Il punto di svolta del XX secolo -...

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Anno XI, n. 3 - 2009 Periodico di Ateneo MURO CADE Cives e barbari Il gioco infinito dell’inclusione-esclusione L’impossibile patria Potere, identità e scrittura in Herta Müller Muri dell’Est Intervista a Roberto Morozzo Della Rocca 1989. Scacco matto Il punto di svolta del XX secolo PRIMA O POI OGNI INTERVISTA AL FILOSOFO UMBERTO GALIMBERTI LA GENERAZIONE POST IDEOLOGICA

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Anno XI, n. 3 - 2009Periodico di AteneoUniversità degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it

MURO CADE

Cives e barbari Il gioco infinito dell’inclusione-esclusione

L’impossibile patriaPotere, identità e scrittura in Herta Müller

Muri dell’EstIntervista a Roberto Morozzo Della Rocca

1989. Scacco matto Il punto di svolta del XX secolo

PRIMA O POI OGNI

INTERVISTA AL FILOSOFO UMBERTO GALIMBERTILA GENERAzIONE POST IDEOLOGICA

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SommarioEditoriale 3

Primo piano

1989. Scacco matto 4Il punto di svolta del XX secolodi Leopoldo Nuti

Cives e barbari 8Il gioco infinito dell’inclusione-esclusionedi Paolo Apolito

La rivoluzione pacifista 10Intervista a Renato Moro, docente di Storia contemporaneadi Fulvia Vitale

Muri dell’Est 13Intervista a Roberto Morozzo Della Rocca, docente di Storiadell’Europa orientaledi Valentina Cavalletti

L’impossibile patria 15Potere, identità e scrittura in Herta Müllerdi Giacomo Marramao

1989-2009 20I vent’anni che hanno cambiato l’assetto dell’Europadi Alessandro Cavalli

Dove inizia lo spazio 25L’occhio di Wim Wenders ci racconta una Berlino sospesadi Lucilla Albano

L’esperienza dei sopravvissuti alla Shoah 27Percorsi di rielaborazione del lutto nel vissuto transgenerazionaledi David Meghnagi

La camera oscura 28Un quaderno aperto dove scrivono gli uomini o la storia:il muro come immagine del nostro tempodi Michela Monferrini

Migranti e diritti 30La politica zoppa dell’Unione Europeadi Paolo Benvenuti

Iran in transito 34Fra fondamentalismo e innovazione: la storia di un ritorno a Teherandi Camilla Spinelli

Oltre i muri del silenzio 35La Lingua dei segni, la grammatica dell’espressione corporeadi Maria Cristina Gaetano

Hate crimes 37Il travestimento della violenzadi Indra Galbo

Incontri

Umberto Galimberti. La generazione post ideologica 38di Federica Martellini

A Columbine c’era un elefante che nessuno vedeva,quando il disagio diventa violenza 40di Irene D’Intino

Alessandro Portelli. Il giro del mondo: accesso vigilato 42di Michela Monferrini

Reportage

03.32 46Reportage dall’Aquila. Un racconto del terremoto in presa diretta di Manuela Cecilia

Il territorio italiano e il rischio tsunami 48di Giorgio Bellotti, Claudia Cecioni, Leopoldo Franco eFrancesca Montagna

Orientamento

A come alfabeto 51Il Museo storico della didattica Mauro Laengdi Carmela Covato

Reddito e merito 53I due parametri fondamentali per le azioni di diritto allo studiodi Gianpiero Gamaleri

Università e mondo del lavoro 54Un progetto di Roma Tre in collaborazione con Laziodisudi David Meghnagi

Vivere e studiare a Mosca 55Tre studentesse di Roma Tre raccontano la loro esperienzadi Elena Mari

Rubriche

Ultim’ora da Laziodisu 57Non tutti sanno che... 58

Recensioni

Jüdisches Museum 59Il labirinto della memoria: metafora di un terribile peregrinaredi Giacomo Caracciolo

123 metri sotto il Muro di Berlino 61L’avventura di due studenti italiani nella Germania del 1961di Rosa Coscia

Goodbye Lenin! 62Il passo inarrestabile del tempodi Maria Vittoria Marraffa

Periodico dell’Università degli Studi Roma TreAnno XI, numero 3/2009

Direttore responsabileAnna Lisa Tota(professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

Coordinamento di redazioneAlessandra Ciarletti (Resp. Ufficio orientamento)Federica Martellini (Ufficio orientamento)Divisione politiche per gli [email protected]

RedazioneUgo Attisani (Ufficio Job Placement), Valentina Cavalletti (Ufficio orientamento), Ges-sica Cuscunà (Ufficio orientamento), Rosa Coscia (studentessa del C.d.L. in Informa-zione, editoria e giornalismo), Indra Galbo (laureato del C.d.L. in Scienze politiche),Elisabetta Garuccio Norrito (Resp. Divisione politiche per gli studenti), Michela Mon-ferrini (laureata del C.d.L. in Lettere), Monica Pepe (Resp. Ufficio stampa), CamillaSpinelli (studentessa del C.d.L. in Comunicazione nella società della globalizzazione),Fulvia Vitale (studentessa del C.d.L. in Giurisprudenza)

Hanno collaborato a questo numeroLucilla Albano (docente di Interpretazione e analisi del film), Virna Anzellotti (segreteriaAdisu Roma Tre), Paolo Apolito (docente di Antropologia culturale), Giorgio Bellotti (Di-partimento di Scienze dell’ingegneria civile), Paolo Benvenuti (preside della Facoltà diGiurisprudenza e docente di Diritto dell’Unione europea e di Diritto internazionale uma-nitario), Giacomo Caracciolo (laureato del C.d.L. in Giurisprudenza e giornalista pubbli-cista), Alessandro Cavalli (docente di Sociologia all'Istituto Universitario di Studi Supe-riori di Pavia), Emanuela Cecilia (studentessa in Medicina, Università degli Studi dell’A-quila), Claudia Cecioni (Dipartimento di Scienze dell’ingegneria civile), Carmela Covato(docente di Storia della pedagogia e direttore del Museo storico della didattica), IreneD’Intino (studentessa del C.d.L. in Competenze linguistiche e testuali per l’editoria e ilgiornalismo), Leopoldo Franco (docente di Ingegneria costiera e di Protezione dei lito-rali), Maria Cristina Gaetano (Divisione politiche per gli studenti), Gianpiero Gamaleri(Presidente Adisu Roma Tre), Elena Mari (studentessa del C.d.L. in Lingue Moderneper la Comunicazione Internazionale), Maria Vittoria Marraffa (studentessa del C.d.L. inStoria e conservazione del patrimonio artistico), Giacomo Marramao (docente di Filo-sofia politica e di Filosofia teoretica), David Meghnagi (Direttore del Master internazio-nale in didattica della Shoah di Roma Tre, delegato del Rettore per il Diritto allo studio),Francesca Montagna (Dipartimento di Scienze dell’ingegneria civile), Leopoldo Nuti(docente di Storia delle relazioni internazionali e di Storia dell’integrazione europea)

Immagini e fotoGregory Acs, Giacomo Caracciolo, Indra Galbo, Robert Gianni, Elena Mari, Museostorico della didattica Mauro Laeng, Andrea Piacenti, Frederick Ramm ©, AndreaVanni, www.wikipedia.com

Progetto graficoMagda PaolilloConmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma06 64561102 - www.conmedia.it

Impaginazione e stampaTipografia Stilgrafica s.r.l.Via Ignazio Pettinengo 31/33 - 00159 Roma

CopertinaIn copertina: A piece of the Wall is being offered through a hole in the wall. Foto diFrederick Ramm ®Il progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico

Finito di stampare novembre 2009

Registrazione Tribunale di Roma n. 51/98 del 17/02/1998

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Ce li ricordiamo ancoraquei giorni: era il 9 no-vembre del 1989. IlMuro - quello con la Mmaiuscola, quello cheaveva diviso e straziatoil cuore dell’Europa,eretto a baluardo dellapace mondiale, comeantidoto e rimedio ad

una Germania troppo potente, capace di scatenare guerre edistruzioni - cadeva, si disgregava, veniva scavalcato daicittadini della Germania dell’Est. I berlinesi e i turisti lofacevano a pezzi e se li portavano a casa, consapevoli chequei mattoni e quel cemento erano frammenti di un passa-to che finalmente non sarebbe più tornato. Sono passativent’anni e ricorre il ventennale di uno dei momenti piùimportanti della storia europea, di uno di quegli eventi re-centi che ha mutato definitivamente l’assetto geopoliticodel mondo. È come se, cadendo il Muro di Berlino, l’ar-chitrave eretto a sostegno della pace mondiale si fosse tra-sferito altrove. Non passa più in mezzo alla Germania, nondivide più l’Europa a metà, ma passa altrove, forse inmezzo al Mediterraneo, forse tra Occidente e Oriente oforse semplicemente ne serve più di uno, per sorreggerel’ordine mondiale. Quei giorni erano pieni di aspettative, carichi di promesseche tuttavia solo in parte sono state mantenute. La politicainternazionale ha preso atto e si è riconfigurata, i giochi ele contrapposizioni si sono ri-articolati, ma continuano adavere luogo. In questo senso, le promesse di questo muroche cadeva, certamente non sono state mantenute.Tuttavia, l’identità europea è profondamente mutata, per-ché dopo il muro ha dovuto riospitare al suo interno l’ideadi una Germania centrale e potente, l’idea di una Germa-nia ormai del tutto affidabile. Quella stessa Germania resapossibile da Willy Brandt che si inginocchia al ghetto diVarsavia e chiede perdono. Quella stessa Germania cheprese distanza dalla Shoah, sia nelle istituzioni politichesia nella società civile tedesca. La caduta del muro di Ber-lino ha inciso profondamente sull’identità europea, perchéha mutato quell’intero pezzo di questa identità, che era le-gato anche alla Shoah. Si è sostenuto da più parti che la memoria pubblica del-l’Europa sia fondata in modo centrale sull’elaborazionedell’Olocausto, inteso come male assoluto. Alcuni studiosidi memory studies hanno anche segnalato come la centrali-tà di questa memoria nel tessuto identitario dell’Europa neabbia spodestate altre, come quelle legate al passato del-l’Europa coloniale. È un fatto che la Shoah rappresenta,

per la Germania in primis e per l’Europa nel suo comples-so, un punto di non ritorno: il cuore dei valori democraticidi cui l’Europa postbellica si è fatta portatrice parte dal ri-fiuto assoluto di ciò che successe nei campi di concentra-mento tedeschi ed europei durante il Nazismo. DavidMeghnagi sottolinea come sia assurdo chiedersi perché isopravvissuti non possano dimenticare, perché le vittime siostinino a ricordare. Il vero problema – egli dice – è chie-dersi come hanno fatto a continuare a vivere. Il Muro e laShoah sono in qualche modo legati nella memoria europea,perché sono due momenti centrali della storia tedesca edella sua identità nazionale: quando il Muro cade nel 1989,la Germania ha iniziato, attraverso un lavoro pubblico di ri-elaborazione del passato, a prendere credibilmente e legitti-mamente le distanze dall’Olocausto. Non che questa siauna condizione necessaria per la caduta del Muro, che è re-sa possibile piuttosto dal progressivo sgretolamento diquell’ordine mondiale, retto e prodotto dalla guerra fredda.Tuttavia, il modo in cui la nazione tedesca si affaccia inEuropa, dopo la caduta del Muro, dipende anche dal modoin cui la Germania ha saputo ricordare la Shoah. «DieseSchande nimmt uns niemand ab»: è questo ciò che salva lanazione tedesca e la restituisce alle relazioni internazionalieuropee come un paese democratico ed integro. Il Muro diBerlino può essere riconosciuto nel discorso pubblico euro-peo come portatore di dolore, morte ed ingiustizie. Quantefamiglie sono state divise, quanti cittadini e cittadine tede-sche sono morti invano a causa di quel Muro? Questo è ilnuovo pezzo di memoria, con cui la Germania e l’Europadevono fare i conti dal 1989 in poi.Tuttavia la caduta di questo Muro non ha un significatosoltanto europeo, ma acquisisce anche una rilevanza ed unimpatto sull’assetto dell’intero sistema-mondo. Per questo,cari studenti e care studentesse, abbiamo scelto di parlarvie raccontarvi di questo Muro. Forse qualcuno di voi non neha colto pienamente la portata, forse vale la pena oggi avent’anni di distanza tornare a rifletterci insieme, con alcu-ni studiosi ed alcune studiose del nostro Ateneo e di altriAtenei italiani. Come è cambiato il mondo dopo Berlino?Nel 2006 il film Le vite degli altri di Florian Henckel vonDonnersmarck vinse l’Oscar, perché ci narrava della Stasi,la famigerata polizia di stato di Berlino Est, perché ci ricor-dava che solo pochi anni fa - nel 1984 - nessuno a Berlino,nel cuore dell’Europa, poteva vivere al sicuro. Perché ci ri-cordava che i muri, dovunque eretti, raramente sono una ri-sposta politica efficace. I muri sono costruiti per dividere,più che per proteggere. E se qualche volta pur riescono aproteggere e a garantire l’incolumità di chi li ha eretti, lofanno al prezzo delle vite degli altri … Quanti muri servi-ranno ancora alla politica internazionale?

La caduta del Muro di Berlinoe l’identità europeadi Anna Lisa Tota

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A vent’anni di distanza dal-la caduta del Muro di Ber-lino, quell’evento straordi-nario e la radicale trasfor-mazione dell’intero siste-ma internazionale che nescaturì appaiono semprepiù chiaramente come ilmomento di svolta dellaseconda metà del ventesi-mo secolo, una cesura distraordinaria importanzastorica tanto più sorpren-dente per essersi verifica-ta in maniera del tutto

inaspettata. Chi ha vissuto quelle vicende ricorda tuttoralo stupore nel veder sparire nell’arco di pochi mesi unmondo che sembrava immutabile, nel veder modificarsidall’oggi al domani e con una facilità quasi irrisoria, lacarta geografica dell’Europa, nel veder svanire per sem-pre uno dopo l’altro i punti di riferimento ideologici diun’intera epoca. Come fu possibile che avvenimenti diuna tale portata irrompessero sulla scena internazionalein maniera così inattesa, scardinando dalle fondamenta irapporti politici consolidatisi durante i decenni del con-fronto bipolare? Il dibattito relativo alle cause di quegli eventi continua adaffascinare gli studiosi di politica internazionale e ha as-sunto un’importanza centrale nello studio delle relativediscipline, sia storiche sia politologiche, ma nonostantela ricchezza e la profondità dei contributi offerti è ancoramolto lontano dall’esaurirsi o dal trovare un punto di sin-tesi. Negli anni scorsi il confronto su questi temi ha anzi

registrato la vivace contrapposizione di interpretazionispesso profondamente diverse, che di volta in volta han-no individuato le ragioni del repentino tracollo delle po-sizioni sovietiche, in Germania così come nel resto del-l’Europa orientale, ora nella superiorità del modello eco-nomico occidentale, dopo il rilancio del capitalismo conil modello neo-liberista, ora nella prova di forza cercatadall’amministrazione Reagan durante i primi anni Ottan-ta soprattutto con il rilancio della corsa agli armamenti,ora viceversa nella lungimiranza con cui l’Europa avreb-be sgretolato il consenso all’interno del blocco sovietico

attraverso la tutela e la promozione dei diritti umani, do-po la firma dell’Atto di Helsinki nel 1975. Altri ancorahanno individuato poi nella figura del segretario del Par-tito comunista dell’Unione Sovietica, Michail Gorbac̆ëv,la variabile cruciale e indispensabile senza la quale a nul-

la sarebbero valse le strategie dell’occidente. Contributiimportanti al riguardo sono venuti dalle numerose me-morie con le quali i protagonisti hanno tramandato la lo-ro versione degli avvenimenti, ma ancor più significative

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4 1989. Scacco mattoIl punto di svolta del XX secolo

di Leopoldo Nuti

«Chi ha vissuto quelle vicende ricordatuttora lo stupore nel veder sparire

nell’arco di pochi mesi un mondo chesembrava immutabile»

Leopoldo Nuti

Poliziotti della Germania Ovest (di fronte al Muro) e dellaGermania Est (in cima al Muro). Dietro le transenne si accalca lafolla di berlinesi. Lo scatto, che risale al 10 novembre 1989, ilgiorno successivo alla caduta del Muro di Berlino, è dello studenteallora diciasettenne Frederik Ramm ©.

«Il dibattito relativo alle cause diquegli eventi continua ad affascinaregli studiosi di politica internazionale»

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sono state le informa-zioni emerse dal con-sistente numero didocumenti d’archi-vio, decisamente sor-prendente per un av-venimento così re-cente. Il primo dato sul qua-le la discussione tragli studiosi sembraaver trovato un puntodi convergenza è chela maggior parte deileaders politici diquei mesi fu coltacompletamente disorpresa dagli eventie dal ritmo incalzantecon cui si susseguiro-no gli avvenimenti.Lungi dall’essere sta-te previste, pianifica-te o programmate in qualche cancelleria europea, alCremlino, o alla Casa Bianca, la caduta del Muro di Ber-lino, la riunificazione tedesca e le rivoluzioni più o menoincruente che scossero i governi dell’Europa orientale fu-rono in realtà il risultato soprattutto di una profondaspinta spontanea proveniente dalla società civile di quei

paesi. Certo gli StatiUniti dell’ammini-strazione Bush aveva-no in qualche mododeciso di sollecitareGorbac̆ëv ad intensi-ficare e accelerare ilprocesso di riformadell’URSS e dell’in-tero blocco comuni-sta che egli avevacautamente iniziato.Ma né il presidenteamericano né i suoicollaboratori si aspet-tavano di veder mes-so in discussione l’e-quilibrio europeo, nétantomeno ambivanoa mettere a repenta-glio con mosse trop-po azzardate la posi-zione di Gorba c̆ëv,

che anzi ritenevano potesse costituire il loro miglior in-terlocutore alla guida del Cremlino e la cui leadership sipreoccupavano di salvaguardare dalle contestazioni deisuoi agguerriti avversari interni. Dal canto suo, il segre-tario del PCUS non voleva certo smantellare la sfera diinfluenza sovietica in Europa orientale, né presiedere allaliquidazione della stessa URSS, ma sperava di pilotareun processo di graduali riforme che consentisse a tutti ipaesi del blocco di ridare slancio alle proprie economie edi iniettare nelle loro società una maggiore fiducia nellaefficacia del proprio modello di sviluppo. Né la volontà

riformistica di Gorbac̆ëv né le pressioni americane furo-no quindi la causa diretta delle spinte per il cambiamentoche caratterizzarono la seconda metà del 1989, ma con-tribuirono tutt’al più a creare la cornice politica che diquelle spinte rese possibile l’emersione. Il cambiamento che a Berlino, Praga, Varsavia o Buda-pest si chiedeva e si voleva mettere in atto, infatti, eramolto più radicale e profondo di quello immaginato aMosca o a Washington. Governare e gestire le aspettati-ve, le pulsioni e le richieste che provenivano dalle forzepolitiche e dalla società civile di tutta la parte orientaledel continente europeo, evitando al tempo stesso chequelle pressioni degenerassero in una spirale di crisi in- 5

«Le due chiavi di volta che reseropossibile per gli altri stati europei

accettare più o meno di buon gradola riunificazione tedesca furono

l’appoggio dell’amministrazione Bushe il compromesso franco-tedesco

che permise il rilanciodell’integrazione europea»

L’Europa ai tempi della Guerra Fredda

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controllate, costituìperciò per gli statisti diallora una sfida senzaprecedenti. Fin doveera lecito spingersi?Quanto ci si poteva im-maginare di rimodella-re la carta d’Europasenza provocare bru-schi inasprimenti dellasituazione? La riunifi-cazione tedesca, chenel giro di pochi mesisi trasformò da sempli-ce ipotesi retorica inuna solida certezza,costituì in un certosenso il banco di provadi questa ambizione aridisegnare l’Europa,dal momento che la di-visione della Germaniacostituiva la pietrad’angolo su cui l’inte-ro sistema della guerra fredda era basato. Se si potevapensare l’impensabile e riunificare la Germania, nullasembrava più impossibile. Decidere il futuro dei due statitedeschi fu dunque il problema che più attirò l’attenzionedei principali capi di stato e di governo, l’epicentro di unprocesso di trasformazione che rapidamente si sarebbeallargato a tutta l’Europa. Non solo la Germania orienta-le costituiva il perno del sistema di sicurezza sovieticocostruito dopo la seconda guerra mondiale, ma anche aldi fuori dell’URSS l’ipotesi di una Germania riunita nelcuore dell’Europa evocava nell’animo di molti spettri in-confessabili, paure di un’epoca che sembrava ormai defi-nitivamente chiusa con la seconda guerra mondiale e cheinvece improvvisamente sembrava tornare prepotente-mente alla ribalta. Trovare il modo per permettere alle

due Germanie di deli-berare liberamente ilproprio futuro venendoincontro alle esigenzesovietiche ma anchedissipando i timori diquanti immaginavanoche la riunificazionesignificasse porre lepremesse per un nuovoconflitto mondiale co-stituì perciò il vero no-do cruciale intorno acui ruotò il futuro del-l’Europa e dell’interosistema internazionale. Di fronte a una provatanto complessa, alcunistatisti riuscirono a co-niugare la visione delproprio interesse nazio-nale con un progettopiù ampio che salva-guardasse anche l’equi-

librio generale del sistema internazionale, altri sembraro-no trincerarsi dietro una sterile, quanto improbabile, dife-sa ad oltranza dello status quo. Sia pure con un appoggioda parte dei suoi partner europei occidentali assai menogeneralizzato ed entusiastico di quanto si sarebbe aspetta-to, il cancelliere tedesco Helmut Kohl fu perciò in grado

di superare progressivamente gli ostacoli al-la riunificazione. Le due chiavi di volta cheresero possibile per gli altri stati europei ac-cettare più o meno di buon grado la riunifi-cazione tedesca furono l’appoggio incondi-zionato con cui l’amministrazione Bush laassecondò, e il compromesso franco-tedescoche permise il rilancio dell’integrazione eu-ropea. Il presidente francese e il cancellieretedesco, in particolare, approfittarono dellasituazione propizia, in cui tutte le coordinatedel sistema internazionale sembravano inprocinto di essere scardinate, per raggiunge-re obiettivi che fino a quel momento si era-no rivelati quanto mai elusivi, quali l’unionepolitica e l’unione economica e finanziariadell’Europa. La decisione di Kohl e Mitter-rand di incastonare la riunificazione tedescain un’Europa più solida e strutturata, a sua

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«La decisione di Kohl e Mitterrand diincastonare la riunificazione tedesca in

un’Europa più solida e strutturatasvolse un ruolo cruciale nel faraccettare anche ai più incerti lariunione delle due Germanie»

La storica stretta di mano fra il presidente francese Fronçois Mitterrand e ilcancelliere tedesco Helmut Kohl, il 22 settembre 1984 all’ossario di FortDouaumont, nei pressi di Verdun, nel corso della giornata di commemorazionedi una delle più cruente battaglie della Prima guerra mondiale, costata la vita a700 mila soldati, 130 mila dei quali, non più identificabili, furono sepoltiproprio a Fort Douaumont.

Baghdad sotto i bombardamenti nel 1990 e, nella pagina a fianco, pozzi petroliferi infiamme in Kuwait, durante la prima guerra del Golfo. La crisi del Golfo fu il primocampanello di allarme delle nuove sfide internazionali nel mondo post Guerra fredda

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volta, svolse un ruolo cruciale nelfar accettare anche ai più incerti lariunificazione delle due Germanie,dal momento che la nuova Unioneche sarebbe nata di lì a poco avreb-be fornito garanzie più che suffi-cienti per compensare le preoccu-pazioni scaturite dall’apparizionedi un nuovo stato tedesco. L’appog-gio deciso degli Stati Uniti e quellopiù esitante degli europei, con la ri-levante eccezione della Francia chedopo alcune incertezze iniziali tor-nò ad essere il principale interlocu-tore della Germania, consentironocosì al governo tedesco di vincerele resistenze che l’Unione Sovieticaavrebbe voluto frapporre. Gorbac̆ëvsi trovò infatti sempre più isolatonel tentativo di evitare la riunifica-zione tedesca e la sua posizione po-litica ed economica divenne pro-gressivamente talmente debole dacostringerlo a cedere sempre di piùdi fronte alle richieste tedesche, fino ad accettarle com-pletamente. La ritirata sovietica dal cuore dell’Europa, implicita nel-l’accettazione della riunificazione tedesca, rese inevitabi-li anche gli ulteriori rapidi capovolgimenti nel resto del-l’Europa orientale: dopo i primi fermenti in Polonia e inUngheria, che avevano preceduto la caduta del Muro, l’i-nizio del processo di riunificazione della Germania aprìnuove prospettive anche per gli altri stati dell’Europaorientale, in cui le medesime aspirazioni al cambiamentoprodussero effetti analoghi. Ad uno ad uno i governi co-munisti dell’Europa orientale cadevano per essere sosti-tuiti da coalizioni di forze democratiche, fino a ridise-gnare completamente la mappa politica dell’Europa. Altempo stesso, la perdita di controllo sulla Germania e sulresto della sua zona di in-fluenza segnarono l’iniziodella fine per la stessa Unio-ne Sovietica, il cui trapassosarebbe stato ufficialmenteannunciato nel dicembre del1991 – un evento che nessu-no si sarebbe nemmeno lon-tanamente immaginato finoa pochi mesi prima. La trasformazione del qua-dro politico europeo si sa-rebbe completata di lì a pococon la firma del Trattato diMaastricht nel febbraio del1992. Nell’arco di poco piùdi due anni, dunque, l’Euro-pa aveva cambiato completa-mente il proprio assetto poli-tico: scomparsa l’URSS, dis-

solto il suo blocco, la Germania ri-unificata, avviata una nuova fasedell’integrazione europea. A livellomondiale, questo terremoto sem-brava lasciare gli Stati Uniti unica esola superpotenza, come testimo-niava anche la rapida conclusionedella crisi apertasi nell’agosto del1990 in Medio Oriente con l’inva-sione del Kuwait da parte dell’Iraqe risoltasi di lì a pochi mesi con laschiacciante vittoria della coalizio-ne guidata proprio dagli Stati Uniti. Gli eventi dell’ottobre 1989 apriro-no dunque la strada a una profondatrasformazione del quadro europeoe mondiale, una trasformazionetanto inaspettata e convulsa da co-stringere spesso i governi a doverrincorrere il susseguirsi degli even-ti e a dover immaginare rapida-mente quali soluzioni adottare perproblemi e crisi molto diversi daquelli dell’era precedente. La rigi-

da contrapposizione della guerra fredda, con il suo caricodi paure legate all’immagine dell’olocausto nucleare, ce-deva il passo ad un mondo nuovo carico di aspettative esperanze, ma anche di sfide minacciose che ben prestoavrebbero posto la comunità internazionale di fronte anuovi e inquietanti dilemmi. La crisi del Golfo fu un pri-mo campanello d’allarme. Successivamente, tra il 1991 eil 1992, mentre si completava il negoziato che l’annosuccessivo avrebbe dato vita all’Unione Europea, il pro-gressivo inasprimento della crisi di dissoluzione della Ju-goslavia e il deterioramento della situazione in Somaliaindicarono chiaramente che l’ordine europeo e mondialeche stava nascendo dalle ceneri della guerra fredda nonsarebbe stato esente dal dover affrontare altre prove, an-che molto difficili e sanguinose.

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Michail Gorbac̆ëv

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L’umanità ha avuto origi-ne in Africa e da là si èmossa in successive onda-te a popolare il mondo.Essa è stata preceduta nel-lo stesso continente da al-tri ominidi, anche questiin viaggio, a popolare ilmondo. Prima di esserestanziale, l’umanità è statanomade. O entrambe le

cose. E quando si viaggia non c’è ragione di costruire for-tificazioni stabili, muri “eterni”. Costruzioni provvisoriesì, magari difensive quanto basta, ma nulla di definitivo. Èplausibile pensare che sia andata così. Questa umanità del-le origini doveva essere piuttosto incline a fusioni e confu-sioni. Per ragioni pratiche ci verrebbe da pensare, per con-venienze tecno-economiche, riproduttive, difensive. Manon possiamo escludere anche robuste ragioni simboliche.

Poco sappiamo e poco possiamo accertare. Recentementegli antropologi inclinano a supporre un continuum profon-do e originario tra le culture, piuttosto che separazioni co-stitutive, discontinuità tra cultura e cultura, tra etnia x e et-nia y, come per decenni pensarono e fecero pensare ai pro-pri lettori. Gli antropologi preferirebbero persino non usa-re più questo termine, “etnia”, insieme ad altri, come“identità”, qualcuno dice anche “cultura”. Che pure hannocreato o contribuito a diffondere. Salvo poi a pentirseneper i risultati scientificamente deboli e per gli effetti politi-camente negativi che hanno comportato. Poiché hanno fat-to intendere il mondo come un costume di Arlecchino, fat-to di tanti colori, ciascuno internamente omogeneo e bendistinto dagli altri, lungo confini netti e rimarcati; ogni co-lore una singola etnia/cultura/identità. Ignorando così quelcontinuum profondo, che comprende origini comuni convarianti territoriali, omologie e analogie, invarianti trasver-sali. E poiché questi termini, da punti di vista operativi de-gli studiosi sulla realtà, schemi ordinativi della conoscen-za, si sono trasformati in sostanze, entità, dati della realtà.

Non è il caso di mitizzare una umanità primordiale troppolontana e sconosciuta perché ci si possa azzardare a farnevalutazioni etico-politiche di qualsiasi sorta. Davvero pocosappiamo del tipo di relazioni tra i diversi gruppi. Però ab-biamo qualche elemento di maggiore concretezza docu-mentaria per sostenere che in epoca storica i muri sorgonoquando i poteri si concentrano e aprono il gioco infinitodell’inclusione-esclusione. Di qua Noi e quelli come noi,di là, tutti gli Altri. Un muro si eleva per separare. Alcunida altri. Per ragioni difensive spesso, ma non solo per que-sto, anche per ragioni amministrative, burocratiche, reli-giose, di privilegio. Un complesso di motivi, che quasisempre culmina in ultima analisi nell’atto bellico di dife-sa-offesa. Intorno al muro, ma più profondamente in nomedel muro, la costruzione che aveva separato o sancito laseparazione. La separazione è un taglio, una chiamata al Noi e unaconseguente identificazione espulsiva degli altri. Il nomeetnico è quasi un atto d’accusa, che un Noi vincente, dal-l’alto della sua potenza esprime contro più che verso gliAltri. È il centro di potere che nomina, per amministrare,escludere, includere, dividere i cives dai barbari. Oppureè il popolo vittorioso che dà nome agli sconfitti. Chi no-mina ha il potere di farlo. E chi è nominato deve subire.Slavo, viene da “sclavus”, schiavo. Come gallese, Welsh,che viene da ricchezza, proprietà in quanto schiavo. Forseebreo viene da “habiru”, fuggiasco, colui/coloro che sisottraevano dal “palazzo”, dalle formazioni politiche delII millennio a.C. Talvolta nominare gli altri equivale adescluderli dall’umanità: alcuni popoli hanno chiamato se

8 Cives e barbariIl gioco infinito dell’inclusione-esclusione

di Paolo Apolito

Paolo Apolito

«Irgendwann fällt jede Mauer». Prima o poi ogni muro cade. Murodi Berlino, 1989. Foto di Frederick Ramm ©

«Recentemente gli antropologiinclinano a supporre un continuumprofondo e originario tra le culture,piuttosto che separazioni costitutive,

discontinuità tra cultura e cultura, traetnia x e etnia y, come per decenni

pensarono e fecero pensare ai proprilettori»

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stessi “uomini”, negando così tale statuto a tutti gli altri.Coloro che subivano l’etichetta imposta da altri, poi, adun certo punto la facevano propria, contribuivano a ren-derla sostanza, un “dato” della realtà, e la sentivano comepropria identità. E prima che di roccia e pietra, si alzava-no muri di simboli e di stereotipi. E le narrazioni li di-chiaravano, i riti li sancivano, le pratiche sociali li confer-mavano. Nella nostra contemporaneità non ci risparmiamo niente.Riattraversiamo tutte le piste separatorie già percorse dal-l’umanità. Costruiamo muri reali per separare Noi da Lo-ro, i bianchi dai rossi, i ricchi dai poveri, gli onesti dai de-linquenti, i buoni cittadini dagli spacciatori, i democraticidai terroristi.

Eppure questi muri si portano dentro una contraddizioneirrisolvibile. Per questo sono sempre destinati a cadere,prima o poi a cadere. O a vanificare la propria esistenza.Perché in effetti basterebbero i muri simbolici a separare,includere ed escludere. Le identità, le etnie funzionano be-nissimo a distinguere, a impedire ogni confusione, ogni ri-schio di meticciato. Le guerre degli ultimi vent’anni stan-no là a dimostrarlo con precisione matematica: Ruanda eBalcani sono nomi che evocano scenari di sangue etnica-mente versato (con tutte le complesse motivazioni che so-no dietro, ma che senza il furore etnico non sarebbero sta-te sufficienti). Dunque un muro reale, materialmente in-nalzato e militarmente difeso, davvero sarebbe inutile perdividere qualcosa che è già diviso. Evidentemente nasceda altro. Non dalla ratifica del muro simbolico, ma dal suofallimento. Proprio Berlino è esempio emblematico. Al-

l’indomani di Yalta, chi si trovava nel territorio atlanticorimase separato da chi si trovava in quello sovietico. Indi-pendentemente da vincoli di parentela o di amicizia, di fe-de o di interesse. D’ora in poi noi siamo Noi, gli Altri so-no dannati. All’origine non v’era un muro simbolico, alcontrario un mondo comune. E allora bisognava crearlo, ilmuro simbolico, dopo quello reale. Noi siamo democrati-ci, liberi, religiosi; voi senza democrazia, libertà e religio-ne. Ma no, rispondevano gli altri, Noi siamo uomini nuovi,veramente liberi, giudiziosamente atei; voi siete solo for-malmente democratici, in realtà oppressivamente borghesi,e annebbiati dall’oppio dei popoli. E i cittadini di qua e dilà dovevano abituarsi a pensarla proprio così, ad ergeremuri simbolici, laddove prima c’era appartenenza comune.Questo Muro aveva già nella sua origine una contraddizio-ne irrisolvibile. Come tutti i muri. Anche se rimase in pie-di quasi trent’anni. Ma quando cade un muro, l’essenziale non è ancora fatto.Come sappiamo dopo la caduta di quello di Berlino, dellaquale celebriamo il ventennale con una punta di malinco-nia, perché sentiamo che le enormi speranze nate conquell’evento erano davvero eccessive, se le confrontiamocon le crescenti divisioni di un mondo in frantumi. Perchél’essenziale sono i muri simbolici, e quelli si sono molti-plicati dopo il 1989. Sono nati e prosperano da tutte leparti. Paradossalmente, quell’unico muro fisico di Berlinoimpediva muri simbolici troppo forti, almeno dentro glischieramenti. Con la sua caduta nessuna riserva vi fu più amoltiplicare i muri simbolici. Al contrario, spuntarono o sirafforzarono da tutte le parti. Perché poi, quando enormipovertà entrano in contatto fisico, virtuale, visivo e televi-sivo con enormi ricchezze (il concetto di enormità è reci-procamente relativo), l’unico modo per controllare i rischie le conseguenze è di affrettarsi ad ergere quanti più murisimbolici possibili. E in questo, i manager della paura, gliimprenditori della politica identitaria sono pronti a venirfuori. Ad additare qua e poi là i pericoli, gli assalitori, ivandali. O gli usurpatori, gli ingordi. Ed una umanità sem-pre più inevitabilmente connessa e contigua scava dentrodi sé linee di confine e di separazione sempre più minute.Ma come sempre, il corso delle cose umane non sta fermo,la storia non è finita. I confini fisici o simbolici non sonomai definitivi. Le frontiere sono sempre permeabili. Per-ché come per una incompiutezza costitutiva degli esseriumani, al proprio mondo, al proprio vissuto manca semprequalcosa, che forse è altrove, al di là del confine. Per que-sto i muri sono destinati a cadere. Perché fissano il mon-do, lo chiudono e lo dichiarano compiuto. Ma i simboliviaggiano, le parole attraversano anche i muri e li sgretola-no, prima o poi li sgretolano. Il muro di cemento non puònascondere la permeabilità dei confini, delle frontiere. Purse più resistenti, gli stessi muri simbolici, alla fine si la-sciano attraversare. Anche quando è sovrana la violenza:le lingue creole, nate nell’universo degli scontri e conqui-ste, sono metafore inarrestabili dell’attraversamento deiconfini.Ci sono soggetti abili a scavalcarli, i muri, ad attraversarle,le frontiere. A portare da una parte risorse dell’altra e vice-versa. Contrabbandieri di parole, simboli, gusti, idee. For-se, inconsapevolmente, i reali “costruttori di pace”. 9

«Un muro reale, materialmenteinnalzato e militarmente difeso

davvero sarebbe inutile per dividerequalcosa che è già diviso.

Evidentemente nasce da altro. Nondalla ratifica del muro simbolico, ma

dal suo fallimento»

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Come si inserisce la te-matica della pace nellarealtà attuale? Cosa ècambiato nel tempo equal è il ruolo del pacifi-smo negli equilibri poli-tici odierni?La questione guerra-pace èsicuramente una dellegrandi questioni del mon-do contemporaneo. Quan-do c’è stato l’interventoamericano in Iraq, i paesidel mondo si sono riempi-ti, nelle piazze e nelle stra-

de, della più grande manifestazione politica di tutti i tempi.Milioni di persone, da Sidney a San Francisco a Berlino,sono scese in piazza in nome della difesa della pace.

A questa centralità non corrisponde però un’adeguata ri-flessione storica. La “storia della pace” e dei movimentipacifisti, è una storia giovane, nei confronti della quale visono ancora molti pregiudizi. Molti storici la considerano,ad esempio, come una storia di nicchia e un po’ parroc-chiale, scritta da militanti e simpatizzanti che la racconta-no come una storia interna. È successo anche in altri casi(il movimento operaio e il femminismo, ad esempio): ele-menti valoriali, di militanza, moralistici e scientifici si me-scolano inevitabilmente. Un secondo pregiudizio nascedall’idea che occuparsi della storia dei movimenti per lapace equivalga all’occuparsi di un soggetto poco rilevante,perché di scarsa efficacia politica. Ci si chiede in sintesi:se i movimenti per la pace non sono riusciti e non riesconoa incidere sugli scenari politici, vale la pena occuparsene?Credo che la domanda sia sbagliata perché relativa esclu-sivamente al decision making. Ritengo al contrario che ladomanda da porsi sia piuttosto: hanno contato o no i mo-vimenti per la pace nella politica contemporanea? La ri-sposta a questa domanda può allora non essere quella dipretendere che il pacifismo abbia cambiato le politiche,ma di chiedersi se ha contribuito a cambiare la politica. Negli ultimi anni è successo che la guerra in Iraq si è fatta.Ma si è fatta con tutte le parti in causa che cercavano di di-mostrare che quella non fosse una guerra, ma un’operazioneumanitaria. Nei parlamenti del mondo occidentale si è dis-cusso animatamente sulla natura di “missione di pace” di

questo tipo di operazioni militari e questa discussione è statanecessitata da un cambiamento generale di mentalità. Il fattoche oggi sia necessario presentare come operazioni di pace,operazioni che, forse, in realtà non lo sono, è sintomo che glistandard politici, la cultura politica e quindi la politica sonocompletamente cambiati. Un tempo questo non sarebbe statonecessario. Il solo fatto che la politica sia costretta a scende-re sul terreno della pace e accettarne il linguaggio è un cam-biamento fondamentale: ciò che è accettabile e ciò che non èaccettabile in politica è cambiato. Oggi la guerra come solu-zione normale del conflitto non è più accettabile.Volendo affrontare il discorso da un punto di vista sto-rico, può indicarci cosa c’è dietro la realtà di oggi? Co-me si è dispiegato nella storia dell’umanità il pensieropacifista?Il senso comune (e spesso anche i media) continuano aconsiderare il pacifismo come qualcosa di sempre esistito.Questo ci spinge a pensare al pacifismo come una speciedi categoria dello spirito, un qualcosa che è sempre stato esempre sarà. Si scrive del “pacifismo” di Shakespeare o diErasmo da Rotterdam. Certamente il rifiuto individualedella guerra è antico, se non quanto l’uomo, almeno quan-to il cristianesimo. Penso ai primi cristiani che non accet-tavano di portare le armi nell’esercito imperiale e poi adalcune sette minoritarie del cristianesimo (catari, valdesi,lollardi, ussiti, anabattisti, mennoniti, quaccheri etc) che sisono rifiutate di partecipare alla guerra. Ma da un punto divista scientifico gli storici, che hanno come regola aureaquella di evitare il peccato di anacronismo, sono convinti -a ragione - che applicare categorie di un mondo posterioread un mondo precedente, rischia di falsificare e tradire lastoria e gli uomini. Se si guardano le cose in questo modo,

10 La rivoluzione pacifistaIntervista a Renato Moro, docente di Storia contemporanea

di Fulvia Vitale

Renato Moro

Uno slogan popolare sul Muro di Berlino, vicino alla East SideGallery

«La storia della pace e dei movimentipacifisti è una storia giovane, nei

confronti della quale vi sono ancoramolti pregiudizi»

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è molto difficile applicare aun passato lontano il moder-no termine di “pacifismo”.Prendiamo il caso del rifiutocristiano della guerra: haqualcosa a che fare con quel-lo che noi oggi intendiamocome pacifismo? La rispostaè no. Si trattava infatti di unrifiuto che i sociologi chia-merebbero “vocazionale”: ungruppo di seguaci di Cristo,del Vangelo, si sentono “giu-sti” in un mondo dominatodal peccato; la loro scelta èquella di “chiamarsi fuori”ma questo chiamarsi fuorinon immagina, non ipotizzanemmeno, che la guerra siaeliminabile. Non c’è un progetto di trasformazione dellasocietà, perché quei cristiani pensano comunque che laguerra sia frutto del peccato dell’uomo e, come il peccato,sia ineliminabile. Il pacifismo, dunque, non è sempre esi-stito. Ad un certo punto della storia dell’umanità c’è statauna frattura dalla quale esso nasce.Quando si è verificata la frattura che ha determinatola nascita del pacifismo come lo intendiamo oggi?Si può parlare di due grandi momenti storici di frattura: ilprimo durante il Settecento e il secondo all’alba del XXsecolo.Nel Settecento l’Illuminismo ha cambiato i termini deldiscorso sulla guerra. Per la prima volta si pensa che laguerra sia una malattia della società, che derivi da istitu-zioni sbagliate: il potere assoluto dei monarchi, il mercan-tilismo e l’assenza del libero scambio. L’atteggiamento delSettecento considera la guerra come irrazionale, barbara eprimitiva, non adeguata a ciò che la ragione umana richie-de. E questo porta gli intellettuali di quegli anni a porre laquestione della pace perpetua: la guerra si può eliminare eal suo posto si possono costruire le strade per un mondopacifico. Gli illuministi sono i primi che fanno della pacenon un problema etico-individuale, ma un problema politi-co e collettivo.

La seconda frattura avvieneai primi del Novecento. Noncasualmente è nel 1901 chenasce la parola “pacifismo”.Il termine viene proposto suun giornale del movimentointernazionale per la pace daÉmile Arnaud sostenendoche, come tanti movimentidella politica contemporaneaavevano un nome in “ismo”(socialismo, nazionalismo,sindacalismo etc.), anche “ilpartito della pace” aveva bi-sogno di un nome, e di unnome che lo mettesse diret-tamente in competizione congli altri. Per la prima volta,dunque, la questione veniva

posta inquadrando il pacifismo come un partito. La pacenon era più solo un problema politico di opinione, ma unproblema politico che richiedeva un’organizzazione dimassa: il pacifismo diventa così una delle grandi ideologiedel Novecento.

Il cambiamento, a questo punto, è evidente. Durante la pri-ma guerra mondiale nasceranno i primi obiettori di co-scienza. La loro scelta non è più solo etica: nasce dal fattoche essi pensano che il rifiuto sia una leva per mettere incrisi il meccanismo della coscrizione obbligatoria, e quin-di il sistema militarista. A differenza dei cristiani il cui ri-fiuto di prendere le armi era individuale e intimo, ora gliobiettori di coscienza si propongono anche un’efficaciapolitica: il loro gesto libertario è finalizzato a mettere incrisi la guerra.La storia del pacifismo è stata una storia lineare o haincontrato delle difficoltà nel suo formarsi? Il mondodel pacifismo può dirsi variegato o è privo di differen-ziazioni interne?Il pacifismo da quando è nato ha attraversato tutta una seriedi sconfitte. In certi momenti ha avuto un grande rilievo (sipensi all’Inghilterra nel periodo tra le due guerre con il suopeace ballot, il sondaggio per la pace a cui parteciparonomilioni di persone), ma ha conosciuto essenzialmente dis-fatte. Durante la prima guerra mondiale non si è reso contodella forza del nazionalismo, fidando nella capacità dell’o-pinione pubblica di fermare il pericolo. Molti degli espo-nenti dei movimenti pacifisti hanno finito per giustificareessi stessi la guerra come una guerra difensiva del propriopaese e si sono arruolati volontari (così Arnaud). Di fronte 11

Gandhi nel 1948 con Jawaharlal Nehru, suo erede e primo ministroindiano dal 1947 al 1964

«Il pacifismo non è sempre esistito, adun certo punto della storia

dell’umanità c’è stata una fratturadalla quale nasce il pacifismo. Si puòparlare di due grandi momenti storici

di frattura: durante il Settecento eall’alba del XX secolo»

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alla seconda guerra mon-diale c’è stata un’analogasconfitta del pacifismoche non è riuscito a capirela forza del totalitarismo,dello scontro ideologico.Uno degli slogan più dif-fusi negli anni Trenta era“contro il fascismo e con-tro la guerra”. Ma pensaredi essere contro il fasci-smo e insieme contro laguerra nascondeva unacontraddizione di fondo:come si sarebbe potutocombattere il fascismosenza ricorrere alla sicu-rezza e alla dissuasionearmata? Il pacifismo deglianni Trenta si è infattispaccato in due: da unaparte ha insistito fino alla fine su una politica di mediazio-ne e incontro con i regimi totalitari, rischiando addirittura ilcollaborazionismo e l’appeasement, dall’altra ha scelto lasicurezza collettiva, la difesa e la guerra. Albert Einstein,che fu uno degli esponenti più in vista del pacifismo tra ledue guerre, all’inizio della seconda guerra mondiale finìper scrivere a Roosevelt che il più grande pericolo per l’u-manità era che i nazisti avessero la bomba atomica e sug-gerì di avviare un programma in questo senso. Dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un declino delpacifismo. È diventato uno strumento per la guerra fredda,è stato egemonizzato dal movimento comunista che ha fat-to della pace uno slogan per ragioni politiche. Poi a partiredagli anni Settanta e soprattutto negli anni Ottanta, nel cor-so del lungo processo attraverso il quale i grandi partitiideologici hanno iniziato la loro crisi, hanno cominciato ademergere tutta un’altra serie di movimenti e di valori: oltreall’ambiente e i diritti umani, proprio la pace. Ai partitistrutturati in modo tradizionale e legati alle classi socialisono subentrate nuove forme di rappresentanza, trasversali,non più legate a interessi economici e di classe. Di questanuova stagione politica, il pacifismo, assieme all’ambienta-lismo, è stato protagonista. Le nuove forme della politicahanno avuto proprio nei movimenti per la pace una dellechiavi di volta. Da tutto questo deriva anche che ora la paceè un valore primario, universalmente riconosciuto. Qual è stato il ruolo della pace nell’ultimo ventennio distoria contemporanea?Nell’ultimo ventennio lo scenario mondiale è completa-mente cambiato: il 1991 ha visto la fine del sistema sovieti-co. La caduta della principale fonte di tensione internazio-nale ha generato inizialmente un grande entusiasmo colletti-vo: si immaginava un mondo finalmente pacificato, data lafine del conflitto tra le due grandi ideologie contrapposte,quella liberale e quella comunista. Il crollo dell’Unione So-vietica stesso venne da molti interpretato come una vittoriadel movimento per la pace: Gorbaciov, che aveva fatto partedi quella intelligencija russa che aveva dialogato con i mo-vimenti per la pace e aveva da questi assorbito buona partedel valore dei diritti umani, scelse di non rispondere alla cri-

si con la violenza di stato.Per Gorbaciov sarebbestato inconcepibile reagi-re come fecero invece icinesi a Piazza Tienan-men. Nonostante questagrande speranza, il mon-do si è poi rivelato com-pletamente diverso. Si erasperato che l’ONU, finital’epoca in cui era paraliz-zata dalle due contrappo-ste superpotenze, avrebbegiocato un ruolo positivo.La prima guerra del Gol-fo aveva visto l’interven-to dell’ONU e l’applica-zione della Carta delleNazioni Unite che preve-deva sanzioni militaricomminate dall’ONU al-

l’aggressore (Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait).Questo aveva costituito un motivo ulteriore di speranza. Invece è successo che è cambiata la guerra. Si pensi allaJugoslavia, al Rwanda, alla Somalia. Sono cominciate adapparire le cosiddette “nuove guerre”, non più combattuteda eserciti regolari, ma da milizie, conflitti in cui la popo-lazione è diventata oggetto del contendere, guerre in cui simescolano tecnologia sofisticata e mezzi tradizionali ebrutali di guerriglia. Il pacifismo di fronte a queste guerre,così come di fronte alle operazioni di peace keeping, si ènuovamente diviso. Mary Kaldor, ad esempio, leader delmovimento europeo antinucleare negli anni Ottanta, hagiustificato anche l’uso della forza militare per imporre lapace e salvare i diritti umani. Lei ed altri hanno iniziato aconsiderare i militari e i diplomatici come figure chiaveper garantire la pace. Un’altra corrente di pensiero ha rite-nuto l’ingerenza umanitaria una contraddizione in termini,ha ritenuto che essa fosse solo una nuova forma per ma-scherare la guerra e che non ci potessero essere violazionidei diritti umani che giustificassero l’uso delle armi. Il pa-cifismo continua ad avere due anime diverse.Una delle più grandi figure politiche del secolo è senzadubbio rappresentata da Gandhi, ci può parlare delsuo approccio al pacifismo?Gandhi è il fondatore di una dottrina poi rivelatasi fondamen-tale per il pacifismo di tutto il seguito del Novecento: quelladella non violenza. La non violenza tuttavia non corrispondeal pacifismo: è un metodo di lotta, un metodo pacifico, certa-mente, ma che non rifiuta la lotta. Il pacifismo considera lalotta un male, mentre Gandhi considera la lotta un bene. Egliha dichiarato di preferire nettamente chi prende le armi a chile rifiuta per codardia. La non violenza non è rifiuto del con-trasto ma una più alta e più umana maniera di combattere.Rappresenta una forma di ascesi, di educazione. Arriva anchea forme estreme, quali la disobbedienza civile o il digiuno. Sitratta di un metodo di lotta più morale e più efficace ma è co-munque lotta: Gandhi si presenta come un combattente. Laposizione di Gandhi è diversa da quella del normale pacifista,anche se la non violenza gandhiana è diventata poi, con glianni, il principale strumento di lotta del pacifismo.

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Il 18 marzo 2006 per il terzo anno consecutivo, nell’anniversario della guerrain Iraq, oltre 3000 persone si sono riunite a Budapest formando con le torce ilsimbolo della pace

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Quali muri nel corso del-la storia del Novecentosono stati maggiormentesignificativi, segnandocesure o svolte epocali? Nel Novecento, i muri diodio tra i popoli sono statiben evidenti, in particolarein Europa. Penso all’odiosecolare tra francesi e te-deschi che ha significatouna tensione continua trail 1870 e gli anni Sessantadel Novecento, conclusasisolamente con la riconci-

liazione voluta da K. Adenauer e C. De Gaulle. Ma pensosoprattutto alla contrapposizione ideologica innalzata dallaGuerra Fredda, durata dal 1945 al 1989, che si è concretiz-zata in un muro reale a Berlino e ha lungamente determi-nato forti ripercussioni nella politica, nella diplomazia enelle relazioni internazionali. Un’altra separazione eviden-te è quella della città kosovara Kosovska Mitrovica, attra-versata da un fiume lungo il quale dopo la guerra del 1999la forza internazionale (KFOR) ha steso un reticolato perdividere i serbi, che sono la maggioranza nei territori asettentrione, dagli albanesi, che hanno ottenuto la sovrani-tà dell’area. Si tratta di una divisione che è tuttora causa diattrito tra i due popoli, con gli albanesi che vorrebberounificare il Kosovo e i serbi ricostituire il proprio Stato.Ognuno ha il proprio punto di vista, inconciliabile e irri-ducibile. Meno evidente, ma reale è pure la divisione dellacittà di Mostar, in Bosnia, tra croati e musulmani.

A causa della caduta del Muro di Berlino l’area balcani-ca ha subito delle ripercussioni drammatiche. La sceltadel presidente Obama di cambiare strategia e di rinun-ciare al progetto dello scudo spaziale in Europa crea ipresupposti per un nuovo rapporto tra USA e Russia.Quali ripercussioni si verificheranno nei Balcani? Non credo che la rinuncia allo scudo spaziale in Repubbli-ca Ceca e in Polonia avrà ripercussioni dirette nei Balcani.È tuttavia un segnale importante perché dimostra le inten-zioni meno invasive degli Stati Uniti nell’area, insiemecon un allentamento degli attriti con la Russia, che era datempo insoddisfatta per le politiche di allargamento dellaNato nei paesi dell’ex Unione Sovietica. Certamente lanuova amministrazione americana si qualifica per essere

meno interventista militarmente e più rispettosa del plura-lismo politico mondiale. L’unilateralismo ha infatti mo-strato i suoi limiti nella vicenda irachena e ora Washingtonsta percorrendo strade nuove, dettate non da buoni senti-menti ma da realismo politico: il mondo va verso i 7 mi-liardi di individui mentre gli statunitensi sono solamentetrecento milioni e la loro forza economica perde costante-mente quota rispetto alle potenze emergenti di Asia e SudAmerica. Goldman Sachs, per fare un esempio, prevedeinfatti che nel 2050 i 4 paesi del BRIC (Brasile, Russia,India e Cina) avranno un potenziale economico ben supe-riore a quello degli attuali membri del G8. Il mondo occidentale e il mondo arabo-islamico sem-brano essere continuamente a un passo dallo scontro diciviltà. Alla luce della storia, quali sono i possibili svi-luppi di questo conflitto?Non credo che lo scontro tra culture sia inevitabile, comesosteneva S. Huntington. L’Islam non è un’unica civiltà e ipaesi musulmani hanno politiche differenziate. Per esem-pio, non parlerei di scontro di civiltà a proposito dellabomba atomica dell’Iran, il cui progetto politico è specifi-co e non rispecchia tutto il mondo islamico, anche se icontinui attacchi di Ahmadinejad contro Israele, la cui esi-stenza è fondamentale per l’Occidente, sono un pericoloper la pace. Peraltro, a fronte di una maggioranza islamicamondiale sunnita, l’ambigua democrazia di un paese sciitacon irrisolte pulsioni di violenza al suo interno non legitti-ma certo una leadership iraniana sul mondo islamico nelsuo complesso. Credo quindi che vadano fortementeesplorate le vie della diplomazia, usando tutte le sanzionipossibili, in modo che l’Iran rinunci al suo progetto e ac-cetti di convivere pacificamente con gli altri paesi.

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Muri dell’EstIntervista a Roberto Morozzo Della Rocca, docente di Storia dell’Europa orientale

di Valentina Cavalletti

Roberto Morozzo della Rocca

L'assetto della regione balcanica alla fine del processodi dissoluzione della ex Jugoslavia

«Non credo che lo scontro tra culturesia inevitabile, come sosteneva

Huntington»

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In molte parti del mon-do l’orrore della guerracontinua a fare stragedi civili, spesso in nomedi Dio e della religione.Ci sono margini di dia-logo con le frange piùestreme del fondamen-talismo?Il fondamentalismo nelmondo arabo-musulmanoè figlio della rivalsa versolo sfruttamento, la violen-za, il disconoscimento e ildisprezzo che l’Occidenteha dimostrato nei suoiconfronti nell’ultimo se-colo, dall’età della colo-nizzazione a oggi. Comedice Tzvetan Todorov i paesi islamici sono i paesi del risen-timento, quelli occidentali i paesi della paura. Tra paura erisentimento purtroppo il dialogo è difficile. L’Occidentedeve stemperare il risentimento islamico e mi sembra che ildiscorso di Obama a Il Cairo andasse in questa direzione.Ma non dimentichiamo che il fondamentalismo è un feno-meno di deriva che esiste in tutto il mondo delle religioni eche quello islamico è anche figlio della miseria, del sotto-sviluppo e delle politiche dei regimi autoritari, che facendolauti affari con l’Occidente disprezzano i diritti umani e ar-ricchiscono le proprie élites a scapito del benessere comune.Vorrei sottolineare tuttavia che la maggior parte dei credentirispetta il messaggio di pace che è nei libri sacri o connatu-rato alla propria religione e non è fondamentalista, se perfondamentalismo intendiamo un estremismo violento chedegenera nel terrorismo, come nel caso di Al Qaeda. Nelmondo islamico i fondamentalisti sono una netta minoran-za, anche se la stampa occidentale esalta il fenomeno.In che modo la religione condiziona la politica e in chemodo la politica strumentalizza la religione?Le religioni sono un fattore molto forte di identità dei po-poli, facilmente strumentalizzabile dalla politica e non èun mistero che nel corsodella storia i governantiabbiano sempre auspica-to una benedizione reli-giosa delle proprie politi-che, anche e soprattuttoquando aggressive e bel-liciste. Gli uomini di re-ligione, che vivono nelproprio tempo e si la-sciano condizionare dal-le mode culturali, politi-che e ideologiche, do-vrebbero cercare di resi-stere alle sirene della po-litica, mantenendo il ti-mone delle proprie co-munità in linea con ilmessaggio originario

della religione a cui ap-partengono. Caduto il Muro le casedei paesi dell’est, anchele più povere, si sonodotate di antenne para-boliche, simbolo dellarinnovata libertà e dellatransizione al consumi-smo televisivo. Comesempre accade, le tra-sformazioni sono pienedi traumi e di contrad-dizioni. Qual è la situa-zione oggi? Il passaggio all’Occi-dente dell’ex blocco so-vietico, compresa laRussia, è stato più trau-

matico per le persone anziane e meno per i giovani,maggiormente adattabili. Mi pare che oggi si stia rag-giungendo una stabilizzazione, soprattutto nei paesi eco-nomicamente più avanzati come la Polonia, la Repubbli-ca Ceca e l’Ungheria. Gli anni Novanta sono stati vera-mente molto difficili, a causa della miseria, dei traumisociali e delle disillusioni capitalistiche. Si pensi all’Al-bania durante la crisi delle sue società finanziarie: sicredeva che adottando il sistema economico occidentalesi potesse guadagnare senza lavorare. Il 70% delle fami-glie albanesi ha bruciato in questo modo i propri rispar-mi, affidandosi a finanziarie destinate puntualmente alfallimento.Questi fenomeni si sono verificati anche a Mosca e a Bu-carest perché è stato male interpretato il sistema occiden-tale, la cui moderna economia di libero mercato presup-pone comunque delle regole di funzionamento. L’abitudi-ne a essere sottomessi all’arbitrio del partito unico è sfo-ciata in molti casi nell’incapacità di gestire la propria li-bertà, anche economica, e tutto ciò si è ripercosso nellostile di vita: nei paesi socialisti il lavoro era garantito atutti, seppure con dei redditi minimali, oggi invece la con-

correnza crea disoccupa-zione. La società si èsgranata, da un lato i ric-chi e i ricchissimi, dal-l’altro i poveri e i pove-rissimi, mentre un temponelle strade delle grandicittà dei paesi dell’estnon si vedevano barboni.La storia è andata avantie queste considerazioni,che possono generare re-siduali fenomeni di no-stalgia, non devono farcidimenticare che i paesiex socialisti si fondavanosu sistemi autoritari chenon garantivano la liber-tà alle persone.

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Il ponte di Kosovska Mitrovica, in Kosovo, che divide la città serba da quellaalbanese

«Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati Unitie i musulmani di tutto il mondo; l'inizio di un rapporto che si basisull’interesse reciproco e sul mutuo rispetto. (…) America e Islam non siescludono a vicenda (…) al contrario si sovrappongono, condividonomedesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e ladignità dell’uomo». Obama all’Università de Il Cairo lo scorso giugno

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«Eppure siamo ancoragiovani». La nota malin-conica risuona nel penulti-mo racconto della raccoltaNiederungen, “Il parconero”: il solo che – sigilla-to da una dedica al com-pagno («Per Richard») –rompa la scabra, rigorosaeconomia della descrizio-ne del quotidiano, per darvoce a una larvata protestae aprire una finestra sulmondo. Che fare se, diqualunque cosa si parli, si

parla sempre di sconfitta? Che senso ha, se non si trova dimeglio che annegare la paura in un bicchiere di vino?«Eppure siamo ancora giovani. E un altro dittatore è cadu-to, e la mafia ne ha ucciso un altro, e un terrorista sta mo-rendo in Italia. Non puoi bere, ragazza, contro la tua pau-ra. Sorseggi questo bicchiere come tutte le donne che nonhanno una vita, che non vanno a genio. Neanche a se stes-se. Ti andrà ancora male, ragazza, dicono i tuoi amici. Èvuoto nei tuoi occhi. È vuoto e stantio, il tuo sentimento.È un peccato per te, ragazza, è un peccato».

Non era ancora trentenne l’autrice di Niederungen, quan-do questa sua “opera prima” (1982) apparve nella Roma-nia di Ceausescu con i tagli della censura (per essere ri-pubblicata due anni dopo in Germania in versione integra-le). Chiunque si fosse allora sorpreso della durezza di quelprovvedimento per un libro in apparenza “impolitico”, pri-vo di punte critiche esplicite nei confronti del regime e de-scrittivamente naïf, si era rivelato ingenuo egli stesso e in-capace di cogliere la carica di denuncia e la potenza ever-siva che può sprigionarsi da una semplice e disincantatadescrizione dello stato di cose esistente. Soprattutto quan-do una tale descrizione proviene da uno sguardo femmini-le attento ai dettagli della vita quotidiana. L’esistente, diceva Theodor Adorno, è sempre negativo co-

me totalità. E in ogni totalità – grande o piccola – che siimponga tramite la logica dell’identità e dell’autoafferma-zione, il potere tende inevitabilmente ad assumere i con-notati dell’Orrore. Per questa semplice ma decisiva ragio-ne, la ricostruzione letteraria degli orrori del regime re-pressivo rumeno non può risparmiare, per Herta Müller, la“piccola patria” di Nitchidorf: il piccolo villaggio del Ba-nato svevo in cui si radicano le riconosciute peculiaritàdella sua lingua. Alle spalle di un’infanzia che si descrive“muta”, c’è il risentimento illividito di un gruppo sconfit-to: tedeschi usciti a pezzi dal disastro nazista (come il pa-dre, arruolato nelle SS) e piccoli e medi contadini espro-priati dal regime nazionalcomunista. Fin dentro le fami-glie, i sentimenti congiunti della perdita e della paura irri-gidiscono l’attaccamento alla radice tedesca nelle suecomponenti più tradizionali: disciplina e devozione, obbe-dienza e ordine. Il villaggio nativo continua a vivere nellatesta di Herta anche nel corso dei suoi studi universitari digermanistica e romanistica a Timis,oara: una memoria altempo stesso urgente e indicibile, come tutti i ricordi in-fantili che non sono transitati negli scambi di una linguarealmente condivisa. Solo alla scrittura riesce il miracolodi dare finalmente parola all’infanzia muta di Herta. Sitratta, però, di un margine ristretto, pericolosamente mini-mo, volto a riscattare il teorema d’impossibilità della paro-la che verrà enunciato a chiare note nel 1994, all’inizio ealla fine del romanzo Herztier: «Se stiamo in silenzio,mettiamo in imbarazzo, […] se parliamo, diventiamo ridi-coli». Per sfuggire all’interdetto, i suoi testi prendono laforma di soliloqui in cui la finzione letteraria diviene la di-mensione deputata ad ospitare il degrado come unica for-ma di vita sperimentabile nel tempo della miseria e delladerelizione. Solo dalla prospettiva della “bassura”, del “bassopiano”, èpossibile visualizzare lo statuto paradossale della normali-tà: la cifra sinistra e straniante che le relazioni quotidianeassumono nel gretto microcosmo della provincia e nell’or-rido macrocosmo della sorveglianza totalitaria. In entram-bi i casi, il ritaglio delle parole scaturisce dalle esperienzeprimarie della paura e dell’estraneazione. In entrambi i ca-si, occorre dar conto di ciò che “resta” della soggettivitàindividuale e delle relazioni di amicizia e affidamento chesoli sono in grado di sostenerla. Risiede qui, in questo re-gistro poetico-finzionale, l’autentico fattore di resistenzaal potere che l’opera di Herta Müller pone in essere. Il ten-tativo di verbalizzare antiche percezioni vibranti di veritàsoggettiva, rappresenta così il tratto saliente dei suoi testi.Si tratta, tuttavia, sempre di una erfundene Wahrnehmung:di una “percezione inventata”. Cifra di questa percezione èuna sensualità affidata per intero alla potenza figurale del-le parole: una sorta di collisione tra “percetti” del mondoesterno e “immagini” del mondo interno, attraverso cui 15

L’impossibile patriaPotere, identità e scrittura in Herta Müller

di Giacomo Marramao

Giacomo Marramao

«Eppure siamo ancora giovani. E unaltro dittatore è caduto, e la mafia neha ucciso un altro, e un terrorista sta

morendo in Italia. Non puoi bere,ragazza, contro la tua paura. Sorseggiquesto bicchiere come tutte le donne

che non hanno una vita, che non vannoa genio. Neanche a se stesse»

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l’Io non solo si rispecchia nel mondo en-trando in conflitto con esso, ma si sdoppiariflettendosi conflittualmente nell’immagi-ne del suo Doppelgänger. Di qui l’atmosfera surreale che promanadalle descrizioni, realistiche fino al detta-glio, dei testi raccolti in Bassure: racconti,secondo il lungimirante giudizio formulato asuo tempo da Claudio Magris, «semplici edifficili come lo scorrere degli anni». L’ac-costamento dei due termini sta a segnalarela logica paradossale di una quotidianità incui lo “scorrere” non dà luogo ad alcuncambiamento, ma solo alla monotona ripeti-zione dell’identico. Discende da qui lo stig-ma funerario che pervade la scrittura di Nie-derungen: il cui primo racconto è appuntodedicato a L’orazione funebre. Ma anche il moto di sotter-ranea ribellione che l’attraversa. La crudezza priva di au-toindulgenza con la quale la Müller rappresenta i riti, leabitudini, i codici relazionali della propria comunità di ori-gine ha suggerito a molti un parallelo con il trattamentonon meno disincantato che un altro grande scrittore comeThomas Bernhard aveva riservato all’ambiente della pro-vincia di Salisburgo. Il fremder Blick, lo sguardo stranieroe straniante con cui Herta si rivolge tanto al regime rumenoquanto alla comunità del Banato potrebbe a questo puntoindurre a riportare la sua opera sotto la rubrica della Hei-

matlosigkeit: di un’assenza-di-patria propria di quegli scrit-tori che, sia pure in una condizione di esilio interno o ester-no, ritrovano e custodiscono la loro vera patria nella pro-pria lingua materna. In realtà le cose non sono così sempli-ci. Vero è che la Müller adotta come suo motto la frase diJorge Semprún «Patria sono le parole dette» (Heimat istdas, was gesprochen wird). Ma l’adozione di questa formu-la, lungi dall’avallare l’equazione lingua=patria, intendeproblematizzare radicalmente il luogo comune per cui lapatria è la lingua con cui si parla e in cui si scrive. L’affer-mazione implica al contrario che ci si può sentire a casa so-lo là dove si ha la libertà di dire tutto ciò che si vuole dire.Il carattere non descrittivo ma performativo della frasespiega pertanto il sentimento di estraneità e di “apolitìa”che la Müller avverte in qualunque situazione si dia un in-terdetto esplicito o un indiretto condizionamento (politicoo socioculturale) all’espressione del proprio pensiero e del-le proprie potenzialità creative. Un sentimento che ha con-tinuato ad avvertire anche dopo il 1987, dopo la fuga inGermania: «Straniero – ha scritto nel 2003 – non è per meil contrario di conosciuto, ma il contrario di familiare». Apartire da questo momento la funzione testimoniale dellascrittura, già presente in Niederungen, viene affidata alla

pratica dell’“autofinzione” (Autofiktion):concetto ripreso (e liberamente adattato) daGeorges-Arthur Goldschmidt. L’assegnazione al momento “finzionale” del-la scrittura di una rilevanza maggiore del-l’autenticità delle storie narrate significa perla Müller, ormai approdata in Germania, var-care la soglia di un ulteriore disincanto. Il ri-prodursi del sentimento di estraneità anchenel nuovo paese in cui si era rifugiata, inquella Germania in cui si parla e si scrive la“sua” lingua, la pone al cospetto di una ma-turità repentina e precoce: come se anni lucefossero intercorsi dal tempo vissuto in Ro-mania, ma – ad onta del mutato scenario so-ciopolitico – senza cambiamenti sostanzialidel proprio rapporto con l’ordine dell’esi-

stente. All’esclamazione di Bassure «Eppure siamo ancoragiovani», fa ora beffardamente riscontro la frase di CesarePavese posta in esergo a Reisende auf einem Beim (RotbuchVerlag, Berlin, 1989, edito in Italia con il titolo In viaggiosu una gamba sola, Venezia, Marsilio, 1992) il primo ro-manzo composto nell’esilio berlinese: «Ma io non ero piùgiovane». Nel transito da una condizione segnata dall’espe-rienza della paura, sotto un regime fondato sulla sorveglian-za e sulla minaccia, alla nuova situazione di un paese inprocinto di unificarsi sotto un ordine liberaldemocratico,Herta vede persistere il proprio sentimento di disapparte-nenza, sradicamento e spaesamento indotto dall’assenza dipatria. Il suo fremder Blick si è ora duplicato. Herta è stra-niera due volte: straniera nella patria d’origine che si è la-sciata alle spalle, straniera nell’esilio. Il Leitmotiv del vuotoidentitario, che già percorre i racconti di Bassure, si accen-tua con la lucida consapevolezza di trovarsi in una perennecondizione di outsider. La tensione tra estraniamento e ri-cerca dell’identità conferisce a tutte le sue opere successiveuna tonalità oscillante tra melanconica apatìa e angoscia, ri-bellione impotente e rassegnazione. La figura dominante diun’identità sempre in transito conferisce alla sua scrittura ilcarattere di una narrativa di viaggio distopica, che scorgenel potere, nei suoi meccanismi di inclusione/esclusione, lafonte perenne di ogni disappartenenza e disaffiliazione.Nessun cambiamento della vita può aver luogo, se l’esisten-za si trova immersa nel potere e irretita dalle sue logiche(terroristiche o flessibili). Lo stato di privazione quasi-meta-fisico in cui versano gli individui non dipende dalla natura:non ha nulla a che fare con la presunta miseria della condi-tion humaine. Discende piuttosto dalle logiche di spossessa-mento, dislocamento e destituzione dell’identità indotte dalpotere. La costrizione del sorvegliato, al pari della spolia-zione del prigioniero, è uno stato prodotto attivamente, rei-terato e monitorato da un ordine delle cose, a seconda deicasi, elementare o sofisticato – ma sempre e comunque vio-lento. Sottomessa a una tale logica restrittiva, l’identità deisingoli si proietta in un “fuori” perenne, secondo un teore-ma d’impossibilità che esclude a priori ogni possibile ap-paesamento in un “dentro”: in una patria o dimora stabile. L’interno della patria diviene così un esterno interiorizzato,in cui i senzapatria, gli apolidi, appaiono come umani spet-trali deprivati di libertà e di peso ontologico. Il carattere

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«La Müller adotta come suo mottola frase di Jorge Semprún “Patria

sono le parole dette”. Ci si può sentirea casa solo là dove si ha la libertà di

dire tutto ciò che si vuole dire»

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onnipervasivo che viene ad as-sumere la sorveglianza neglistessi sistemi “democratici”contemporanei, l’idea di esse-re costantemente osservati eclassificati, induce nei sogget-ti uno sdoppiamento, dandoluogo a fenomeni ossessivi(tendenzialmente patologici)di auto-osservazione. Io nonsono cresciuta, ha detto unavolta Herta Müller, ma “sonostata cresciuta”. Come dire:noi non viviamo, ma una po-tenza estranea ci sta vivendo.E continua a sorvegliarci an-che quando pensiamo di esse-re fuggiti verso la libertà. Lasorveglianza del potere non risparmia neppure le parole.Talvolta si fa in noi acuta la sensazione di essere osservati,o addirittura spiati, dalle stesse parole che pensiamo diadoperare, che riteniamo di aver scelto liberamente. E che

invece ci hanno scelto, improntando e classificando le no-stre identità. Vi è un nascondiglio nelle parole, ha dichiara-to di recente la Müller: un nascondiglio in cui è sempre inagguato una spia del potere. E, nel dire questo, pensava aun lemma preciso: Lager. Parola-chiave del potere che at-traversa l’intera esperienza della sua scrittura e che rivelacome la traiettoria del suo viaggio sia in realtà un moto cir-colare di ritorno a un’immagine rovesciata di Itaca: intesacome distopia dell’anti-patria. Nel suo ultimo romanzoAtemschaukel (Altalena del respiro), ci troviamo al cospet-

to dell’eterno ritorno diun Orrore destinato a se-gnare in modo indelebilel’esistenza del giovane ru-meno-tedesco Leo Au-berg, deportato nel 1945(e internato per cinque an-ni) in un Lager sovietico. Tale ritorno sta appunto adimostrare quanto sia an-cora influente la Urszene,la scena primaria del Ba-nato svevo, dalle cui “bas-sure” ha avuto inizio ilviaggio di Herta Müller.Partendo da un non-luogo,la sua scrittura-testimo-nianza ha finito per parlar-

ci del non-tempo sospeso di una donna che non sa più – co-me il personaggio di Irene nel finale di Reisende af einemBeim – se la sua condizione sia quella di viaggiatrice con lescarpe sottili o di abitante con la valigia. Ma la cifra dellaprovvisorietà e dell’ambivalenza non segna forse la condi-zione di universale sradicamento in cui ci troviamo tutti, inquesta travagliata fase di passaggio dalla chiusura dello sta-to di cose presente a un futuro che ancora tarda a profilarsi? In un’Europa che nei movimenti del suo sottosuolo sembraoggi rinverdire la frusta retorica delle radici, la scrittura diuna donna mitteleuropea insignita del Premio Nobel sta asegnalarci che l’identità è sempre una formula insatura: unviaggio della libertà e della ricerca incessante. E che la pri-ma differenza da promuovere e salvaguardare – da qualsi-voglia forma di potere – è quella della singolarità.

Questo testo apparirà come prefazione alla nuova edizioneitaliana di Niederungen, il primo libro del Premio Nobelper la letteratura Herta Müller (Bassure, Editori Riuniti,Roma, 2009).

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È andato ad Herta Müller il premio Nobel per la letteratura 2009. Scrittrice romenanata nel Banato Svevo, regione di cultura e lingua tedesca passata dopo il secondoconflitto mondiale sotto il controllo della Romania, Müller si rifugiò in Germania nel1987 per sfuggire alla persecuzione del famigerato e claustrofobico servizio disicurezza del regime di Ceausescu, la Securitate che, in quanto legata al gruppo diintellettuali dissidenti Aktionssgruppe Banat, l’aveva classificata come estremamentepericolosa.Il suo primo romanzo Niederungen fu pubblicato a Bucarest, in forma largamentecensurata, nel 1982 e poi in Germania in versione integrale nel 1987. Oggi Herta Müller vive e lavora a Berlino. Insegna in diverse università e dal 1995 èmembro della Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung.

L’Accademia di Svezia l’ha premiata «per aver descritto l’universo dei diseredati con la forza della poesia e lanitidezza della prosa». La sua produzione letteraria è incentrata sulle dure condizioni di vita nella Romania diCeaucescu, sull’oppressione imposta durante gli anni della Guerra Fredda da uno dei regimi più duri dell’Europaorientale e sugli aspetti più crudi di un contesto politico-sociale in cui il prezzo più alto venne pagato dalle donne,vessate in famiglia e sui luoghi di lavoro e costrette a subire oltre al giogo politico anche il sistema patriarcale.Herta Müller ha ricevuto numerosi premi tra cui il prestigioso Konrad-Adenauer Literaturpreis nel 2004. In Italia,l’editore Keller ha pubblicato nel 2008 Il paese delle prugne verdi (uscito per la prima volta nel 1998 con il titoloHertzier, tradotto in 15 lingue e premiato con l’International Impac Dublin Literary Award), un “romanzo diformazione”, che segue le vicende di quattro studenti universitari in Romania negli anni della dittatura. PressoMarsilio è uscito invece In viaggio su una gamba sola.

Herta Müller

Herta Müller, Hertzier, Rowohlt,Hamburg, 1994 è edito in Italia daKeller con il titolo Il paese delleprugne verdi

Herta Müller, Reisende aufeinem Beim, Rotbuch Verlag,Berlin, 1989 è edito in Italia

da Marsilio con il titolo Inviaggio su una gamba sola

«Se stiamo in silenzio, mettiamoin imbarazzo, […] se parliamo,

diventiamo ridicoli»

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Nel 1945, nel corso della conferenza di Yalta, venne deci-sa la divisione della Germania (e di Berlino) in quattro set-tori controllati e amministrati da Unione Sovietica, StatiUniti, Gran Bretagna e Francia. Il settore sovietico di Ber-lino era di gran lunga il più esteso e occupava la maggiorparte della metà orientale di Berlino. Inizialmente ai citta-dini di Berlino era permesso di circolare liberamente tratutti i settori, ma con il passare del tempo i movimentivennero limitati: il confine tra Germania Est e GermaniaOvest venne chiuso nel 1952. A partire dal 13 agosto1961, per fermare la fuga dalla dittatura, la Germania Est

Check point Charlie, ieri e oggi

Kennedy in visita a Berlino, 15 giugno 1963 La striscia della morte

Un’immagine che fece il giro del mondo: a pochi giorni dall’inizio della costruzione del Muro un soldato dell’Estfugge verso l’Ovest in un punto fortificato solo provvisoriamente

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iniziò la costruzione di un muro attorno ai tre settorioccidentali della città. La lunghezza generale del con-fine verso Berlino ovest era di 155 Km. Fuori città lalinea di sbarramento venne realizzata anche con recin-zioni metalliche. Nel 1962 venne costruito un secondomuro all’interno della frontiera destinato a rendere piùdifficile la fuga verso la Germania Ovest, fu così creatala cosiddetta “striscia della morte”. A partire dal 1975il confine era anche protetto nella “striscia della mor-te” da recinzioni, trincee anticarro e oltre 300 torri diguardia con cecchini armati. Inizialmente, c’era soloun punto di attraversamento per gli stranieri e i turisti:il check point Charlie in Friedrichstrasse. Per i berline-si erano disponibili 14 punti di attraversamento, 8 trale due parti della città e 6 tra Berlino ovest e la DDR,in seguito in un atto simbolico l’attraversamento dellaporta di Brandeburgo fu chiuso. Oltre 100.000 cittadini della DDR cercarono di fuggireoltrepassando il confine fra le due Germanie o il Murodi Berlino. Diverse centinaia di loro furono uccisi dalletruppe di frontiera della Germania Est o morirono neltentativo di fuga. Il numero delle vittime del Muro nonè ancora stato stimato con esattezza. Finora sono statichiariti i destini di 138 morti al Muro ma oltre 100 al-tre storie sono in corso di esame.

A fianco, graffiti alla EastSide Gallery. La sezione dimuro lunga 1.3 km einteramente coperta da graffitirappresenta un memorialeinternazionale alla libertà ed èconsiderata la più lungagalleria d’arte all’aria apertadel mondo

Sotto: cronologia del Muroin un graffito

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«Sono passati solo ven-t’anni, ma il mondo è nelfrattempo così cambiatoche sembra che sia passa-to un secolo», oppure «so-no passati già vent’anni,mi sembra ieri quando ècaduto il Muro di Berli-no»; il significato delleespressioni dipende dallapercezione soggettiva del-

la distanza dall’evento da parte dell’osservatore, distanzache può apparire breve o lunga. Gli storici del futuro, chepotranno analizzare l’evento stesso anche nelle sue conse-guenze di più lungo periodo, potranno forse gettare unosguardo più disincantato sulla svolta del 1989. Perché diuna svolta storica, comunque, si è trattato, una svolta cheha posto fine al mondo bipolare che aveva spaccato l’Eu-ropa in due sulla scia della guerra più devastante mai com-battuta fino ad allora. Non c’è dubbio, però, che il signifi-cato del 1989 è stato e resterà profondamente diverso perchi si è trovato al di là o al di qua di quella che Churchillaveva chiamato “cortina di ferro”. Nessuno aveva effetti-vamente scelto di starne “al di là” o “al di qua”, il confinetra Europa occidentale e orientale era stato tracciato dal-l’estensione delle aree di influenza delle due superpotenzeche si erano spartite l’Europa alla fine del conflitto.

Per gli occidentali il 1989 ha avuto un significato di porta-ta sicuramente inferiore al 1945. In quel anno, non solo èfinita la guerra e iniziata la ricostruzione materiale e mora-le, ma si sono instaurati regimi più o meno democraticiladdove prima dominavano delle dittature, si sono consoli-date le democrazie di più vecchia data, si è dato avvio alprocesso di unificazione europea ed è iniziata una fase disviluppo che, sia pure con andamenti non lineari, avrebbediffuso un discreto benessere in ampi strati della popola-zione. Non furono, quelli del dopoguerra, anni privi di ten-sioni e conflitti, variabili a seconda delle condizioni, dapaese a paese, ma, nel complesso, la diffusione dei consu-mi di massa rappresentò un poderoso meccanismo di in-clusione sociale. La contrapposizione Est-Ovest, sociali-smo-capitalismo, dittatura e libertà si riproduceva poi al-l’interno di ogni singolo paese, relegando all’opposizione

le forze sociali e politiche che facevano riferimento sulpiano ideologico e politico ai regimi orientali. Inoltre, pro-prio nel 1945, alla guerra era stato posto fine usando per laprima volta l’arma atomica di distruzione di massa, inau-gurando l’epoca dell’equilibrio del terrore, generato dallapossibilità di annientamento reciproco che avrebbe esaspe-rato nei decenni successivi la dialettica amico-nemico. Ogni paese ha vissuto il clima sociale, culturale e politicodi quel periodo in relazione alle proprie specificità. LaSpagna, ad esempio, era appena uscita da un’asprissimaguerra civile ed era riuscita a non farsi coinvolgere diretta-mente nel conflitto mondiale, al prezzo però di dover sop-portare un regime fortemente autoritario. Anche la Svizze-ra era riuscita evitare l’invasione del suo territorio e, addi-rittura, ad approfittare della sua situazione di isolamentoin un’Europa in fiamme. La Francia, invece, era uscita atesta alta ma anche assai provata dalla guerra. La Germa-nia era una cumulo di rovine morali e materiali e dovettepraticamente ripartire da zero sotto la tutela delle potenzevincitrici e restando quindi divisa tra i due blocchi con-trapposti. L’Italia si lasciava alle spalle il regime fascista

20 1989-2009I vent’anni che hanno cambiato l’assetto dell’Europa

di Alessandro Cavalli

Alessandro Cavalli

La primavera di Praga, 1968. La stagione di riforme inauguratacon il “socialismo dal volto umano” di Alexander Dubc̆ek ebbebruscamente termine fra il 20 e il 21 agosto del 1968 conl’invasione da parte delle truppe sovietiche

«Gli storici del futuro potranno forsegettare uno sguardo più disincantatosulla svolta del 1989 che ha posto fineal mondo bipolare che aveva spaccato

l’Europa in due»

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del quale si era liberatada un lato con la lottapartigiana, attraverso unavera e propria guerra ci-vile, e dall’altro lato conl’aiuto delle truppe di oc-cupazione. Il 1948 segnala fine della precaria uni-tà che si era creata nelconflitto tra le forze anti-fasciste e l’esclusione delPartito comunista dallapossibilità di partecipareal governo del paese. Inrealtà, la maggioranzadegli italiani, sconfiggen-do alle elezioni del 1948i partiti del cosiddetto“fronte popolare” (comu-nisti e socialisti) aveva di fatto scelto lo schieramento oc-cidentale e tuttavia non si può sapere che cosa sarebbesuccesso se avesse scelto in modo diverso. Il 1989 segnò per gran parte dell’occidente la fine di unincubo e la caduta del Muro di Berlino fu salutata comeuna liberazione, il venir meno di una minaccia che erastata proclamata e avvertita da molti come incombente.Ma, per quanto riguarda altre dimensioni della vita dellepopolazioni occidentali, il 1989 non rappresentò unadrastica soluzione di continuità. Le conseguenze delcrollo dei regimi comunisti avrebbero avuto ripercussio-ni sulla politica e l’economia, aprendo la strada verso laglobalizzazione, senza tuttavia sconvolgere radicalmentele strutture della quotidianità. Il 1989 fu più che altroper gli occidentali un grande evento mediatico che ha te-

nuto magari molta genteincollata per qualchetempo allo schermo tele-visivo, un evento peròche non si viveva sullapropria pelle. Ad est, invece, la storiaaveva preso negli anniimmediatamente succes-sivi al 1945 un corso as-sai diverso. Salvo brevi efugaci esperienze demo-cratiche, o pseudo-demo-cratiche, si era passati di-rettamente dalla dittaturae dalla occupazione diHitler alla dittatura co-munista di stampo stali-niano sotto la tutela del-

l’esercito sovietico. Per i paesi che hanno subito i regimicomunisti il 1945 fu solo in parte un anno memorabile;certo, la guerra era finita, ma l’epoca che si apriva non sa-rebbe stata né di libertà né di benessere. Ciò non toglieche i regimi comunisti non abbiano goduto anche di uncerto grado di consenso. Non erano stati in grado di dif-fondere il benessere, ma avevano eliminato i rischi di dis-occupazione, avevano instaurato una forma di welfare chegarantiva a tutti il lavoro, la casa, l’istruzione e le cure me-diche essenziali. Sotto il consenso, in parte apparente e inparte reale, covava tuttavia l’opposizione che ebbe mododi manifestarsi in varie occasioni (rivolta di Berlino del1953, rivolta e repressione ungherese del 1956, repressio-ne della “primavera”di Praga del 1969, ascesa di Solidar-nosc nella Polonia della fine degli anni Settanta, fino allagrande “fuga” nelle settimane che hanno preceduto la ca-duta del Muro). Il confine che aveva diviso l’Europa eradiventato permeabile fino a quando il governo ungheresedeciso di aprirlo del tutto lasciando che un grande flussodi esseri umani si incamminasse attraverso l’Austria versol’occidente.

L’opposizione aveva trovato alimento da due fonti princi-pali tra loro spesso combinate: la religione e il sentimentonazional-patriottico. I regimi comunisti avevano fatto del-l’ateismo il loro “credo”, sottoponendo le chiese a forme,ora velate ora brutali, di oppressione. Avevano inoltre rite-nuto che la solidarietà proletaria avrebbe consentito di su-perare i conflitti nazionali di matrice etnica che pure ave-vano dilaniato intere regioni dell’Europa centro orientale. La caduta dei regimi filo-sovietici nei paesi dell’Est euro- 21

Solidarnosc, il sindacato fondato in Polonia nel 1980 in seguito agliscioperi nei cantieri navali di Danzica e guidato da Lech Walesa,ebbe un ruolo di primo piano nel processo che portò alla cadutadei regimi dell’Est europeo

«La caduta dei regimi filo-sovietici neipaesi dell’Est europeo (compresa

l’allora Unione Sovietica) è stata unavera e propria “implosione”, sia purein forme e con esiti diversi e ha aperto

una fase di transizione non priva digravi difficoltà»

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peo (compresa l’alloraUnione Sovietica) è statauna vera e propria “im-plosione”, sia pure in for-me e con esiti diversi eha aperto una fase ditransizione non priva digravi difficoltà. Certo,sul piano della retorica, il1989 segna la conquistao la ri-conquista delle li-bertà civili e politiche eapre la strada a un’eco-nomia di mercato, ma se-gna anche il venir menodelle sicurezze esisten-ziali che il socialismoreale era riuscito in qualche modo ad assicurare e segna ilritorno di fiamma dei conflitti etnico-religiosi che avevanocovato sotto le ceneri. L’esplosione più virulenta e drammatica degli odii nazionaliavvenne in seguito alla dissoluzione della federazione ju-goslava. Anche la Jugoslavia era passata attraverso una for-ma di dittatura comunista sotto la guida di Josip Broz, dettoTito. Questi era riuscito a sottrarre il suo paese al dominiosovietico e divenne uno dei leader del gruppo dei paesi “nonallineati” che avevano scelto di restare equidistanti dai dueblocchi e di tentare una “terza via” tra capitalismo e sociali-smo. Tito morì quasi dieci anni prima del 1989, ma quandosi dissolsero i blocchi anche la posizione dei non allineatidivenne obsoleta, aprendo senza freni i conflitti interni traserbi, croati e bosniaci che portarono alla fine della federa-zione e alle tragedie della guerra balcanica. Ma anche laddove non si sono verificati esiti così dram-matici la transizione post 1989 non è stata facile. Tenden-ze centrifughe si sono manifestate in varie regioni e hannocondotto a un grado elevato di frammentazione politica (sipensi, ad esempio, alla scissione tra Repubblica Ceca eSlovacchia). Quasi ovunque, inoltre, al crollo dei regimi èsubentrata una grave crisi economica, ci si rese conto chele strutture industriali erano obsolete, che non si erano fat-ti investimenti per migliorare la produttività e che quindile imprese non sarebbero state in grado di affrontare lacompetizione nei mercati internazionali. La disoccupazio-ne, prima sconosciuta, comparve in tutti i paesi e, se per laparte della popolazione che era riuscita a convertirsi piùrapidamente alle nuovecondizioni il tenore di vi-ta crebbe sensibilmente,un’altra parte della popo-lazione dovette affrontareun netto peggioramentodelle proprie chance divita. Quasi ovunque, masoprattutto negli stati del-l’ex Unione Sovietica, siosservò l’aumento del-l’alcolismo, il peggiora-mento della salute pub-blica, un aumento della

mortalità e una drasticadiminuzione dei tassi dinatalità. Tuttavia, nonostante alcu-ni tratti comuni, i percorsidella transizione si sonodifferenziati notevolmenteda paese a paese. In Un-gheria, Polonia e Cecoslo-vacchia i rigidi meccani-smi della pianificazione distampo sovietico eranogià stati parzialmente ab-bandonati, un certo plura-lismo era stato mantenutoe quindi il passaggio adun’economia di mercato e

a forme politiche democratiche risultò facilitato. Altrove, in-vece, in Russia, in Ucraina, in Bielorussia, nelle nuove re-pubbliche caucasiche, in tutti quei territori che rimasero nel-l’orbita di Mosca la trasizione è avvenuta solo in parte e at-traverso un percorso più arduo. La prospettiva di entrare a far parte dell’Unione europea fuper alcuni paesi una molla decisiva per favorire il passaggioal mercato e per consolidare le fragili basi delle neonate de-mocrazie, come era successo in passato per Spagna, Porto-gallo e Grecia. In ondate successive entrarono nel 2004 ipaesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), la Polonia, l’Un-gheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Slovenia, nel2007 la Romania e la Bulgaria. La Germania est, invece, eraentrata già nel 1990 essendo il suo territorio incorporato inquello della Repubblica federale di Germania. Agli occhi delle popolazioni degli ex stati satelliti dell’Unio-ne Sovietica, i tedeschi dell’est possono essere considerati deiprivilegiati non solo perché con la riunificazione della Ger-mania sono potuti entrare subito nell’UE, ma soprattutto per-ché la solidarietà dei “fratelli dell’ovest” ha consentito di alle-viare sensibilmente i costi della transizione. È frequente, tut-tavia, sentir dire in Germania che le barriere di filo spinatoche avevano diviso i due stati tedeschi sono rimaste, almenoin parte, nella testa della gente: quasi mezzo secolo di separa-zione non si cancella nel giro di pochi decenni. Berlino è ri-tornata ad essere la capitale della Germania riunificata e, al-meno fisicamente, le tracce del muro che l’hanno divisa indue sono state quasi tutte cancellate. Le nuove generazioninate dopo il 1989 potranno conservare memoria di quello che

è stato solo dai raccontidei genitori e dei nonni,dalle narrazioni del cine-ma e dei libri di storia edai reperti conservati neimusei. È giusto che vivanola loro vita senza il pesodel passato, senza le colpedei loro padri e dei lorononni, ma è importanteche non perdano la memo-ria, se non altro per evitaredi commettere gli stessierrori.

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Un pezzo del Muro scambiato fra berlinesi dell’Est e dell’Ovest attraversoun’apertura il 9 novembre 1989. Foto di Frederick Ramm ©

9 novembre 1989. Il Muro è aperto. Foto di Frederick Ramm ©

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Vi proponiamo un estratto dell’inter-vista che la giornalista Oriana Fallacirealizzò nel 1973 con il cancelliere te-desco Willy Brandt, edita nel volumeIntervista con la storia, Milano, Riz-zoli, 1974.

«A essere sincera non so da che par-te incominciare, cancelliere Brandt.Sono troppe le cose da chiederle,compresa la storia del suo nome chenon è il nome con cui nacque. Quel-lo era Herbert Frahm e …Willy Brandt. Sì, il nome WillyBrandt presi a usarlo all’inizio del1933; prima che lasciassi la Germaniae dopo che i nazisti furono andati alpotere. Lo scelsi come “nom de guer-re” per dedicarmi all’attività clande-stina contro Hitler. Ma con quel nome andai all’estero,quando avevo diciannove anni. Con quel nome comin-ciai a scrivere sui giornali e pubblicai i miei libri, conquel nome mi impegnai nella politica e divenni unadulto e tornai in Germania alla fine della guerra. Tuttoè legato a quel nome, e non pensai mai di riprenderel’altro con cui ero nato.Del resto come Willy Brandt si sposò, assunse la cit-tadinanza norvegese, ed ecco: forse dovremmo par-tire da questo. Cioè dal fatto che per anni lei sia sta-to cittadino di un altro paese. A parte gli ebrei, nonfurono molti i tedeschi che lasciarono la Germaniadi Hitler.Non pochi la lasciarono invece. Se prende ad esempiola mia città, Lubecca, scopre che se ne andarono inmolti. E va da sé che quasi tutti erano più vecchi dime. Perché lasciai la Germania? Perché, se fossi rima-sto, mi avrebbero arrestato e spedito in un campo diconcentramento. Non avevo molte possibilità di cavar-mela in quel primo periodo. Anche se non fossi espa-triato, avrei dovuto abbandonare Lubecca. Però nean-che abbandonando Lubecca avrei potuto frequentarel’università, e questo è un elemento che contribuì allamia fuga. Finita la scuola, m’ero messo a fare il sensa-le e per un anno era stato un lavoro interessante. Maio volevo studiare storia e, nella Germania di Hitler,non era possibile studiare la storia. Così, non appenami capitò l’occasione…Un uomo che apparteneva almio gruppo doveva fuggire in Norvegia per aprirvi unufficio e occuparsi dei problemi connessi al nostromovimento di resistenza. Tutto era pronto perché unpescatore lo portasse via partendo da un luogo nonlontano dalla casa in cui abitavo. Io dovevo aiutarlo elo aiutai: ma l’uomo non ce la fece lo stesso. Fu arre-stato e spedito in un campo di concentramento. Alloragli amici di Berlino mi chiesero se volevo andare alsuo posto. E io accettai. Non immaginavo che ciòavrebbe significato star via per tanto tempo. Moltipensavano che il nazismo non sarebbe durato a lungo.

Dicevano dodici mesi, al massimoquattro anni. Io non appartenevo allaschiera degli ottimisti però mi illude-vo che non sarebbe durato più dellaprima guerra mondiale. Invece duròdodici anni.Quei dodici anni, appunto, che leitrascorse in Scandinavia: come isuoi avversari le hanno spesso rim-proverato. Sicchè le pongo questadomanda: le dispiace di non averpartecipato direttamente, e cioè inGermania, alla lotta contro il nazi-smo?Dimostrai, allora e dopo, d’esserpronto a rischiare la mia vita ognivolta che fosse necessario. E anchequando non era necessario. Rientraiclandestinamente nella Germania di

Hitler. Vi rimasi alcuni mesi prima di fuggire un’altravolta perché stavano per catturarmi. Andai nella Nor-vegia e nella Svezia occupate da Hitler. Dunque hocorso i miei rischi. E se considero la sua domanda daun punto di vista razionale, rispondo: se fossi rimastoin Germania anziché espatriare, probabilmente nonavrei avuto le stesse occasioni per svilupparmi e pre-pararmi a fare ciò che feci a Berlino o in seguito. Al-ludo soprattutto alle mie esperienze europee e inter-nazionali. Certo, ogni cosa ha il suo prezzo. E il prez-zo che dovetti pagare io fu molto diverso da quellopagato dalla maggioranza dei mie compatrioti. Fu ilprezzo di andarmene. Sì, è vero: ad alcuni ciò parveun modo strano di pagare, e così giudicando, forniro-no ai miei oppositori l’occasione per scagliare unacampagna contro di me. Ma a costoro replico che, al-lora, è altrettanto strano che tanti tedeschi si identifi-chino in me e mi diano fiducia. Ho detto strano? Do-vrei dire bello. È una gran bella cosa che tanti tede-schi diano fiducia a un uomo che ha avuto una vitadiversa dalla loro. Non migliore. Diversa.[…] Divertente. Però io non posso credere che leisia tornato in Germania guidato dal caso anzichédal sentimento.Eppure è così. Non fu una cosa sentimentale. No. Tor-nai a Berlino per la semplice ragione che Berlino erainteressante. Era il centro della controversia tra Est eOvest. Era il posto dove trovarsi. Che poi questo abbiaaccelerato il mio processo di identificazione è un’altrafaccenda. E non alludo soltanto a un processo di iden-tificazione politica: alludo a un processo di identifica-zione con la gente che viveva nella miseria, nella scon-fitta. Berlino era un cumulo di rovine, ma tra quelle ro-vine fiorivano le qualità migliori del popolo. Sì, è unfenomeno che si verifica spesso nei periodi avversi: maogni volta sorprende. Oh, il morale dei Berlinesi non èmai stato così alto come nei primi anni del dopoguerra.Neanche durante il blocco sarebbe stato così alto. Cosìil mio processo di identificazione…

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24Ma cosa intende peridentificazione? Ciòche chiamiamo patria?No. Non fu la patria a ri-avermi. Fu il caso di unpopolo che, dopo esserpassato attraverso la dit-tatura e la guerra e la ro-vina, tentava di rico-struirsi una vita basatasulla libertà. Sì, fu que-sto che mi indusse a tor-nare tedesco. Fu la fanta-stica voglia di lavorareche v’era in ciascuno diloro, fu quella capacitàdi concludere, quella volontà di aiutarsi l’uno con l’al-tro… Una volontà che abbiamo perduto diventando ric-chi…V’era nell’aria come una sensazione d’essere tuttiincollati insieme per fare: malgrado la miseria economi-ca. Capisce? Una questione di valori umani e morali piùche un fatto nazionalistico. Io, più ci ripenso, più miconvinco che furono quegli anni a Berlino a radicare inme l’idea dell’Europa. Anzi del futuro dell’Europa.[…] Capisco. Ma allora… e penso alla sua visita nelghetto di Varsavia… io le chiedo: fino a che puntopesa su di lei il complesso di colpa che la sua gene-razione si porta dietro con la parola tedesco?Io faccio una differenza tra colpa e responsabilità. Io nonmi sento colpevole e trovo che non sia giusto, né corretto,attribuire quel complesso di colpa al mio popolo o allamia generazione. La colpa è qualcosa da attribuire a unindividuo: mai a un popolo o a una generazione. La re-sponsabilità è diversa. E, sebbene abbia lasciato la Ger-mania molto presto, sebbene non sia mai stato un sosteni-tore di Hitler, a dirla con una perifrasi, io non posso esclu-dere me stesso da una certa responsabilità. O correspon-sabilità. Sì: perfino se mi fossi dissociato dal mio popolo,mi sentirei corresponsabile dell’avvento di Hitler. Infattibisogna chiederci: perché egli prese il potere? E bisognarispondere: non solo milioni furono abbastanza stupidi daseguirlo ma perché gli altri non furono capaci di fermarlo.Ero giovane a quel tempo, d’accordo. Eppure anch’io ap-partengo al gruppo di coloro che non furono capaci di fer-marlo. Nella vita di un popolo, il momento cruciale si ve-rifica quando il popolo lascia che il potere finisca nellemani di criminali. E anche quando un popolo, avendonel’opportunità, non la usa per mantenere le condizioni ne-cessarie a un governo responsabile. Perché dopo non sipuò fare più nulla. Dopo, diventa sempre più difficile cac-ciare i criminali che hanno preso il potere. Nella mia in-terpretazione, insomma, la corresponsabilità inizia primae finisce dopo. E tale corresponsabilità, sfortunatamente,se la trovano addosso anche i giovani. Non nella misuradei loro padri ma…Lei ha citato Varsavia…[…] Perché si gettò in ginocchio a Varsavia, cancel-liere Brandt.Non mi gettai in ginocchio perché avessi da confessare

una colpa ma perché vo-levo identificarmi colmio popolo. Cioè colpopolo da cui eranousciti coloro che aveva-no commesso cose tantoterribili. Quel gesto nonera diretto solo ai polac-chi. Era diretto anche aitedeschi. Sbaglia chicrede che io mi rivol-gessi soltanto alle vitti-me del nazismo o alleloro famiglie. Io mi ri-volgevo anche e soprat-tutto alla gente di casa

mia. Perché molti, troppi hanno bisogno di non sentirsisoli e sapere che bisogna sopportare insieme quel peso.[…] E a Yad Vashem, durante il suo ultimo viaggioin Israele? Il gesto di Yad Vashem non può esserestato deciso all’ultimo momento.Ha ragione. Prima di andare in Israele, meditai a lungosu ciò che avrei potuto fare. Avevo sentito dire chechiamano Yad Vashem il posto della verità, della terri-bile verità al di là di tutto ciò che mente umana possaimmaginare. E volevo dar corpo a questa verità per-ché… Auschwitz dimostrò che l’inferno sulla terra esi-ste. Credo di averlo già detto, mi pare a Varsavia. Ecredo d’avere già detto che, quando ero in Svezia, iosapevo ciò che stava accadendo in Germania. Lo avevosaputo prima della maggior parte di coloro che viveva-no dentro e fuori la Germania. Così, mentre mi prepa-ravo al viaggio in Israele, mi riaggredì quel senso dicorresponsabilità che ho cercato di spiegarle prima. E,come a Varsavia, mi dissi che non avrei potuto limitar-mi a posare una corona di fiori con la faccia di pietra ola faccia commossa. Una volta messo a confronto conciò che era successo, avrei dovuto reagire in qualchemodo alla mia impotenza. Capito? Volevo fare qualco-sa, non volevo restare passivo. Mi ripetevo: deve puresserci un gesto da fare per il bene dei tedeschi e degliebrei, un gesto che apra la via al futuro. Oh, non voglioparlare con leggerezza di riconciliazione: essa non di-pende da me. Ma la soluzione che trovai mi parve giu-sta perché col popolo ebreo abbiamo in comune unacosa abbastanza importante: la Bibbia. O, almeno, ilVecchio testamento. Perciò decisi di leggere il salmo103, dal verso 8 al verso 16: «Alle tue minacce essifuggiranno; si atterriranno al suono della tua voce…».Decisi di leggerli in tedesco, nella lingua di Martin Lu-tero. Alcune espressioni erano difficili da capire, però.Specialmente per i giovani. Allora, mentre volavo a TelAviv, studiai il testo e paragonai la traduzione di Mar-tin Lutero alla versione ebraica delle stesse parole intedesco. Mantenni quasi tutte le espressioni poetiche diMartin Lutero e aggiunsi poche frasi dalla Bibbia degliebrei. Credo che gli israeliani abbiano capito ciò chevolevo fare. E per questo sarò loro sempre grato».

Il cancelliere tedesco Willy Brandt in visita in Polonia nel 1970 siinginocchia di fronte al monumento agli eroi del ghetto di Varsavia

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Nella filmografia di WimWenders – autore partico-larmente significativo delcosiddetto nuovo cinematedesco – i titoli si susse-guono spesso con nomi dicittà o con il termine stes-so di città, dai primissimicorti e lungometraggi in16 mm, Silver City (1968)e Summer in the City

(1970), ad alcuni dei suoi film più famosi, Alice nelle città(1973), Reverse Angle: New York City (1982), Paris, Texas(1984), Tokio-Ga (1985), Il cielo sopra Berlino (1987),Notebook on Cities and Clothes (1989), fino a LisbonStory (1999) e Palermo Shooting (2008). Sembra quindiche l’amore di Wenders nel filmare città e paesaggi urbanie la scelta dei loro nomi propri come titoli per i suoi film,non sia solo un vezzo d’autore, ma una costante della suapoetica e del suo cinema. Focalizzare le riprese su un paesaggio urbano, sia esso To-kio o Berlino o Lisbona, è sempre contemporaneamenteporsi la domanda, per Wenders, su che cosa significhi tro-vare un’immagine, guardare una città, perché mostrare eraccontare una città è un grande motivo narrativo, con cuisi sono già misurati importanti scrittori e registi del passa-to. E se lo sguardo poetico permette sempre di vederequello che altrimenti non si sarebbe mai visto o di vederein altro modo ciò che già si conosce, lo sguardo di Wen-ders dimostra l’infallibilità di un autore che si esprimesempre secondo il proprio sentimento e la propria natura.Perché Wenders rimarrà famoso soprattutto per il suo oc-chio. Un occhio, un pensiero visivo, si potrebbe dire, chesi posa su storie e personaggi ribelli, disorientati e insicuri,ma che è sicurissimo nelle proprie scelteestetiche, nel cogliere momenti di veritào nel creare immagini pregnanti.Il cielo sopra Berlino – tra quelli dimaggiore successo e impatto nella car-riera del regista – si presenta come unavisione che coniuga il coinvolgimentodi una città in un determinato momentostorico con una fantasia di tipo onirico:gli angeli scesi tra gli abitanti di Berlinoche osservano, inosservati, il pulviscoloeterogeneo di eventi e persone semprealla ricerca di qualcosa che non c’è oche hanno perduto e che si conclude conun happy ending insperato. Damiel(Bruno Ganz), l’angelo che sceglie didiventare uomo, e Marion (SolveigDommartin), la trapezista che vorrebbe

diventare un angelo, alla fine si incontrano e si amano inquesta “terra di mezzo” che è la Berlino prima della cadu-ta del muro.La forza del film sta nell’originalità della scrittura, nel-l’aereo movimento di macchina che avvolge e sorprendenella sua continuità e fluidità quasi ininterrotta i personag-gi più anonimi o gli incontri più toccanti. E se ci si chiede,come si deve sempre fare quando si tratta di un regista co-me Wenders, dov’è l’autore, dove sta la chiave della suaricerca, non è certo in un intreccio evanescente, non è nel-

la descrizione di una società o di un ambiente o tanto me-no nel cogliere o nell’approfondire delle psicologie, mapiuttosto nel descrivere il mondo attraverso la contempla-zione e la percezione, attraverso situazioni ed emozioniche lavorano per accumulo e per addensamento, per espe-rienze di movimento e di passaggio, piuttosto che per undisegno aprioristico, già predisposto e confezionato. Il rea-le si mostra e mostrandolo si rivela, ci dice Wenders, attra-verso una macchina da presa che a volte sembra cogliere ifenomeni quasi per caso e altre volte sembra inventare unmondo che non esiste. È la macchina da presa infatti asembrare un angelo, a essere il vero angelo di questo film.Al posto della pienezza e dell’armonia del cinema del pas-sato, capace nello stesso tempo di raccontare e di rappre-sentare, il progetto estetico del regista tedesco sta nell’im-

provvisazione, nella ricerca e nella sco-perta, quelle che si compiono lungo ilviaggio e lungo le riprese, tra il set e ilprofilmico, tra la macchina da presa egli attori, e che, una volta compiuti, di-ventano essi stessi la storia, non più lastoria piena del cinema classico, maquella a “sbalzi e tentoni”, per sugge-stioni e tracce, per lampi e intuizioni,del cinema moderno. La Berlino del 1987 di Wenders è sia unaUnreal City, come la Londra di Dickenso di Eliot, sia uno spazio urbano terribil-mente realistico, con connotati precisiche il film ha evidenziato ed esaltato.Uno spazio in qualche modo diviso indue: quello che si può vedere ad altezzadegli angeli, aereo, quasi spirituale, dove 25

Dove inizia lo spazioL’occhio di Wim Wenders ci racconta una Berlino sospesa

di Lucilla Albano

Lucilla Albano

«Focalizzare le riprese su un paesaggiourbano, sia esso Tokio o Berlino o

Lisbona è sempre per Wenders unadomanda su che cosa significhi trovare

un’immagine, guardare una città»

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tutto è compatto, unito e armonioso;e dove svetta la colonna della Vitto-ria, la Siegssaule – testimone diun’epoca più felice – che ospita, trale sue ali di bronzo dorato, le ali de-gli angeli che la abitano – ali tra leali – immagine diventata una delleicone più significative del film. L’altro spazio è quello al livellodell’occhio umano, tra brutture esquallore, alienazione e solitudine.E se il colore – in un film quasi tut-to in bianco e nero – nell’ultimaparte riesce finalmente a invaderelo schermo, la visione della città ri-mane desolata e periferica, disador-na e disumana, e non bastano igraffiti colorati a nascondere l’o-scenità del muro, a renderlo a misu-ra d’uomo. Se mettiamo al centro di Il cielo so-pra Berlino, proprio la città di Berlino, la capitale di unapatria con cui l’autore si identifica, anche se con disagi econflitti, ecco che, da spettatori partecipi, ci possiamo chie-dere non solo che cosa ha significato per Wenders filmareBerlino, ma anche, ad esempio, che cosa ha a che fare laBerlino di Wenders, con la Roma di Fellini, con la Londradi Antonioni, con la Parigi di Godard e di Truffaut o con laNew York di Woody Allen e, soprattutto, con la Tokio diOzu, con cui Wenders si è confrontato realizzando Tokio-Ga, e misurando la distanza tra la Tokio a lui contempora-nea e quella mitica del «mondo amoroso e ordinato» checonosceva dai film di Ozu. E allora, al di là di situazioni,storie e stili tra loro incomparabili, un dato emerge eviden-te, e cioè che tutti questi luoghi, queste grandi capitali, sitrasformano sempre non in quello che sono, ma in paesaggidell’anima, di volta in volta mostrati e raccontati in quantoincarnazione dello spirito del film, che non è quello di de-scrivere un città, ma di farne sempre qualcos’altro, un luo-go immaginario sottomesso a un progetto creativo, unospazio percepito secondo la coscienza che ne hanno i per-sonaggi, e quindi l’autore.Con questo film Wenders si è misurato – complici le poesiedi Rainer Maria Rilke e i dialoghi di Peter Handke – con unritorno in patria, dopo tanti anni, e con la propria poetica, dicui è rimasta intatta la sostanza ma che nello stesso tempoha cambiato di segno, si è trasformata. Il tema del viaggio, aWenders così caro, diventa più metafisico che reale, è quel-lo dell’angelo, Damiel, che dal cielo scende in terra, è quel-lo di Marion, la trapezista, che volteggia in aria per poi do-ver ricadere al livello della propria solitudine, ma che, allafine, nella ricerca dell’amore trova proprio ciò che cerca.Il motivo dello scacco, della perdita persiste anche nella

dimensione angelica, con l’angelo caduto e innamoratoche preferisce la disfatta della caducità all’assoluto dell’e-ternità; mentre il tema della frontiera non sta solo nel Mu-ro che divide Berlino est da Berlino ovest, sintesi e meta-fora di tutte le possibili frontiere, ma anche nel valicareuno status, come accade a Damiel: dall’immortalità allamortalità, dall’invisibilità alla visibilità, dall’impossibilità

di percepire e di toccare al coinvol-gimento totale, indicati dal passag-gio del bianco e nero al colore. I temi della solitudine e dell’aliena-zione si stemperano grazie alle pre-senze indefinibili degli angeli, dacui speriamo di essere redenti: nonsiamo soli, sembra dirci Wenders, eil contatto con la realtà può passareattraverso vie sconosciute e maipraticate. Infine la propensione allaletterarietà di alcuni film preceden-ti diventa qui a volte dimensione li-rica, altre volte presenza ingom-brante, soprattutto nell’ultima par-te, nell’incontro finale tra Damiel eMarion, che non ha il dono di ripre-se felici e toccate dalla grazia del-l’ispirazione, come in altre, bellissi-me sequenze del film.Se lo spazio ne Il Cielo sopra Ber-

lino sembra contare molto di più del tempo è anche veroche proprio attraverso lo spazio – come sempre al cinema– si può cogliere il tempo, quel passato, quel presente equel futuro attraverso cui Wenders racconta Berlino, equindi tutta la Germania, di cui Berlino è il cuore e il cen-tro. E in cui, come dice il regista, «la storia è presente fisi-camente ed emozionalmente», addensando metaforica-mente, nel suo destino, anche quello di tutta l’Europa, lavecchia Europa, piena di storia e di memoria, ma anche diorrori e di distruzione.Homer, Omero, il vecchio cantore e professore che vediamo

aggirarsi negli spazi della Staatsbibliothek, la Biblioteca sta-tale, rappresenta la memoria storica della città, vivendo inmezzo ai libri, a Toute la mémoire du monde, come recitava iltitolo di un documentario di Alain Resnais sulla Bibliotecanazionale di Parigi. Splendido spazio questo della Biblioteca,dove si svolge la più lunga e riuscita sequenza del film, esem-pio perfetto del modo di girare e di raccontare di Wenders. Ma il passato è anche l’inutile ricerca di una delle più anti-che e belle piazze di Berlino, la Potsdamer Platz, tra la cuidesolazione Homer tenta di reperire qualche resto o rovi-na; il passato sono le immagini di repertorio della Berlinobombardata durante la seconda guerra mondiale; è l’infer-no del nazismo, riproposto e messo in scena sul set delfilm a cui partecipa Peter Falk, nei panni di se stesso. E se il passato è sotto il segno della tragedia, dell’orrore edella perdita, il presente è uno sguardo smarrito e angoscia-to, in preda a una realtà alienante e a una solitudine sia fisi-ca che spirituale; il presente è il muro, in bianco e nero e acolori, sono le ferite e le offese che ancora abitano la città diBerlino e le vite dei suoi cittadini, abbandonati a se stessi. E il futuro? Non può che essere prefigurato negli sguardiliberi, puri e innocenti dei bambini, che riescono a vedereal di là della percezione umana, quella adulta, e che sonogli unici ad accorgersi della presenza degli angeli. Oggiquei bambini sono diventati grandi, ma non sembrano piùriuscire a vedere al di là, in prospettiva. Quale sarà questofuturo? Quale sarà il futuro di un’Europa che non sa anco-ra di quale stoffa sono fatti i suoi sogni?

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Il Sony Center nei pressi di Postdamer Platz a Berlino

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Proviamo a immaginare di nonavere più nessuno dei nostricari. Che da un giorno all’altrosparisca nel nulla l’intera po-polazione della nostra città,che nove decimi della popola-zione del nostro paese vengaviolentemente annientata. Pro-viamo a immaginare di perde-re, da un momento all’altro, inostri parenti più stretti, i fra-telli e le sorelle, i genitori, inonni e gli zii; di perdere tutti

insieme gli amici vicini e lontani, di non avere con chi divi-dere il dolore, lontani dalla casa, espulsi dal lavoro, braccatie soli con un’angoscia senza nome e che alla fine non ci sia-no nemmeno i cimiteri dove poter piangere i nostri cari.Immaginiamo che per il prolungamento della nostra soprav-vivenza, di qualche giorno o mese, qualcun altro sia mortoprima, che per una selezione qualcun altro è perito nelle ca-mere predisposte alla distruzione finale, che per ogni lavoroutile al nemico, come chimico o scienziato, un altro uomosenza volto sia stato anticipatamente inserito nel numeroprevisto dei morti e degli uccisi ogni giorno di ogni mese.Proviamo a immaginare e forse potremmo capire che cosaè stato veramente il ritorno alla vita di chi ha fatto l’espe-rienza della deportazione e dei campi. Percepiremmo nel-la sua intensità la violenza di chi oggi vorrebbe colpevo-lizzare le vittime per un passato che non passa, perché sirifiutano di dimenticare, perché vogliono coltivare il ri-cordo di quel che è stato. Non ci chiederemmo come maii diretti interessati di questa immane tragedia, non dimen-ticano. Ci chiederemmo come essi abbiano potuto conti-nuare a vivere conservando la fiducia nei vicini, condivi-dendo le speranze di un futuro migliore con chi ha fintodi non vedere, o non ha voluto guardare. Come abbianopotuto riacquistare la fiducia nel genere umano e comeabbiano conservato la fede, per quanto essa non possa piùessere la stessa, se non al prezzo di un diniego profondo edi un’autocensura che fa violenza all’intelletto e alla fedein un Dio giusto e buono.Siamo abituati a pensare alla morte come a un atto conclu-sivo che interrompe l’esistenza. La morte, a livello biolo-gico e psichico, è un processo che comincia molto prima.Quando la vita perde significato, è il sistema immunitarioa risentirne. Di fronte a situazioni estreme ci si può lasciare distruggeredall’esperienza, la si può rimuovere negando che possaavere una qualunque conseguenza duratura. Ma si può an-che lottare per tutta l’esistenza per conservarne la consa-pevolezza e integrarla nella memoria. La più distruttivadelle risposte è la conclusione che la reintegrazione dellapersonalità sia impossibile, o inutile, o entrambe le cose.In questi casi il sopravvissuto percepisce la propria vita

come frammentata. Una tale condizione di frammentazio-ne e di lutto è ben rappresentata nei romanzi di Isaac Bas-hevis Singer, che non a caso ha continuato a scrivere injiddish, come se i veri destinatari dei romanzi, i lettori as-sassinati a milioni, fossero ancora in vita. Il mondo del sopravvissuto è andato a pezzi ed egli non sapiù come venirne a capo. La decisione inconscia di nonessere capace di ricostruirsi la vita ha come sfondo la per-cezione che tutto quello che apparteneva al mondo di ieri eche dava senso all’esistenza sia andato per sempre perdutosenza possibilità di recupero, ovvero, sia per semprescomparso. Altri, la maggioranza, per sopravvivere, ricor-rono ai meccanismi della rimozione e della “negazione”.La condizione preliminare per il conseguimento di unanuova integrazione è data dal riconoscimento della gravitàdel trauma subito e della sua natura.

Nel dialogo tra le generazioni il lutto è un momento im-portante di riconciliazione e di ricostruzione. Possiamo se-pararci, come sostiene Freud, perché lasciamo morire lapersona amata per poter vivere noi. Possiamo separarci,perché ad altri livelli ci riconciliamo con la persona perdu-ta, facendola rivivere dentro, proiettandone il ricordo nellavita quotidiana e nel futuro dei nostri figli. Recuperando ilpassato, redimendo le ferite aperte, apriamo una porta sulfuturo. Nel lutto individuale, quando la situazione lo permette,facciamo rivivere al nostro interno le persone che non cisono più. L’elaborazione del lutto è possibile non solo per-ché a un livello, l’Io sceglie di vivere e lascia morire lapersona amata, ma perché ad altri livelli questa torna a vi-vere dentro di noi. Questo è quanto accade generalmentenel lutto normale. Quando non ce la facciamo, ci accusia-mo di colpe immaginarie o reali, secondo una logica tipicadel processo primario, amplificandole nella nostra onnipo-tenza; diventiamo responsabili di tutto e dobbiamo perciòespiare per tutto sino alla morte. È il caso della melanco-nia. Oppure per difenderci da tale pericolo, cerchiamo ri-fugio nel diniego più assoluto, vivendo una vita non no-stra, avvolgendo di normalità quel che non è più, trasfe-rendo sulle generazioni che vengono dopo il peso dei con-flitti irrisolti e il fardello di una colpa opprimente. La vitadi chi viene dopo diventa in questi dolorosi casi una conti-nua interrogazione alla Sfinge. I figli sono costretti a di-ventare adulti prima del tempo, devono fare da genitori ailoro genitori per non andare in pezzi loro stessi. 27

L’esperienza dei sopravvissuti alla ShoahPercorsi di rielaborazione del lutto nel vissuto transgenerazionale

di David Meghnagi

David Meghnagi

«La condizione preliminareper il conseguimento di una nuova

integrazione è data dal riconoscimentodella gravità del trauma subito

e della sua natura»

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Un’intera città, per unistante, si è trasformata inuna camera oscura. La lu-ce, di fuoco. È successo. Isuoi muri, le pareti dei pa-lazzi, sono diventati im-mense carte appese adasciugare, ma c’è voluto unistante perché l’immaginevi si stampasse. È successodavvero, solo che l’imma-gine non era un’immagine:erano uomini e donne ebambini, erano gli abitantidella camera oscura, della

camera oscura che un istante prima, quell’istante prima, sichiamava Hiroshima. Alcuni sono stati carbonizzati, altri sisono liquefatti. Di questi ultimi è rimasta una traccia, un’im-pronta, sui muri della città. Di colpo, alla velocità della luce,sono stati “impressi” (non c’è altra parola per definire quelloche è successo) sulle pareti vicino alle quali si trovavano apassare, a camminare, a vivere: non più uomini, donne obambini, non più nemmeno corpi da seppellire, ma di colpo,ostacoli tra il lampo di luce e i muri. Di colpo, dunque, cosa?Quale la natura delle loro sagome (viene da dire “disegna-te”) su quei muri? Al di là delle spiegazioni esatte della fisi-ca, si fa fatica a credere che in un attimo un uomo possa es-sere ridotto alla sua sola ombra, la stessa che lo seguiva sulmarciapiede quando camminava al sole, proprio la sua, per-sonale ombra. Così si fa fatica a credere, ma è l’assenza tota-

le del corpo a richiederlo, che a resistere aggrappata al murosia la sua anima, quella che, secondo gli esperimenti del dot-tor Duncan MacDougall, peserebbe 21 grammi – tesi poidiffusa dal film di Iñárritu –, ma nel caso in questione, privapersino di tale peso, solo fotografia o ombra dell’anima. «La prima vera immagine del nostro tempo»: nel suo ulti-mo libro, Il tempo invecchia in fretta, Antonio Tabucchidefinisce così il risultato ultimo, visibile, di quel che suc-cesse quando Hiroshima divenne un’immensa cameraoscura, quando l’“immagine” trovò nel muro un supporto

di fortuna, rimasto lì, in piedi, mentre tutto, intorno, veni-va inghiottito dal calore. Come in una particolare morracinese, tra l’uomo e il muro, Tabucchi ci ricorda che fu ilmuro ad uscirne vincitore. Altrove, in un altro raccontodella stessa raccolta, la situazione sembra essere opposta:l’uomo è rimasto in piedi, il Muro abbattuto, la città sichiama Berlino, il secolo è lo stesso: «Ah, il Muro, chenostalgia del Muro. Era lì solido, concreto, segnava unconfine, marcava la vita, dava la sicurezza di un’apparte-nenza. Grazie a un muro uno appartiene a qualcosa, sta diqua o di là, il Muro è come un punto cardinale, di qua c’èl’est, di là l’ovest, sai dove sei». La situazione sembra es-sere opposta, perché in realtà è ancora l’uomo a uscirnesconfitto: la caduta del muro gli ha tolto le coordinate delsuo stare nel mondo, laddove prima, anche in assenza di

28 La camera oscuraUn quaderno aperto dove scrivono gli uomini o la storia: il muro come immagine del nostro tempo

di Michela Monferrini

Michela Monferrini

Artisti a lavoro alla East Side Gallery, Berlino

«L’immagine trovò nel muro unsupporto di fortuna, rimasto in piedi,

mentre tutto, intorno, venivainghiottito dal calore. Non più uomini,donne o bambini, non più nemmeno

corpi da seppellire, ma di colpo,ostacoli tra il lampo di luce e i muri»

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specchi, era costretto a guardarsi e guardarsi intorno. Per-ché ecco, sia l’uomo o l’aria o la luce: prima o poi ci siferma di fronte ad un muro, ci si fanno i conti.Così, a Washington DC, è il Memorial Wall, il muro che faparte del Vietnam Veterans Memorial e che ricorda i solda-ti che combatterono la guerra del Vietnam, a chiedere aivisitatori uno sforzo di riflessione. Sulla superficie, spec-chiata e incisa, chi si trova lì vede il proprio volto riflesso

sulla lista interminabile di nomi di caduti e reduci, e datedi morte: il muro riesce a raccontare e perciò, incredibil-mente, ad unire. Più vicina a noi, un’altra lista di morte è incisa sul murodella sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Bologna,a renderlo pubblica lapide comune. Accanto ai nomi èsegnata l’età e chiunque legge si ferma un po’ di più suquello di Angela Fresu, tre anni, vittima di una morra ci-nese che non risparmiò niente e fece solo vinti, persone ecose. La prima immagine, per chi arriva a Bologna con iltreno, è quella di un muro con la sua ferita bianca, chenon s’è fatta cicatrice ma memoria, e resta infatti sottouna teca di vetro che paradossalmente, tardivamente loprotegge.

Come per il personaggio di Tabucchi, un muro è sempreun invito a fare i conti con sé stessi, quaderno cadutoaperto dove scrivono gli uomini o la storia, che è lo stes-so. Allora lo si può immaginare nero e quadrettato comele lavagne di quando eravamo piccoli alunni, come quellache deve riempire Bart Simpson in eterna punizione, scri-vendo per ore la stessa frase. Si può immaginare – manon è più immaginazione perché esiste – un muro chenon solo non divida niente e nessuno, ma che rechi unmessaggio contrario a quella sua originaria, prima funzio-ne: Parigi, Montmartre, pochi passi dalla splendida fer-mata metro Abbesses, nella piazza omonima (piazza degliAbbracci), il Mur des Je t’aime progettato da FrédéricBaron e realizzato da Claire Kito nel 1998 è lì per unoscopo preciso: «in un mondo segnato dalla violenza e do-minato dall’individualismo, i muri, come le frontiere,hanno generalmente la funzione di dividere gli uomini, diseparare i popoli, di proteggere dal diverso. Il Mur des jet’aime rappresenterà invece l’unione tra gli uomini, unluogo di riconciliazione, uno specchio che restituisceun’immagine di pace». 29

Il Vietnam Veterans Memorial a Washington DC

«In un altro racconto della stessaraccolta, la situazione sembra essereopposta: l’uomo è rimasto in piedi, il

Muro abbattuto, la città si chiamaBerlino, il secolo è lo stesso»

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Le migrazioni, semprepresenti nella storia del-l’umanità, caratterizzanocon dinamiche peculiaril’attuale fase storica diinternazionalizzazionedelle relazioni sociali se-guita al cadere del muro eal venir meno della con-trapposizione fra i bloc-chi. Le spinte verso laglobalizzazione si mani-festano fortissime perquanto riguarda i flussieconomici, commerciali e

finanziari, ma portano inevitabilmente con sé una cresci-ta dei movimenti di persone oltre frontiera. I flussi mi-gratori si pongono con pressione tale da superare le poli-tiche di contrasto degli stati di destinazione: ne segue,accanto alla migrazione legale, il manifestarsi di quellaillegale. Quest’ultima è un aspetto molto rilevante delle

migrazioni e pone problemi di indubbia gravità (ancheper il legame con fenomeni criminali come il contrab-bando e il traffico di persone), cui ci si riferisce con l’e-spressione “emergenze” di ordine pubblico, umanitarie esociali. Per fronteggiare queste emergenze si prospettanosempre più necessarie a livello nazionale, europeo e in-ternazionale, una appropriata disciplina dei flussi migra-tori, una politica di contenimento del contrabbando dimigranti, una attenta considerazione della situazioneumanitaria, spesso drammatica, in cui si trovano i mi-granti irregolari, anzitutto nel paese di origine e a seguirenei paesi di destinazione. L’attenzione per le migrazioninelle linee di ricerca dell’Università Roma Tre è continuae testimoniata, inter alia, dalla recente pubblicazione delvolume Flussi migratori e fruizione dei diritti fondamen-tali (Editrice il Sirente, Fagnano Alto, 2008), frutto diuna ricerca PRIN coordinata dal Dipartimento di dirittoeuropeo. L’Unione Europea (UE) torna a elaborare la sua volontàprogettuale in tema di immigrazione e asilo. Nel giugnodi quest’anno, la Commissione ha inviato una Comuni-

cazione al Parlamento europeo e al Consiglio titolataUno spazio di libertà, sicurezza e giustizia al serviziodei cittadini in vista di un nuovo programma quinquen-nale (di Stoccolma) che, «partendo dai progressi realiz-zati e traendo insegnamento dalle attuali carenze, siproietti nel futuro con ambizione». Tra le priorità indi-cate vi è quella di «promuovere una società più integrataper il cittadino – un’Europa della solidarietà». La priori-tà è definita «importante»: nei «prossimi anni occorreconsolidare e attuare effettivamente una politica di im-migrazione e di asilo che garantisca la solidarietà fra glistati membri e il partenariato con i paesi terzi, una poli-tica che offra uno status chiaro e comune agli immigratilegali. Bisognerà stabilire un nesso più forte fra immi-grazione ed esigenze del mercato del lavoro europeo esviluppare politiche mirate di integrazione e istruzione eoccorrerà utilizzare con maggiore efficacia gli strumentidisponibili per combattere l’immigrazione clandestina.La coerenza con l’azione esterna dell’Unione è un fatto-re cruciale ai fini della gestione di queste politiche. Èimportante che l’Unione confermi inoltre la sua tradizio-ne umanitaria offrendo generosamente protezione aquanti ne hanno bisogno». Insomma, il tema immigra-

30 Migranti e dirittiLa politica zoppa dell'Unione Europea

di Paolo Benvenuti

Paolo Benvenuti

Sbarco di clandestini

«Le spinte verso la globalizzazione simanifestano fortissime per quanto

riguarda i flussi economici,commerciali e finanziari, ma portano

inevitabilmente con sé una crescita deimovimenti di persone oltre frontiera»

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zione e asilo continua a essere aspetto essenziale dellariflessione sulle linee di politica legislativa dell’UE. Lacomunicazione della Commissione sui profili dell’immi-grazione e asilo è invero un follow up delle decisioni delConsiglio europeo di Parigi dell’ottobre 2008 che adottòil Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo propostodalla presidenza francese dell’UE. Pertanto, con la co-municazione di fine giugno la Commissione riprende ildiscorso per andare oltre quanto realizzato con il Pro-gramma dell’Aia (2004-2009) in vista del nuovo pro-gramma quinquennale nel settore della giustizia, dellalibertà e della sicurezza (Stoccolma 2010-2014). In ef-fetti, può osservarsi quale premessa che il tema dellemigrazioni è più obbligato di altri perché per l’interaEuropa queste possono essere considerate fenomeno“epocale”. Secondo i dati della Commissione, gli immi-grati da paesi terzi rappresentano il 3,8% della popola-zione dell’Unione (che ammonta a 493 milioni). In cia-scuno degli anni recenti si sono registrati nella UE tra1,5 e 2 milioni di arrivi netti. Il 1° gennaio 2006 sog-giornavano nella UE 18,5 milioni di cittadini di paesiterzi. Si è di fronte a una tendenza che non rallenterà,poiché restano fortissimi i divari di ricchezza e sviluppotra le regioni del mondo nell’attuale contesto; perchénon si risolvono, anzi spesso si aggravano drammatica-mente, i problemi di insicurezza in molti paesi di originedei migranti; poiché rimane il bisogno di protezione dichi è in fuga dal proprio paese per motivi di persecuzio-ne. D’altra parte, la Commissione mostra di avere chiarala sfida che la società europea ha di fronte sotto il profi-lo demografico e che impone scelte non rinviabili. Lapopolazione attiva europea, che ammontava a 235 milio-ni nel 2007, entro il 2060 diminuirà di almeno 50 milio-

ni se l’immigrazione netta prosegue a livelli simili aquelli storici, e diminuirebbe di circa 110 milioni in as-senza di immigrazione. È una situazione di invecchia-mento della popolazione che prefigura rischi di sistema:non soltanto per la sostenibilità dei costi sociali (pensio-ni e sanità), per la quale si impone una crescita conside-revole di spesa pubblica, ma altresì per la stessa gestio-ne di una società complessa che ha bisogno di una baseampia di popolazione attiva con qualifiche molto artico-late per il funzionamento della gamma di servizi e per la

crescita. Anche il Consiglio europeo ha riconosciuto chele migrazioni internazionali sono una realtà che persiste-rà finché resteranno i divari di ricchezza e di sviluppofra le diverse regioni del mondo e che l’ipotesi di immi-grazione zero appare non realistica e pericolosa. Si puòben dire, dunque, che è cruciale per le istituzioni del-l’UE concentrare l’azione sulle tematiche dell’immigra-zione e dell’asilo. Queste, con il Trattato di Amsterdam,sono oggetto di strumenti normativi di politica comuneche affrontano il problema nella sua dimensione internaed esterna. Un tema estremamente complesso, nel qualel’interesse economico degli stati europei per le migra-zioni si interfaccia con altre questioni: il rispetto dei di-ritti fondamentali della persona, la necessità di predi-sporre processi di integrazione sociale, il problema dellasicurezza, le relazioni con i paesi di origine dei migran-ti, nonché la necessità di contrastare l’immigrazioneclandestina e i fenomeni criminali a questa connessi. Ma quali sono i caratteri della politica europea comunedell’immigrazione, settore di competenza concorrentenel quale però il carattere transfrontaliero del fenomenonon solo impone un approccio coordinato degli statimembri, ma dovrebbe privilegiare il ruolo della Comu-nità nel funzionamento del principio di sussidiarietà?La politica europea è caratterizzata da una accentuataasimmetria della evoluzione della disciplina della mi-grazione legale e di quella illegale. La realizzazionedella politica in materia di immigrazione legale è rima-sta lacunosa, frammentaria (la normativa europea è fo-calizzata sui diritti di cittadini di stati terzi residenti dilungo periodo, sull’ingresso e soggiorno di cittadini distati terzi per motivi di studio e di ricerca scientifica, eancora sul diritto al ricongiungimento familiare da mol-ti ritenuto poco soddisfacente per l’ampia possibilità diricorso a clausole derogatorie concessa agli stati). Va ri-levato che non è stato possibile definire una disciplinacomune dei presupposti e requisiti per l’ammissione deilavoratori di paesi terzi (e la cessazione del soggiorno, 31

«I flussi migratori si pongono conpressione tale da superare le politichedi contrasto degli stati di destinazione:

ne segue, accanto alla migrazionelegale, quella illegale. Quest’ultima è

un aspetto molto rilevante dellemigrazioni e pone problemi di

indubbia gravità»

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tramite ritorno volontario o allontanamento), nonostan-te il riconoscimento di una emergenza demografica edeconomica. Insomma, la politica europea in materia diimmigrazione legale appare frammentata, in ritardo. Glistati membri si sono mostrati restii a limitare la propria

competenza sulla regolamentazione relativa alla originee alla decadenza del titolo di immigrato legale. Quantopoi alla politica di integrazione degli stranieri, che deveaccompagnarsi a qualsiasi politica di immigrazione, si è

applicato finora il metodo del “coordinamento aperto”.Si tratta di un approccio pragmatico che esclude l’ar-monizzazione legislativa e che si vorrebbe rafforzatopoliticamente dall’affermazione di principi comuni pro-clamati dal Consiglio e posti dalla Commissione a basedel Programma per l’integrazione: ma il carattere solen-ne dei principi non rimedia al loro scarso valore co-stringente. Insomma, occorre prendere atto dell’assenzadi equilibrio fra le competenze esercitate dagli statimembri e quelle dell’Unione. Si assiste a una prevalen-za di una ottica particolaristica in virtù della quale lamigrazione legale è vista come interesse anzitutto dellapolitica nazionale per la quale i governi debbono ri-spondere alle sole comunità rispettive, quando invecegli elementi obiettivi evidenziano il bisogno di andareoltre le politiche nazionali, in favore di un quadro euro-peo nel quale i livelli nazionale e comunitario si svilup-pino coerentemente. La situazione appare diversa per l’immigrazione illega-le, dove si è formata una strumentazione comunitaria

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Come un uomo sulla terraÈ un documentario di Andrea Segre, Riccardo Biadene e DagmawiYimer. Dagmawi, studente di Giurisprudenza ad Addis Abeba, in Etiopia, acausa della forte repressione politica nel proprio paese ha deciso diemigrare. Nell’inverno 2005 ha attraversato via terra il deserto traSudan e Libia dove si è imbattuto in una serie di disavventure lega-te non solo alle violenze dei contrabbandieri che gestiscono il viag-gio verso il Mediterraneo, ma anche e soprattutto alle sopraffazionie alle violenze subite dalla polizia libica, responsabile di indiscrimi-nati arresti e deportazioni. Sopravvissuto alla trappola libica, Dag èriuscito ad arrivare via mare in Italia, a Roma, dove ha iniziato afrequentare la scuola di italiano Asinitas Onlus punto di incontro dimolti immigrati africani. Qui ha imparato non solo l’italiano ma an-che il linguaggio del video-documentario. Così ha deciso di racco-gliere le memorie di suoi coetanei sul terribile viaggio attraverso laLibia, e di provare a rompere l’incomprensibile silenzio su quantosta succedendo nel paese del Colonnello Gheddafi.

Come un uomo sulla terra ha ricevuto numerosi premi e menzioni ed è statoproiettato anche a Roma Tre, lo scorso giugno, a cura dell’Osservatorio sullacittadinanza e di CLIC (Corsi e laboratori interculturali per la cittadinanza)

Immagini tratte dal documentario Come un uomo sulla terra di Riccardo Biadene, Andrea Segre e Dagmawi Ymer

«L’Unione Europea torna a elaborarela sua volontà progettuale in tema diimmigrazione e asilo. Tra le prioritàindicate vi è quella di “promuovere

una società più integrata per ilcittadino – un’Europa della

solidarietà”»

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numerosa e incisiva: è prevalsa la percezione della ina-deguatezza dei mezzi nazionali di contrasto e della op-portunità di affidarsi invece al livello comunitario di ge-stione. Si tratta di un insieme di normative che hannodato vita anche a strumenti operativi, che si articolanonel controllo alle frontiere, nella lotta all’immigrazioneclandestina, nel rimpatrio. Si va dalle direttive relativealle sanzioni finanziarie per i vettori che trasportano cit-tadini stranieri privi della documentazione necessariaper l’ingresso nel territorio di stati membri e all’obbligodei vettori di comunicare i dati relativi alle persone tra-sportate, alla direttiva sul mutuo riconoscimento delledecisioni di espulsione. Si ricordi la decisione sulle mo-dalità dei voli congiunti per l'allontanamento dei cittadi-ni di paesi terzi illegalmente presenti nel territorio didue o più stati membri, nonché la direttiva sulle proce-dure di mutua assistenza tra gli stati dell’Unione per leespulsioni via aerea. Si aggiunga la decisione che istitui-sce il Fondo europeo per i rimpatri nel periodo 2008-2013. Nel 2008 è stata adottata la direttiva 115/CE sullenorme e procedure comuni applicabili negli stati mem-bri al rimpatrio di cittadini di stati terzi soggiornanti il-legalmente (da attuare entro il 24 dicembre 2010). Sitratta di una regolamentazione che interviene su un pun-to debole del sistema (attualmente, in media, un soloprovvedimento di allontanamento su tre trova esecuzio-ne). Essa, peraltro, non provvede alla armonizzazionedegli aspetti sostanziali della decadenza di un immigratodal soggiorno regolare (che restano di competenza es-senzialmente statale). Essa limita il proprio campo diapplicazione alla armonizzazione delle procedure di ces-sazione della presenza dell’immigrato nel territorio(rimpatrio volontario o accompagnamento alla frontiera)quali che siano i motivi della irregolarità della sua pre-senza sul territorio di uno stato membro, al fine presso-ché esclusivo di migliorare l’efficacia del procedimentoespulsivo. Questa direttiva, pervasa da un’ottica securi-taria con un rilievo puramente marginale assegnato aidiritti dei migranti (retrocessi a standard da tenere «nel-la debita considerazione») rappresenta anche l’esordionon esaltante del Parlamento europeo come codecisorenel campo dell’immigrazione irregolare. Su altro piano,quello del favoreggiamento dell’ingresso, del transito edel soggiorno illegali, opera la decisione relativa al raf-forzamento del quadro penale per la repressione del fa-voreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggior-no illegali, nonché la direttiva che impone l’introduzio-ne di sanzioni negli ordinamenti nazionali. A queste mi-sure si accompagna la possibilità per le vittime di otte-nere un permesso di soggiorno in virtù della direttiva ri-guardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadinidi paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coin-volti nel favoreggiamento dell’immigrazione illegale checooperino con le autorità competenti. Rispetto allo svi-luppo di questa disciplina della UE di contrasto alla im-migrazione illegale appare contraddittorio il ritardo nel-l’elaborazione di una normativa di contrasto al lavoroclandestino, elemento di forte attrazione della immigra-zione illegale stessa: è ancora a livello di discussioneuna proposta di direttiva che preveda sia le fattispecie di

reato, sia le sanzioni idonee a contrastare i comporta-menti dei datori di lavoro che utilizzino migranti irrego-lari. Il contrasto alla immigrazione irregolare si realizzapoi attraverso il controllo alle frontiere, che, peraltro, èfunzionale anche al corretto svolgimento della immigra-zione regolare. Qui viene in considerazione il Codice comunitario relati-vo al regime giuridico di attraversamento delle frontiere(Codice frontiere Schengen): esso contiene una regola-mentazione dettagliata volta a disciplinare verifiche ap-profondite da realizzarsi al momento dell’ingresso di cit-tadini di stati terzi ai valichi di frontiera. Soprattutto inquesto settore gli stati membri vanno rafforzando una co-operazione anche di tipo operativo, tramite forme di ge-stione comune. L’Agenzia Frontex ha favorito la coope-razione pratica tra gli stati membri e ha conferito una ac-centuata dimensione operativa al controllo alle frontiereesterne dell’UE. Il suo ruolo sta ulteriormente crescendonella gestione delle frontiere esterne e nel coordinamentodelle iniziative degli stati membri volte a ridurre i flussimigratori illegali. In questo contesto di contrasto alla im-migrazione irregolare acquista poi importanza il sistema

Schengen di seconda generazione: si prevede che una se-gnalazione sia inserita nel sistema quando fondata su unaminaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionaleche può essere rappresentata dalla presenza di un cittadi-no di un paese terzo nel territorio di uno stato membro.Una segnalazione può inoltre essere inserita quando ladecisione è fondata su una misura di allontanamento daparte di uno stato membro, così da impedire poi il suoreingresso attraverso le frontiere di un diverso stato co-munitario. In conclusione, può ben dirsi che l’impegno della UE inmateria di migrazioni si è concentrato soprattutto sul-l’immigrazione irregolare, con particolare riguardo alsuo contrasto, mentre la politica comune in materia dimigrazione regolare è rimasta carente. Necessitano se-gnali concreti di un riequilibrio che si accompagninoalle dichiarazioni di intenti. Ma finora la sola prospetti-va sul tavolo è di portare a compimento la direttiva sul-l’ingresso dei lavoratori altamente qualificati (titolaridella c.d. carta blu) nella logica di usufruire solo deivantaggi delle migrazioni. Non sembra che su questapremessa l’Europa sia in grado di gestire una politicalungimirante delle migrazioni, ma saranno piuttostoqueste a imporsi all’Europa con la forza sregolata dicerti fenomeni epocali, con tutte le criticità e sofferenzeacuite dall’assenza di ciò che nel linguaggio alla modasi chiama governance. 33

«Nei prossimi anni occorre consolidaree attuare effettivamente una politica diimmigrazione e di asilo che garantiscala solidarietà fra gli stati membri e il

partenariato con i paesi terzi, unapolitica che offra uno status chiaro e

comune agli immigrati legali»

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La Persia e il suo impero,uno dei più potenti di sem-pre. Un impero che riuscìper la prima volta nellastoria a racchiudere sottoun’unica guida popoli di-versi e lontani fra loro.Proprio lì, già nel VI sec.a.C. si parlava di dirittiumani: a tutti i popoli delterritorio sarebbe stata da-ta la possibilità di praticarela propria religione, tuttiavrebbero avuto gli stessi

diritti e le donne sarebbero state poste sullo stesso gradinosociale occupato dagli uomini. Si dice che la storia tenda aripetersi, ma forse questo non sembra essere il caso diquella regione del mondo che da metà Novecento vienechiamata Iran. Il destino è bizzarro e incontrollabile.Oggi, sfogliando giornali e riviste o seguendo un telegior-nale, si sente sempre più spesso parlare di Asse del Male:un gruppo di paesi in forte polemica col modello occiden-tale. Questa etichetta spregiativa racchiude un insieme dipaesi (Libia, Siria, Venezuela, Corea del Nord, Cuba, Bir-mania, Sudan, Bielorussia) e in testa all’elenco vi è quelloche più di altri negli ultimi mesi è apparso distante dal no-stro concetto di società civile: l’Iran appunto. Da sempre nello studiare culture diverse e lontane dalla no-stra, si è spesso caduti in una visione occidente-centrica. Inpoche parole, si è voluto osservare “gli altri” per arrivarealla conclusione che “noi” siamo migliori e soprattutto de-tentori di un sistema e di un modello culturale assoluta-mente avanzato rispetto al resto del mondo. È anche verod’altro canto, che risulta molto difficile avere una posizioneneutrale soprattutto quando i due termini di confronto sonoconcetti complessi, multiformi e variegati, oltre che in co-stante mutamento, come quelli di Occidente e Oriente.Per questo nessuno meglio di una persona nata in Orientee poi trasferitasi in Occidente (o viceversa)ci può venire in aiuto. È questo ad esem-pio il caso di Azadeh Moaveni, una gior-nalista americana cresciuta però in Iranche attualmente collabora con importantitestate giornalistiche come il Time o ilNew York Times.Nel suo ultimo libro Viaggio di nozze a Te-heran la giornalista (coautrice fra l’altrocon Shirin Ebadi de Il mio Iran) raccontadel ritorno nel suo paese proprio a ridossodelle elezioni del 2005 che vedranno la vit-toria inaspettata di Mahmud Ahmadinejad,un personaggio a metà strada tra un dittato-re e una rock star nazionale, un uomo chesecondo molti commentatori non avrebbealcuna dote particolare ma che balzando in

primo piano sulla scena mondiale, lascia le proprie impron-te dove non dovrebbe o non servirebbe proprio.Nel 2001 Mohammad Khatami venne eletto presidente del-l’Iran per la terza volta proponendosi ancora come il candi-dato più riformista tra tutti e raccogliendo così quasi l’80%dei voti. Basava la sua politica su idee concrete come il dia-logo con gli Stati Uniti, un governo democratico e riformesociali e culturali, tra le quali una maggiore apertura neiconfronti delle donne, che finalmente intravedevano la pos-sibilità di vedere riconosciuta la parità dei diritti e il pienoaccesso alla sfera pubblica. Questo, agli occhi di tutti, signi-ficava che l’Iran voleva finalmente una società aperta.Cosa è successo di così profondo da far cambiare tanto re-pentinamente le scelte politiche di un popolo? La stessaMoaveni non sa darsi una spiegazione logica, ma intervi-stando amici e parenti arriva a capire che i cittadini nonvedono più il bene comune come un obiettivo da raggiun-gere e fortificare; ognuno pensa e agisce solo in funzionedelle proprie aspettative personali. L’idolo non è più CheGuevara ma Bill Gates o Steve Jobs (a seconda che siateutenti Windows o Mac). Così, quando le parole iniziano aessere vuote di senso, è poi molto difficile dargli di nuovocolore e se sfortunatamente in giro c’è una persona cari-smatica che sa come attrarre a sé il popolo, tutto ciò che dipositivo hanno prodotto i tempi più recenti si sgretola ecrolla come un castello di sabbia colpito da un’onda.Da quando gli Stati Uniti hanno attaccato i talebani in Af-ghanistan e Saddam Hussein in Iraq, l’influenza di Teherannella regione è emersa con molta velocità. Ora Ahmadine-jad, per attirare su di sé i riflettori internazionali in un mo-mento molto delicato per l’Iran, punta il dito contro l’Occi-dente dipingendolo come un nemico disposto a tutto pur diindebolire il suo paese. La congiuntura internazionale, un ra-dicato nazionalismo e l’economia in crisi, portano il popoloiraniano a vedere nel nucleare un grande motivo di orgoglio.L’ultimo anno è stato caratterizzato dall’intensificarsi del-la repressione nei confronti di tutti coloro, in primis stu-denti e giornalisti, sono accusati di complottare contro il

regime di Teheran. Improvvisamente gentecomune, come la stessa Moaveni, si ritrovaa essere vulnerabile alle vessazioni. Un caso su tutti è quello del giornale indi-pendente Shargh, bandito e poi riabilitatovarie volte proprio perchè accusato di esse-re troppo riformista e perciò contrario algoverno. Shargh riprende vita nel marzo del2007 ma dallo scorso aprile il Consiglio peril controllo della stampa ne ha ordinato ladefinitiva chiusura oscurando anche i sitiweb dai quali era possibile avere informa-zioni in merito. Oggi più che mai infatti in-ternet è uno strumento potente e straordina-riamente efficace, anche nell’organizzazio-ne del dissenso. Ed è più facile sottomettereun popolo disinformato e analfabeta.

34 Iran in transitoFra fondamentalismo e innovazione: la storia di un ritorno a Teheran

di Camilla Spinelli

Camilla Spinelli

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Numerose barriere nella società di oggi possono separarel’individuo dal suo diritto di vivere al meglio la realtà chelo circonda: barriere fisiche ma anche barriere sociali,spesso psicologiche, forse ancor più difficili da abbattere.Oltre queste barriere, tuttavia, si nascondono vissuti quoti-diani che spesso muri apparentemente invalicabili impedi-scono di vedere. E si può rimanere stupiti nel rendersiconto di come la diversità sia parte della realtà e di quantoabbia strumenti e modalità di comunicazione tali da voler-si a pieno integrare nel contesto cui appartiene.Andando oltre i consueti canali di comunicazione, si puòcosì auspicare un reale superamento delle barriere: assu-mendo una necessaria posizione di ascolto, ci si può avva-lere della comunicazione non solo per la trasmissione diinformazioni ma anche e soprattutto per la condivisione dinuovi scenari e della loro, personale, forza espressiva. Co-loro che, ad esempio, non percepiscono la voce di una per-sona sorda, non sono in grado di andare oltre il muro delsilenzio e di scorgere nei gesti il suono delle parole: oltreil muro, c’è una capacità espressiva con una sua storia,con i suoi significati e le sue regole. Non conosciuta datutti forse, ma presente e vissuta da molti.Le persone nate sorde, o diventate tali nei primi anni di vita,non possono acquisire naturalmente la lingua parlata ma,sfruttando il senso integro della vista, hanno spontaneamen-

te adottato un canale di comunicazione alternativo: il lin-guaggio dei segni. «Le persone sorde, inserite nella comuni-tà udente, non sono mute per difetti all’apparato fono-arti-colatorio, che permette la produzione dei suoni di una lin-gua parlata, ma perché, non essendo integro il loro sensodell’udito, non hanno la percezione dei suoni vocali: non ri-cevono dunque alcuno stimolo a riprodurre questi suoni, senon rieducati appositamente».La Lingua dei segni nasce dall’esigenza di comunicare epresenta perciò tutte le caratteristiche di una vera e proprialingua: ha una propria articolazione, una sintassi, una gram-matica. Non possiede un codice universale: ad ogni paesecorrisponde una lingua differente, ha cioè delle caratteristi-che proprie a seconda della cultura in cui viene impiegata.Si distingue dai gesti, arbitrari, che normalmente si utilizza-no nelle conversazioni e non deve intendersi come codice

manuale attraverso il quale si traducono informazioni con-crete di una lingua parlata. Avvalersi di immagini visive rea-lizzate con le mani non riduce le realtà che si voglionoesprimere. Se la lingua parlata è fatta di suoni, la Lingua deisegni è fatta di immagini. In entrambi i casi chi si esprimeha propri pensieri e sentimenti e quindi una propria modali-tà di condivisione della realtà: nel primo caso attraverso ilsenso dell’udito, nel secondo attraverso il senso della vista.L’espressione facciale, il movimento dello sguardo e dellatesta, sono la grammatica; attraverso le forme e i movimentidelle mani si comunicano idee complesse, astratte, si parladi filosofia, di politica, di sport, della vita etc. Si può tra-smettere l’ironia, la sofferenza, l’umorismo, il sarcasmo. Eogni cambiamento della società, tecnologico o culturale, in-troduce nuovi vocaboli, come accade per le altre lingue. La sordità è tuttavia una disabilità nascosta agli occhi dimolti perché non si vede. La si riconosce nel momento incui si deve comunicare: ciò comporta delle implicazionisociali poiché gli udenti spesso non manifestano disponi-bilità e attenzione verso le persone sorde, al contrario,prendono le distanze. La comunicazione con i sordi, inve-ce, deve rispettare delle regole necessarie all’interazione,come ad esempio tenere la testa ferma quando si parla o ilviso illuminato, usare un tono di voce normale, frasi corte,semplici e complete. Accostarsi alla sordità comporta lascoperta di una cultura con delle regole ben precise. Nell’era tecnologica in cui viviamo gli strumenti disponi-bili per agevolare la comunicazione tra sordi e tra sordi eudenti sono certamente un ausilio di notevole importanza.Le nuove tecnologie, attraverso il canale visivo, favorisco-no la comunicazione e lo sviluppo cognitivo, contribuendo

Oltre i muri del silenzioLa Lingua dei segni, la grammatica dell’espressione corporea

di Maria Cristina Gaetano

«Le persone nate sorde, o diventatetali nei primi anni di vita, non possono

acquisire naturalmente la linguaparlata ma, sfruttando il senso integro

della vista, hanno spontaneamenteadottato un canale di comunicazionealternativo: il linguaggio dei segni»

L’alfabeto della Lingua dei segni italiana

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così a incrementare l’in-terscambio comunicativoanche tra comunità disordi e comunità di uden-ti. Viceversa insegnare aun sordo, privo di memo-ria uditiva, la lingua ita-liana, ad esempio, com-porta l’insegnamentoesplicito di ogni regolagrammaticale e ciò nontoglie che errori legati al-le difficoltà di apprendi-mento potranno essere ri-correnti. L’educazionedei bambini sordi in Italiapuò avvenire secondo trediverse modalità: il meto-do oralista, che non utilizza alcun segno ma si basa solosulla rieducazione al linguaggio verbale; il metodo bimo-dale, con cui si insegna la lingua italiana facendo corri-

spondere alla parola il segno e infine, l’educazione bilin-gue, in cui si usa sia la lingua vocale che quella dei segni.Si può dire quindi, nel rispetto delle persone sorde che nonsi identificano in questa modalità di comunicazione, che laLingua dei segni non è la lingua dei sordi ma la lingua diquelle persone sorde che vogliono utilizzarla. Le riflessioniqui riportate si propongono, infatti, di descrivere l’uso dellaLingua dei segni come strumento complementare alle poli-tiche finalizzate a valorizzare tutti gli strumenti possibili dieducazione che permettano il raggiungimento della comu-nicazione verbale. Partendo dal riconoscimento della Lin-gua dei segni come una vera e propria lingua, e quindi co-me elemento di comunicazione, si vuole giungere alla con-siderazione che questa sia non uno strumento di separazio-ne bensì di integrazione. A sostegno di questa riflessione èdoveroso far riferimento alla recente Convenzione ONUper i Diritti delle persone con disabilità (New York, 13 di-cembre 2006) ratificata dal Parlamento italiano nel feb-braio scorso (Legge 3 marzo 2009, n. 18). «Una data stori-ca per la promozione di una nuova cultura sulle condizionidelle persone con disabilità e delle loro famiglie».Già nel 1997, il trattato di Amsterdam, adottato dal Consiglioeuropeo e ratificato da tutti gli stati membri, tra i vari temitrattati, faceva riferimento ai provvedimenti opportuni daprendere per «combattere le discriminazioni fondate sul ses-so, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzionipersonali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali» costi-tuendo in generale un documento importante per la politicadelle pari opportunità. È la Convenzione tuttavia a segnare unreale superamento dei confini materiali con il peso di una ve-

ra e propria fonte di dirittointernazionale in materiadi disabilità, vincolanteper i paesi che la ratificanoe la integrano nel proprioordinamento giuridico. LaConvenzione, rafforzandoi principi di integrazione edi piena partecipazionedelle persone alla vita col-lettiva e ribadendo l’atteg-giamento contro ogni dis-criminazione, dà alle per-sone con disabilità stes-si diritti e stesse opportu-nità in tutto il mondo. Faespressamente riferimentoalla Lingua dei segni come

forma di linguaggio insieme alle lingue parlate e alle altreforme di espressione non verbali; cita gli interpreti della Lin-gua dei segni tra gli ausili necessari all’accessibilità; ricono-sce il ricorso all’uso della Lingua dei segni, così come «alBraille, alle comunicazioni aumentative e alternative e adogni altro mezzo, modalità e sistema accessibile di comuni-cazione» scelto da una persona con disabilità, per l’eserciziodel diritto alla libertà di espressione, di opinione e di accessoall’informazione. Indica espressamente che l’uso della Lin-gua dei segni deve essere riconosciuto e promosso, così comedevono essere agevolati l’apprendimento e la promozionedell’identità linguistica della comunità dei sordi: il diritto alriconoscimento della propria identità culturale, deve essereun diritto anche per la comunità dei sordi. Al tempo stesso, laConvenzione si rivolge alla società chiamata a sostenere undiverso atteggiamento, necessario per il raggiungimento diuna piena uguaglianza. Un cambiamento della società in talsenso è infatti indispensabile affinché anche negli aspetti del-

la vita quotidiana si realizzino concretamente i diritti dellepersone con disabilità. Con la Convenzione sui diritti dellepersone con disabilità, definita dall’allora segretario generaledelle Nazioni Unite Kofi Annan una tappa storica, si tenta perla prima volta di eliminare radicalmente qualunque forma didiscriminazione culturale. Se da un lato la Convenzione vuo-le stabilire regole certe e universali per promuovere e assicu-rare in modo pieno e paritario i diritti umani e le libertà fon-damentali delle persone con disabilità, dall’altro si propone«in modo forse più innovativo, il riconoscimento di una ne-cessaria azione educativa verso l’intera società», così da con-trastare ogni forma di discriminazione, spesso dovuta all’i-gnoranza di quanto la diversità sia una risorsa.

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«La Lingua dei segni nascedall’esigenza di comunicare e presenta

perciò tutte le caratteristiche di unavera e propria lingua: ha una propria

articolazione, una sintassi, unagrammatica»

«La sordità è una disabilità nascostaagli occhi di molti perché non si vede.La si riconosce nel momento in cui sideve comunicare e gli udenti spesso

non manifestano disponibilità eattenzione verso le persone sorde, al

contrario, prendono le distanze»

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In tutta Italia i fatti degliultimi mesi hanno fatto ri-affiorare un problema mairisolto: l’omofobia. Lemolotov contro locali fre-quentati da gay, le aggres-sioni per strada, l’intolle-ranza nei posti di lavoro,la partecipazione talvoltasolo formale delle istitu-zioni, stanno ricreando unclima da caccia alle stre-ghe. Non sarebbe sbaglia-

to dare anche una connotazione politica a questi eventi,ma fare solo questo potrebbe essere alquanto riduttivo inquanto lascerebbe l’analisi ad un livello superficiale. Seinvece tentassimo un approccio più articolato potremmoindividuare alcuni elementi assai interessanti.Quando parliamo di intolleranza non violenta una dellefrasi più comuni è «io non sono contro i gay, però…».Dietro quel “però” si cela la fobia che potrebbe esseretranquillamente la rimozione di un’idea, di un desiderio odi un impulso culturalmente inaccettabile.Una ricerca effettuata alcuni anni fa e pubblicata dal Journalof Abnormal Psychology e dalla American Psychological As-sociation provava che l’omofobia non è tanto la paura del-l’omosessuale quanto piuttosto quella di essere consideratotale. Nell’ambito della ricerca venne osservato il comporta-mento di un campione costituito da 64 uomini, di cui 35omofobi; a tutti loro furono mostrati video erotici con diffe-renti indirizzi. Si notò che mentre durante la visione di fil-mati eterosessuali le reazioni si somigliavano, la differenzatra i due gruppi diventava notevole durante la visione di vi-

deo per omosessuali: circa il 60% degli omofobi ne risultavaeccitato.Alcuni studiosi tendono a distinguere l’omofobia intesa co-me paura tout court e l’omofobia come esasperazione delsessismo (di cui la cronaca rintraccia vari episodi nei luoghidi lavoro, a scuola, nei locali di divertimento, talvolta conesiti violenti). Capita anche, però, che la linea tra queste dueposizioni si assottigli incredibilmente soprattutto quando alcentro del dibattito c’è il rapporto eterosessuale. In questocaso l’intolleranza è decisamente più sfumata e cosa peg-giore sembrerebbe socialmente accettata come naturale de-rivazione del clichè uomo attivo-donna passiva. Più difficilestabilire i ruoli in una coppia omosessuale. Subentra facil-mente il pregiudizio quando ci si misura con ciò che non siconosce, quasi una condizionata/naturale necessità di defi-nire i contorni per mettere a fuoco l’immagine; di qui il ruo-lo fondamentale svolto dall’immaginario collettivo che pro-duce comportamenti socialmente accettabili. Quando i ruolistandardizzati saltano ci si ritrova immersi in una confusio-ne che trattandosi di sesso non può che avere derive pseudo-morali che trovano nella paura il maggiore travestimento. Ele paure svolgono all’interno della società un ruolo fonda-mentale in quanto permettono di esercitare facilmente il po-tere e altrettanto facilmente e direi docilmente lo si accetta:con la scusa della sicurezza si portano gli eserciti nelle no-stre strade, con la scusa della difesa della famiglia si ignora-no i diritti di milioni di persone che vivono nel nostro paese.Capita così che una legge sull’omofobia venga bocciataalla Camera, dopo mesi di lavori, manifestazioni e violen-ze, purtroppo violenze. E a pagare il prezzo della boccia-tura sono, qui come altrove, le parti offese di una societàche paradossalmente vede spostare sempre più in avanti ilriconoscimento dei diritti umani.

Hate crimesIl travestimento della violenza

di Indra Galbo

L’omofobia diventa un hate crime negli Stati Uniti«After more than a decade of opposition and delay, we’ve passed inclusive ha-te crimes legislation to help protect our citizens from violence based on whatthey look like, who they love, how they pray or who they are», Barack Obama.«This is just the first step. We have a lot to do that’s left. We need to be gratefulfor this and move on. I just can’t even tell you how great it feels», Judy Shepard.«The next great civil rights bill», Attorney General Eric Holder.

Dall’ottobre scorso negli Stati Uniti l’omofobia è un hate crime. È stato final-mente approvato infatti il Matthew Shepard Act, che inserisce le violenze peromofobia e transfobia tra i cosiddetti crimini d’odio, puniti con una severalegge federale varata nel 1968 per i crimini provocati dall’odio razziale in se-guito all’omicidio di Martin Luther King.La legge porta il nome di Matthew Shepard, uno studente del Wyoming as-sassinato 11 anni fa perché omosessuale. Da dieci anni i sostenitori della legge, tra i quali Ted Kennedy, si battevano per allargare la definizione di hate crime,finora prevista per i crimini causati dalla razza, il colore della pelle, la religione o la provenienza nazionale della vitti-ma, ai crimini causati dal genere e dall’orientamento sessuale. In questi anni la misura era stata sempre bloccata alSenato e George Bush aveva minacciato di porre il veto se avesse raggiunto il suo tavolo per la firma. Il presidenteBarack Obama ha siglato il testo del Matthew Shepard Act il 28 ottobre scorso.

Barack Obama con Judy Shepard ilgiorno dell’approvazione del MetthewShepard Act

Indra Galbo

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Prof. Galimberti, lei è stato quest’anno uno degli ospitidel Festival della Filosofia a Modena. Il tema scelto dagli organizzatori in questa edizione èla “comunità”, una dimensione che oggi appare al-quanto difficile da poter definire e anche da sperimen-tare. In una fase storica in cui le identità collettive (eforse le identità tout court) appaiono in crisi, si radica-lizzano o si dissolvono, di cosa si parla quando si parladi comunità?Quando si parla di comunità si parla più o meno dellescelte dell’uomo dal momento che, dal tempo di Aristote-le, l’uomo viene qualificato come animale sociale. Oggiquesta dimensione sociale, che significa “in relazione al-l’altro”, è venuta radicalmente meno nel senso che ciascu-no ha sviluppato la dimensione individualistica e il mo-mento relazionale ne soffre un po’. In questo io vedo una

specie di cascame di un’idea fondamentalmente cristiana,perché il concetto di individuo e il primato dell’individuol’ha introdotto il cristianesimo. Prima c’era il primato del-la città. E gli individui erano giusti se si “aggiustavano”nell’armonia della città. Il cristianesimo ha messo in circo-lazione il concetto di anima e il primato dell’individuo haconferito allo stato semplicemente il compito di scioglieregli inconvenienti che impediscono o ostacolano la salvez-za dell’anima, che è individuale. Il risultato finale di que-

sto processo è che ciascuno pensa a se stesso, appartatonel suo appartamento. E tutti i legami di solidarietà sonovenuti meno.Negli anni Sessanta il futuro era una promessa. Poi di-venne, forse, una scelta di campo. C’erano cause chesembrava valesse la pena di abbracciare e non pensosolo alle ideologie politiche ma anche a movimenti co-me il femminismo, l’ecologismo, il pacifismo… I ven-tenni di oggi sembrano poco interessati a simili batta-glie e appaiono, tutto sommato, molto più conformisti.Cresciuti senza l’ombra dei muri ideologici sembranotuttavia, come e forse più di ieri, intrappolati da altri“muri” che sono l’incapacità di empatia e di comunica-zione. Può essere questa una chiave di lettura del suolibro sul nichilismo e i giovani?Fondamentalmente ai giovani è stato rubato il futuro. Ilfuturo ora non si presenta più come una promessa ma co-me una minaccia o per lo meno si presenta come impre-vedibile e scarsamente codificabile. Che cosa succede aquesto punto? Che i giovani non possono nemmeno piùfare la rivoluzione mentre nel ’68 hanno fatto la rivolu-zione delle persone che stavano molto meglio di loro, ilcui futuro era sostanzialmente garantito. Ma perché que-sto? Perché siamo entrati pesantemente nell’epoca dellarazionalità tecnica, la quale ha disciolto il conflitto dellevolontà. Le rivoluzioni, i cambiamenti estremi avvengo-no per conflitti di volontà, mentre ora queste volontà nonsono più in conflitto ma sono tutte e due dalla stessa par-te avendo come controparte la razionalità del mercato. Eallora con chi te la prendi? Perché il mercato è nessuno,è invisibile: sono operazioni finanziarie, sono sistemi in-controllabili. E infatti interrogando i giovani su comemai accettano lavori precari, di pochi mesi, ti rispondo-no: “perché altrimenti cosa faccio?”. Ecco questa è l’ac-quisita impossibilità di reagire perché non c’è una volon-

inco

ntri

38 La generazione post ideologicaIntervista al filosofo Umberto Galimberti

di Federica Martellini

Umberto Galimberti è filosofo e psicoanalista, professore ordinario di Filosofiadella storia e di Psicologia dinamica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.Dal 1985 è membro ordinario dell’International association for analyticalpsychology. Dal 1987 al 1995 ha collaborato con Il Sole 24 ore e con il quotidiano La Repub-blica, sia con editoriali su temi d’attualità sia con approfondimenti di carattereculturale.Traduttore e divulgatore in Italia dell’opera di Karl Jaspers, è autore di una vastaproduzione saggistica. Fra le sue opere principali ricordiamo: Psichiatria e Feno-menologia, Milano, Feltrinelli, 1979; Il corpo, Milano, Feltrinelli, 1983; La terrasenza il male. Jung dall’inconscio al simbolo, Milano, Feltrinelli, 1984; Gli equi-voci dell'anima, Milano, Feltrinelli, 1987; Psiche e techne. L’uomo nell’età dellatecnica, Milano, Feltrinelli, 1999, L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani,Milano, Feltrinelli, 2007.

«Ai giovani è stato rubato il futuro. Ilfuturo ora non si presenta più come

una promessa ma come una minaccia oper lo meno si presenta comeimprevedibile e scarsamente

codificabile»

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tà contro cui muoversi. E questi sono gli effetti dell’esse-re entrati nell’età della tecnica, che è l’età della raziona-lità strumentale, raggiungere il massimo risultato con ilminimo impiego di mezzi.Lei scrive: «sono crollate le pareti che consentono didistinguere l’interiorità dall’esteriorità, la parte “dis-creta”, “singolare”, “privata”, “intima” dalla sua espo-sizione e pubblicizzazione». Oggi in fenomeni come ireality ma non solo – penso anche ad esempio a molteforme di autorappresentazione come alcuni tipi di vi-deo su youtube o a quella sorta di diario post-modernoche sono alcuni blog di giovanissimi – il senso del pu-dore sembra spostarsi di volta in volta un po’ più in là.È caduto un altro muro o si tratta di un altro fenomenoancora?

Oggi si è sviluppata una sorta di modalità televisiva dovesostanzialmente si “insegnano” i sentimenti. Si insegnacome si ama, come si odia, come si reagisce. Si parla avolte di pensiero unico, ecco qui si costruisce una sortadi sentimento unico, un’omologazione dei sentimenti at-traverso cui ciascuno espone pubblicamente tutta la suaintimità. E questa dimensione, che a mio parere è spudo-ratezza, viene scambiata per sincerità, quindi come unavirtù. Ma non è virtuoso privarsi della propria interiorità,della propria intimità. È semplicemente spudorato perchéil pudore è per lo meno la tutela di ciò che è propriamen-te mio, di ciò che è intimo, di ciò che è interiore e unavolta che la mia interiorità è sotto gli occhi di tutti, io so-no come tutti.Oggi che la piazza è fuori moda, la scuola è in crisi,molte delle reti sociali di un tempo sembrano aver per-so di significato, che tipo di spazio è quello dei socialnetwork? Che ruolo ha? È un ammortizzatore o unmoltiplicatore di quella che lei ha definito una solitudi-ne di massa? La comunicazione per via informatica è radicalmente dif-ferente dalla comunicazione vis a vis. In fondo tutte le co-se che non abbiamo il coraggio di dire in faccia le scrivia-mo tramite messaggini telefonici. È una forma di mancan-za di coraggio, una comunicazione coperta, secretata, dovequello che dico lo posso negare e in ogni caso posso confi-gurarmi come altro rispetto a quello che sono. È un giocofalsificante.Il suo giudizio sulla scuola non è tenero. A suo avviso lascuola è un luogo dove non si sanno riconoscere i talen-ti e la soggettività, che non è in grado di contribuire al-

la costruzione di identità. Sembra quasi di leggere donMilani. Non è cambiato niente da allora?No. La situazione è molto peggiorata semmai. Nel sensoche oggi la scuola, quando riesce, al massimo istruisce manon educa. Perché l’educazione passa attraverso il coin-volgimento emotivo. Penso che tutti noi abbiamo studiato e ci siamo applicatinelle materie di cui i professori ci affascinavano, mentreabbiamo trascurato quelle di cui i professori ci erano anti-patici perché dominati, come accade nell’adolescenza,dalla dimensione emotiva piuttosto che da quella intellet-tuale. Si tenga conto poi che in generale l’educazione pas-sa per via erotica e cioè attraverso il coinvolgimento delleemozioni e dei sentimenti, attraverso la fascinazione. Ionon ho difficoltà ad utilizzare anche la parola plagio: siimpara per imitazione, per fascinazione. Ora, siccomemolti insegnanti non sono per niente affascinanti, vengonoselezionati sulla base delle loro competenze culturali e aprescindere dalle loro capacità di comunicazione e di fa-scinazione ed ecco che la scuola diventa un luogo deputa-to al massimo all’istruzione ma non certo all’educazione etanto meno all’educazione ai sentimenti.Il fenomeno del bullismo, ad esempio, è il sintomo di con-testi in cui ormai si è capaci solo di gesti, come risposta adun impulso. Ma ad un livello superiore all’impulso do-vrebbe esserci l’emozione e i ragazzi neanche quella pro-vano perché per provare emozione devono - come dicono -calarsi l’ecstasi. Ma neanche l’emozione basta, bisogne-rebbe avere i sentimenti. E dove si imparano i sentimenti,che sono la forma più evoluta del sentire? Si imparano at-traverso la letteratura che ci dà il paradigma del dolore,della noia, della gioia, dell’amore, della passione, dellatragedia, dello spleen. Ecco se tutte queste cose non acca-dono, allora il sentimento resta atrofico e l’emozione restastentata. Interrogati sul proprio disagio emotivo i ragazzinon sanno cosa rispondere perché non hanno neanche inomi per nominare i luoghi della loro mente. E questo èun bel disastro.Alcuni ricorderanno una sua intervista televisiva diqualche tempo fa durante la quale si confrontava conFabri Fibra. Ne uscì un incontro piuttosto interessante,nel quale alla fine sembravate paradossalmente essered’accordo su tutto. Un personaggio che, a detta di mol-ti, interpreta molto bene il nostro tempo come RobertoSaviano ha detto di Fabri Fibra che è avanti di ven-t’anni rispetto alla letteratura. Fra vent’anni forse leg-geremo le rime di Fibra come i versi di Ungaretti? Ecosa ci sapranno dire sul nostro tempo e sui giovani dioggi? Non so se fra vent’anni leggeremo Fabri Fibra ma c’era unpunto molto importante che mi pare Fibra avesse sottoli-neato e sul quale eravamo completamente d’accordo: è ne-cessario cominciare a vedere i mali dei giovani non solocome disastri ma come rimedio ad angosce ben più pro-fonde. Se uno si ubriaca o si droga è perché non vuole es-sere in un mondo che neppure lo convoca, neppure lochiama per nome, che lo vede come un problema inveceche come una risorsa. Ecco credo che si debba leggere ilmale dei giovani non come il male ma come il rimedio aun male peggiore. 39

«Gli insegnanti vengono selezionatisulla base delle loro competenze

culturali, a prescindere dalle lorocapacità di comunicazione e di

fascinazione e così la scuola diventaun luogo deputato al massimo

all’istruzione ma non certoall’educazione e tanto menoall’educazione ai sentimenti»

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È il 2003. È la notte de-gli Oscar, della conse-gna dell’inconfondibilee ambitissima statuettadorata. Quella notte sulpalco, tra gli altri, saleMichael Moore, il regi-sta statunitense che,con il suo Bowling forColumbine, vince ilpremio per il migliordocumentario. Passanopochi mesi e ci spostia-mo sulla costa sud del-la Francia, in un altro

tempio del cinema universalmente riconosciuto: Cannes.La Croisette vede trionfare Gus Van Sant, altro registastatunitense, che riceve la Palma d’Oro e il premio perla miglior regia grazie al suo Elephant. Luoghi, film, au-tori e premi diversi, ma un unico, comune denominato-re: il massacro della Columbine High School. Il terribilefatto di cronaca che aveva sconvolto l’opinione pubblicamondiale nel 1999, tornava alla ribalta grazie al raccon-to di due registi profondamente diversi, in grado perciòdi narrare l’accaduto da due punti di vista completamen-te differenti. Il documentario di Michael Moore prende-va le mosse da un’indagine delicata e approfondita sul-l’uso delle armi negli Stati Uniti e soprattutto sulla faci-lità di reperimento di queste da parte di comuni cittadi-ni. Esemplare appare la scena iniziale, in cui il registaentra in possesso di un fucile grazie all’apertura di un

conto in banca. Esito del lavoro di Moore è la constata-zione di un diffuso senso di sfiducia nei confronti delleistituzioni, che porta i cittadini a sentirsi autorizzati agestire personalmente la difesa della proprietà privata edegli affetti attraverso il possesso e l’eventuale uso disvariati tipi di armi. Completamente diversi le intenzionie gli esiti che muovono il lavoro di Van Sant. Parafra-sando un proverbio anglosassone che vuole l’idea del-l’elefante in una stanza assurgere a simbolo di quei pro-blemi che tutti possono vedere ma di cui nessuno vuoleparlare, la macchina da presa del regista statunitense se-gue, attraverso piani sequenza ripetuti e sovrapposti, lagiornata che sconvolse la cittadina del Colorado fino alsuo tragico epilogo con l’uccisione di 12 studenti e uninsegnante. Volontà sottesa al lavoro di Van Sant è quel-la di non giudicare né esprimere pareri, ma solo trasmet-tere lo stato di angoscia e terrore di quelle ore di follia incui Eric David Harris e Dylan Bennet Klebold compiro-no il massacro e portarono a conclusione le loro stessevite con un tragico quanto eclatante suicidio. Da qual-siasi punto di vista lo si voglia guardare, comunque, èinnegabile che il massacro alla Columbine High Schoolscioccò l’opinione pubblica, ponendo una serie di que-stioni e problematiche che oggi, nel suo decimo anniver-sario, appaiono non solo insoluti ma anche quanto maiattuali. Oltre alle polemiche scatenatesi per un tardivointervento della polizia, da subito l’opinione pubblica siinterrogò sulla possibilità di prevedere un tale gesto: giànel 1996 Eric aveva creato un sito che conteneva, tra lealtre cose, indicazioni su come fabbricare esplosivi e in-terventi personali che esprimevano tutta la sua rabbia e

il suo rancore verso la società.Nel 1998 i due ragazzi erano statiarrestati per possesso di parti dicomputer rubate e il giudice ave-va stabilito che necessitavano diun sostegno psicologico. Alcuniritengono che proprio alla finedel loro percorso di cure i duegiovani abbiano iniziato a proget-tare la strage, pensata come rival-sa e vendetta nei confronti dellasocietà. Il panorama musicale fuuno dei principali capri espiatoriquando si andò alla ricerca dellemotivazioni che avevano potutospingere i due ragazzi ad un gestosimile: in particolare fu additatotutto il panorama rock metal egoth, ma lapidario fu il commen-to di uno degli artisti maggior-mente accusati di aver indotto al-

A Columbine c’era un elefante che nessuno vedeva,quando il disagio diventa violenzadi Irene D’Intino

Irene D’Intino

Un fotogramma delle riprese della strage di Columbine

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la violenza i due ragazzi, il cantante Marilyn Manson, ilquale rispondendo a chi gli chiese cosa avrebbe volutodire ai due assassini, dichiarò: «Non gli avrei detto nien-te. Avrei ascoltato cosa avevano da dire, cosa che nessu-no ha fatto». Le polemiche si riaccesero nel 2007, quan-do gli Stati Uniti furono nuovamente teatro di un massa-cro, questa volta avvenuto al Virginia Polytechnic Insti-tute. Anche qui mano attiva degli omicidi è uno studen-te, Cho Seung-hui, sudcoreano, ancora una volta mortosuicida durante il suo atto violento, ancora un voltaspinto, almeno a giudicare dai suoi scritti, dal contestosociale in cui viveva: «È tutta colpa vostra, mi avetespinto a farlo», scriveva prima di uccidere 32 personeper poi suicidarsi. Il quadro psicologico che emerge daquesti casi estremi sembra essere abbastanza chiaro, al-meno secondo lo psichiatra infantile americano Carl E.Drake che si è occupato dei fenomeni correlati ai massa-cri scolastici, rintracciando nell’esclusione e negli atti dibullismo i detonatori in grado di far esplodere la violen-za di soggetti deboli: stanchi delle vessazioni e dei mal-trattamenti, individuerebbero nell’omicidio non solo ilmodo migliore per vendicarsi, ma anche quello più giu-sto. Ad avvalorare la sua tesi un altro caso che, tramiteun filo rosso, lega gli Stati Uniti all’Europa, più precisa-mente alla Finlandia. È infatti qui che nel 2007 uno stu-dente di Jokela, Pekka-Eric Auvinen, irruppe nella pro-pria scuola aprendo il fuoco sui compagni e sul persona-le dell’istituto e uccidendo otto persone. Nove se contia-mo anche l’autore del massacro, morto a causa delle fe-rite riportate durante il tentato suicidio. Alla base delfolle atto, almeno secondo le autorità, gli episodi di bul-lismo di cui Auvinen era vittima a scuola e che l’avreb-

bero indotto ad assumere irregolarmente psicofarmaci.Protagonisti di accese discussioni televisive e articoli digiornale, il bullismo e la violenza nell’ambiente scola-stico appaiono quindi come le radici da estirpare, anchese certamente rappresentano delle concause, non certo leprincipali ragioni. Intanto però i governi si organizzano,cercando di ridimensionare i fenomeni: il presidentefrancese Nicolas Sarkozy ha proposto un piano di sicu-rezza che prevede l’inserimento di vigilantes all’internodegli edifici scolastici, in Germania il portale di un’e-mittente radiotelevisiva, mdr.de, ha stilato un dossiersull’argomento, in cui intervengono esperti e studiosi. Ein Italia? Il ministro Maria Stella Gelmini ha propostouna “task force”, idea sostenuta anche dal Moige, il Mo-vimento italiano genitori. Ma al di là delle diverse ini-ziative (e rispettive scuole di pensiero) i numeri parlanochiaro, almeno nel nostro paese: secondo i dati Istat, suun campione di 2.312 studenti delle scuole superiori, «il12% dei ragazzi intervistati afferma di pensare al suici-dio e il 10% di essersi fatto intenzionalmente del male oaver tentato il suicidio». In 20 anni il tasso di suicidigiovanili in Italia è aumentato del 13%, con un’impen-nata significativa nella fascia d’età tra i 15 e i 19 anni.Dati inquietanti, che lasciano trapelare un quadro sullostato psicologico dei giovani che definire problematicopotrebbe apparire un eufemismo, ma su cui bisogna ri-flettere per affrontare la questione dal punto di vista piùefficace. E forse lo spunto migliore può offrircelo An-drew Kehoe, che ha dichiarato: «Criminali si diventa,non si nasce». Chi è Andrew Kehoe? Un uomo impe-gnato nelle attività scolastiche in un istituto del Michi-gan che, un giorno di maggio, entrò alla Bath School euccise 45 persone. Il massacro più grave nella storia de-gli Stati Uniti. Era il 1927.

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Prof. Portelli, mentre si celebra il ventennale della ca-duta del Muro di Berlino, non le pare che si parli trop-po poco del fatto che ancora oggi, in diversi paesi delmondo, si costruiscano muri per dividere le popolazio-ni? Non è un procedimento contraddittorio in un’epo-ca caratterizzata dalla globalizzazione?Sempre di più assistiamo a una contraddizione tra unaglobalizzazione dell’economia e dei capitali e l’arroccar-si delle identità più spaventate da questo processo. Vivia-

mo in un’epoca particolare per cui l’unica cosa che nonsi può muovere sulla superficie del pianeta sono propriogli esseri umani: tutto il resto gira velocemente e se sol-tanto qualcuno provasse a impedire alle merci di circola-

re, verrebbe subito sanzionato dal Fondo monetario inter-nazionale. Al di là delle diverse circostanze che oggi portano alla co-struzione di nuovi muri – per cui la situazione palestinese,ad esempio, è diversa dalla situazione in cui sono coinvoltiStati Uniti e Messico – a me colpisce il fatto che tutti imuri di recente costruzione sono muri che stanno tra terzoe primo mondo, muri grazie ai quali il mondo ricco sichiude, spaventato da ciò che si muove nelle sue vicinanzee che è altro da sé.Muri di difesa, quindi...Sì, con qualche differenza. Avete nominato il Muro di Ber-lino, ma effettivamente, in quel caso, il muro serviva adimpedire l’uscita – l’esodo – a chi abitava nella zona dellaGermania Est, mentre i muri più recenti servono ad impe-dire l’entrata in un determinato territorio. Questo è veroanche per quanto riguarda i numerosi muri invisibili di og-gi, perché quando noi decidiamo di respingere i migranti,stiamo facendo da gendarme non solo per l’Italia, ma perl’Europa intera: edifichiamo un invisibile muro in mezzoal Mediterraneo, un muro che per le persone allontanate simaterializza, subito dopo, nei campi di reclusione dellaLibia, per esempio, e cioè in muri reali, fisici, in reticolati,

42 Il giro del mondo: accesso vigilatoIntervista allo storico Alessandro Portelli

di Michela Monferrini

Alessandro Portelli è docente di Letteratura angloamericana presso la Facoltà diScienze umanistiche dell’Università La Sapienza. Collabora con Il Manifesto dal1972 e ha scritto anche per Liberazione e l’Unità. Si è occupato di musica popo-lare e memoria storica orale di Roma e del Lazio. Ha fondato il Circolo Bosio ela Casa della Memoria. Con un saggio sull’eccidio delle Fosse Ardeatine ha otte-nuto nel 1999 il Premio Viareggio.

In basso e nella pagina a fianco: a Belfast i muri sono comparsi nei primi anni Settanta, all’apice dei troubles, la fase più acuta degliscontri fra le fazioni cattolica e protestante. Nonostante ormai i varchi siano tutti aperti i muri, chiamati eufemisticamente peace lines,restano e sono visti come indispensabili dalla popolazione

«A me non risulta che in un ipoteticoaldilà ci sarà un recinto per i cattolici,

uno per gli ebrei e così via: si dovrà perforza andare d’accordo e allora, perché

non cominciare subito da qui?»

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in celle, in muriche a noi restanoinvisibili – equindi non ci toc-cano – non per-ché non esistano,ma perché sonolontani, altrove equasi nessuno celi racconta.Il problema chenoi oggi dobbia-mo affrontare erisolvere è pro-prio questo: nonesistono popola-zioni che possa-no restare confi-nate per decisione di altri popoli. Bisogna comprendereche lo spostamento, per le persone, per le popolazioni,è legittimo, è un diritto. La lotta di classe attuale nascedal bisogno di condivisione che i poveri provano versotutto ciò che i ricchi possiedono e questo genera l’emi-grazione, che viene così a rappresentare la forma piùradicale della lotta di classe. Contemporaneamente, ilmuro diventa una delle forme forti di difesa dall’immi-grazione.Esistono però anche “muri estremi”, come il SunkenWall, il Muro interrato che nel cimitero di Belfast se-para le anime protestanti da quelle cattoliche e daquelle ebraiche...Il muro di Belfast fa storia a sé perché lì è addirittura stru-mento di guerra civile.Quanto al muro interrato, come diceva la mia amica AnnieNapier, moglie di un minatore del Kentucky, a me non ri-sulta che in un ipotetico aldilà ci sarà un recinto per i cat-tolici, uno per gli ebrei e così via: si dovrà per forza anda-re d’accordo e allora, perché non cominciare da qui, da su-bito? Un giovane scrittore americano, Nathan Englander, hapubblicato un bellissimo romanzo (Il ministero dei casispeciali, Mondadori, 2007, NdR) sul caso dei desapareci-dos argentini, nel cui incipit viene descritto proprio un ci-mitero in cui le tombe degli ebrei perbene sono separateda quelle degli ebrei “poco rispettabili” in vita.

Il muro tuttaviaha anche una tra-dizione come for-ma d’arte e dimemoria...Mi viene in menteche, mentre traIsraele e Palestinac’è semplicementeun triste, evidentemuro, quello traMessico e StatiUniti è stato dipin-to, dall’inizio, concolori accattivantio pastello, in mo-do tale che nonsembrasse una pre-

senza ostile: questa è la “violenza soffice” che caratterizzagran parte della nostra epoca. Quanto al muro come forma artistica o base per l’operad’arte, basti pensare al fenomeno del graffitismo. La miaimpressione è che si tratti al settantacinque per cento disporcare muri, ma che comunque sia arte per il restante

venticinque per cento. In questo senso, il muro è la super-ficie di più antica tradizione: come un quaderno chiamascrittura, un muro ha da sempre chiamato pittura e proprioin questo periodo, alle Scuderie del Quirinale, è allestitauna mostra sulla pittura romana, che è comprensibilmenteuna pittura murale. Io ho avuto modo di parlare con alcuni graffitisti e loro –e questa è la grande differenza rispetto a chi non è inte-ressato a fare arte – dicono: «Ci mettano a disposizionedei muri, altrimenti siamo obbligati a farlo di nascosto».

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«Viviamo in un’epoca particolare percui l’unica cosa che non si può

muovere sono proprio gli esseri umani:tutto il resto gira velocemente e sequalcuno provasse a impedire alle

merci di circolare verrebbe sanzionatodal Fondo monetario internazionale»

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Ma poi diconoche l’adrenalinache ti dà il fattodi farlo di nasco-sto è incompara-bile. Questo perdire che oggi c’èuna dimensionetrasgressiva ri-spetto al passato(anche perché ècambiato il regi-me di proprietàdei muri), ma peril resto, si trattadella stessa esi-genza dell’uomodi raccontarsi.Un’esigenza cheperò non deve an-dare a giustificare quello che è il teppismo: penso allescritte dei tifosi di squadre diverse o di schieramenti poli-tici opposti, sui muri dei palazzi, in città, ovunque. Quel-

lo non è un dialogo con qualcun altro, bensì una reciprocacancellazione che non tiene conto del fatto che anche al-l’interno delle trasgressioni esistono regole che è benecontinuare a rispettare. Quindi si può dire che ancora oggi il muro può essere pen-

sato sia come pos-sibilità espressivache come barrieradifensiva e bloccoal movimento al-trui. La differenzafondamentale, sepensiamo a questimuri in un conte-sto ambientale, èche i primi fian-cheggiano lo spa-zio, gli altri lospezzano. Lei si è occupatomolto di musica.Crede davveroche, come sempree da sempre vienedetto, la musica

riesca ad abbattere i muri tra le popolazioni?Ad abbatterli no, ma occorre dire che musica bianca e musi-ca nera già si parlavano, quando in realtà bianchi e neri vive-vano i loro contrasti più violenti. Esistono vari esempi di casiin cui la musica avvicina chi è diviso per confini geografici oper motivi politici, storici o razziali: la Western/Eastern Di-van Orchestra, per esempio, formata da giovani palestinesi eisraeliani; il genere musicale Tex-Mex, così chiamato perchécreato dagli scambi musicali e culturali tra Texas e Messico;il genere del corrido, musica epico-lirica e narrativa, presen-te sia nel nord del Messico che nel sud del Texas e dell’Ari-zona. Simili contaminazioni sono state possibili grazie al-l’immaterialità della musica e al fatto che essa può girare,essere veicolata dalle singole persone che si spostano. Attualmente, sto lavorando in una direzione simile: sto cercan-do di capire con quale tipo di patrimonio musicale possano vi-vere gli immigrati. Non credo che la musica basti ad abbattere imuri, ma credo che sia una delle forme migliori di dialogo.

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«(...) Avevano raggiunto un accordo. Nella parte posteriore del cimitero avrebberocostruito un muro collegato a quello di cinta, creando così un secondo cimitero chein realtà sarebbe stato parte del primo, tecnicamente ma non halachicamente, ecioè nel modo in cui gli ebrei risolvono ogni problema. Il muro di cinta era altodue metri, una barriera modesta ma sufficiente a delimitare uno spazio sacro. Lafondazione di un cimitero ebraico in una città ossessionata dai propri morti dimo-strava che la loro integrazione nella società aveva raggiunto livelli insperati. LeCongregazioni Unite, progettando quel muro avevano voluto dimostrarsi fiduciose.Ma chi ti accetta oggi non necessariamente ti darà il benvenuto anche domani; egli ebrei di Buenos Aires non avevano potuto fare a meno di prepararsi per i tempibui. Così, sopra il modesto muro, avevano aggiunto un’inferriata alta due metri[...]. Kaddish, ripensando alle parole di Lila, aveva girato intorno al cimitero finoal settore delle Congregazioni Unite. Aveva varcato il cancello sempre aperto e at-traversato il terreno ben curato, e quando aveva raggiunto il muro divisorio si eratirato su, arrampicandosi fino in cima e graffiandosi le scarpe contro i mattoni. Ap-pollaiato là in alto, mentre osservava il settore dell’Impulso Generoso, Kaddish si

era chiesto se fosse mai stato costruito un muro impossibile da scavalcare. Quello lì non era particolarmente impe-gnativo. Non serviva a fermare i vivi, ma a separare i morti».Da Nathan Englander, Il ministero dei casi speciali, Milano, Mondatori, 2007.

Anche sul muro palestinese compaiono i primi graffiti

«E poi ci sono i muri invisibili, perchéquando noi decidiamo di respingere i

migranti, stiamo facendo da gendarmenon solo per l’Italia, ma per l’Europaintera: edifichiamo un invisibile muro

in mezzo al Mediterraneo»

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Sono nata il ventuno a primaveraMa non sapevo che nascere folle,aprire le zollepotesse scatenar tempesta.Così Proserpina lievevede piovere sulle erbe,sui grossi frumenti gentilie piange sempre la sera.Forse è la sua preghiera.

Ero un uccellodal bianco ventre gentile,qualcuno mi ha tagliato la golaper riderci sopra,non so.Io ero un albatro grandee volteggiavo sui mari.Qualcuno ha fermato il mio viaggio,senza nessuna carità di suono.Ma anche distesa per terraio canto ora per tele mie canzoni d’amore.

Lascio a te queste impronte sulla terratenere dolci, che si possa dire:qui è passata una gemma o unatempesta,una donna che avida di diredisse cose notturne e delicate,una donna che non fu mai amata.Qui passò forse una furiosa bestiaavida di sete che dette tempestaalla terra, o ogni clima, al firmamento,ma qui passò soltanto il mio tormento.

Ci sono giorni che non si staccanodalle pareti.

Spesso il corpoparla con lo spiritoin una linguatrascendenteche vuole ilsilenzio assoluto.

La tenebra èuna grande domanda di luce.

Io come voi sono stata sorpresamentre rubavo la vita,buttata fuori dal mio desideriod’amore.Io come voi non sono stata ascoltatae ho visto le sbarre del silenziocrescermi intorno e strapparmi icapelli.Io come voi ho pianto,ho riso ho sperato.Io come voi mi sono sentita toglierei vestiti di dossoe quando mi hanno dato in manola mia vergognaho mangiato vergogna ogni giorno.Io come voi ho soccorso il nemico,ho avuto fede nei poveri pannie ho domandato che cosa sia ilSignore,poi all’idea della sua esistenzaho tratto forza per sentire il martiriovolarmi intorno come colomba viva.Io come voi ho consumato l’amore dasolalontana persino dal Cristo risorto.Ma io come voi sono tornata allascienzadel dolore dell’uomo, che è la scienzamia.

Si può essere qualcunosemplicemente pensando.

L’arte è estremamente vergine.

Grazie per questa parentesi morta,per questo incunabolo puro,per questo zefiro di oleandro!

A volte i morti sono una storia cupa,a volte si scoprono dopo,quando scostando tendine di spaziosi trovano innumerevoli e sorti,ed è sgradevole dire a un passante“costui non è più sulla terraperché era ebbro di baci”.

Addestra la parola,c’è una donna che è solaappesa a un ricordo…Ma stempiato di nebbiae arso di parole tu ti distendi al sole,immemore da sempre.

Veleggio come un’ombranel sonno del giornoe senza saperemi riconosco come tantischierata su un altareper essere mangiata da chissà chi.Io penso che l’infernosia illuminato di queste stessestrane lampadine.Vogliono cibarsi della mia penaperché la loro forsenon s’addormenta mai.

Sonomoltoirrequietaquando mi leganoallo spazio.

Apro la sigarettacome fosse una foglia di tabaccoe aspiro avidamentel’assenza della tua vita.È così bello sentirti fuori,desideroso di vedermie non mai ascoltato.Sono crudele, lo so,ma il gergo dei poeti è questo:un lungo silenzio accesodopo un lunghissimo bacio.

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La sera del 5 aprile nelmio appartamento al setti-mo piano all’Aquila sem-brava una sera come tante,ormai le scosse erano di-ventate per noi la normali-tà, una presenza costante.Alle 22.40 c’era stata unascossa abbastanza forte,che a differenza di quelledelle settimane precedentiera stata solo un po’ piùlunga. Un’oretta dopo an-

cora un’altra, ma negli ultimi mesi se ne erano sentite tal-mente tante che nessuno poteva immaginare quello che dalì a poche ore sarebbe successo. Quelle due scosse tuttaviahanno salvato tante persone che spaventate hanno lasciatole proprie abitazioni, purtroppo non tutti. Io ho pensato di

uscire, di andare a dormire in macchina, ma poi mi sonodetta che non sarebbe servito a niente, se non a beccarmiun bel raffreddore. E così mi sono messa a dormire.Alle 3.32 sono stata letteralmente buttata giù dal letto, nonso esattamente co-sa sia stato a sve-gliarmi, se il boatoproveniente dallaterra, le urla dispe-rate della mia co-inquilina o il lettoche “ballava” inin-terrottamente. Quando ho inizia-to a capire quelloche stava succe-dendo la scossanon era ancora fi-nita, ma sembravagià passata un’e-ternità. Ho cercatodisperatamente diaccendere l’abat-

jour, ma inutilmente, la luce era andata via. A tastoni e conl’aiuto della luce del cellulare sono riuscita a infilarmi unpaio di scarpe, una giacca e intanto sentivo oggetti che ca-devano dappertutto, non riuscivo a stare in piedi, ho avutola sensazione che il palazzo stesse crollando e l’unica cosadi cui ero sicura era che dovevo fuggire al più presto, do-vevo riuscire a scendere di sotto. In pochi istanti, i più lun-ghi della mia vita, sono arrivata alla porta d’ingresso, hoaspettato che finisse la scossa e ho iniziato a scendere lescale, che per fortuna c’erano ancora. Scendendo sentivogrida disperate di donne, bambini, giovani, anziani checorrevano per le scale. Ad ogni pianerottolo si aprivanodavanti ai miei occhi crepe sui muri.Quando finalmente sono arrivata in cortile pensavo di esserela più sfortunata, cercavo di chiamare i vigili del fuoco peravvisarli che nel mio palazzo c’erano delle crepe, non mi so-no resa conto subito di quello che era successo. L’ho capitosolo più tardi, quando sono iniziati ad arrivare i soccorsi e leunità cinofile, quanto, al contrario, ero stata fortunata… Nel-

l’immediata peri-feria parecchie ca-se erano danneg-giate, ma a partepareti crollate equalche grossacrepa non si vede-va altro.Nel frattempo siiniziavano ad ave-re le prime notiziesu tutto quello cheera crollato, sul-l’epicentro, l’in-tensità del sisma,ma sembrava unfilm, non potevaessere vero. Lacittà era in tilt,

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rtag

e46 03.32

Reportage dall’Aquila. Un racconto del terremoto in presa diretta

di Emanuela Cecilia

Emanuela Cecilia

Il palazzo della prefettura all’Aquila. Insieme alla Casa dello studente è diventato uno deisimboli del sisma in Abruzzo

«L’Aquila ore 3.32. Sono stataletteralmente buttata giù dal letto,non so esattamente cosa sia stato asvegliarmi, se il boato proveniente

dalla terra, le urla disperate della miacoinquilina o il letto che “ballava”

ininterrottamente»

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sembrava impazzita, chi era riuscito a uscire dalle case erain strada, i benzinai erano fuori servizio e tante altre piccolescosse continuavano a farsi sentire. Poco prima dell’alba so-no andata via dall’Aquila e ho passato la mattinata attaccataalla tv a seguire i vari servizi su quanto accaduto, tutto sem-brava irreale. Continuamente davano aggiornamenti sul nu-mero delle vittime, che non smetteva di salire, e sulle perso-ne che venivano estratte vive dalle macerie. Alcune zoneerano irriconoscibili in tv, altre facevo fatica ad identificarle.Quando nel pomeriggio sono tornata all’Aquila per andarea vedere la situazione di casa mia, non era più la città doveavevo trascorso gli ultimi sei anni: ho trovato una città di-strutta, dilaniata da un terremoto fortissimo, sembrava di es-sere in una zona di guerra, come se fosse stata bombardata.Ovunque mi girassi c’erano ambulanze, forze dell’ordine,

Vigili del Fuoco, volontari, persone qualunque che si aiuta-vano, quasi tutti ancora in pigiama, qualcuno scalzo. Quelloche è successo nel centro storico l’ho visto solo in televisio-ne, non mi sono trovata di fronte a scene drammatiche, adover tirare fuori persone dalle macerie, ad assistere alletante tragedie che ci sono state, ma comunque il terremotoha lasciato un’impronta indelebile dentro di me. È stato ilmomento della mia vita in cui ho avuto più paura, paura dimorire. E mi sono sentita impotente, non potevo fare nullaper cambiare le cose. Per settimane non ho dormito, ero

sempre nervosa, saltavo in aria al minimo rumore, e ancoraadesso quando passa un treno, o sento qualche rumore parti-colare mi spavento, finché non capisco cosa è stato, allorami tranquillizzo. Ormai sono passati oltre sette mesi daquella notte, ma quando mi fermo a pensarci mi accorgo diquanto sia ancora tutto vivo in me. Tante volte mi era capi-tato di vedere in televisione scene di terremoti, ma non ave-vo la minima idea di cosa fosse realmente, di quanto possasegnare le persone e della forza distruttiva contro la qualenon puoi fare niente. Non lo puoi prevedere, se sei fortunatopuoi solo scappare. Oggi, in attesa che vengano fatti i lavoridi ristrutturazione nel mio palazzo, spesso mi capita di an-dare all’Aquila, i primi tempi provavo solo angoscia e stavomale, ultimamente invece è diverso. Ogni volta trovo unacosa nuova, un nuovo cantiere, ora una scuola, ora qualchecasa, locali che riaprono, negozi e ho la sensazione che stiaveramente ripartendo. E questo grazie alle migliaia di per-sone che hanno lavorato giorno e notte e che continuano afarlo per aiutare questa città a “tornare a volare”. E io nelmio piccolo sono sicura che tornerà a farlo! E inizio anchead aver voglia di tornarci, non sarà facile perché la paurache possa succedere di nuovo è tanta, ma bisogna guardareavanti. Per la ricostruzione ci vorranno sicuramente anni,una città non si ricostruisce in pochi mesi, ma se i riflettorisu questa tragedia che ha colpito l’Abruzzo non verrannospenti sono sicura che ci sarà una nuova L’Aquila, e chi losa, magari anche più bella di prima.

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Le macerie della casa dello studente all’Aquila dove hanno persola vita 8 studenti. In questo filone di indagini sonocomplessivamente 15 le persone indagate per omicidio colposo,disastro colposo e lesioni colpose

Sopra e a fianco: dipinti e foto private si affacciano fra le macerie

«La città era in tilt, sembravaimpazzita, chi era riuscito a uscire

dalle case era in strada mentre altrepiccole scosse continuavano

a farsi sentire»

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Con la parola tsunami, dal giapponese onda di porto(in italiano anche maremoto), si intende una serie dipoche onde con un alto contenuto energetico, capaci dicreare ingenti danni alle zone costiere, come per glieventi che hanno coinvolto l’Oceano Indiano nel di-cembre 2004. Si tratta di onde lunghe centinaia di chi-lometri con celerità dell’ordine delle centinaia dikm/ora aventi piccola altezza in acque profonde, chepuò però amplificarsi sino a raggiungere alcuni metriin prossimità della costa per effetto dei fenomeni di ri-frazione e shoaling.Diversi sono i fenomeni fisici che possono generareuno tsunami: terremoti, eruzioni vulcaniche, frane, im-patti meteoritici. È possibile che uno tsunami si verifichi in Italia? Pur-troppo sì! Nel corso della storia sono stati accertati ecatalogati un centinaio di tsunami che hanno interessa-to le coste italiane, la maggior parte dei quali causatida frane aeree o sommerse e concentrati nel Mar Ligu-re e nel Tirreno meridionale. Il primo caso di maremo-to registrato sulle coste italiane fu quello che colpì ilgolfo di Napoli in seguito alla catastrofica eruzione delVesuvio nel 79 a.c. e che fra gli altri uccise Plinio ilVecchio. In epoca abbastanza recente varie fonti riferi-scono di uno tsunami a seguito del terremoto della Valdi Noto del 1693, quando una gigantesca ondata deva-

stò le coste orientali della Sicilia dopo che il mare siera ritirato per centinaia di metri (in questo caso l’epi-centro del sisma si ritiene fosse situato sotto il fondodel mare, una trentina di chilometri al largo di Augu-sta). Nel 1908 il terremoto di Messina fu accompagna-to da frane sottomarine che generarono uno tsunamiche provocò molte più vittime del terremoto stesso(circa centomila).Più recentemente, il 30 dicembre del 2002, sulle costedell’isola di Stromboli si è verificato un evento di ma-remoto. L’isola è la parte sommitale di un cono vulca-nico ancora attivo e talvolta, ad alcune eruzioni piùviolente, sono associate cadute di frane sul versantenord, molto ripido, denominato Sciara del Fuoco (pa-gina a fianco, in alto).Nell’evento del 2002, due frane generarono il maremo-to: una prima frana sommersa di volume stimato attor-no ai 20x106 m3 ed una seconda frana aerea distaccatasicirca 500 m sopra il livello del mare e con un volumedell’ordine di 106 m3. Le onde di maremoto si irradia-rono nel tratto di mare circostante inondando la costadell’isola con altezze di risalita fino a 10 m e provocan-do ingenti danni alle strutture. Fortunatamente, data labassa stagione turistica, non si verificarono perdite divite umane. L’ultimo distacco di un corpo franoso è sta-to registrato nel febbraio 2007: in questo caso l’ondagenerata non ha provocato danni nelle coste vicine.Nella pagina a fianco, in basso è rappresentato un pos-sibile scenario indicativo di tsunami generato nell’isoladi Stromboli. Le linee blu indicano la propagazione deifronti d’onda.

Prendendo spunto da questi eventi è nato uno studiointeruniversitario che vede coinvolte, oltre all’Univer-sità Roma Tre, l’Università dell’Aquila, il Politecnicodi Bari, l’Università di Roma Tor Vergata e, più recen-temente, l’Università di Firenze. Lo scopo delle ricer-che congiunte è quello di valutare il rischio legato apossibili tsunami generati intorno all’isola di Strombo-li e di sviluppare un moderno sistema di allerta per mi-

Il territorio italiano e il rischio tsunamidi Giorgio Bellotti, Claudia Cecioni, Leopoldo Franco e Francesca Montagna

Giorgio Bellotti, Claudia Cecioni, Francesca Montagna eLeopoldo Franco

Meccanismi di generazione di onde di tsunami: terremoti sottomarini (a sinistra) e frane (a destra) (www.ngdir.ir)

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tigare gli effetti devastanti degli tsunami. Le ri-cerche sono state giudicate di rilevante interes-se nazionale dal MIUR, che ha finanziato bendue progetti PRIN, rispettivamente per gli anni2005 e 2007. La modellazione fisica e numeri-ca sono gli strumenti utilizzati per studiare lafisica del fenomeno e stimare possibili scenaridi maremoto a largo di Stromboli.Presso il laboratorio idraulico LIC del Politec-nico di Bari sono stati condotti alcuni esperi-menti, che riproducono in scala 1:1000 e inmodo semplificato un evento franoso su un’i-sola conica con pendenza 1:3 di geometria eprofondità assimilabili all’isola di Stromboli (apagina seguente, in alto). Il gruppo di ricerca dell’Università Roma Tre,si occupa principalmente di simulare, mediantemodellazione numerica, la generazione, la pro-pagazione e l’interazione con la costa di ondedi tsunami generate da frane. In particolare,nell’ambito dei progetti di ricerca sopracitati, sono sta-ti sviluppati ed applicati due codici numerici. Uno ètridimensionale e permette un’analisi di grande detta-glio delle fasi di generazione dell’onda e di inondazio-ne delle coste. L’altro è un modello 2D che si basa suequazioni integrate sulla verticale, che risulta esserepiù adatto per simulare la propagazione delle onde sugrandi aree geografiche con elevati fondali, dati i ridot-ti costi computazionali. Il modello 3D utilizzato è un codice commerciale difluidodinamica, denominato FLOW-3D, che ha per-messo di riprodurre prima gli esperimenti realizzatipresso il LIC, e poi altri casi di frane aeree e sommerse.I risultati finora ottenuti evidenziano come questo codi-ce possa essere utilizzato per l’individuazione dellearee soggette ad inondazione in funzione delle caratte-

ristiche delle frane e quindi per la realizzazione di cartedi rischio. Il limite di questo codice è l’elevato costocomputazionale: si pensi che una simulazione tipo vie-ne normalmente effettuata impiegando griglie di calco-lo composte da circa dieci milioni di nodi.Il secondo modello è stato studiato per essere appli-cato nei sistemi di allerta tsunami in tempo reale, neiquali è fondamentale la rapidità di esecuzione, oltreovviamente all’accuratezza dei risultati. Un aspettomolto interessante del modello è la sua capacità di ef-fettuare previsioni di livelli di inondazione della costaa partire da misure di tsunami condotte in tempo rea-le. Esso è in grado inoltre di fornire stime sul livellodi inondazione durante la fase di misura delle onde,correggendo le previsioni mano a mano che lo tsuna-mi viene misurato e fornendo così informazioni di

maggior dettagliosulla sua gravità.A titolo di esem-pio a pagina se-guente, in basso,si mostrano alcunirisultati numericiottenuti con i duecodici descritti .La prova mira ariprodurre uno de-gli esperimenticondotto nella va-sca del LIC, per ilquale sono dispo-nibili registrazionidel moto ondosoche è possibileusare come termi-ne di paragone.Nello specifico infigura si riporta ilconfronto fra l’e-levazione dellasuperficie liberamisurata da alcu-Propagazione di onda di tsunami generata a Stromboli

Sciara del Fuoco, Stromboli

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50ne sonde poste nella vasca a diverse di-stanze dal punto d’impatto della frana(v. schema) e i risultati ottenuti con idue modelli numerici nei punti corri-spondenti. I risultati del modello 2Dappaiono soddisfacenti solo nelle son-de poste sui fondali più profondi. Perquanto riguarda il sistema di previsio-ne e allerta di eventi di tsunami, simil-mente a quanto accade per i terremoti,non è ancora possibile anticiparnel’occorrenza. Peraltro, mediante un’i-donea rete di strumenti di misura siadelle possibili sorgenti tsunamigeniche(terremoti, frane), sia delle onde stes-se, è possibile allertare la popolazioneprima che si verifichi l’inondazionedella costa.L’efficacia del sistema è tanto maggio-re quanto più grande è l’anticipo con ilquale è possibile diffondere l’allarme.Ad esempio per grandi superfici mari-ne come l’Oceano Pacifico, ove i tem-pi di percorrenza del maremoto dall’a-rea di generazione alle coste sono del-l’ordine delle ore, questi sistemi pos-sono salvare tantissime vite umane.Negli Stati Uniti è in funzione un siste-ma di monitoraggio tsunami, denomi-nato DART (Deep-ocean Assessmentand Reporting of Tsunami) compostoda una serie di strumenti oceanograficistrategicamente posizionati; questi for-niscono via satellite in tempo reale leinformazioni a centri specializzati, chegestiscono la divulgazione degli allar-mi tsunami.Nel Mar Mediterraneo purtroppo ledistanze tra le aree nelle quali posso-no generarsi tsunami e le coste abitatesono estremamente ridotte, con tempidi percorrenza generalmente inferioriall’ora (come si evince dall’immaginea pagina 49, in basso). Realizzare unsistema di allerta capace di diffondereallarmi in tempo utile alla popolazio-ne rappresenta, in queste condizioni,una grande sfida scientifica e tecnolo-gica. I mezzi dei quali è necessarioavvalersi sono estremamente sofisti-cati e richiedono la collaborazione ditecnici e scienziati dalle competenzepiù diverse, da cui il carattere di forteinterdisciplinarietà delle ricerche inatto.In quest’ottica lo studio che si sta con-ducendo nell’ambito del PRIN 2007, sipone l’obiettivo di affinare le conoscen-ze relative alla fisica dei fenomeni coin-volti e di realizzare strumenti utili allosviluppo di un sistema d’allarme tsuna-mi per l’isola di Stromboli.

Modello fisico in vasca di una frana aerea su un’isola conica (corpo rossoellissoidico su scivolo). Laboratorio LIC, Politecnico di Bari

Sopra: schema dell'isola e delle sonde di misura. Sotto: confronto fra i datisperimentali (linea rossa) e i risultati dei due modelli numerici, FLOW-3D (lineanera continua) e il modello integrato sulla verticale (linea nera tratteggiata)

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La conoscenza della storiadella realtà educativa edello sviluppo delle istitu-zioni scolastiche rappre-senta una premessa indi-spensabile per compren-dere le contraddizioni e lepotenzialità del presente.Per chi opera all’internodi una istituzione destinataalla formazione e alla ri-cerca, qual è quella uni-versitaria, questa esigenza

conoscitiva rappresenta una ineludibile esigenza. I luoghi di conservazione della memoria educativa costitui-scono, da questo punto di vista, un patrimonio prezioso.Com’è noto, presso il nostro Ateneo, ha sede il Museo sto-rico della didattica “Mauro Laeng”, la più antica realtà mu-seale italiana relativa alla storia della scuola e alla storiasociale dell’educazione. La sua fisionomia attuale, arricchi-tasi nel tempo di numerose e significative acquisizioni do-cumentarie che hanno determinato ampliamenti apprezza-bili del patrimonio originario, è finalizzata proprio alla sal-vaguardia e alla conservazione delle fonti relative alla sto-ria della scuola e dell’educazione. Allo tesso tempo, il Mu-seo rappresenta una occasione di studio e di ricerca desti-nata al mondo della scuola, agli studenti e ai docenti del-l’Ateneo e soprattutto agli studiosi impegnati nella ricercastorica ed educativa. Il suo patri-monio è costituito da tre filoniprincipali: una consistente partelibraria, un settore archivistico e,infine, una sezione oggettistica eiconografica. Il Museo ha unastoria davvero molto prestigiosa.Al momento della sua istituzione,voluta da Ruggero Bonghi nel1874 nella Roma divenuta da po-co capitale del nuovo Regno, ilMuseo ebbe la denominazione diMuseo d’istruzione e di educa-zione fino al suo primo declinoverificatosi nel 1881 e fu direttoda Antonio Labriola, autorevoledocente di Filosofia morale e Pe-dagogia della Facoltà di Filosofiae Lettere dell’Università di Ro-ma. Egli diede al Museo un’im-pronta di grande rilievo scientifi-co e, al tempo stesso, ne potenziòla fisionomia pedagogica finaliz-zata, in particolare, alla crescitaculturale degli insegnanti dellascuola del nuovo Regno. Nei pri-

mi anni del Novecento poi, il Museo venne ricostituito aopera di Luigi Credaro e chiamato Museo pedagogico. Ladenominazione di Museo pedagogico rimase immutata an-che negli anni della direzione di Giuseppe Lombardo Radi-ce che tra, il 1936 e il 1938, volle riorganizzarlo. Il Museovenne allora affiancato all’Istituto di Pedagogia della Fa-coltà del Magistero. A causa di difficoltà logistiche e orga-nizzative e soprattutto per le conseguenze degli eventi bel-lici, il Museo fu destinato a un ulteriore “oscuramento”.Molto più tardi, nel 1986, si giungerà all’attuale denomina-zione di Museo storico della didattica. Grazie soprattuttoall’impegno di Mauro Laeng – alla cui memoria il Museo èstato dedicato – si riuscì infatti a rifondarlo nell’ambito delDipartimento di Scienze dell’educazione, presso la Facoltàdi Magistero, con una delibera del Consiglio di Ammini-strazione, su parere favorevole del Senato Accademico del-l’Università degli Studi di Roma La Sapienza e dopo un in-tenso lavoro svolto da colleghi, esperti e collaboratori.Successivamente il Museo ha continuato a operare all’in-terno dell’Università degli Studi Roma Tre. Negli ultimianni, il Museo ha potuto svilupparsi notevolmente, grazieanche all’impegno della Facoltà di Scienze della Forma-zione che ha messo a disposizione significative risorse eha promosso un importante riordino informatizzato di granparte del patrimonio museale.Valorizzare le testimonianze documentarie della vita scola-stica del passato rappresenta oggi una sfida culturale controogni tentazione nostalgica o retoricamente celebrativa della

scuola del passato. La documen-tazione conservata presso il Mu-seo storico della didattica si carat-terizza, a differenza di altre istitu-zioni analoghe, per la sua eteroge-neità legata all’identità originariae al contenuto delle nuove acqui-sizioni via via realizzate.Il patrimonio del Museo com-prende una consistente parte li-braria, un ampio settore archivi-stico e una ricca raccolta oggetti-stica e iconografica. Il patrimo-nio archivistico è legato alla pre-senza di due preziosi archivi,l’archivio Giuseppe LombardoRadice (o almeno una parte diesso) recentemente riordinato einventariato per la parte relativaai carteggi ma non per quella deilavori didattici (I. Picco, a curadi, Archivio Giuseppe LombardoRadice. Catalogo, Roma, Ar-mando, 2004) e l’archivio del-l’Ente scuole per i contadini del-l’agro romano, che raccoglie im-

A come alfabetoIl Museo storico della didattica Mauro Laeng

di Carmela Covato

Carmela Covato

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52 portanti testimonianze relative al-l’attività di diffusione dell’alfabetiz-zazione e di lotta contro la malariaavviata nel primo Novecento da Si-billa Aleramo, Angelo Celli, Gio-vanni Cena, Duilio Cambellotti eAlessandro Marcucci. La documen-tazione più specificamente musealecomprende un’ampia raccolta di og-getti e di materiali didattici relativialla scuola italiana a partire dagli ul-timi decenni dell’Ottocento, fra iquali si segnalano un vasto materia-le documentario dell’Ente scuoleper i contadini dell’agro romano(documenti, protocolli, schedari,partitari, verbali, due disegni di Dui-lio Cambellotti; sei grandi tavole dilegno di soggetto agricolo dipinteda Duilio Cambellotti per la scuoladi Colle di Fuori), materiali e docu-menti delle prime scuole Montesso-ri, compresi alcuni pezzi originalirealizzati su disegno della stessa Montessori per le primeCase dei bambini di San Lorenzo; manoscritti e opere diLuigi Volpicelli; sussidi per l’insegnamento infantile esussidi per l’insegnamento tecnico; una sezione storica diinformatica didattica; suppellettili, oggetti e strumenti auso didattico antecedenti alla prima guerra mondiale; gio-cattoli, bambole, burattini e molto altro. Il Museo storicodella didattica ha allestito, negli ultimi anni, numerosemostre documentarie in collaborazione con vari enti e isti-tuzioni, dal MIUR al Comune di Roma, dalla Provincia diRoma alla Regione Lazio, delle quali si segnalano le piùsignificative (ciascuna corredata da un catalogo) che han-no avuto i seguenti oggetti tematici: A come alfabeto...Z

come zanzara. Analfabetismo e ma-laria nella campagna romana, incollaborazione con il Comune diRoma (Palazzo delle Esposizioni,20 novembre 1998 - 6 gennaio1999), nell’ambito della mostra èstato organizzato un convegno suIgiene, educazione e arte nell’agroromano; Trucci, trucci cavalluc-ci...L’infanzia a Roma tra Otto eNovecento (Roma, Villa Torlonia,2-20 ottobre 2002); Dalle case deibambini nel quartiere San Lorenzoalle scuole rurali nell’agro romano,in occasione del convegno Sviluppiattuali della ricerca sulla pedago-gia di Maria Montessori (Aula Ma-gna del Rettorato, Università degliStudi Roma Tre, 22 maggio 2003);A passo di marcia. L’infanzia a Ro-ma tra le due guerre (Museo di Ro-ma in Trastevere, 4 marzo - 25 apri-le 2004). L’insieme di queste inizia-

tive intende confermare, da una parte, e ampliare, dall’al-tra, le finalità individuate al momento della rifondazionedel Museo nel 1986. Il Museo, infatti, non si configura piùcome un luogo in cui attivare una didattica esemplare a li-vello nazionale, come avvenne a Roma capitale del nuovoregno, ma come occasione per costruire una “casa” dellamemoria, che richiede nuove acquisizioni e ulteriori svi-luppi. Principalmente destinato a studenti, docenti e stu-diosi interessati a svolgere ricerche nel campo della storiadella scuola e dell’educazione, il Museo vuole aprirsi an-che a chiunque voglia riflettere sulla quotidianità della vitascolastica che fa parte, in modi diversi, del vissuto e del ri-cordo di tutti.

Maria Montessori in una classe

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Recentemente si sono pro-filate iniziative a livellonazionale per valorizzarela qualità degli studi, at-traverso il riconoscimentodi borse di studio agli stu-denti meritevoli le cui fa-miglie non sono in gradodi sostenere la spesa pergli studi universitari: nonsolo le tasse ma anche icosti accessori di vitto ealloggio.

Il ministro Gelmini ha annunciato l’incremento di 135 mi-lioni di euro destinati ai giovani capaci e meritevoli prividi mezzi economici e ha promesso 65 milioni di euro perla realizzazione di 1700 posti letto in più in residenze uni-versitarie.Sono sforzi certamente apprezzabili ma che non devonodare l’impressione che si cominci tutto daccapo. L’impegno degli enti regionali per il diritto allo studioDobbiamo infatti registrare che l’obiettivo di dare la borsadi studio e l’esonero dalle tasse a tutti gli aventi diritto èstato conseguito negli ultimi anni per un rilevante numerodi studenti attraverso l’azione degli enti regionali per il di-ritto allo studio. Riferendoci soltanto alla nostra regione, nell’anno accade-mico appena concluso, Laziodisu ha infatti distribuito21.000 borse di studio di un importo medio di 2.510 eurociascuna: un impegno complessivo per oltre 50 milioni dieuro.

Gli interventi a favore degli studenti del nostro AteneoIn particolare sono stati 1939 gli studenti di Roma Tre chehanno ottenuto un sostegno economico complessivo di4.867.000 euro, oltre ad altri minori benefici riservati aglistudenti Erasmus. Riguardo le residenze, l’investimento per la loro gestioneè stato di 613.000 euro, mentre la spesa per la ristorazioneè stata di 837.000 euro, con un incremento sull’anno pre-cedente del 37%, consentendo di assicurare 86.000 pastinelle mense e locali convenzionati.Altre iniziative sono destinate agli studenti diversamenteabili (specie per la maggiore diffusione del linguaggio deisegni e il potenziamento dei mezzi di trasporto), alla pro-mozione di attività culturali, alla mobilità internazionale eall’orientamento al lavoro. Abbiamo riassunto il quadro diquesti interventi per mettere in luce il fatto che la valoriz-zazione delle “eccellenze” ossia degli studenti migliorinon deve nascondere le iniziative già in atto da anni e piùrecentemente potenziate, in attuazione di una precisa nor-ma costituzionale (l’art. 34 della Costituzione), che dispo-ne: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hannodiritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Re-pubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio,assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono esse-re attribuite per concorso”. Tener conto del reddito ma anche del meritoÈ chiaro che l’attenzione dell’Ente regionale per il dirittoallo studio deve essere particolarmente orientata versoquegli studenti che, senza l’intervento pubblico, non po-trebbero proseguire gli studi a livello universitario. Ma sesi guarda all’insieme delle attività, non può sfuggire il fat-

to che anche il meri-to viene tenuto neldovuto conto sia nel-le conferme delleborse di studio dopoil primo anno di uni-versità, sia attraversoun ricco tessuto diattività strettamentecollegate agli indi-rizzi e alle iniziativedi Ateneo volte a va-lorizzare gli studentimigliori, come nelcaso del premio Gal-luzzi per laureati ec-cellenti in Ingegne-ria e Fisica, realizza-to d’intesa con i pre-sidi delle rispettiveFacoltà.

Reddito e meritoI due parametri fondamentali per le azioni di diritto allo studio

di Gianpiero Gamaleri

Gianpiero Gamaleri

Gli uffici dell’Adisu Roma Tre

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Roma Tre è un Ateneo giova-ne che ha laureato decine dimigliaia di studenti nelle piùdiverse discipline. Molti deinostri laureati si sono positi-vamente inseriti nel mondodel lavoro e svolgono impor-tanti ruoli culturali e sociali. Ci siamo proposti di andarli acercare nella convinzione chela loro esperienza possa esse-re di grande aiuto per i nostristudenti che si apprestano ad

entrare nel mondo del lavoro.Il primo passo è la ricognizione dei nostri laureati per areee settori. A questa prima fase seguiranno degli incontri coninterviste mirate che saranno svolte da un gruppo di stu-denti di Roma Tre coinvolti nel progetto. Le intervisteavranno lo scopo di mettere a fuoco le difficoltà incontra-

te, le modalità con cui i nostri laureati si sono inseriti nelmondo del lavoro e le possibilità lavorative esistenti oggi.Un terzo momento sarà l’organizzazione di un convegnoda tenersi nei mesi di marzo o aprile del prossimo annoaccademico in cui saranno discussi i materiali raccolti e irisultati del lavoro svolto.All’iniziativa hanno aderito diversi docenti di Roma Tretra cui Francesca Brezzi, Roberto Cipriani, Marina D’A-mato, Gianpiero Gamaleri, Giacomo Marramao, France-sco Mattei, Antonella Palumbo.Nel corso del convegno sarà inoltre presentato un progettoper l’istituzione di un sito interattivo tra studenti, laureati edocenti a sostegno dell’attività di stage e di inserimentonel mondo lavorativo.

Per quanti fossero interessati a saperne di più e percontribuire al progetto è possibile scrivere a:[email protected].

Università e mondo del lavoroIl progetto di Roma Tre in collaborazione con Laziodisu

di David Meghnagi

David Meghnagi

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Da dieci anni l’accordodi collaborazione inter-nazionale stipulato trala Facoltà di Lettere eFilosofia dell’Universi-tà Roma Tre e la Facol-tà di Filologia dell’Uni-versità Statale Lomo-nosov di Mosca (MGU)– la più grande e glo-riosa università dellaFederazione russa –consente ai miglioristudenti dei corsi di lin-gua russa di studiareper tre mesi a Mosca.Io e altre due mie com-pagne di corso, BarbaraBiasizzo e Valentina Verardo, abbiamo avuto la fortuna diottenere questa borsa di studio ed effettuare un soggiornodi studio nella capitale russa da settembre a dicembre2008.

Accolte all’aeroportoda una studentessa rus-sa italianista, siamostate sistemate nellostudentato, ubicato al-l’interno dell’edificioprincipale dell’Univer-sità MGU, uno deisimboli della Moscasovietica. È un gigan-tesco, impressionantecomplesso con corpocentrale di 32 piani edue corpi laterali di 17piani, inaugurato nel1953: una vera e pro-pria città universitariacon biblioteche e sale

di lettura, aule per conferenze, librerie, mense, ufficiopostale, negozi, lavanderia, parrucchiere, calzoleria, sva-ghi culturali e sportivi per studenti russi e stranieri. Ognistudente ha a disposizione una camera singola in un mini

Vivere e studiare a MoscaTre studentesse di Roma Tre raccontano la loro esperienza

di Elena Mari

La sede dell’Università statale Lomonosov di Mosca (MGU)

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56 appartamento di due stanze e divide il bagnocon il proprio vicino.Adeguarci alla nostra “nuova casa” non è statodifficile, anche se abbiamo dovuto affrontarepiccoli inconvenienti che non ci hanno impedi-to di vivere con entusiasmo e spirito d’avventu-ra la nostra vita di studentesse in un contestomulticulturale per noi davvero inedito e singo-larmente stimolante. Dopo il test iniziale di verifica della nostracompetenza comunicativa, abbiamo seguito icorsi di lingua e cultura russa che si svolgevanodalla mattina al primo pomeriggio per quattrogiorni alla settimana. La tessera studentesca ciha consentito di visitare le cosiddette “case-mu-seo” di alcuni grandi scrittori russi: Tolstoj,Pus̆kin, Cù echov, Bulgakov. Abbiamo visitato laGalleria Tretjakov che raccoglie ed espone lapiù vasta collezione di arte russa del mondo; ilMuseo di Belle Arti Pus̆kin, che ospita un’ec-cellente collezione di artisti francesi impressio-nisti e postimpressionisti e ancora il Museo sto-rico di Mosca.Il teatro è intensamente presente nella vita deirussi; abbiamo assistito a due spettacoli diCù echov al Teatro d’arte di Mosca a lui dedicato,che peraltro è il teatro che mise in scena i suoicapolavori agli inizi del Novecento; e abbiamonaturalmente assistito a uno spettacolo di ballet-to al Teatro Bol’s̆oj. I prezzi assai contenuti ditutta la vita artistica e culturale di Mosca ci han-no anche consentito di ascoltare alcuni magnifi-ci concerti al Conservatorio di Mosca.La celebrazione domenicale del rito ortodosso, cuiabbiamo assistito, ci ha insieme incuriosito e coin-volto. Il costante segnarsi, le ripetute genuflessioni, le innu-merevoli icone illuminate dalle candele, l’oro e la ricchezzacromatica dei paramenti, la ieraticità dei gesti accompagnatida letture salmodiate in slavo-ecclesiastico e dalle splendidevoci del coro immettono in un’atmosfera fuori del tempo, oper meglio dire, di un tempo sacro. È quello che si percepiscevisitando Sergiev Posad (ex-Zagorsk) a circa settanta chilo-metri da Mosca, ovvero il Monastero della Trinità e di SanSergio, fondato nel 1345, sorta di sacra fortezza costituita daun poderosa cinta di mura, numerose torri, una cattedrale,due chiese e diversi edifici, la biblioteca, gli appartamentidello zar e il palazzo del metropolita. Il complesso ospita an-che la tomba dello zar Boris Godunov. Una gita veramentesuggestiva.San Pietroburgo, la celebre “finestra sull’Europa”, dovesiamo arrivate di primo mattino, ci ha colto di sorpresa. Lacittà è completamente diversa dalla capitale: è come seimprovvisamente dall’Eurasia fossimo approdate in Euro-pa. La città sulla Neva è elegante, maestosa, imperiale: ep-pure tutto ci risultava quasi familiare, tutto è a misurad’uomo. Gli abitanti sono cortesi e più aperti ai turisti. Lavita è meno frenetica che a Mosca.Un grosso problema, comunque, sia a Mosca che a San Pie-torburgo, è stato affrontare la burocrazia russa. Bisogna regi-strarsi presso la struttura nella quale si alloggia, operazione,

questa, tutt’altro che facile per gli innumerevoli giri da farenei diversi uffici, per firme e timbri vari che sembravano nonfinire mai, un vero tour de force che richiede perseveranza.In conclusione, possiamo dire che la nostra è stata un’espe-rienza indimenticabile, un’occasione veramente unica nelsuo genere. Di questa straordinaria possibilità di studio edesperienza di vita siamo grate alla presidenza della nostraFacoltà che stanzia una parte dei propri fondi per la collabo-razione internazionale con i paesi che non rientrano negliscambi Erasmus, e alla professoressa Claudia Lasorsa checon grande impegno cura l’attuazione di questo accordo.Questa esperienza costituisce uno stimolo che determinanon di rado le successive scelte professionali. Attualmentequattro ex stagisti sono apprezzati dottori di ricerca in Sla-vistica e si avviano alla carriera universitaria; numerosistudenti sono stati selezionati nel corso degli anni per il ti-rocinio CRUI-MIUR presso gli Istituti italiani di cultura, aVilnius (Lituania) e a San Pietroburgo; quattro studenti,selezionati in primavera alle prove dell’Eurofestival di lin-gua russa, sono stati invitati a trascorrere una settimana aSan Pietroburgo per partecipare alla cerimonia conclusivadel festival; alcuni infine lavorano presso le rappresentan-ze di ditte italiane in Russia o seguono il dottorato di ricer-ca presso Università della Federazione russa. Non è questoun singolare germe di eccellenza della nostra Facoltà?

La Piazza Rossa a Mosca

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In occasione della giornata dedicata all’orientamento che ha avuto luogo il23 luglio scorso, abbiamo presentato agli studenti la nuova edizione dellaCarta dei servizi per il diritto allo studio dell’Adisu Roma Tre. Uno stru-mento rinnovato, oltre che nei contenuti, anche nella veste tipografica e nelformato, tascabile, la cui scelta è stata dettata dall’auspicio di fornire aglistudenti uno strumento di consultazione rapido. All’interno della guida sonopresentati in maniera sintetica i vari servizi rivolti agli studenti ed alcune in-dicazioni operative sul come, dove e quando poterne fruire. Una guida prati-ca, dunque, ma anche, come sottolinea il prof. Gianpiero Gamaleri nell’in-troduzione «strumento di dialogo per migliorare sia le relazioni con gli stu-denti, sia la quantità e la qualità delle prestazioni offerte, in uno spirito dicomune collaborazione».Per chi non ne fosse ancora in possesso ricordiamo che la Carta dei Servizi èin distribuzione presso gli uffici dell’Adisu Roma Tre di Via della Vasca Na-vale, 79.

Ultim’ora da Laziodisudi Salvatore Buccola

A fianco: la copertina della Carta dei servizi

Programmi di mobilitàLaziodisu e l’Ate-neo Roma Trehanno stipulatouna convenzioneper l’incentiva-zione della mobi-lità internazionaleverso Paesi nonappartenenti al-l’Unione Europea. Annualmente viene predisposto unpiano progettuale di attività per la mobilità internazio-nale di studenti e dottorandi nelle diverse discipline afronte del quale Laziodisu eroga un contributo. Inoltre,nei limiti della propria disponibilità, Laziodisu si im-pegna a fornire agli studenti stranieri, che rientrino inprogrammi di mobilità internazionale verso l’Universi-tà degli Studi Roma Tre, i servizi di mensa e alloggioal costo di 2,03 euro per ciascun pasto e di 160,80 eu-ro mensili per l’alloggio. Per l’anno 2009 sono statimessi a disposizione dell’Università degli Studi RomaTre da Laziodisu 50 posti alloggio.

Premio di LaureaGli studenti già beneficiari di borsa di studio che con-seguano la laurea triennale o la laurea specialistica o lalaurea a ciclo unico entro la durata legale dei relativicorsi di studio, hanno diritto a beneficiare di un impor-to integrativo pari alla metà della borsa di studio otte-nuta nell’ultimo anno di corso. Per gli studenti diversa-mente abili il diritto a beneficiare del premio di laurea

si determina con il conseguimento del suddetto titolodi studio entro il 1° anno fuori corso. Il diritto al pre-mio di laurea è subordinato alla disponibilità dei fondistanziati annualmente. Gli interessati sono tenuti a pre-sentare apposita richiesta entro 30 giorni dal consegui-mento del titolo accademico, consultando la seguentepagina web: http://dirstudio.sirio.regione.lazio.it/pre-milaurea/home.asp

Orientamento in itinere: borse di studio GLOA/LaziodisuL’Università Roma Tre e Laziodisu hanno stipulatouna convenzione in materia di orientamento formativovolta a ridurre il fenomeno dell’abbandono degli studie il ritardo nel percorso universitario.Annualmente è indetto un bando per l’erogazione diborse di studio riservate a studenti senior in possessodi elevati requisiti di merito che, sotto la diretta super-visione dei docenti del Gruppo di Lavoro per l’Orien-tamento di Ateneo (GLOA), svolgeranno 250 ore di tu-torato in favore di colleghi studenti secondo il progettoelaborato dal GLOA in collaborazione con Adisu Ro-ma Tre.Nell’a.a. 2008/2009 sono state messe a bando 26 borseper un importo totale di 50700 euro. L’ammontare diciascuna borsa è stato fissato in 1950 euro. I 26 borsisti vincitori stanno svolgendo le proprie at-tività presso le Facoltà sotto la supervisione dei do-centi GLOA e il coordinamento organizzativo del-l’Ufficio orientamento – Divisione politiche per glistudenti.

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Prestito interbibliotecario metropolitano (PIM)Dal 26 ottobre scorso alcune Biblioteche universitarie ro-mane e Biblioteche di Roma hanno attivato il servizio PIMpensato per facilitare l’accesso alle raccolte bibliografichea livello cittadino.Gli utenti di Roma Tre potranno prendere in prestito i libriposseduti dalle Biblioteche di Roma facendone richiesta auna delle seguenti biblioteche di Ateneo che partecipanoal progetto:- Biblioteca Lino Miccichè, Sezione spettacolo della Bi-blioteca di area delle arti- Sezione economia della Biblioteca di area giuridico-eco-nomico-politica- Biblioteca Guillaume Apollinaire del Centro di studi ita-lo-francesi

Reciprocamente queste biblioteche mettono a disposizionedegli utenti di Biblioteche di Roma il proprio patrimoniobibliografico. Per accedere al servizio: dopo aver consultato il catalogodelle biblioteche comunali di Roma e aver verificato ladisponibilità del documento è necessario inoltrare la ri-chiesta in una delle tre biblioteche di Roma Tre sopraelencate, dove verrà completata la transazione nelle fasi diritiro e restituzione. Si possono richiedere fino a 5 docu-menti per volta.

Roma Tre e Istituzione universitaria dei Concerti(IUC)Grazie alla convenzione tra Roma Tre e IUC gli studenti, idocenti e il personale di Roma Tre potranno seguire i con-certi della 65° stagione musicale 2009-2010 della IUC conspeciali riduzioni sul costo dei singoli biglietti e degli ab-bonamenti.Abbonamenti 22 concerti: studenti, 45 euro; docenti e per-sonale, 78 euroBiglietti: riduzioni di circa il 20%; under 30: 8 euro

Sono disponibili mini abbonamenti e carnet di biglietti. Per informazioni rivolgersi alla IUC: tel. 06 3610051/2;www.concertiiuc.it.

Botteghino universitario a Roma Tre. Nuova la sede ma lo sconto restaDal 6 ottobre scorso la Biglietteria teatrale di Roma Treha riaperto i battenti, in una nuova sede ma con le stessetariffe vantaggiose! Da quest’anno infatti per comprarebiglietti di spettacoli teatrali a prezzi ridotti (fino al50%) si potrà andare al botteghino universitario pressogli uffici di via Ostiense 169, accanto alle Segreteriestudenti.La biglietteria, riservata ai soli studenti universitari, pro-pone biglietti teatrali, per oltre 50 teatri romani, a costi ri-dotti fino al 50% e senza l’applicazione di alcuna commis-sione di agenzia. Previste delle agevolazioni anche per i docenti e il perso-nale tecnico-amministrativo dell’università. Tra i serviziofferti ricordiamo anche una vendita, aperta a tutti, di bi-glietti teatrali, a prezzo intero. Inoltre, per gli appassionati dello spettacolo dal vivo, an-che quest’anno si riconfermano gli incontri di Teatro 30 eLode! Veri e propri appuntamenti in università (seminari,dibattiti e performance) tra studenti e attori, registi, sceno-grafi e autorevoli protagonisti del mondo del teatro. Il botteghino universitario e gli appuntamenti di Teatro 30e lode! sono realizzati dall’AGIS Lazio in collaborazionecon la Provincia di Roma, la Regione Lazio e il Comunedi Roma ed in coordinamento con le Università di RomaTre, La Sapienza e Tor Vergata.

Per informazioni:Via Ostiense 169 (piano terra) tel. 06 57332243 - e-mail: [email protected] martedì a giovedì 13.00-16.00www.spettacoloromano.it

58 Non tutti sanno che…

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Tre strade: la drammaticacertezza della fine (versola Torre dell’Olocausto),un esilio precario (neiGiardini di E.T.A Hoff-man) e la continuità dellaMemoria (fino alle saleespositive). I corridoi, piùprecisamente assi, proget-tati da Daniel Libeskindper guidare i visitatori al-l’interno del Museo ebrai-co di Berlino simboleg-

giano proprio questi diversi destini a cui è andato dram-maticamente incontro il popolo ebraico. Una stella di Da-vide decostruita (o – come alcuni sostengono – un blitz,fulmine in tedesco) senza ingressi dalla strada né finestre(nel senso tradizionale del termine). L’unica via di acces-so: una scala e un corridoio sotterraneo dall’adiacenteBerlin Museum, a simboleggiare l’inscindibile legame trastoria tedesca ed ebraica. Il drammatico zig zag del mu-seo – metafora di un terribile peregrinare – è interrotto dauna linea retta. Dall’intersezione nascono sei spazi trape-zoidali inaccessibili, spazi vuoti, infatti il filo conduttoredi quest’opera di Libeskind è proprio il Vuoto. Inteso, an-che, come assenza di fede negli atti dei carnefici e di spe-ranza nelle vite delle vittime. Una volta all’interno, difronte alle tre strade, si è assaliti dallo stesso senso difreddo che suscitano a prima vista le lastre di zinco scelteper coprire esternamente l’edificio. Il percorso che con-

duce alla Torre dell’Olocausto inizia da un muro nero econduce ad una pesante porta anch’essa nera. Assenza diluce, di ragione, e perciò di speranza. All’interno il vuotodella torre è squarciato dalla luce indiretta di una feritoiaposta tanto in alto da non permettere di vedere, e neanchesentire chiaramente, cosa succede all’esterno. Cosicché isuoni distorti e l’ambiente (tutto realizzato in cemento ar-mato) completamente privo di meccanismi di areazione –caldissimo d’estate e freddo d’inverno – catapulta il visi-tatore in uno stato d’inquietante attesa. Qui anche due ne-cessità tecniche, come i fori per l’aria e la scala per la pu-lizia del tetto, diventano parte della ricostruzione. I primi,lungo una parete, ricordano terribilmente quelli che spu-tavano gas nelle camere di morte, mentre la seconda – ir-raggiungibile anche salendo gli uni sulle spalle degli altri– la speranza delusa di una fuga irrealizzabile. La torre –definita “Voided Void” (vuoto del vuoto) dallo stesso Li-beskind – rappresenta all’esterno il vuoto spaziale del-l’interno del museo, ma anche quello creato dall’assenzadi milioni di ebrei vittime della Shoah. Il Giardino diE.T.A Hoffman, cui conduce la via ingloriosa dell’esilio,è quadrato – delimitato da un robusto muro di cinta in ce-mento – e si trova sotto il livello del suolo. Ciò nonostan-te, a differenza della claustrofobica Torre dell’Olocausto,da qui è possibile scorgere lampi di cielo e brandelli diedifici. Quanto basta per sentirsi vivi. Oppressi, ma vivi.Nel giardino dell’esilio affondano le loro radici quaranta-nove pilastri – a base quadrata – anch’essi di cemento ar-mato che sorreggono altrettanti alberi. I pilastri creano unlabirinto soffocante – aggravato dall’inclinazione del suo-

lo (circa sei gradi) che dà capogi-ro – e gli alberi, seppur figli diuna natura benigna, posti così inalto rappresentano il desiderio ir-realizzabile del ritorno a casa. PerLibeskind il giardino rappresentail naufragio della storia: «si entrae si prova l’esperienza di qualcosache disturba. Sì, è instabile; ci sisente un po’ male camminandocidentro. Ma è voluto, perché è lastessa sensazione che si prova la-sciando la storia di Berlino... èquasi come navigare con una bar-ca, come essere in mare e scoprired’improvviso che ogni cosa sem-bra diversa.» L’ asse della conti-nuità – collegato agli altri duecorridoi – conduce, attraverso unascala, alla costruzione principale,dove su tre piani sono distribuitele sale espositive. Un percorso in-

Jüdisches MuseumIl labirinto della memoria metafora di un terribile peregrinare

di Giacomo Caracciolo

Giacomo Caracciolo

Jüdisches Museum di Daniel Libeskind

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tenzionalmente lungo ed ostico (acausa di un intrico di travi inclina-te) ma, a differenza delle altre vie,illuminato da una luce che, si af-faccia dai lucernari nel soffitto edalle lunghe finestre laterali, incu-tendo fiducia. Un percorso ascen-sionale reso impervio dalla co-stante minaccia della storia. Il Jü-disches Museum (realizzato neldecennio tra il 1989 e 1999 einaugurato nel 2001), nelle sue se-zioni espositive, è anche la testi-monianza di quante poche traccedella cultura ebraica siano presen-ti a Berlino. Piccoli oggetti e ma-teriali d’archivio che evocano, an-ch’essi, più un’assenza (il Vuoto)che una presenza. Non è un museoche si visita per apprendere, maper capire. Provare a capire sensa-zioni che per fortuna, la maggiorparte degli europei, hanno solosentito raccontare. Non tutti riescono a rimanerne affa-scinati, alcuni addirittura rischiano di sentirsi oppressi,dalla struttura stessa della costruzione decostruttivista,da non riuscire a terminare la visita. Questo perché Da-niel Libeskind, ebreo di Polonia, figlio di deportati, oltread essere uno degli esponenti di spicco della Decostructi-vist Architecure – forse il più promettente a fine anni Ot-tanta quando gli venne assegnato l’incarico – è soprattut-to parte stessa di quella memoria. Il Decostruttivismo –teorizzato da Jacques Derida – conosciuto dal grandepubblico grazie a Frank O. Gehry (teorizzatore di archi-tetture aperte, abbozzate e non finite), Peter Eisenman(che per il Biocenter dell’Università di Francoforte pre-sentò il progetto di tre edifici disposti a lisca di pesce) elo stesso Libeskind, caratterizzato dalla contrapposizionedi spazi e linee è forse l’unico stile adatto a raccontareuna storia tanto drammatica. L’architetto decostruttivistasfida la razionalità degli spazi teorizzata dal movimentoPostmoderno (di cui sono un esempio le opere di RobertVenturi) e cerca attraverso una geometria instabile di da-re plasticità ai volumi. Disarticola e decompone figuregeometriche, inclina piani (sfidando la forza di gravità) efugge dai comuni canoni estetici in tema di costruzionifunzionali. Manifesto di questa tecnica architettonica èstata sicuramente la mostra allestita presso il Museum ofModern Art, di New York, nel 1988. Gli organizzatoridell’evento (Philip Jhonson e Mark Wigley) fecero affig-gere, alle pareti, queste parole: «questi progetti eviden-ziano una sensibilità architettonica diversa, in cui il so-gno della forma pura viene disturbato. Tradizionalmentel’architetto tentava di produrre forme pure, basate sull’i-nattaccabile integrità di figure geometriche elementari,ed evitava di inquinarle per ribadire valori culturali cen-trali: stabilità, armonia, sicurezza, comfort, ordine, uni-tà… In questi progetti, invece, la forma pura è stata con-taminata, trasformando l’architettura in un agente di in-stabilità, disarmonia, insicurezza, sconforto, disordine e

conflitto». E in queste parole si trova la ragione dellascelta del decostruttivismo per il Jüdisches Museum. In-fatti, Libeskind decostruisce, come una guerra insensataha decostruito molte città, crea spazi vuoti incolmabili,come incolmabile è la mancanza di tutti coloro che sonostati uccisi ingiustamente in nome dell’odio, ma crea an-che con i suoi spazi irrazionali una speranza consapevo-le. La speranza appagata dei pochi sopravvissuti ma so-prattutto quella che la memoria storica di ciò che è statoimpedisca eccidi futuri.

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Kadishman’s steel sculpture “Shalechet” Void, Jüdisches Museum

Giardino dell’esilio, Jüdisches Museum

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Il tunnel della libertà (EllenSesta, Garzanti, 2002) è unromanzo che racconta unavicenda realmente accadu-ta: un’avventura dimentica-ta ed emozionante, che haavuto per protagonisti duestudenti italiani di ingegne-ria a Berlino, DomenicoSesta e Luigi Spina.La storia prende avvio nel1961, alla vigilia della co-struzione del muro nella ca-pitale tedesca. Sconvolti perl’isolamento forzato nella

zona est del compagno di università Peter e della sua fami-glia, Mimmo e Gigi escogitano un piano per fargli varcare ilconfine. Dopo un primo tentativo fallito, Mimmo, con lacomplicità dell’addetto agli archivi della facoltà e di alcuniamici riusciti a superare lo sbarramento, progetta un tunnelche da una fabbrica in disuso ad ovest della città sbuchi inuno scantinato ad est. Lo scavo del tunnel dura ben sette me-si, durante i quali Mimmo, Gigi e i loro compagni affrontanoe risolvono ogni sorta di contrarietà. Con turni massacranti dilavoro, le tempestive invenzioni dei due giovani e l’aiuto fon-damentale e inatteso di Ellen – futura moglie di Mimmo, au-trice del libro – i nostri riescono nell’impresa, sfuggendo alcontrollo delle temibili spie dei servizi segreti orientali. Il 14settembre 1962, l’attraversamento di quel tunnel verso la li-bertà da parte di una trentina di persone viene documentatoda una troupe delle rete televisiva americana NBC. La stringatezza dell’opera lascia ampi spazi alla storia ve-ra a propria, raccontata da una dei protagonisti con straor-dinario realismo. La Sesta dimostra un’eccezionale capa-cità di trasportare il lettore, anche quello troppo giovaneper aver vissuto gli avvenimenti di quegli anni o comun-que per ricordarli, nel mezzo della vicenda nel suo accade-re. La precisione con la quale l’autrice descrive Berlino, inun affresco fatto di colori, di sentimenti, di paure, permet-

te di individuare con precisio-ne le storiche piazze della ca-pitale tedesca, distrutta dallaguerra, e i locali più tipici del-la vita studentesca. Tutto ciòcontribuisce a dar forza almessaggio del libro: anche iregimi più duri possono essereabbattuti, grazie ad un impe-gno attivo per affermare valoridiversi da quelli imposti dal-l’alto da un regime dittatorialeche tenta di cancellare l’esi-stenza di libertà, amicizia, solidarietà. Dalle vicende raccontate nel libro è stato tratto anche unfilm tv diretto da Enzo Monteleone. Il regista si cimentavaper la prima volta con la fiction per la tv, trasportando inessa la sua passione per la storia rivissuta attraverso vicen-de piccole e personali. Rispetto agli avvenimenti reali raccontati nello scritto dellaSesta, si notano alcune varianti: per esempio, la morte diPeter. Il personaggio dell’amico fuggiasco, nel libro e nellarealtà, non muore, ma riesce a passare con la famiglia aovest di Berlino. Fu un altro ragazzo di circa vent’anni, an-che lui di nome Peter, che, cercando di oltrepassare a maninude il Muro, venne fermato dal filo spinato e lasciato mo-rire dissanguato. La sua morte venne filmata dall’altra par-te del Muro e diventò un simbolo delle ingiustizie di queglianni. Anche il finale del film non rispecchia gli eventi vera-mente accaduti. Entrambe le storie hanno un lieto fine, ma,nella realtà, il tunnel non fu scoperto dalla polizia dellaGermania dell’est e divenne inutilizzabile solo a causa diun’infiltrazione d’acqua. Infine, le 29 persone che Mimmoe Gigi riuscirono a portare in salvo dall’altra parte dellagalleria non furono inseguite da poliziotti.Tuttavia, queste discrepanze hanno contribuito in misurarilevante all’impianto drammatico del film, mantenendosempre viva la tensione, grazie al ritmo sostenuto dell’a-zione. Girato a Budapest, perché la capitale unghereseconserva ancora lo scenario e le atmosfere di quegli anni,in 35 mm, Il tunnel della libertà ha una fotografia, unmontaggio e una regia di livello decisamente cinematogra-fico. L’ottimo cast, formato da Kim Rossi Stuart (Mimmo)e Paolo Briguglia (Gigi), affiancati da Antonia Liskova(Ellen) e da bravissimi attori locali, fornisce convincentiinterpretazioni, che bilanciano qualche piccolo difetto del-la sceneggiatura, laddove alcuni personaggi sono forse unpo’ schematici e monolitici.Nel complesso Il tunnel della libertà risulta un buon prodot-to che, distribuito attraverso un canale come la televisione,diventa luogo della memoria collettiva degli spettatori e ditanti giovani, cui le istituzioni di formazione troppo superfi-cialmente parlano di un passato neppure tanto lontano.

123 metri sotto il Muro di BerlinoL’avventura di due studenti italiani nella Germania del 1961

di Rosa Coscia

Rosa Coscia

Un’immagine dal film tv diretto da Enzo Monteleone

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Nel 2003 è uscito nelle sa-le il film Goodbye Lenin!diretto dal regista Wolf-gang Becker. Subito cam-pione d’incassi in Germa-nia, portò a casa il premiocome miglior film euro-peo al Festival di Berlinonello stesso anno.La storia è quella di Chri-stiane, fervente socialistamilitante nella Germaniadell’Est che colpita da in-farto dopo aver visto in tvil figlio picchiato durante

un corteo, cade in coma per otto mesi risvegliandosi al-l’indomani della caduta del Muro di Berlino. Date le sueprecarie condizione di salute i medici consigliano al fi-glio, Alex, di evitare alla madre qualsiasi fonte di stressed è a questo punto che la trama del film si sviluppa intutta la sua originalità. Alex cerca di fermare il temponella loro casa ricreando i finti telegiornali di regime aiu-tato da un amico cineasta, cercando cibi ormai introvabili(perché già rimpiazzati dalle marche occidentali), gior-nali e cimeli della “vecchia” Germania dell’est.Tra gag esilaranti e momentidi tristezza, il film scorre lun-go il filo del difficile momen-to di passaggio tra separazio-ne e unità politica della Ger-mania di fine anni Ottanta. Ilmuro che cade è sinonimo diuna grande libertà che prestolascerà spazio alla confusionee alla nostalgia di coloro checome Christiane non hannomai visto realizzarsi i propriideali politici.Quel muro era stato lì perventotto anni, separava nonsolo Berlino ma l’intero pae-se: era il simbolo della “corti-na di ferro”.La storia del film è quella diuna singola famiglia che viveun difficile trapasso storico,ma anche delle tante persone(tra cui il regista stesso) che sisono sentite perse prima dicominciare a vivere in unaGermania di nuovo unita.Proprio questo tema è conti-

nuamente sdrammatizzato dal personaggio di Alex che ècostretto dalla situazione familiare a fingere che nulla siacambiato, una messa in scena che fungerà quasi da terapiaper minimizzare il distacco. In Alex, c’è anche la voglia diprendere tempo e, dietro agli accorgimenti per mantenereintatto il mondo conosciuto dalla madre, salvaguarda que-gli ideali con cui lui stesso è cresciuto. La geniale trovata della ricomposizione di un mondo or-mai finito è il motivo intorno al quale si riflette anche suirapporti umani, sempre in quel panorama politico dai ri-svolti irreversibili che modificherà per sempre la vita deiprotagonisti. Tutto cambia troppo in fretta e i anche i gio-vani non sono, al contrario di ciò che si sarebbe pensato,abbagliati dalle luci dell’occidente ma, al contrario, riman-gono smarriti in un senso di confusione. Il film finisce con la morte di Christiane e la successiva fi-ne della commedia “protettiva” di Alex.Goodbye Lenin! è uno di quei film che narrano avveni-menti e fatti storici importanti in maniera leggera ma chenascondono sotto il sottile e trasparente velo cinematogra-fico la fondamentale riflessione storica e sociale. Studiare e osservare con occhi lontani aiuta soprattutto anon cadere nei frequenti errori storici.Il film non vuole spostare l’attenzione dall’enorme signifi-cato del crollo del muro, indubbio per tutti, ma far riflette-

re anche sugli immediati cam-biamenti che questo ha com-portato. L’impatto è stato for-te e ha colto tutti impreparatitra rimpianti e un’immensafelicità.Il Muro di Berlino nel 1989divideva la città in due con isuoi 155 chilometri di lun-ghezza bloccando ogni possi-bilità di comunicazione, ma ènoto che prima del muro, giàaltri tentativi di divisione confilo spinato e blocchi di ce-mento armato erano stati postinel cuore della città. Il Muro ha causato oltre aldolore anche molte vittime,tutti quelli che tentarono discavalcarlo in nome della li-bertà. Il suo crollo il 9 no-vembre 1989 e le immaginidei tedeschi che passano dal-la parte est a quella ovest èuna delle più belle manifesta-zioni di libertà della nostraepoca.

Goodbye Lenin!Il passo inarrestabile del tempo

di Maria Vittoria Marraffa

Maria Vittoria Marraffa

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Dal 2 al 6 novembre 2009la Sezione italiana di Am-nesty International eGreenpeace Italia hannopromosso il Bhopal bustour. Una delegazione disopravvissuti al disastroavvenuto nella città india-na nel 1984 ha dato vita inItalia a una serie di mani-festazioni, iniziative e in-contri pubblici tra Roma eMilano, con l'obiettivo diriportare sotto i riflettoridell'opinione pubblica unatragedia che causò la mor-te di circa 25.000 personee che ancora oggi, dopo25 anni, resta drammatica-mente attuale. Nel primonumero del 2008 ci erava-mo già occupati del caso Bhopal e torniamo a farlo con-vinti della necessità di ricordare gli scenari prodotti dal-l’altra faccia della globalizzazione.Bhopal, infatti, nonostante siano passati 25 anni resta uncaso emblematico nel contesto della responsabilità delleaziende. Non è, infatti, soltanto un tragico epilogo di unavicenda economica del secolo scorso, ma rappresentatuttora un triste esempio di come la legge protegga i de-stini di imprese potenti, dimenticando quelli delle perso-ne che ne hanno subito e ne subiscono i danni. In questianni ai protagonisti della tragedia di Bhopal non è statadata la possibilità di rivendicare i propri diritti e ancoraoggi continuano a soffrire per le conseguenze del dis-astro. Il 5 novembre scorso, presso la Facoltà di Econo-mia del nostro Ateneo si è svolto il convegno Imprese,diritti umani e ambiente. La responsabilità delle impreseper l'impatto delle loro attività in India, Nigeria e Italia,sono intervenuti fra gli altri: Carlo Alberto Pratesi, Sal-vatore Monni, Raffaele Guariniello, Giorgio Forconi,Sathyu Sfrangi, Biagio De Marzo, Alessandro Giannì eRiccardo Noury La storia Il 2 dicembre 1984, poco prima della mezzanot-te, circa 40 tonnellate di isocianato di metile, un agentechimico utilizzato nella produzione di pesticidi, e oltre12.000 chili di reagenti chimici fuoriescono dallo stabili-mento di pesticidi della Union Carbide, oggi Dow Chemi-cal Company. La città è Bhopal, al centro del subcontinen-te indiano. Nel giro di pochi giorni muoiono circa 10.000

persone e altre 15.000 perdono la vita nei 20 anni succes-sivi. Il numero di vittime non è certo e probabilmente mailo sarà perché la zona coinvolta nel disastro è quella dellebidonville.Successivamente a causa dei problemi di salute in mi-gliaia hanno perso il lavoro o la capacità di guadagnaredenaro. In pratica, tutti quelli che sono stati colpiti dallafuoriuscita dei gas sono stati trascinati ancora più a fon-do nella povertà. A una tragedia se ne aggiunge un’altra:a distanza di quasi 25 anni, l'area interessata dalla fuoriu-scita del MIC non è ancora stata bonificata né sono statecondotte inchieste adeguate sull'incidente e sulle sueconseguenze. Ad oggi più di 100.000 persone continuanoa soffrire di malattie associate al disastro, come disturbirespiratori, cancro, ansia e depressione, malformazionigenetiche e i sopravvissuti sono tuttora in attesa di otte-nere una riparazione equa e adeguata per le sofferenzeche il disastro ha provocato. Le misure messe in atto dalgoverno indiano per avviare una riabilitazione dei so-pravvissuti al disastro - sia dal punto di vista delle curemediche sia della riabilitazione socio economica - sonostate insufficienti. Nel 2001, inoltre, la Union Carbide èpassata sotto il controllo della Dow Chemical Company,la quale dichiara di non avere alcuna responsabilità inmerito. A partire dallo scorso anno il governo indiano hafinalmente iniziato ad accogliere alcune richieste dellagente di Bhopal. Impervia ed incerta è la strada che levedrà soddisfatte.

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Bhopal, un disastro ancora in corso

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Anno XI, n. 3 - 2009Periodico di AteneoUniversità degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it

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