Il quaderno afghano nel cuore del bosco

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sabato 13 febbraio 2016 | pagina 99 | I IL QUARTINO DI P99 il quaderno afghano nel cuore del bosco Si chiamava Zaher Rezai. Il suo nome dirà qualcosa a qualcuno. Aveva tredici anni, o forse un po’ di più. Era partito ancora bambino da Mazar-i Sharif. Aveva viaggiato avventurosamente fino a Venezia, l’ultimo tratto nascosto in un traghetto GIANFRANCO BETTIN n È da un piccolo ponte sopra un fosso che si intravede presto il Quaderno, in una radura dove i sentieri si incrociano e si diramano verso il folto del bosco. Il Quaderno è un’in- stallazione in acciaio corten e in ferro e otto- ne, poggiata su una base circolare attorno alla quale si aprono e si possono sfogliare al- cune grandi pagine metalliche – di circa 50 cm per 30 – sorrette da un basamento da cui si alza di un paio di metri un’asta sottile sulla quale garrisce uno stendardo che pare scol- pito nell’aria. L’installazione, un’agile e sug- gestiva scultura, è opera di Luigi Gardenal, pittore, incisore, grafico e designer classe 1950, formatosi con Guidi, Vedova, De Lui- gi, Santomaso. Le pagine color ruggine reca- no incisi dei versi, la controcopertina simbo- li e motivi orientali. Qualche anno fa, a Ca’ Pesaro, una mostra antologica di Gardenal si era ispirata a questi motivi in una sezione intitolata Afghan Visa. Gardenal conosce bene i luoghi tra Europa e Asia, raggiunti va- licando più volte il Khyber Pass, quando an- cora era una via di dialogo e di scambio e non l’incrocio periglioso e devastato che poi è di- ventato. Conosce e ha visto i Buddha della valle Bamiyan, distrutti dalla furia talebana poco prima dell’attacco alle Torri gemelle. In quei posti favolosi e tragici e in tutta l’area ora inquieta e sconvolta tra Medio Oriente, Iraq, Iran, Turchia, Afghanistan, Pakistan, Nepal, Tibet e India, ha viaggiato e lavorato come disegnatore archeologico e «cacciato- re» di segni, di forme e colori, di nutrimenti culturali e di visioni. Non poteva non restare colpito dalla storia di chi teneva nelle tasche il quaderno che ha ispirato quel «monu- mento» nel bosco. Il sentiero che porta al Quaderno si inol- tra nella selva spogliata dall’inverno, tra gli alberi, gli arbusti di biancospino, le sie- pi boscate. Le siepi, soprattutto, racconta- no che cosa c’era prima, qui: un mondo contadino che altrove, non lontano, è scomparso sotto colate di cemento e asfal- to, templi del commercio e del consumo, capannoni. A suo tempo febbrili cellule del miracolo economico, i capannoni del nor- dest, pur provati dalla crisi, sfidano la con- giuntura, tenendo duro e preparando l’a- gognata ripresa. Le siepi invece sono un reperto preserva- to, una traccia del passato, di quando dava- no fascine, legname e vimini. Come le col- tivazioni, i casolari, le campagne: un mon- do che si è prima spopolato con l’emigra- zione di massa, poi convertito in universo industriale e urbano e infine largamente fatto artigianale intensivo (proprio nei ca- pannoni) e commerciale alla maniera ame- ricana e «globale» (dalla bottega di vicina- to e dal mercato di paese all’outlet e al me- gacentro aperti sette giorni su sette). Qui invece, nella zona nord orientale del territorio di Venezia, dove la conurbazione che da Porto Marghera, inglobando Mestre, si sgrana verso l’aeroporto Marco Polo, da una ventina d’anni sta crescendo un bosco che riesuma, in un esperimento di re-wilder- ness guidata, l’antico bosco planiziale, prece- dente lo stesso mondo contadino. Oggi le aree aperte alla fruizione pubblica, dopo an- ni di assoluta chiusura per consentirne la crescita più libera e tutelata, coprono circa 230 ettari (in totale saranno oltre mille), ar- ticolati in corpose zone boscate – di farnie, frassini, carpini, salici, ontani, aceri, robinie, tigli, platani, olmi: tutte piante autoctone – collegate da percorsi pedonali e ciclabili e in- framezzate da prati, bassure, stagni, fossati. u segue alle pagine II e III ILLUSTRAZIONI DI KOEN IVENS G+VarW+OZdhOtoscppkYmt0tA9LZ6HorVTHKeX5PFlo=

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Page 1: Il quaderno afghano nel cuore del bosco

sabato 13 febbraio 2016 | pagina 99 | IIL QUARTINO DI P99

il quaderno afghanonel cuore del bosco

Si chiamava Zaher Rezai. Il suo nome dirà qualcosa a qualcuno.

Aveva tredici anni, o forse un po’ di più. Era partito ancora bambino

da Mazar-i Sharif. Aveva viaggiato avventurosamente fino a Venezia,

l’ultimo tratto nascosto in un traghetto

GIANFRANCO BETTIN

n È da un piccolo ponte sopra un fosso che siintravede presto il Quaderno, in una raduradove i sentieri si incrociano e si diramanoverso il folto del bosco. Il Quaderno è un’i n-stallazione in acciaio corten e in ferro e otto-ne, poggiata su una base circolare attornoalla quale si aprono e si possono sfogliare al-cune grandi pagine metalliche – di circa 50cm per 30 – sorrette da un basamento da cuisi alza di un paio di metri un’asta sottile sullaquale garrisce uno stendardo che pare scol-pito nell’aria. L’installazione, un’agile e sug-gestiva scultura, è opera di Luigi Gardenal,pittore, incisore, grafico e designer classe1950, formatosi con Guidi, Vedova, De Lui-gi, Santomaso. Le pagine color ruggine reca-no incisi dei versi, la controcopertina simbo-li e motivi orientali. Qualche anno fa, a Ca’Pesaro, una mostra antologica di Gardenal

si era ispirata a questi motivi in una sezioneintitolata Afghan Visa. Gardenal conoscebene i luoghi tra Europa e Asia, raggiunti va-licando più volte il Khyber Pass, quando an-cora era una via di dialogo e di scambio e nonl’incrocio periglioso e devastato che poi è di-ventato. Conosce e ha visto i Buddha dellavalle Bamiyan, distrutti dalla furia talebanapoco prima dell’attacco alle Torri gemelle.In quei posti favolosi e tragici e in tutta l’areaora inquieta e sconvolta tra Medio Oriente,Iraq, Iran, Turchia, Afghanistan, Pakistan,Nepal, Tibet e India, ha viaggiato e lavoratocome disegnatore archeologico e «cacciato-re» di segni, di forme e colori, di nutrimenticulturali e di visioni. Non poteva non restarecolpito dalla storia di chi teneva nelle tascheil quaderno che ha ispirato quel «monu-mento» nel bosco.

Il sentiero che porta al Quaderno si inol-tra nella selva spogliata dall’inverno, tra

gli alberi, gli arbusti di biancospino, le sie-pi boscate. Le siepi, soprattutto, racconta-no che cosa c’era prima, qui: un mondocontadino che altrove, non lontano, èscomparso sotto colate di cemento e asfal-to, templi del commercio e del consumo,capannoni. A suo tempo febbrili cellule delmiracolo economico, i capannoni del nor-dest, pur provati dalla crisi, sfidano la con-giuntura, tenendo duro e preparando l’a-gognata ripresa.

Le siepi invece sono un reperto preserva-to, una traccia del passato, di quando dava-no fascine, legname e vimini. Come le col-tivazioni, i casolari, le campagne: un mon-do che si è prima spopolato con l’e m i g r a-zione di massa, poi convertito in universoindustriale e urbano e infine largamentefatto artigianale intensivo (proprio nei ca-pannoni) e commerciale alla maniera ame-ricana e «globale» (dalla bottega di vicina-

to e dal mercato di paese all’outlet e al me-gacentro aperti sette giorni su sette).

Qui invece, nella zona nord orientale delterritorio di Venezia, dove la conurbazioneche da Porto Marghera, inglobando Mestre,si sgrana verso l’aeroporto Marco Polo, dauna ventina d’anni sta crescendo un boscoche riesuma, in un esperimento di re-wilder -ness guidata, l’antico bosco planiziale, prece-dente lo stesso mondo contadino. Oggi learee aperte alla fruizione pubblica, dopo an-ni di assoluta chiusura per consentirne lacrescita più libera e tutelata, coprono circa230 ettari (in totale saranno oltre mille), ar-ticolati in corpose zone boscate – di farnie,frassini, carpini, salici, ontani, aceri, robinie,tigli, platani, olmi: tutte piante autoctone –collegate da percorsi pedonali e ciclabili e in-framezzate da prati, bassure, stagni, fossati.

u segue alle pagine II e III

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II | pagina 99 | sabato 13 febbraio 2016

u segue da pagina I

n Il bosco in cui si trova il Quaderno copreuna cinquantina di ettari ed è cresciuto dal2003, anno in cui le nuove semine e pian-tumazioni sono state integrate nel paesag-gio agricolo preesistente, allora in buonaparte abbandonato. In pochi passi, dal li-mitare, si entra nel fitto degli alberi, in unaspecie di sovvertimento spazio-temporalein cui un territorio esempio storico di spe-culazione edilizia e urbanistica e di unasnaturata e distorta incarnazione dellamodernità prova a mutare drasticamente ipropri connotati e a ritrovare un ancestra-le se stesso in certe radici.

Basta aguzzare la vista, e abituare i sensie si entra subito in un microcosmo paral-lelo all’attiguo universo urbano, un altroveappena di là da una linea sottile. Tra lefronde del platano e della farnia ci si puòaccorgere del cardellino, insidiato dallagazza, che ci va apposta a predarne le uovaanche se per sé, come la ghiandaia e la tor-tora, predilige il pioppo, nel cui tronco ni-

dificano il picchio rosso e il picchio verde.Nel fusto del salice si può spiare la cincial-legra o, più raramente, l’upupa. Nella cep-paia, il merlo. L’olmo lo si può vedere ospi-tare fringuelli e colombacci. Cuculi, balienere, scriccioli li si nota arrangiarsi tran-quillamente, come pure, di notte, gufi e ci-vette, confortati, come i pipistrelli, dalla(relativa) lontananza del gran baglioredella città, delle autostrade, dell’a e r o p o r-to. Dal bosco sono solo un riflesso azzur-rognolo e giallo tenuto a bada dalle ombredella vegetazione che fa da immensa volie-ra all’avifauna, e da libero e protetto habi-tat a tanti altri animali.

* ** **

Si chiamava Zaher Rezai. Il suo nomedirà qualcosa a qualcuno. Aveva tredicianni, o forse un po’ di più. Era partito an-cora bambino dall’Afghanistan. Era giun-to in Iran e vi era rimasto a lavorare comesaldatore. Aveva quindi viaggiato avven-turosamente fino a Venezia, l’ultimo trattonascosto in un traghetto per attraversare ilmare. Poi, nel porto di Venezia, si era ag-grappato sotto un camion per eludere icontrolli di frontiera. Aveva percorso cosìgli ultimi otto chilometri. A Mestre, a unincrocio non lontano da dove sorge il bo-sco che accoglie il Quaderno e che oggi,per volontà del Comune, porta il suo nome– il «Bosco di Zaher» – è caduto, o ha pro-vato a scendere, ed è morto schiacciatosotto le ruote. Aveva con sé un quaderno ealcuni animaletti di plastica: un alce, unarondine, una giraffa e un leone. Sembrava-no giocattoli e, al tempo stesso, talismani ericordi. Evocavano un’infanzia o un’a d o l e-scenza, un tempo breve della vita persona-

le, e un tempo lungo, millenario, della sto-ria naturale e della geografia. Il documen-to d’identità che aveva in tasca diceva cheera nato a Mazhar-i Sharif tredici anni pri-ma. Secondo i medici che ne hanno ispe-zionato il corpo forse aveva tre o quattroanni di più e forse quel documento era sta-to contraffatto per agevolarne l’ingresso el’accoglienza in Europa. Inutilmente, dun-que. Peraltro, alla frontiera, Zaher non hanemmeno tentato di farla valere, la mino-re età dichiarata sulla carta, a riprova, for-se, di un’assenza di premeditazione e con-traffazione.

Il quaderno, tradotto dagli operatori edai mediatori culturali del Comune, con-teneva un indiretto e toccante raccontodella vita di Zaher nella sua ultima stagio-ne. C’erano disegni e note sul suo lavoro disaldatore in Iran. C’erano i poveri conti dispese e risparmi. E c’erano versi di poesie ecanzoni della tradizione hazara, l’etnia acui apparteneva, in parte riprodotti nel-l’installazione di Gardenal. Una volta tra-dotti e pubblicati, sono stati soprattuttoquesti versi – in lingua hazaragi, un idio-ma persiano con echi turchi e mongoli,parlato da circa il 20% della popolazioneafghana – ad attirare l’attenzione di molti,oltre all’atroce incidente che a Zaher eracostato la vita. Non era il primo incidentesimile, e non era il primo ragazzo a morirenel tentativo di entrare in Italia, da questestesse parti. Ma quei dettagli così singola-ri, suggestivi – i versi, gli animaletti, il dia-rio di lavoro – avevano trattenuto più alungo del solito l’attenzione sul caso. Nonsi era esaurita subito, come sempre, dopoun attimo di pietà.

La calligrafia era da ragazzino pocoistruito, ma la tradizione poetica e cultu-rale che in quelle righe echeggiava era pro-fonda e ricca, spesso trasmessa a voce emandata a memoria più che attinta leg-gendo, studiando.

* ** **

Nei versi che Zaher aveva trascritto, tra-dotti da Hamed Mohamad Karim e Fran-cesca Grisot, con la collaborazione di Do-menico Ingenito, si canta l’amore, la natu-ra, la bellezza:

Tu porti il profumo delle gemme chesbocciano/

sei come un fiore di primavera./È dolce il tuo affetto,/amo parlare con te./Tu sei un amico incantevole,/sei una seta di passione e bellezza.

Si racconta la fatica del viaggio, la penadell’incertezza, il timore di non farcela:

Questo corpo così assetato e stanco/Forse non arriverà all’acqua del mare./Non so ancora quale sogno mi riserverà

il destino,/ma promettimi, Dio,/che non lascerai finisca la primavera./Oh mio caro, che dolore riserva l’attimo

dell’attesa/ma promettimi, Dio, che non lascerai fi-

nisca la primavera.

Si esprime l’estrema determinazione, incui l’amore per qualcuno (o il desiderio diamare qualcuno) si confonde con l’amoreper la vita e per la libertà e l’uno e l’altromotivano l’andare, oltre ogni confine easperità, e si invoca l’esaudirsi, nel caso,dell’ultimo desiderio, inerme e fiero:

Tanto ho navigato, notte e giorno, sullabarca del tuo amore/

che, o riuscirò in fine ad amarti o mori-rò annegato./

Giardiniere, apri la porta del giardino,io non sono un ladro di fiori,/

io stesso mi sono fatto rosa, non vado ingiro in cerca di un fiore qualsiasi.

Attraverso i media questi versi hannocircolato e hanno colpito molti, l’opinionepubblica. Il ragazzino afghano, per unavolta, ha smesso di essere una semplice

nota di cronaca e un numero, parte freddadi una statistica – i caduti sulla strada del-le migrazioni, i respinti che cercano infau-stamente di aggirare la regole, di valicarela frontiera – per diventare un volto, unavoce, una vita. È stato uno dei primi casi incui ciò è successo. Di recente è accaduto alpiccolo Aylan, il bambino siriano di tre an-ni annegato insieme al fratellino Galip dicinque e alla madre Rehan, nelle acquedell’Egeo tra Grecia e Turchia. La foto delsuo corpo riverso sulla spiaggia di Bodrumha fatto il giro del mondo e ha prodotto unsalto nella consapevolezza europea deldramma dei migranti. È uscito dalle stati-stiche ed è diventato (è tornato a essere)un volto, una maglietta rossa e un paio discarpine fradice, una storia.

La commozione, nel caso di Zaher, è poianche diventata richiesta di chiarezza. So-no state fatte delle domande. Non si è solopreso atto, più o meno distrattamente,dell’epilogo. Perché è morto così? È statochiesto. Perché ha dovuto ricorrere a queltemerario, disperato, fatale espediente perentrare nel continente dei diritti? Cosasuccede davvero al porto di Venezia quan-do arrivano i migranti?

Succede – è poi emerso – che venganospesso respinti senza neanche verificarechi siano, da dove vengano, da cosa fugga-no, quali siano i loro diritti e quali i doveridi uno stato dell’Unione europea e comun-que come vengano rispettati i diritti uma-ni su questa frontiera. Che se ne occupi so-lo la polizia, non i mediatori, non i rappre-sentanti dell’ufficio per i rifugiati, non glioperatori del Comune, tagliati fuori. Ci so-no state manifestazioni, denunce. Il Co-mune di Venezia ha ritirato, in un primotempo, la propria collaborazione con leautorità di frontiera, per riprenderla soloquando è stata assicurata una maggioreattenzione ai migranti, al rispetto delle re-gole anche da parte delle stesse autorità, eil rispetto dei diritti umani. Questa atten-zione ha anche spinto ad approfondire lastoria di Zaher, le motivazioni del suoviaggio, dei viaggi di molti come lui.

* ** **

Zaher veniva da Mazar-i Sharif, si è sa-puto, una delle maggiori città afghane,sulla via della seta percorsa da Marco Poloe da tanti altri mercanti europei. La cittàdella splendida moschea blu dedicata alcugino e genero del Profeta. Infatti, in af-ghano, il nome della città significa “nobilesantuario”. La partenza di Zaher, su spintadei suoi stessi familiari, era legata alla par-ticolare situazione creatasi a Mazar-i Sha-rif negli anni Novanta, dopo la conquistadella città da parte dei talebani. Gli haza-ra, il suo gruppo etnico, di origine mongo-lo-caucasica, secondo la leggenda discen-

dente dai soldati dell’armata di GengisKhan, sono sciiti. Dopo la conquista i ta-lebani imposero la conversione al sunni-smo hanafita, pena dure rappresaglie. Glihazara avrebbero anche pagato per quan-to era stato in precedenza commesso nellazona ai danni dei talebani, soprattutto do-po che questi nel 1995 avevano ucciso l’u l-timo importante leader hazara, Abdul AliMazari, capo del partito Hezbe Wahdat,favorevole a un Afghanistan federalista epluralista. Circa ottomila hazara sciiti nonconvertitisi furono uccisi nell’estate del’98. Secondo Amnesty International, «levittime sono state ammazzate in modo de-liberato e arbitrario nelle case e nelle stra-de, dove i cadaveri sono rimasti per giorni.Molti degli uccisi erano civili, tra cui don-ne, vecchi e bambini».

È in questa situazione che la famigliadecide di far partire Zaher, in cerca di unavita più sicura. È, del resto, quanto hanno

spesso fatto gli hazara, storicamente emi-grati in Pakistan, Iran, Australia, Canada,Regno Unito, nord Europa (Danimarca eSvezia).

Zaher, dunque, parte, insieme a uno zio.Contattano un passeur, vengono caricaticon tanti altri in un furgone e arrivano inIran, forse a Kashan. Il ragazzo incomin-cia a lavorare come saldatore, guadagnapoco ma risparmia, in vista di altre mete.L’Iran, anche se è una meta storica dell’e-migrazione hazara, non è il posto che de-sidera. Tra l’altro, anche se sciiti, gli haza-ra vi sono mal tollerati, soggetti ad abusi earbitrii, anche sul lavoro, a espulsioni chespesso seguono a controlli pretestuosi neicantieri, nei campi, nelle botteghe. Zaherprepara dunque il nuovo viaggio, questavolta da solo. A quanto se ne sa, va in Kur-distan, passa in Turchia, pagando con i ri-sparmi i trafficanti di uomini che possonofargli attraversare il confine. Arriva così aIstanbul, poi a Smirne e quindi, via mare,in Grecia, a Lesbo e da qui a Patrasso, ilporto che allora rappresenta la base dipartenza più frequente verso l’Italia e l’E u-ropa centrale e del nord.

Oggi è stata aperta un’altra via, di terra,attraverso Ungheria e Serbia, ma alloraPatrasso, soprattutto, e Igoumenitsa, rap-

IL QUARTINO DI P99

Il ragazzino afghanoha smesso di essere una semplice

nota di cronaca e un numero,parte fredda di una statistica,

per diventare un volto,una voce, una vita

Il quaderno, tradotto daglioperatori e dai mediatori

culturali del Comune, contenevail racconto della vita di Zaher

nella sua ultima stagione.C’erano disegni e note

L’AU TO R E

GIANFRANCO BETTIN

n Gianfranco Bettin, veneziano di PortoMarghera, è scrittore, ricercatore, attivistapolitico e ambientalista.

Collabora con il manifesto, con i quotidia-ni del gruppo Agl-Repubblica e con il men-sile Lo straniero.

Ha pubblicato i romanzi: Qualcosa chebrucia (Garzanti, 1989; Baldini e Castoldi,2003), Sarajevo Maybe (Feltrinelli, 1994),Nemmeno il destino (Feltrinelli, 1997 e2004, da cui è stato tratto il film omonimo diDaniele Gaglianone), Nebulosa del Boome-rang (Feltrinelli, 2004).

Ha scritto inoltre diverse «indagini narra-tive»: Dove volano i leoni. Fine secolo a Ve-nezia (Garzanti, 1991), L’erede. Pietro Maso,una storia dal vero (Feltrinelli, 1992), P e-trolkimiko. Le voci e le storie di un criminedi pace (Baldini e Castoldi, 1998), La strage.Piazza Fontana, verità e memoria (conMaurizio Dianese, Feltrinelli, 1999), P e t r o l-killer (con Maurizio Dianese, Feltrinelli,2002), Eredi. Da Pietro Maso a Erika e

Omar (Feltrinelli, 2007), Gorgo. In fondo al-la paura (Feltrinelli, 2009).

In Eredi, come già in L’erede, ha indagatole motivazioni profonde e le influenze delcontesto che hanno portato dei giovani diprovincia a escogitare con totale freddezza epoi a portare a termine con efferatezza lastrage dei propri genitori, aiutati da loro coe-tanei.

Con Gorgo ha continuato a interrogarsisulla genesi e sulle conseguenze della violen-za più brutale. Nel 2007 a Gorgo, nel profon-do Nordest, due anziani coniugi, custodi diuna grande villa, vengono sorpresi nel sonnoda alcuni banditi che li uccidono dopo averlitorturati per costringerli ad aprire la cassa-forte. È un delitto orrendo. L’intera regione èsconvolta, e l’arresto dei tre sospetti non at-tenua la paura crescente. Anche in questo ca-so, Gianfranco Bettin non si limita a raccon-tare la violenza nel suo manifestarsi, ma pro-va a narrare l’effetto che provoca su un’interacomunità.

Alcuni suoi racconti sono apparsi in volu-mi e in riviste.

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sabato 13 febbraio 2016 | pagina 99 | IIIIL QUARTINO DI P99

Zaher, Aylan e gli altriAlessandro Leogrande*

Nel Fuoribordo di questa settimana Gianfranco

Bettin, già autore di inchieste narrative che han-

no svelato le fratture e i tormenti del Veneto pro-

fondo, racconta la storia di Zaher Rezai.

Zaher è un ragazzino afghano che, nel porto di

Patrasso, si è aggrappato con tutte le sue forze

sotto un camion salito su un traghetto diretto

verso l’Italia. Quando il tir è sbarcato a Venezia, è

rimasto attaccato alla sua pancia per otto chilo-

metri, per poi essere sbalzato a un incrocio di

Mestre, e rimanere schiacciato sotto le sue ruote.

La storia di Zaher non è rimasta nell’anonimato,

al contrario di quella di migliaia di profughi che

muoiono ogni anno ai bordi delle nostre frontie-

re. È diventata il fulcro di un’opera collettiva di

recupero della memoria. È stato dato il suo nome

al bosco che sorge proprio davanti al luogo del-

l’incidente. Alla sua storia è stata dedicata una

installazione ivi costruita, un fumetto, una poe-

sia, un’opera teatrale, oltre che ovviamente que-

sto long form, che prova a narrare il suo mondo e

i suoi sogni. Come nel caso di Aylan, il bambino

siriano morto nel tentativo di raggiungere un’i-

sola dell’Egeo l’estate scorsa, la storia di Zaher è

una delle pochissime uscite dal cono d’ombra del

rigetto e dell’assuefazione.

Bettin si chiede se queste storie «salvate», e il

semplice fatto di raccontarle, possano essere uno

strumento utile contro l’oblio che avvolge la mor-

te in massa davanti ai nostri confini o se, piutto-

sto, tale operazione di recupero delle “singole” vi-

cende umane non rischi paradossalmente, dopo

alcuni giorni di emozione, di semplificare, e

quindi depotenziare, ciò che sta accadendo. È

una questione cruciale, che riguarda gli stessi

modi del narrare: quali sono, in fondo, le forme

giornalistiche o letterarie più adatte?

Raccontare la storia di Zaher, Aylan e gli altri,

provare a ricostruire non solo il modo in cui non

ce l’hanno fatta, ma anche le rotte che hanno se-

guito, le infinite frontiere e le battute d’arresto

che hanno dovuto oltrepassare, i motivi che li

hanno spinti a partire da soli o insieme ai loro fa-

miliari, la devastazione della guerra all’origine di

tutto, è l’unico strumento di cui disponiamo per

rompere la campana di vetro. Ma poi, come dice

Bettin, una volta recuperati i singoli volti, o al-

meno alcuni di essi, andrà anche stabilita una re-

lazione tra quei singoli volti e la dimensione co-

rale, plurale, composita, sfilacciata degli esodi

che si accavallano davanti ai nuovi muri dell’Eu-

ropa.

*curatore dell’inserto

FUORIBORDOpresentavano quasi le sole porte per entra-re in Europa provenendo dai Balcani edall’Oriente. È lì, dunque, che il ragazzotenta di imbarcarsi di nascosto nelle navi enei traghetti per l’Italia. Viene scopertopiù volte, ma ritenta sempre. L’ultima vol-ta le guardie scoprono tre ragazzi che ten-tano insieme a lui, ma non Zaher. Cosìparte e, finalmente, nella tarda sera del 10dicembre del 2008, approda a Venezia.Forse non sa che, per un tratto, ha percor-so a ritroso, non da mercante ma da fug-giasco, da cercatore di futuro e non di spe-zie o tessuti, la strada di Marco Polo traVenezia e l’Oriente. Proprio quel MarcoPolo – eroe dei viaggiatori, dei mercanti edei narratori – a cui è intitolato l’aeroportointernazionale vicino al quale, a un incro-cio di strada a cui giunge aggrappato conle unghie sotto un camion, in una mezza-notte fredda e piovosa, Zaher incontra ilproprio destino.

Un destino che suscita grande emozionein città e che rimbalza sulle cronache na-zionali e la cui eco, a distanza di qualcheanno, non si è ancora spenta del tutto. Illavoro dei mediatori culturali del Comune,che hanno tradotto i suoi testi e li hannoinquadrati nella situazione culturale egeopolitica in cui trovano origine, ha fattosì che i materiali continuino a circolare evengano a volte rielaborati e riproposti.

* ** **

Basir Ahang, poeta della diaspora af-ghana, e giornalista, rifugiato politico inItalia e attivista per i diritti umani, ha de-dicato a Zaher una poesia nella sua raccol-ta Sogni di tregua, edita da Gilgamesh:

Una voce a tutti nota invita la gente invia Orlanda/

È la morte a parlare/Le gocce di sangue recitano poesie/Bimbo affamato, disertore di guerra/Il mio cuore un aquilone vuol far vola-

re/E su di esso scrivere:/giardiniere, apri le porte del tuo giardi-

no/io non sono un ladro di fiori.

Gianluca Costantini, grande disegnato-re, ha dedicato a Zaher una breve, strug-gente graphic novel intitolata 8 Km (la di-stanza tra il porto di Venezia e l’incrocio divia Orlanda in cui è avvenuto l’incidentemortale). 8.008 km. Storia di Zaher Rezaiè invece il titolo di un’inchiesta teatrale diRiccardo Venturi, più volte messa in sce-na, una ricostruzione narrativa di forteimpatto del viaggio di Zaher (rintracciabi-le su YouTube). In molti articoli e saggi lavicenda viene ogni tanto ricordata, ed èanche entrata in un romanzo per ragazzi,Il volo dell’aquilone, di Arturo Buzzat e Ri-ta Musumeci, editore Tredieci.

Insomma, Zaher non viene dimentica-to. La sua storia non ha avuto l’eco di quel-la di Enaiatollah Akbari, fuggito bambino

Zaher, o per Aylan, fondata sulla commo-zione magari genuina ma circoscritta alcaso per caso, non è una risposta, neppureparziale, non è neppure, da sé sola, unbuon segno. Zaher e Aylan e qualche altrosono usciti dalle statistiche e dai loro gran-di e freddi numeri per diventare volti e sto-rie, ma quel che serve è invece proprio unapolitica che sia all’altezza di quelle statisti-che, di quei grandi numeri.

dall’Afghanistan e giunto in Italia, raccon-tata da Fabio Geda nel best-seller Nel ma-re ci sono i coccodrilli (Baldini e Castoldi),o della storia di Samia Yusuf Omar atletadi Mogadiscio, capace di qualificarsi aprezzo di enormi fatiche e sacrifici per leOlimpiadi di Pechino a soli diciassette an-ni e divenuta un simbolo per le donne mu-sulmane di tutto il mondo, ma poi contra-stata dagli integralisti al potere in Etiopiafino al punto di tentare il gran viaggio at-traverso il Sahara e il mare Mediterraneo,dove annegherà cercando di arrivare inItalia, storia narrata nel libro di GiuseppeCatozzella Non dirmi che hai paura ( F e l-trinelli), un best-seller a sua volta.

Anche se non ha avuto l’impatto pubbli-co di queste grandi odissee, la storia diZaher non è stata dunque dimenticata.Certo non nella città in cui ha trovato tra-gico epilogo, che ne coltiva la memoriaperfino letteralmente, dedicando al ragaz-zo afghano uno dei luoghi ai quali sta le-

gando il proprio stesso cambiamento, ilbosco che sta crescendo ai suoi limiti, doveil Quaderno ne tiene vivo il ricordo e dovemolti vanno ad annodare, sul basamentodell’installazione, accanto alle garze colo-rate poste in origine dall’autore Gardenalper evocare i colori e le vesti della terra delragazzo afghano, altre sciarpe, foulard, ca-tenine, aggiungendovi un segno proprio,una propria testimonianza affettuosa e so-lidale.

Pubblicando i testi di Zaher, FrancescaGrisot, oltre a confermare come sia fre-quente, nella sua esperienza di mediatriceculturale, che i ragazzi afghani, anche po-co istruiti o perfino analfabeti, sappiano amemoria versi di poesie e canzoni e li usi-no per darsi forza durante il viaggio, ne hatrascritti alcuni che sentiva più spesso ri-petuti, sulla paura di morire lontani da ca-sa:

Se un giorno in esilio la morte decideràdi prendersi il mio corpo/

Chi si occuperà della mia sepoltura, chicucirà il mio sudario?/

In un luogo alto sia deposta la mia ba-ra/

Così che il vento restituisca alla mia Pa-tria il mio profumo.

Era, certamente, anche la paura diZaher. In questo caso, però, Venezia hafatto di più che aiutare il vento a restituireil suo profumo alla patria. Ha riportato a

casa il suo corpo, a Mazar-i Sharif. La suafamiglia è stata rintracciata e nel raccontodi Hamed Mohamad Karim, regista af-ghano e rifugiato politico da tempo in Ita-lia, che è riuscito a parlare con il padre diZaher, allo strazio per la notizia ricevuta siaccompagna il rimorso.

«Che Dio perdoni me e gli altri, perchélo abbiamo ucciso con le nostre stesse ma-ni», ha detto il padre. «Io e i miei coetaneiqui in Afghanistan, che abbiamo creatosolo un ambiente di guerra in cui nessunapossibilità è lasciata ai giovani, ma anchecoloro che lo hanno accolto, perché hannofatto in modo che per cercare salvezza sidovesse infilare sotto un camion».

Un rimorso che non dovrebbe essere so-lo della famiglia o della generazione af-ghana che non ha saputo garantire nulla aipropri figli, se non l’aiuto a fuggire. Sap-piamo quanta responsabilità abbiano al-tre potenze, altre forze, in questa storia, ecome sia stata spinta a un epilogo così cu-po dalla mancata assunzione di un veroimpegno nei confronti di chi fugge da si-tuazioni estreme, soprattutto se si tratta diminori.

Abbiamo visto come Zaher non siastato dimenticato. Ma ci dobbiamo chie-dere a cosa sia servita questa conoscenzadella sua storia da parte di molti, auto-rità e governi compresi. È cambiatoqualcosa per quelli in fuga come lui? Èpiù o meno facile, adesso, entrare rego-larmente in Europa, in Italia? Commuo-versi su Zaher – o su Aylan – ha signifi-cato cambiare qualcosa?

Il fatto è che commuoversi su Zaher, co-me su Aylan e sui tanti, troppi come loro,dedicargli luoghi e boschi e monumenti(come quello che Ai Weiwei vuole intitola-re ai migranti a Lesbo) e poesie e racconti,e articoli come questo, non può bastare.Una sola parola trascritta da Zaher nel suoquaderno, una di quelle incise nel Quader-no nel bosco, vale tutta la massa di chiac-chiere riversata sul suo caso e in generalesulla vicenda dei migranti dei nostri anni.Parole spesso spese per celare il vuoto digestione dell’epocale questione da cui talivicende dipendono. Una politica per

Zaher veniva da Mazar-i Sharif,una delle maggiori città afghane,

sulla via della seta percorsada Marco Polo e da tanti altrimercanti europei. La città

della splendida “moschea blu”