratteristica più rilevante dei regimi ibridi è la “carenza”, più o meno accentuata dello Stato ovvero una scarsa istituzionalizzazione e carente organizzazione statale, combinata ad un potere giudiziario scarsamente indipendente, un’inefficiente burocrazia e una diffusa corruzione. L’incertezza istituzionale è determinata da un accordo tra élites e veto players, ossia attori individuali o collettivi (potere straniero, monarca o governante, partito egemonico, gerarchie religiose, oligarchie economiche) che svolgono un ruolo importante nel tenere il regime nella condizione di ambiguità e incertezza che lo caratterizza nel lungo periodo. Sebbene Morlino ritenga che “i tipi di regimi ibridi che possiamo avere dipendono direttamente dalle tipologie di autoritarismo e democrazia che abbiamo già” (2008, 179), le caratteristiche comuni in questi regimi sono la transitorietà e l’esito fortemente incerto del processo di democratizzazione13 ed il fatto che vi siano casi che potrebbero rientrare in questo modello ne testimoniano la potenziale rilevanza” (Morlino 2001,123). Nel 2002 Diamond, in un’accurata riflessione su come classificare i regimi politici, tenendo conto degli approcci procedurali di Dahl e Schumpeter, rileva la presenza di una “political grey zone” che

12 I regimi ibridi, così delineati, non sono le democrazie liberali di Diamond (1999, 10) ovvero “sistemi costituzionali in cui parlamento ed esecutivo sono il risultato di elezioni regolari, competitive, multipartitiche a suffragio universale”, bensì quelle illiberali. 13 I regimi ibridi sembrano essere fortemente contraddistinti da una fase di incertezza istituzionale in una situazione di cambiamento di regime, ma il cui esito dovrebbe richiedere, riprendendo Dahl (1971), il ricorso a maggiori risorse coercitive (Morlino, 2008).

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comporta la formazione di democrazie elettorali. Inoltre, l’autore specifica che i regimi misti hanno un’origine più lontana che risale ai processi di democratizzazione degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso che hanno coinvolto paesi come Messico, Taiwan, Singapore, Malasia, Senegal Rhodesia e Sud Africa. In realtà, la classificazione di Diamond è più articolata e propone di distinguere i regimi democratici in liberali ed elettorali e, sulla base delle effettiva presenza di una competizione multipartitica o, in alternativa di una sua assenza, di separare i regimi autoritari in elettorali o politicamente chiusi. Diamond, inoltre, suddivide gli autoritarismi elettorali in due sotto-tipi: competitivo ed egemonico. La categoria residua dei regimi ambigui, una sinonimia dei regimi ibridi, include tutti i casi che presentano caratteristiche democratiche e autoritarie su cui non vi è un’unanime consenso nel dibattito scientifico e che richiedono analisi più approfondite. Anche il contributo di Carothers (2002) rileva la quantità elevata di paesi che ricadono nella zona grigia a conferma di quanto sia fuorviante ritenere che il crollo dei regimi autoritari abbia indistintamente comportato una transizione verso la democrazia. Nella sua critica al paradigma delle transizioni democratiche, Carothers individua due elementi che consentono di apportare una qualche differenziazione tra i paesi che ricadono in questa zona di incertezza: un pluralismo inefficace in cui le diverse forze politiche non hanno possibilità di diventare classe dirigente e la presenza di un partito egemone-dominante che condiziona il percorso di cambiamento politico. Anche la definizione di Marina Ottaway (2003) conferma l’individuazione di una zona grigia che combina procedure democratiche ed autoritarie in vari contesti geografici (ex URSS, Africa sub-sahariana e Medio Oriente) in misura quantitativamente maggiore rispetto alle prime e seconde ondate di democratizzazione. Nella consapevolezza che non vi è unanime consenso tra gli analisti sia sotto il profilo teorico sia nella scelta dei casi che possono rientrare nella categoria dei regimi misti o ibridi, a differenza di Karl e Morlino, la Ottaway preferisce utilizzare il termine semi-autoritarismi per denotare quei regimi che sono democrazie in crisi o che si allontanano dal raggiungimento dei criteri minimi di una democrazia. In questo modo l’autrice sembra privilegiare un approccio teorico-metodologic,o volto ad individuare un percorso lungo il quale questi regimi si discostano con minore o maggiore intensità da due poli estremi rappresentati dai regimi democratici ed autoritari. Nella consapevolezza che tale prospettiva di ricerca risulti più difficile da sottoporre a verifica empirica, considerando l’incertezza e l’instabilità della maggior parte di questi regimi, è ritenuta, dall’autrice, maggiormente valida nella sua impostazione teorico-concettuale poiché considera le fasi di liberalizzazione e di transizione permanente come una scelta deliberata dell’élite al potere per mantenere il controllo della direzione del cambiamento sulla quale si riscontrano acquiescenza o accettazione da parte della popolazione. Le caratteristiche dei regimi semi-autoritari, delineate dalla Ottaway sono focalizzate sulla natura e trasformazione del potere, il ruolo della società civile, il debole legame tra riforme economiche e politiche e i bassi livelli di istituzionalizzazione. L’assenza di una competizione elettorale, realmente competitiva è un meccanismo endogeno a questo regime che non prevede alternanza politica - “competition is a fiction” (…) “ Elections are not the source of the government’s power and thus voters cannot transfer power to a new leadership (2003, 15)” – ed è basata su una leadership politica che mira a mantenere uno stato di incertezza che non consente di consolidare le istituzioni del paese: (…)”Semi-authoritarian leaders need to maintain the cover provided by democratic institutions (2003, 157)”. Tuttavia la società civile14, seppur soggetta a forme di manipolazione politica e di limitazione del pluralismo d’informazione, ritiene che questi regimi riescano ad elargire benefici che altri tipi di forme di governo non consentirebbero, legittimando, pertanto, l’esercizio tendenzialmente autoritario e individualistico del potere.

14 Tra le cause di questa instabilità rientrano anche le vecchie divisioni di natura etnica, religiosa, culturale e linguistica.

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La vastità e la varietà del fenomeno non consentono di affermare la presenza di un unico tipo di regime semi-autoritario, anche se l’autrice rileva che la garanzia dei diritti e la libertà di stampa discriminano meglio e permettono di definire tre sotto-tipi: 1) in equilibrio: sono stabili e c’è un equilibrio tra le forze in competizione (Egitto, Indonesia); 2) regimi in decadimento: tendenze autoritarie molto forti con possibilità di passaggio a autoritarismo pieno (Azerbaigian – Kazakistan, Malawi, Zambia: decadimento politico e residue arene di apertura, ma il sistema politico è minacciato costantemente; pluralismo fragile in Venezuela); 3) regimi in dinamica di cambiamento che può tradursi in democrazia: c’è mancanza di equilibrio, ma ci sono effettive possibilità e probabilità di un cambiamento positivo (Croazia). La linea argomentativa della Ottaway è volta a sottolineare la struttura di potere di cui si sono dotati questi regimi - “Once in power, semi-authoritarian regimes create new conditions that make further transformation difficult (2003, 184) – spostando l’attenzione all’insuccesso delle agenzie di promozione della democrazia15 e alle sfide che devono ancora affrontare per far sì che il processo di democratizzazione sia positivamente compiuto. Infine, il contributo di Wigell (2008) si prefigge di creare una differenziazione analitica che non determini uno stiramento concettuale attraverso la creazione di una tipologia bidimensionale, basata sulle seguenti dimensioni costitutive: l’elettoralismo ed il costituzionalismo. Ispirandosi alla tipologia di Dahl, Wigell traccia delle traiettorie di cambiamento politico che si diramano lungo diversi percorsi: dall’autocrazia alla oligarchia costituzionale, da quest’ultimo tipo alla democrazia e dall’autocrazia all’autocrazia elettorale. Più precisamente, il contributo di Wigell s’inserisce tra coloro che utilizzano un approccio graduale e non dicotomico nell’analisi dei regimi politici, una vera e propria querelle scientifica, di difficile soluzione. Lungo questa linea interpretativa di Wigell, rientra anche la densa definizione dei regimi misti, adoperata da Bunce e Wolchik (2010), che analizzano traiettorie divergenti post-autoritarie in alcuni paesi dell’est Europa (Bielorussia, Russia, Ucraina e Moldavia), utilizzando i contributi teorici sui fattori esterni (UE, NATO, USA, etc…) che condizionano le dinamiche interne al percorso di democratizzazione. L’analisi delle definizioni di regime politico, democratico e non democratico ha costituito una fase preliminare e fondamentale per delineare i confini semantici entro cui l’analisi concettuale del regime ibrido si può sviluppare. Sono state, infatti, individuate le definizioni minime dei suddetti regimi attraverso le quali selezionare i casi che non rientrano nei due generi principali e su cui gli autori hanno elaborato il proprio concetto di un regime alternativo a quello democratico e autoritario. I contributi più rilevanti nel dibattito scientifico sulla rilevanza della categoria “regime ibrido”, passati in rassegna, consentono di cogliere le proprietà empiriche e i tratti essenziali necessari per verificarne la chiarezza concettuale e la validità della sua applicazione ai paesi in esame. Tuttavia è bene considerare che cosa s’intenda nel linguaggio ordinario con il termine “ibrido”. Nel vocabolario della lingua italiana un ibrido16 è un “individuo generato dall’incrocio di due organismi che differiscono per diversi caratteri” ovvero, nell’accezione dell’aggettivo, significa incrocio e mescolanza. Senza alcuna connotazione scientifica, per ibrido s’intende un organismo reale o di fantasia che combina caratteristiche anche di due esseri differenti, mentre, il linguaggio specializzato si riferisce agli incroci tra le popolazioni, le culture, le razze e le varietà botaniche all’interno di una medesima specie, come nel caso dell’agronomia.

15 Una questione relativa all’esito della democratizzazione è il timing che per le agenzie di promozione è di circa 10 anni , mentre gli studiosi di questa tematica i tempi di consolidamento richiedono anche decadi o secoli. 16 Un primo significato si riferisce al risultato di un incrocio tra due animali o piante di diversi con alcuni sotto casi: 1. Ibridi tra specie diverse all'interno dello stesso genere, note anche come incroci o ibridi interspecifici; 2. Ibridi tra le diverse sottospecie all'interno di una specie, noti come ibridi intraspecifici; 3. Ibridi tra i diversi generi, noti anche come ibridi intergenerici; 4. Ibridi tra le diverse famiglie. Sebbene estremamente rara si verifica anche l'ibridazione interfamiliare, come ad esempio capita con la faraona nei generi Agelastes, Numida, Guttera, Acryllium. Cfr: http://www.treccani.it/vocabolario/ibrido/, rilevazione del 3 luglio 2011.

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Da questa definizione si deduce che un organismo ibrido può formarsi sia all’interno di una medesimo genus, nel nostro caso democratico o non democratico, sia dalla fusione di due generi diversi, con notevoli implicazioni concettuali di cui tener conto. Focalizzando l’attenzione sul rapporto fra termine e significato si può, infatti, constatare che tutti gli autori nelle loro definizioni dichiarative condividono la combinazione di elementi democratici e autoritari nei regimi in questione. Le teorizzazioni sul regime ibrido oscillano tra eredità del passato autoritario di cui mantiene ancora numerose caratteristiche e una democrazia deficitaria, imperfetta, quasi a voler intendere che il percorso di democratizzazione è giunto positivamente all’epilogo, seppur con qualche elemento di criticità permanente. Un aspetto comune a tutte le definizioni è l’origine autoritaria da cui si avvia un processo di liberalizzazione, di contestazione pubblica e di partecipazione che presenta modalità, parzialmente diverse dal regime non democratico che lo ha preceduto. È, altresì, evidente la rilevanza attribuita al funzionamento delle istituzioni, degli attori coinvolti nel processo di democratizzazione rispetto ad altre dimensioni economiche, sociali e culturali. Tuttavia l’incrocio tra i due generi democratico e non democratico determina nella relazione fra termine e significato notevoli ambiguità e genera confusione poiché non emerge con chiarezza il contesto politico a cui il significato è applicato, generando un equivoco di fondo: siamo in presenza di un regime autoritario con il quale il regime ibrido condivide la maggior parte degli elementi definitori o la parziale apertura e liberalizzazione è una condizione necessaria e sufficiente per poter affermare la democraticità di un regime? Risulta, pertanto, evidente che il termine regime ibrido ha assunto diversi significati, non solo tra gli autori che hanno trattato il medesimo concetto, ma anche a tutti coloro che tentano di ricostruirne le caratteristiche essenziali. Tutti gli autori ritengono che delineare i confini tra i vari regimi sia un’operazione alquanto controversa e complicata. A ciò si aggiunga la presenza di sinonimi che producono un’ambiguità sia a livello di ogni singolo autore sia collettiva nella disciplina aumentando il potenziale di fraintendimento. Nei tentativi definitori che si sono succeduti nel tempo si è creata una polivalenza, un’interscambiabilità ed un uso disinvolto e impreciso dei termini che inseriscono il concetto di regime ibrido in un alone di indeterminatezza definitoria e operativa, come vedremo nel prossimo paragrafo. 4. Da un’illusione ottica ad un “nuovo” animale politico?17 Passando al rapporto fra significato e referente, dove sono individuate le definizioni caratterizzanti che connotano il concetto ovvero quelle proprietà necessarie affinché il termine corrisponda all’immagine percepita e concepita del referente, si possono sviluppare alcune considerazioni, prendendo in esame le definizioni di regime ibrido, elaborate da Karl e Morlino. In primo luogo, gli autori inseriscono il concetto all’interno di un contesto definito da incertezza istituzionale, proprio di un regime in transizione, nel quale un ruolo fondamentale è attribuito agli attori istituzionali che guidano il percorso di mutamento politico. In particolare, la presenza di un sistema multipartitico conferma l’avvenuta liberalizzazione che si traduce nella possibilità di associazione, organizzazione e partecipazione alle elezioni. È ben evidente che si tratta di una definizione che si riferisce alla concezione di una democrazia procedurale nella quale la selezione della classe dirigente costituisce una modalità di inclusione della popolazione nel processo politico e, pertanto, in una rappresentazione spaziale il concetto di regime ibrido, in questa dimensione analitica, potrebbe posizionarsi lungo un continuum in prossimità di un regime democratico.

17 Il riferimento è alle espressioni presenti nel titolo di due contributi di Morlino (2009, 2010) e Vukovic (2011).

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Tuttavia, una descrizione dettagliata del funzionamento delle istituzioni, delle procedure e del ruolo degli attori istituzionali in questi regimi evidenzia il grado di scostamento dei regimi ibridi dalla prassi democratica nelle dinamiche delle principali arene democratiche (Linz e Stepan 2000). Innanzitutto il processo di liberalizzazione ed il riconoscimento dei diritti civili, che consente una qualche forma di associazione e organizzazione e di accesso alla competizione elettorale delle forze politiche riformatrici, sono limitati da meccanismi che tendono a perpetuare la posizione di potere assunta da coloro che guidano il processo di mutamento politico, e a determinare uno status quo in cui le forze di opposizione non riescono ad accedere a cariche pubbliche in assenza di alternanza politica. Non solo. Il processo elettorale è costellato da ostacoli di natura giuridica quali le modalità di raccolta e presentazione delle firme per le liste elettorali, le modalità della campagna elettorale in cui i mass media sono strumento di manipolazione politica e di parziale censura dei competitori emergenti. La legislazione elettorale di contorno limita l’azione dell’offerta politica che, in virtù dell’adozione di un sistema elettorale distorcente nell’esito, favorisce un partito egemonico-dominante che governa in un’arena parlamentare talvolta atrofizzata talora debolmente organizzata. Le arene elettorale e parlamentare sono fortemente condizionate dall’azione indiscussa dell’élite che non ricorre a forme di mobilitazione attiva della popolazione e/o di repressione poliziesca, ma riduce l’ambito di confronto politico, avvalendosi anche di una società civile, controllata, non del tutto reattiva e autonoma alle limitazioni imposte dal governo, poiché maggiormente orientata all’esito delle politiche economiche implementate dal governo, volte a migliorare lo standard di vita. Giunti a questo punto le definizioni caratterizzanti del concetto, quindi necessarie per essere connotato come un regime ibrido sono: parziale pluralismo politico, elezioni semi-competitive, incertezza istituzionale, parziale rispetto dei diritti civili e politici, monismo (leader o partito egemonico-dominante) o oligarchia al potere, assenza di repressione poliziesca, eredità del regime precedente. Come osserva Sartori (1970, 1979, 1984), la connotazione di un concetto è un’operazione che richiede parsimonia ovvero implica l’individuazione delle caratteristiche essenziali o la loro riduzione e l’elencazione delle proprietà definenti esclusive che consentono, successivamente, di delimitare i confini ovvero di denotare quelle proprietà che meglio discriminano il concetto. È nella fase dell’enunciazione delle dichiarazioni denotative che emergono ulteriori problemi dovuti, come abbiamo visto, alle ambiguità già presenti nelle definizioni dichiarativa e connotativa. Anche in questo caso si prende in esame l’analisi empirica svolta da Morlino che elabora una tipologia di regimi ibridi, delineata attraverso tre linee direttrici di ricerca: 1) il peso dell’eredità del passato (origini); 2) i processi di cambiamento e loro conseguenze sull’assetto istituzionale che sta emergendo (mutamento); 3) il risultato ovvero come si caratterizzano i regimi ibridi in alcuni paesi (esito). Ciascuna di queste prospettive di ricerca ha implicazioni concettualmente e metodologicamente diverse. Se si utilizza l’approccio della persistenza delle eredità del regime precedente, una tipologia dei regimi ibridi ha un fine esplicativo, volto a comprendere gli elementi di continuità del vecchio regime che impediscono un’accelerazione del processo di costruzione democratica (Grilli di Cortona e Lanza 2011). Una tipologia, basata sui processi di cambiamento e sulle conseguenze avvenute in questi paesi, consente di spiegare le modalità di trasformazione politica dei regimi ibridi in un’analisi diacronica del fenomeno, avvalendosi delle teorie e degli strumenti impiegati nel paradigma delle transizioni (O’Donnell, Schmitter, Whitehead 1986; Carothers 2002). Una prospettiva statica consente di valutare l’esito cui sono pervenuti i regimi ibridi, partendo dal presupposto che sia stato raggiunto un certo grado di stabilità del funzionamento e della sopravvivenza dello stesso.

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Tab. 2 Classificazione e casi di regimi ibridi (2007)

Categorie Democrazie senza legge Democrazie protette Democrazie limitate Afghanistan Albania Bahrain Bangladesh Bolivia Burkina Faso Centr. Afr. Rep. Colombia Ecuador Guatemala Haiti Honduras Kyrgyzstan Libano Malawi Malesia Montenegro Mozambico Nicaragua Nigeria Paraguay Philippines Solomon Isl. Sri Lanka Tanzania Tonga Uganda

Armenia Djibouti Etiopia Fiji Gabon Giordan Marocco Singapore Venezuela

Burundi Comoros Gambia Guinea-Bissau Haiti Kuwait Mauritania Niger Turchia Yemen

Fonte: Morlino (2008, 185). “Partendo dal fatto elementare che i regimi ibridi hanno perduto alcuni aspetti essenziali del genus democratico, ma non hanno ancora tutte le caratteristiche richieste dalla definizione minima di democrazia, Morlino (2003, 45; 2008, 145) ha declinato il regime ibrido in tre sotto-tipi: democrazia protetta, limitata e senza legge (Morlino 2001,125; 2008, 178-179). Per l’autore si può, infatti, parlare di democrazia protetta quando il regime politico è controllato dall’apparato militare o da forze esterne al paese, con limitazione della competizione fino al punto di proibire la presentazione delle liste, solitamente ai partiti comunisti18. Si ha democrazia limitata quando in presenza di multipartitismo, i diritti civili non sono garantiti, vi è il monopolio dei mezzi di informazione e non vi è un’effettiva opposizione partitica19. Infine, democrazia senza legge con la presenza di un’illegalità diffusa ed uno Stato debole e incapace di garantire l’applicazione dei principi democratici (Tab.2). Da un punto di vista teorico la classificazione proposta da Morlino cerca di delineare le possibili direzioni di mutamento politico20 che avvengono nei regimi ibridi e viene sottoposta a verifica empirica, ricorrendo ai dati di Freedom House (FH).

18 Il termine democrazia protetta riprende l’elaborazione concettuale di Merkel e Croissant (2000) relativa alla “democrazia dominata”. 19 Il termine democrazia limitata riprende l’elaborazione concettuale di “democrazia illiberale” di Merkel (2000). 20 Le direzioni di trasformazione che possono emergere nel processo di transizione presentano le seguenti caratteristiche: i regimi tradizionali possono trasformarsi in democrazie protette o senza legge; gli autoritarismi militari in democrazie protette, gli autoritarismi civile-militari in democrazie protette; gli autoritarismi di mobilitazione in

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Più specificamente, la definizione di regimi “parzialmente liberi” della FH è considerata un sinonimo di regime ibrido, secondo l’impostazione morliniana, utilizzando sette indicatori relativi alle dimensioni principali di analisi di qualsiasi regime politico – rule of law, processo elettorale, funzionamento del governo, pluralismo politico e partecipazione, libertà di espressione e di credenze, libertà di associazione e organizzazione, autonomia personale e libertà individuali. In questo modo Morlino (2008, 184) evidenzia come la maggior parte dei regimi ibridi rientri nella categoria della “democrazia senza legge” e, pertanto, l’assenza dello Stato o di qualche istituzione, un potere giudiziario scarsamente indipendente, alti livelli di corruzione ed un’inefficiente burocrazia sembrano meglio discriminare questi regimi. Nella classificazione dei casi di regimi ibridi assegnate alle tre categorie di FH21 si denota che la maggior parte di questi regimi è caratterizzata dall’assenza della rule of law (democrazia senza legge) rispetto a dimensioni quali partecipazione e pluralismo (democrazia protetta) e alla libertà di espressione, associazione e autonomia individuale della democrazia limitata. L’analisi empirica di Morlino, sebbene come lo stesso autore ha affermato, costituisca solo un primo tentativo nella direzione di sviluppare una metodologia più accurata e ulteriori approfondimenti conoscitivi, ha evidenziato come la letteratura degli anni Cinquanta possa ancora fornire ottimi spunti per l’analisi dei processi di democratizzazione più recenti, con particolare riferimento all’analisi delle istituzioni. Sempre avvalendosi di dati quantitativi e con l’obiettivo di verificare la stabilità di questi regimi, Morlino apporta un’ulteriore distinzione nella classificazione dei regimi ibridi, tenendo conto del fatto che fra il 1991 ed il 2006 questi paesi hanno raggiunto un certo grado di stabilizzazione, poiché si sono verificate alcune di queste condizioni: 1) è avvenuta la stabilizzazione del regime ibrido (38 casi) nelle sue molteplici forme (democrazia senza legge, democrazia protetta, democrazia limitata); 2) stabilizzazione di un regime democratico in cui il regime ibrido precedente costituisce una fase di transizione verso la democrazia (13 casi); 3) stabilizzazione di un regime autoritario in cui il regime ibrido precedente costituisce una fase di transizione verso l’autoritarismo (7 casi); 4) assenza di stabilizzazione e incertezza causata da anni di autoritarismo (17 casi); 5) assenza di stabilizzazione e incertezza causata da anni di democrazia (6 casi). Il punto nodale nell’analisi di Morlino, e di coloro che ricorrono ai dati summenzionati, è che i tipi delineati – democrazia protetta, senza legge e limitata - hanno una qualche capacità esplicativa solo ed esclusivamente se la concezione di regime ibrido coincide con quella dei parzialmente liberi della FH sulla base dei punteggi relativi alle dimensioni rilevanti per l’analisi dei regimi politici. Il ricorso ai database esistenti in letteratura22 consente di comprendere quanto il fenomeno in esame sia esteso e attuale e, quindi, ineludibile dal punto di vista della ricerca empirica. Consente anche di delineare o scoprire una linea di tendenza, una direzione di mutamento o di stabilità del fenomeno su cui costruire teorie che richiedono una confutazione empirica. Tuttavia, la misurazione del grado di democraticità dei regimi politici sembra essere maggiormente orientata all’uso di metodi quantitativi23, poco supportati da una buona impostazione teorica e determinati dall’arbitrarietà del ricercatore che parte dai casi (concetti/tipi empirici) per giungere alle categorie concettuali (tipi euristici). Il rischio, con implicazioni scientifiche e metodologiche più gravi, è quello di ricadere in un caso di data-driven research, una ricerca guidata dai dati disponibili dai ricercatori che ne inficia la validità

democrazia limitata; i regimi post-coloniali in democrazie protette o senza legge e le democrazie liberali in senza legge, democrazia limitata e protetta. 21 Se si segue la linea metodologica e interpretativa collegata al risultato ottenuto da questi paesi si può fare riferimento al contributo della Freedom House che attribuisce il punteggio da 3,00 a 3,99 ai paesi che rientrano nella categoria delle democrazie semi-consolidate; da 4,00 a 4,99 ai regimi in transizione o ibridi e da 5,00 a 5,99 agli autoritarismi semiconsolidati. Tutti questi tipi di regime vengono inseriti nell’etichetta più vasta di regimi parzialmente liberi. 22 Gli strumenti quantitativi di misurazione della democrazia risalgono agli inizi degli anni Settanta in un contesto internazionale, caratterizzato dalle crisi delle democrazie e dall’affermazione del paradigma neoliberista. 23 Si tratta di dati macropolitici disponibili da diversi organismi internazionali come la World Bank, l’OECD o le Nazioni Unite, le fondazioni private come IDEA (International Institute for Democratic Assitance) o la Bertelsman Stiftung o da studiosi della Polity IV o giornali come l’Intelligence Unit dell’Economist e la Freedom House.

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scientifica e, come nel caso di FH, accentua la significatività di una dimensione (misurazione della libertà e prevalenza di un modello di democrazia liberale) a scapito di una minor enfasi sulle altre dimensioni della democrazia (sociali,economiche e culturali). Come hanno, infatti, rilevato Landman e Häusermann (2003) il FH è uno strumento che nel tentativo di misurare sia la democrazia, la buona governance e i diritti umani non consente di discriminare l’oggetto di analisi, producendo uno stiramento concettuale. Inoltre, bisogna non sottovalutare il fatto che Freedom House24 possa costituire, in realtà, un caso di legittimazione scientifica del modello di democrazia liberale, sostenuto dal governo americano. Considerata come un pattern-seller globale della democrazia25 (Giannone, 2008), la valutazione, il monitoraggio e la misurazione delle democrazie ad opera di questi strumenti assume una valenza politica, volta a legittimare scelte politiche, economiche, sociali e culturali dei promotori della democrazia26. La scelta di quale approccio metodologico sia più adeguato per misurare il grado di democraticità nei vari tipi di regimi politici, ivi compreso quello autoritario, comporta un’errata o una vaga e confusa comprensione e interpretazione del fenomeno. Come hanno correttamente osservato Gescherwski e Schmotz (2011, 9), non è logico misurare e comparare, riformulando una famosa espressione sartoriana, quanta componente della mela (democraticità) è presente nella pera (regime autoritario), posto che entrambi appartengono alla categoria della frutta (regimi politici). Dal punto di vista metodologico, infatti, non è corretto confondere misurazioni di grado con quelle di tipo. La soluzione alternativa implica una concettualizzazione di ciascun regime, individuando il fundamentum divisionis, che consenta di connotare e, al contempo, evidenziare le differenze funzionali. Se si condivide l’impostazione procedurale schumpeteriana della democrazia, come la maggior parte degli autori in questa sede analizzati, tale fundamentum è costituito dalla competizione elettorale, con le conseguenze che abbiamo visto in termini di fallacia elettorale; se si condividono altre impostazioni il fundamentum è allargato ad altre proprietà quali la rule of law, l’accountability e le libertà ovvero le condizioni sociali, economiche e culturali di un regime politico. In questo modo la letteratura sui regimi democratici ed autoritari è stata testimone della proliferazione di aggettivi, collegati sia alla democrazia sia all’autoritarismo. Analizzando “la democrazia con aggettivi” Collier e Levitsky (1997) hanno, infatti, concettualizzato la formazione di sotto-tipi diminutivi, formati attraverso la sottrazione di una proprietà definitoria lungo la scala di astrazione, capaci anche di cogliere la varianza interna ad ogni regime ed evitare lo stiramento concettuale. Più precisamente, la tabella 3 mostra i diversi attributi (suffragio universale, contestazione, libertà civili) che vengono sottratti nella definizione minima procedurale di democrazia, ciascuno dei quali produce diversi sotto-tipi tipi di democrazia, mentre la proprietà “governo elettivo con effettivo potere di governare” costituisce l’attributo mancante nella definizione più estesa della democrazia procedurale.

24 “La misurazione giustifica relazioni e aiuti finanziari, stabilisce gerarchie, organizza e legittima le priorità di azione degli Stati” (Giannone 2008, 5). Vi sono, inoltre, difficoltà nella traduzione operativa del concetto di democrazia e nella costruzione di indicatori dei diritti economici e sociali, nonchè scarse informazioni a disposizione sulle regole di codifica che possano spiegare come un paese che ottiene un punteggio pari a 2 per i diritti politici e 3 per i diritti civili sia definito libero mentre uno che ottiene un punteggio 3/2 sia parzialmente libero 25 Più precisamente FH è una società americana, la cui prima survey risale al 1973, che si definisce un’organizzazione non-governativa indipendente, promotrice dell’espansione della libertà nel mondo. Nel corso dei decenni ha assistito i paesi post-comunisti nel percorso di democratizzazione così come ha aperto nuovi sedi nei paesi arabi. È essenzialmente costituita da esponenti conservatori americani (consultant writers, senior-level academic advisor, think tank, individual professional contacts) che operano in diversi settori. Nel tempo è riuscita ad acquisire autorevolezza internazionale alla pari della World Bank e del Fondo Monetario Internazionale, dell’Heritage Foundation, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Unesco. 26 La composizione del comitato orientato politicamente a destra e costituito prevalentemente da personale americano e non multi-razziale e rappresentativo di tutti i paesi ha dimostrato pregiudizi politici nei confronti di regimi di sinistra (Grassi 2008; Mainwaring, Brinks e Pérez-Liñan 2001, 53-54).

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Tab. 3 . Partial Democracies: Examples of Diminished Subtypes

1. Diminished from Procedural Minimum Definition (1a)

Missing Attribute: Full Suffrage

Limited democracy Male democracy

Oligarchical democracy

(1b) Missing Attribute: Full Contestation

Controlled democracy De facto one-party democracy

Restrictive democracy

(1c) Missing Attribute:

Civil Liberties Electoral democracy

Hard democracy Illiberal dmeocracy

2. Diminished from Expanded Procedural Minimum Definition Missing Attribute: Elected Government

Has Effective Power to Govern Guarded democracy Protected democracy Tutelary democracy

Fonte: Collier e Levitsky 1997, 440. Nei casi di regimi politici che non sono pienamente democratici, il ricorso alla formazione di sotto-tipi diminutivi consente, pertanto, la differenziazione e la formazione di nuove categorie analitiche e anche i regimi misti o ibridi rientrerebbero, secondo gli autori, in una concetualizzazione di questo tipo. È una soluzione metodologicamente convincente anche per i casi dei regimi ibridi? Il sotto-tipo di regime ibrido, così concepito, è una valida alternativa allo stiramento concettuale e all’abuso di questo termine? Per rispondere a queste domande è necessario riformulare il processo di costruzione di un concetto, partendo da un’altra questione. Qual è il fundamentum divisionis dei regimi ibridi e la loro dimensione discriminante? La rassegna delle definizioni e delle sinonimie del regime ibrido evidenzia che l’unica caratteristica comune è la combinazione di elementi democratici ed autoritari, poiché gli altri attributi possono essere totalmente o parzialmente presenti nella varietà dei regimi analizzati. Questa considerazione produce un altro problema: esistono tipi puri di regimi democratici e autoritari? Si potrebbe obiettare che tutti i regimi nelle loro strutture, funzioni e dinamiche interne hanno componenti miste che possono caratterizzare un regime democratico di buona o cattiva qualità così come regimi autoritari che presentano cenni di parziale apertura e liberalizzazione. Se si condivide questa affermazione il regime ibrido può costituire una categoria intermedia, autonoma, producendo una distinzione tricotomica dei regimi politici (Wigell 2008) o essere rappresentato lungo un continuum che va da un regime democratico ad uno autoritario, forse teoricamente più valido, ma di difficile applicazione empirica, considerando l’incertezza e l’instabilità della maggior parte dei regimi ibridi. A supporto di tale impostazione teorica si potrebbe sottolineare che il contributo teorico di Linz sulla categoria distintiva al totalitarismo e alla democrazia dei regimi autoritari ha dimostrato nel corso del tempo di avere una validità empirica e di definire una terza via rispetto alla dicotomia sino ad allora prevalente anche se nell’individuazione dei sette principali regimi autoritari non si riscontra nessun autoritarismo competitivo (Gescherwski e Schmotz 2011, 3-5). Se si condivide, invece, l’insegnamento metodologico e logico sartoriano, i regimi ibridi non costituiscono una classe mutualmente esaustiva ed esclusiva e l’unica alternativa percorribile è il ricorso a sotto-tipi. In quest’ultimo caso è necessario affrontare un’altra questione: i regimi ibridi sono un sotto-tipo di regime autoritario o democratico? Lo stato dell’arte sui regimi ibridi ha dimostrato di essere permeato da una fallacia elettoralistica che ha, affrettatamente, indotto gli studiosi a ritenere i regimi ibridi un sotto-tipo di democrazia o tendenzialmente in prossimità di un regime democratico. Un particolare attenzione è stata, inoltre, rivolta all’identificazione della soglia che delinea i confini tra le due categorie, fallendo il tentativo

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di fornire procedure chiare, sistematiche per sviluppare tecniche che consentano di misurare categorie intermedie. Secondo Munck e Snyder (2004) tale soglia può essere individuata nel punto intermedio tra due concetti mutualmente esclusivi ed esaustivi attraverso una nuova scala con categorie separate da intervalli eguali di distanza. Anche questa proposta comporta inevitabilmente una scelta arbitraria del ricercatore e la capacità di selezionare indicatori che “viaggiano” in tutti i paesi27. E tali indicatori potrebbero essere più facilmente individuati se i comparativisti non si fossero erroneamente concentrati sull’esito democratico, nelle sue diverse gradazioni, e non sull’origine (dal tipo) del regime da cui discendono (regime autoritario)28. È fuorviante ritenere che il crollo dei regimi autoritari abbia indistintamente comportato una transizione solo ed esclusivamente verso la democrazia (Carothers 2002, O’Donnell 2002). In realtà, siamo in presenza di regimi in transizione da un regime autoritario verso uno (più) democratico e come tali devono essere trattati e concettualmente definiti, anche nell’analisi longitudinale. In una dimensione diacronica, in cui la forza delle eredità del passato ha frenato la democratizzazione del regime politico e sono ancora presenti elementi di continuità nella permanenza di vecchie élite o di singoli leader al potere, nel mantenimento di istituzioni e strutture del vecchio regime e nella configurazione delle fratture sociali del periodo non democratico, possono risultare più evidenti i tratti autoritari ancora presenti nel regime in transizione e l’inadeguatezza dell’applicazione della democrazia con gli aggettivi. Nel caso in cui ci troviamo in una situazione, come ha rilevato correttamente Morlino, di una crisi della democrazia e di un percorso verso una democrazia parziale e, a sua volta, in transizione verso un regime autocratico, allora è bene ricorrere concettualmente alle teorie e agli strumenti dell’analisi sulla qualità democratica (Morlino 2005). Al contrario, nella prospettiva statica si tratta di verificare se il regime in transizione ha concluso con successo l’esito del percorso democratico, consolidandone le caratteristiche ed eliminando i tratti autoritari al suo interno. Se la proprietà discriminante dei regimi ibridi è la combinazione di cui abbiamo parlato precedentemente e la transizione fallisce, siamo in presenza di una democratizzazione interrotta o di una transizione permanente, che non può ricondurre tale categoria ad una democrazia degli aggettivi, bensì induce a prendere in considerazione il peso del passato, il tipo di autoritarismo da cui proviene e condividere una terminologia propria degli autoritarismi, come le ricerche di Ottaway e Schedler, Levitsky e Way hanno convincentemente dimostrato.

5. Considerazioni conclusive

I paesi coinvolti nei processi di democratizzazione non hanno avuto un percorso lineare, bensì articolato in diverse traiettorie (Brownlee 2009), ciascuna delle quali presenta determinate peculiarità che hanno indotto numerosi comparativisti a racchiuderle all’interno della categoria dei regimi ibridi. Come abbiamo già evidenziato, forme miste di regimi politici sono storicamente sempre esistite e, come tali, osservate dagli studiosi che hanno utilizzato metodologie differenti e contrapposte fra sostenitori dell’approccio dicotomico, volto ad evitare la creazione di una categoria residuale, e

27 Sebbene Dahl non espliciti il confine fra le quasi-poliarchie e le poliarchie, l’analisi sulla inclusione o esclusione dei gruppi politici ed il loro diritto alla competizione politica consente di comparare le regole e le condizioni che vengono adottate nei vari paesi. 28 È condivisibile l’avvertimento di Kaplan (1964, 24-25), espresso nel cd. mito della metodologia, per il quale le scelte più difficili su cui si confrontano le scienze comportamentali sono metodologiche. È altresì, vero che una buona concettualizzazione apporterebbe un contributo più chiaro e sistematico su quale metodo utilizzare nelle scienze sociali.

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coloro che hanno enfatizzato le capacità di differenziazione esplicativa degli approcci, basati sulla gradazione nella misurazione empirica dei fenomeni. Inoltre, non vi è ancora sufficiente condivisione sull’apporto scientifico del paradigma delle transizioni, applicato allo studio dei regimi ibridi, specialmente nell’analisi longitudinale, relativa alla loro transitorietà. La prospettiva diacronica consente di acquisire preziose informazioni attraverso il monitoraggio e l’osservazione della direzione del cambiamento al fine di comprendere se l’esito della transizione democratica ha più possibilità di successo e nell’individuazione di quali siano effettivamente le dimensioni rilevanti, le cause del fallimento, gli ostacoli al cambiamento che hanno generato questo regime. Si tratta di definire fino a che punto il regime ibrido si è avvicinato o allontanato dai due modelli polari – democratico e autoritario – e fissarlo come una sottospecie del genus specifico. Se vogliamo affermare che la distinzione tra i regimi non è di natura dicotomica, i regimi ibridi devono essere intesi come un sotto-tipo di un regime non democratico su cui esistono già numerose analisi, termini e definizioni operative del fenomeno in letteratura. In questo caso l’agenda di ricerca sulle transizioni democratiche e le democratizzazioni, in generale, deve essere ridefinita, partendo da un’altra prospettiva che non risenta dell’errata interpretazione del paradigma delle transizioni, secondo la quale l’esito di questi cambiamenti di regime è il consolidamento democratico. Come O’Donnell ha sottolineato in risposta alle critiche che gli sono state rivolte (Carothers 2002, O’Donnell 2002), si tratta di un paradigma che analizza le “transizioni dai regimi autoritari” e non la “transizione verso la democrazia”. Sulla base di questa impostazione, la presenza di elementi autoritari indica che l’eredità del passato ha inciso fortemente sull’esito del processo, creando le condizioni ottimali per mantenere uno status quo e, pertanto, incentivare una transizione permanente ovvero un reflusso autoritario con caratteristiche democratiche di facciata a causa anche delle condizionalità esterne al processo (Magen e Morlino 2008) che influenzano le decisioni politiche dell’élite al potere. Per quanto concerne l’individuazione del momento in cui la transizione è compiuta e si assiste alla presenza di una democrazia consolidata, la concezione Linz e Stepan (2000, 7) non lascia alcun dubbio a tal riguardo poiché una democrazia è consolidata quando essa diventa “l’unica alternativa possibile” esistente (“the only game in town”) ovvero una “routine, parte integrante della vita sociale, istituzionale e perfino psicologica, oltre che elemento centrale sulle strategie per ottenere successo (Linz e Stepan 2000, 7)”. La mera logica definitoria, evidenziata nella mappatura, non consente di paragonare il regime ibrido ad un regime democratico nel caso di mutamenti politici da un regime autoritario. Rimane ancora da esplorare, seppur accennata da alcuni autori, il mutamento politico scaturito dalla crisi nella e della democrazia per la quale gli studi sulla qualità democratica29 possono apportare un contributo conoscitivo ed esplicativo con minore implicazioni concettuali e metodologiche e che ridurrebbero l’ambiguità e l’equivocità delle democrazie con aggettivi30. Nella letteratura non c’è accordo, inoltre, unanime sia sul significato attribuito al regime ibrido sia sul termine da utilizzare, condizionando la percezione e la concezione del referente, premesse indispensabili per una buona teorizzazione. La costruzione della denotazione del concetto, inoltre, non ha ridotto la sua vaghezza, lasciando aperti i confini semantici e non discriminando sufficientemente tra le caratteristiche appartenenti, mutualmente esclusive ed esaurienti. Il problema metodologico più controverso e dibattuto, relativo all’individuazione della soglia arbitraria che separi i regimi democratici e non democratici ed un frettoloso ricorso ai database,

29 “la qualità e la quantità dei diritti servono abitualmente a differenziare le democrazie” (Pasquino 2007). 30 Democrazia di facciata o democrazia illiberale o democrazia autoritaria contengono un aggettivo che cancella il carattere democratico del sotto-tipo.

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hanno messo, in realtà, in ombra il/i fondamento/i su cui un disegno di ricerca sui processi di democratizzazione deve essere concettualmente elaborato. La vera sfida nelle analisi sui regimi politici consiste nel chiarire che cosa si vuole esplorare nell’analisi dei regimi politici in mutamento. Lo stato dell’arte attuale ha dimostrato che l’aspetto procedurale della democrazia e, nello specifico, la competizione politica ha prevalso su altre variabili con il rischio di cadere in una definizione minimalista della democrazia in base alla quale tutti i regimi che hanno elezioni sono democrazie, anche quelli autoritari. Sarebbe, quindi, più opportuno sollecitare ricerche più approfondite sulle dinamiche del processo elettorale (electoral governance) nei regimi in questione (dalla legislazione elettorale di contorno, alla manipolazione e l’uso dei mass media, al tipo di marketing elettorale) per chiarire fino a che punto, dopo un avvio di liberalizzazione, le elezioni consentono alle opposizioni emergenti di acquisire maggiore libertà d’azione e di inclusione nelle scelte politiche che si devono apportare per garantire una direzione democratica del cambiamento. Le dimensioni analitiche, estrapolate da FH, consentono di individuare un trend nello studio del mutamento politico, ma non consentono di acquisire una thick description delle peculiarità istituzionali, culturali, sociali ed economiche, ciascuna delle quali può avere una funzione determinante per lo sviluppo o involuzione politica del regime politico. Gli autori, come è emerso dalla mappatura delle definizioni, hanno menzionato il ruolo rilevante di differenti attori, strutture e dinamiche che non sono state tradotte operativamente in variabili specifiche, capaci di approfondire, ad esempio, il ruolo del partito egemonico-dominante, la sua permeatività nelle strutture statali e sociali, così come il comportamento, il reclutamento o la cooptazione tra vecchia e nuova élite al potere. Se si sostiene che il neo-istituzionalismo possa apportare un contributo determinante nell’analisi dei regimi ibridi, è bene proseguire in quella direzione, cercando di comprendere che tipo di istituzioni sono state concepite, costruite e fatte funzionare dalla classe politica al governo31. La classificazione dei regimi ibridi e il dibattito che ne è scaturito hanno contraddistinto la produzione scientifica di questi ultimi decenni, senza apportare un contributo che semplificasse il quadro d’analisi, bensì la varietà delle impostazioni teoriche e delle ricerche empiriche ha creato un vero e proprio labirinto concettuale ed empirico di ampia dimensione. È necessario che la disciplina affronti un riesame concettuale e metodologico che pervenga al raggiungimento di una soluzione unanimemente accettata. Sinora sono state elaborate delle mere etichette che determinano tendenze, ma non descrizioni precise del fenomeno e offrono l’impressione che le ricerche sulla democratizzazione, come Levitsky e Way (2002) hanno giustamente rilevato, degeneri in una competizione tra chi diventa più famoso nel produrre un nuovo concetto, mettendo in serio pericolo gli studi comparati sui regimi politici. Da qui l’esortazione ad evitare forme di gerrymandering concettuale32 ovvero di allargare il campo delle definizioni ogni qualvolta s’incontra un caso anomalo ovvero di aumentare il numero di proprietà dell’oggetto. Pare, invece, prevalere una concezione moderna nell’approccio ai processi di democratizzazione che considera gli attuali regimi non democratici come una categoria sui generis per la quale è impossibile usare le vecchie categorie concettuali. In realtà, coloro che sostengono questa impostazione corrono il rischio di aggravare il disordine concettuale, bloccando l’accumulazione del sapere, alimentando il deficit dell’analisi concettuale nella disciplina e sottovalutando l’apporto che la lettura e lo studio dei classici può, invece, offrire nell’innovazione concettuale e nel dibattito sulla varietà dei regimi politici nell’era contemporanea.

31 Per un approfondimento su questo argomento, cfr. Pasquino (1970, 180-181). 32 Il termine “Gerrymandering” è stato suggerito da Jennifer Whiting agli autori in una comunicazione privata. Richiama il metodo utilizzato per ridisegnare i collegi elettorali uninominali americani ad opera del Governatore del Massachusettes, Elbridge Gerry, a forma di salamandra.

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