Il piano di immanenza deleuziano: immagine e orientamento · Cfr. anche G. Deleuze, F. Guattari,...

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Il piano di immanenza deleuziano: immagine e orientamento Viviana Verdesca Un ritratto si dice ben riuscito quando coglie in un soggetto tutte le età. È un buon segno, dunque, se nel ritratto di un viso adulto, per esempio, si accendono tratti infantili o affiorano linee di invecchiamento: significa che il ritrattista ci sa fare. Non bisogna però equivocare: non si tratta tanto di invecchiare o di ringiova- nire in qualche modo l’immagine di chi si ha dinnanzi, ricorrendo magari a trucchi del mestiere, quanto piuttosto di intuire zone di indiscernibilità tra le età capaci di trasfigurarne i lineamenti. È come se ogni pennellata dovesse generare un doppio effetto: un effetto di somiglianza, tale per cui la copia ritratta sia facilmente ricon- ducibile al modello (“è lui”), e un effetto di dissomiglianza, capace di insinuare tra il modello e la figura un senso di estraneità (“non è lui”) 1 . L’abilità del ritrattista, la sua malizia, consisterebbe per così dire nel vedere nel volto (letteralmente: in ciò che a lui si volge) più di quanto non si dia a vedere. L’arte del ritratto, dunque, sarebbe un’arte di cattura, di doppia cattura, che disegna ciò che vede e mira a ciò che si ritrae. Ma che cosa si ritrae? In prima battuta, è possibile dire che ciò che si ritrae non va cercato nel pre- sente, nel quale il soggetto viene immortalato, ma bisogna subito aggiungere che pure, paradossalmente, non si manifesta altrove. Ciò che sfugge è infatti la soglia che il soggetto, presentificato nella sua figura, varca per diventare ciò che è: ov- vero un individuo di poco più vecchio rispetto al presente appena trascorso e di poco più giovane rispetto al presente che è prossimo a venire. Lungo questa soglia, 1 Questo doppio effetto potrebbe essere detto in una parola rassomiglianza; nella definizione che ne dà Ronchi rassomigliante è infatti ciò che manifesta nei riguardi del modello, cui si impronta, «un non-so-che di dissimile, una estraneità diffusa e non localizzabile» (R. Ronchi, Il pensiero bastardo. Figurazione dell’invisibile e comunicazione indiretta, Marinotti, Milano 2001, p. 53; cfr. inoltre pp. 150-163). Copyright c 2005 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera) Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a fine di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa, su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato per iscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve essere riportata anche in utilizzi parziali.

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Il piano di immanenza deleuziano:immagine e orientamento

Viviana Verdesca

Un ritratto si dice ben riuscito quando coglie in un soggetto tutte le età. È unbuon segno, dunque, se nel ritratto di un viso adulto, per esempio, si accendonotratti infantili o affiorano linee di invecchiamento: significa che il ritrattista ci safare. Non bisogna però equivocare: non si tratta tanto di invecchiare o di ringiova-nire in qualche modo l’immagine di chi si ha dinnanzi, ricorrendo magari a trucchidel mestiere, quanto piuttosto di intuire zone di indiscernibilità tra le età capaci ditrasfigurarne i lineamenti. È come se ogni pennellata dovesse generare un doppioeffetto: un effetto di somiglianza, tale per cui la copia ritratta sia facilmente ricon-ducibile al modello (“è lui”), e un effetto di dissomiglianza, capace di insinuare trail modello e la figura un senso di estraneità (“non è lui”)1. L’abilità del ritrattista,la sua malizia, consisterebbe per così dire nel vedere nel volto (letteralmente: inciò che a lui si volge) più di quanto non si dia a vedere. L’arte del ritratto, dunque,sarebbe un’arte di cattura, di doppia cattura, che disegna ciò che vede e mira a ciòche si ritrae. Ma che cosa si ritrae?

In prima battuta, è possibile dire che ciò che si ritrae non va cercato nel pre-sente, nel quale il soggetto viene immortalato, ma bisogna subito aggiungere chepure, paradossalmente, non si manifesta altrove. Ciò che sfugge è infatti la sogliache il soggetto, presentificato nella sua figura, varca per diventare ciò che è: ov-vero un individuo di poco più vecchio rispetto al presente appena trascorso e dipoco più giovane rispetto al presente che è prossimo a venire. Lungo questa soglia,

1 Questo doppio effetto potrebbe essere detto in una parola rassomiglianza; nella definizione chene dà Ronchi rassomigliante è infatti ciò che manifesta nei riguardi del modello, cui si impronta, «unnon-so-che di dissimile, una estraneità diffusa e non localizzabile» (R. Ronchi, Il pensiero bastardo.Figurazione dell’invisibile e comunicazione indiretta, Marinotti, Milano 2001, p. 53; cfr. inoltrepp. 150-163).

Copyright c© 2005 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera)Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali.Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte eutilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri dellaPubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a finedi lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa,su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato periscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deveessere riportata anche in utilizzi parziali.

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che scandisce i due sensi del divenire, giovinezza e vecchiaia coesistono differen-ziandosi illimitatamente l’una dall’altra e così facendo permettono al presente dipassare e al mutamento di accadere2. E se è vero che un mutamento non può esserevalutato nel suo mentre ma solo retroattivamente a partire dalla cosa mutata, bastiallora pensare che su questo limite si gioca a ogni istante quel trascurabile scartod’età che alla lunga si dice invecchiamento. Questa soglia, che fessura il tempo e alcontempo lo tiene insieme3, rivendica per sé uno statuto speciale: non partecipandodel presente, essa accompagna ogni sua pulsazione come l’istante intemporale cheincessantemente lo lavora; non partecipando dell’essere (poiché per l’appunto nonè una creatura del presente), essa si muove lungo il fragile margine dell’esistenza,attingendo una qualche parvenza di essere proprio da questa eccezionale colloca-zione extra-essere. Non vi è luogo specifico in grado di corrispondere a questolimite4: nessun dove può infatti accogliere la natura paradossale che lo caratterizzae tollerare di conseguenza che gli opposti coesistano nella loro reciproca irrela-tezza; ma per ciò stesso occorrerà spingersi oltre e indicare che in questa soglia èsancito l’aver luogo di ogni tempo presente e risiede, per estensione, la condizionedi possibilità di qualsivoglia cosa frequenti la sua breve durata temporale. In altreparole potremmo anche dire che tra i lembi di tale insondabile fessura si occultail che di ogni figura: infatti, ogni cosa, accadendo, si figura in tale caduta; che rive-sta una particolare figura è dunque l’unica traccia del passaggio attraverso il varco

2 Riferendosi a questo divenire illimitato che permette lo scorrere del tempo, Ronchi commenta:«che il tempo scorra secondo una successione significa che è continuo. Questa continuità è un fattodi cui però bisogna rendere conto. Essa implica che tra il prima e il dopo che ordinano la successionesia data una relazione di identità e di differenza. In assenza della prima non vi sarebbe infatti conti-nuità, in assenza della seconda successione» (ibid., p. 28). Per esemplificare quanto va sostenendo,Ronchi si rifà all’incisiva formula della continuità di Poincaré, che, come riconosce Ronchi stesso,è sostanzialmente di derivazione platonico-aristotelica; secondo tale formula «perché la successionesia vissuta come tale bisogna allora che la continuità tra gli estremi A e B, sia garantita da un medioX , differente da entrambi» (ibid., p. 28), per cui: A = X , X = B, A 6= B. A fondamento del tempo,a garanzia del suo scorrimento, occorre pertanto ammettere un medio X che sia simultaneamente ilsuo prima (A) e il suo dopo (B). Lungo la faglia mediana, ora indicata, il tempo non cessa di diveniresdoppiandosi illimitatamente in se stesso; ed è precisamente questo il senso di quanto si andava illu-strando. Per quanto riguarda le osservazioni di Ronchi, è bene annotare che il contesto, dal quale leabbiamo estrapolate, è quello di una ricerca condotta intorno alla natura paradossale dell’exaiphnes,il quale, come è noto, gioca un ruolo fondamentale all’interno del Parmenide di Platone. L’esempioutilizzato nel corso della nostra esposizione, chiamando in causa vecchiaia e giovinezza, ripete a suomodo l’esempio che Platone sviluppa nel dialogo sopra citato (cfr. Platone, Parmenide, 141 a-d).

3 Questa doppia vocazione, nella quale il tempo si divide, trova nella seguente riflessione di Ser-res una giustificazione “letterale”: «ecco, ritrovate, le radici più antiche del termine tempo, tèm-nw, tagliare a pezzetti, e tèinw, tendere in modo continuo» (M. Serres, Le origini della geometria,tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1995, p. 35).

4 Solo un luogo atipico può corrispondere a questa soglia, ovvero un luogo capace di accogliereil divenire di ogni cosa e quindi capace di sopportare il conseguente illimitarsi infinito del divenirenei suoi due sensi; Ronchi riconosce tale luogo nella chora platonica, che con le sue due radicietimologiche chorizein (separare, dividere) e chorein (contenere) ben si accorda con le due animedel tempo che, prese insieme sulla soglia del divenire, se lo contendono (cfr. R. Ronchi, op. cit.,pp. 35-52).

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metastabile del suo divenire5.Tornando all’arte del ritratto, commenteremo pertanto che il suo segreto con-

siste nel catturare insieme il soggetto e il suo travaglio, l’ora presente (Kronos) eil suo puro divenire (Aiôn)6. Quando il viso raffigurato riesce a trattenere questasimultaneità, il suo aspetto, riproducendo ciò che pubblicamente identifica un indi-viduo, subisce una scossa, è attraversato da una vena di straniamento che finisce perrallentare l’immediatezza del riconoscimento (“sarò io?”). Da qui forse deriva lapotente fascinazione che il ritratto non cessa di esercitare sul suo soggetto vivente,in carne e ossa: nel ritardo del riconoscimento possono infatti succedere molte co-se, accadere degli incontri, addirittura ci si può perdere. Ma l’ambigua attrazione,che il ritratto emana, può impossessarsi di chiunque: ogni volta che un’occhiata siapure distratta si posa sul quadro, si verifica infatti una sovrapposizione di sguardiche fulmineamente si traduce in occasione di incontro tra il fruitore di passaggio el’artista; se si dovesse specificare la natura di tale incontro non sarebbe fuori luogodescriverlo in termini di agguato. Una volta catturatane l’attenzione, l’ignaro os-servatore si troverebbe suo malgrado costretto a quello strabismo che guarda allafigura e al contempo forza la vista oltre la sua naturale portata. In modo del tut-to irriflesso, in lui agirebbe, replicandosi, la funzione anomala del ritrattista cheprima di lui ha marcato la soglia e, con essa, l’impercettibile transito che rappor-ta il soggetto alla sua popolazione senza età7. In altre parole, senza aver chiestonulla, l’osservatore guadagnerebbe d’un colpo il punto di vista dell’artista, ovverosi troverebbe catapultato in quel punto critico dal quale il ritrattista spicca il suosguardo. Occorre infatti specificare che l’artista, per disegnare il passaggio di cuisi sta parlando, deve collocarsi proprio lì, ovvero in corrispondenza di quel bilicoche ora calamita il distratto passante, il quale non può sottrarsi a tale richiamo allostesso modo in cui, nonostante la vertigine, spesso accade di non poter fare a menodi sporgersi sul ciglio di un baratro anche a rischio di cadere. Può darsi che il modoin cui l’artista tiene il bilico sia ciò che si intende quando si allude allo stile: nul-la a che vedere dunque con una maniera studiata finalizzata ad atteggiare un fare,

5 «La signifiance della traccia concerne infatti l’aver avuto luogo di qualcosa nel mondo» (ibid.,p. 66; cfr. inoltre pp. 65-71).

6 Kronos è il tempo delle mescolanze, è «l’estensione temporale che accompagna l’atto, cheesprime e misura l’azione dell’agente, la passione del paziente», è il tempo che riassorbe il passatoe il futuro, proiettandoli in avanti e indietro come se fossero estensioni dell’“ora” presente. Aiônè «l’istante senza spessore e senza estensione che suddivide ogni presente in passato e futuro», neidue sensi contemporaneamente, è il tempo della simultaneità del divenire, del suo andare in entram-bi i sensi, è il luogo degli eventi incorporei, dei verbi all’infinito (G. Deleuze, Logica del senso,tr. it. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 1997, rispettivamente p. 12 e p. 147; cfr. in particolarepp. 145-150). Cfr. F. Zourabichvili, Deleuze. Una filosofia dell’evento, tr. it. di F. Agostini, OmbreCorte, Verona 1998, pp. 91-94; F. Agostini, Deleuze: evento e immanenza, Mimesis, Milano 2003,pp.17-31.

7 «L’anomalo si trova sempre alla frontiera, sul margine di una banda o di una molteplicità; nefa sì parte, ma la fa anche passare in un’altra molteplicità, la fa divenire, traccia una linea inter-media» (G. Deleuze, C. Parnet, Conversazioni, tr. it. di G. Comolli e R. Kirkmayr, Ombre Corte,Verona 1998, p. 48). Cfr. anche G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia,tr. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 1996-1997, vol. II, pp. 156-164.

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quanto piuttosto una sorta di vaghezza capace di tenere insieme uno squilibrio8.Cosa accade quando un artista si autoritrae? Difficile a dirsi, difficile finanche

pensarci. Eppure la domanda è lecita; e ora che l’interrogativo è stato posto, parequasi che non aspettasse altro che di essere formulato: l’inclinazione del discorsotirava da quella parte, è lì che tendeva, a costo anche di strappi e forzature. Possia-mo azzardare un cenno di risposta, affermando che nell’autoritratto sono chiamatia coabitare sulla tela l’uomo e l’artista, la figura individuale che l’artista è e ilcreatore di immagini attraverso cui quella stessa figura passa; e se l’uomo e l’arti-sta incarnano la stessa figura, l’esecutore dell’autoritratto dovrà allora dimostrarsicapace di un doppio esorcismo tale da evocare nell’uomo e nell’artista gli sfocatifantasmi dei rispettivi divenire. Tentando un altro approccio, si potrebbe dire chenell’autoritratto si fa due volte il mezzogiorno, ovvero che accade due volte quelpunto straordinario in cui l’ombra combacia con la presenza; e se la penetrazio-ne di questo incontro ha dell’esplorazione amorosa, deve essere per quello stessodisperante recupero di una distanza raggiunta là dove si fa. Il senso dell’autori-tratto è quello di un viaggio sul posto che non procede da sé a sé, ma da sé allalinea di disfacimento del sé e viceversa, dove a governare l’oscillazione è lo stilee l’immagine differita che questo movimento rilascia è quella dell’artista; immagi-ne, quest’ultima, che a sua volta si scompone e si ricompone seguendo le ponderateflessioni del suo proprio polso stilistico. L’esercizio è certamente estenuante e al-lucinatorio; e non si banalizza se si dice che il mezzogiorno non è solo l’ora in cuisi dà il benvenuto ai miraggi, ma è anche un’ora buona per i disastri. La fatica ditenersi insieme può rivelarsi tutt’a un tratto insostenibile; e nel tracollo può capi-tare che si perda qualche pezzo di sé per strada. Questo per dire che l’autoritrattocomporta dei rischi e che l’unica regola pare essere la prudenza.

Riconoscere in Deleuze un abile ritrattista può offrire uno spunto interessanteper inquadrare il suo singolare approccio alla storia della filosofia. A partire daqui, potrebbe infatti risultare più agevole definire il modo in cui Deleuze “si lavo-ra” programmaticamente gli autori di cui si è interessato nel corso della sua vitadi pensatore9; la qual cosa, di riflesso, aiuterebbe a comprendere meglio il sensodi tali incontri che Deleuze in un celebre passo di una lettera rivolta a un criticosevero ha voluto descrivere nei termini di un’inculata10. Sopraggiungere in pun-ta di piedi alle spalle di un autore e costringerlo a partorire un figlio mostruoso,ma tale che nessuno possa dubitare della sua paternità, è dunque la strategia cheDeleuze suggerisce al fine di rendere propriamente fecondo qualsivoglia confron-to con la tradizione filosofica. A torto si liquiderebbe questa metafora come unaprovocazione irriverente e fine a se stessa; al contrario, occorre prestarvi orecchioe corrispondere al suo senso, magari dislocandosi altrove, in un altro contesto, in

8 Sulla nozione di stile cfr. G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., pp. 9-10.9 Che la storia della filosofia debba essere avvicinata all’arte del ritratto è suggerito da Deleuze

in un’intervista rilasciata a R. Bellour e a F. Ewald (cfr. G. Deleuze, “Segni ed eventi. Intervistadi R. Bellour e F. Ewald”, in S. Vaccaro (a cura di), Il secolo deleuziano, Mimesis, Milano 1997,pp. 23-41).

10 Cfr. G. Deleuze, Pourparler, tr. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 14.

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un’altra metafora. Per questo avvertiamo l’urgenza di tornare al nostro spunto e diproseguire suggerendo che Deleuze si sia fatto capace di incontrare le firme dellastoria della filosofia, di cui si è voluto occupare, allo stesso modo in cui il ritrattista,a ogni suo lavoro, incontra il volto di chi ritrae.

Ma in cosa consiste il volto di un autore? Non è difficile intuire che ad animareil volto di un filosofo sia in definitiva la sua opera; questo perché essa rappresentaciò che l’autore destina, rivolge a un pubblico; quindi, nessuno stupore se è persuo tramite che un autore viene abitualmente identificato. Sia che si fissi frontal-mente l’intero corpus di un autore, sia che se ne prediliga una parte, in ogni casola possibilità di fendere ciò che si volge allo sguardo in direzione di ciò che inquesto volgersi si sottrae è comunque garantita. Non è significativo il fatto che lafigura di pensiero scelta sia la risultante di tutte le sue fasi o la forma specifica diun periodo: l’esercizio del ritrattista non cambia e dal pensiero figurato affonderàal punto di bilico in cui la forma viene meno e resta il suo puro figurarsi. Comel’artista sottopone il suo soggetto a un movimento di spersonalizzazione che sfu-ma il viso nella frontiera del suo divenire tale, Deleuze, ogni volta che si dedica aun autore, lo sottopone a una torsione che restituisce i concetti alla comune lineadi orizzonte che li sottende; e lo fa mostrando attraverso di essi la traccia di quelpassaggio che relaziona il pensiero al suo farsi, alla sua genitalità. Se questa so-glia, che prima abbiamo vista abitata dal soggetto del ritratto, è il non-luogo in cuiogni presente si differenzia dal precedente e dal successivo e, in ragione di questoincessante differenziarsi, il tempo di una vita acquisisce il proprio senso di con-tinuità, allora non è errato aggiungere che accedendo a questo stesso varco, fosseanche attraverso una sola pagina, il pensiero di un filosofo può farsi co-presente atutte le sue figure. Per dirla con Deleuze, si tratta di individuare in ogni filosofoil suo specifico divenire, che è quella potenza che anonimamente lavora dietro ilsuo nome. Parlando di Foucault, Deleuze commenta: «posso parlare di Foucault,raccontare che mi ha detto questo o quello, descrivere come lo vedo. Tutto ciò nonsignifica niente fino a quando io non sarò stato capace di incontrarmi [. . . ] conquell’insieme che viene a costituire una combinazione unica il cui nome sarebbeproprio Foucault»11. Occorre dunque saper vedere in Foucault, nei suoi gesti, percome ci sono stati raccontati, più di quanto non vi sia depositato, leggere nelle sueopere più di quanto non vi sia esplicitato, perché questo “di più” è il solo orizzontein cui Foucault può essere incontrato.

Più in generale, l’insegnamento di Deleuze invita a guardare ogni pagina di unautore in controluce come per intravedere il foglio bianco che le taglia trasversal-mente tutte; le sue indicazioni suggeriscono di leggere negli intervalli tra un con-cetto e l’altro come per carpire l’inframmezzo bianco che trattiene insieme le righed’inchiostro nero; e da qui, da questa comune riva di circostanze, Deleuze sollecitaa tenere il ritmo che con le sue andate e i suoi ritorni ha distribuito il pensiero pertutto il raggio di una vita, depositandolo nelle sue forme calcificate: potrebberoessere conchiglie, perché non è escluso che il pensiero abbia le sue maree e le sue

11 G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., p. 17.

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lune. Questo parrebbe essere il protocollo d’azione sperimentato da Deleuze, alquale spetta di diritto lo stesso ruolo anomalo attribuito poco fa al ritrattista. Ilsuo lavoro consisterebbe dunque nello scorporare l’opera di un autore per lasciareemergere attraverso le figure concettuali che gli sono appartenute il travaglio delsuo specifico divenire. E per fare ciò Deleuze non può esimersi dallo sprofondarelo sguardo nel punto anesatto12 attraverso il quale il pensiero transita per nasce-re nelle forme che lo definiscono. Ponendosi sulla linea di costa che contorna unautore, Deleuze si fa capace di un’intimità con esso che non può scadere in unaqualche forma deteriore di commistione per la stessa ragione per cui un bordo, unoqualsiasi, non corre alcun rischio di confondersi con ciò che delimita, fintantochési mantiene nella sua funzione. In questa sottile intimità, in tutto simile a una nic-chia, Deleuze si raccoglie per lavorare al suo ritratto, il quale una volta ultimatomal si concilierà con i quadri rigidi che popolano le pagine dei manuali di storiadella filosofia, se è vero che ciò che interessa a Deleuze non è la riproduzione ni-tida di un autore, dei suoi concetti, quanto piuttosto la difficile immagine “mossa”del suo pensiero in divenire, la quale richiede, come si è visto, tutt’altro genere diperizia13.

Per il momento vogliamo soltanto accennare al fatto che se è lecito riconoscereun divenire-Foucault, un divenire-Bergson, un divenire-Spinoza, e così via per tuttigli autori del firmamento filosofico, lungo questi specifici divenire ne scorre unodi più ampia portata che per così dire li svolge tutti. Come Deleuze ama spessoinsinuare, attraverso i numerosi tomi che compongono la storia della filosofia spiraun vento insistente, che circola a velocità differenti, ora lento, ora fulmineo, mache è costantemente presente a tutti i suoi momenti: «esiste un divenire-filosofiache non ha nulla a che vedere con la storia della filosofia, e che passa piuttostoattraverso coloro che la storia della filosofia non giunge a classificare»14. Che è unmodo come un altro per alludere al fatto che rispetto alla storia della filosofia, aimovimenti che in essa comunemente si riconoscono, si dà un’istanza acronica, nonstoricizzabile, che già da sempre ne ha intenzionato le direzioni. Ma questa pro-spettiva, verso la quale quanto si è detto finora spinge per confluire naturalmente,è nostro proposito lasciarla momentaneamente sospesa.

Seppur brevemente, del Deleuze ritrattista si è detto; ora è il momento di in-dagare se Deleuze ci abbia lasciato tra i suoi numerosi lavori qualcosa che abbiavalore di autoritratto. L’ultima opera, che Deleuze scrive in collaborazione conGuattari, si presta a offrire delle osservazioni utili alla nostra ricerca15. Il titolo del

12 «L’anesattezza non è affatto una approssimazione, al contrario è il passaggio esatto di quel chesi fa» (G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, cit., vol. I, p. 42).

13 «Deleuze ricerca nei suoi “autori” l’evento filosofico, non l’individualità rigida del pensatoreche costruisce un ordine, un sistema, ma la singolarità accidentale, casuale, dell’evento che si dànelle pieghe della scrittura filosofica, lo stile, l’andatura, il movimento del concetto. L’evento accade,non si consolida mai» (G. Polizzi, “La filosofia, un ‘gesto’. Deleuze e la ‘tradizione’ filosofica”, inS. Vaccaro (a cura di), Il secolo deleuziano, cit., pp. 228-229).

14 G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., p. 8.15 Il riferimento va a G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, tr. it. di A. De Lorenzis,

Einaudi, Torino 1996.

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saggio, con il suo interrogativo che campeggia in testa, rivela da sé l’eccezionalitàdel testo che si vuole avvicinare. Che cos’è la filosofia non è infatti una domandache qui si intenda lanciare ad uso retorico con la promessa di ricondurla presto asé con un lazzo di risposte pronte alla mano. Sin dalle prime righe si avverte chia-ramente che è come se questa domanda si fosse scavata un tempo, un’ora precisanella vita di questa coppia di pensatori; semplicemente quel momento tutto a untratto è precipitato, e con esso il suo carico. C’è un battito di esitazione, primache una voce proveniente dal mezzo del binomio Deleuze-Guattari cominci a cor-rispondere alla domanda. I toni sobri sono quelli di chi sa che non si può possederequesta domanda più di quanto non se ne sia già posseduti.

Al fine di rintracciare, dove possibile, indicazioni utili al nostro percorso, nonpossiamo fare a meno di tratteggiare a grandi linee le direttive di questo saggio;pertanto domandiamo con Deleuze e Guattari: che cos’è la filosofia? «La filosofiaè l’arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti»16. Nessun cielo, dunque,a sorreggere i concetti come fossero corpi celesti: i concetti devono essere creati,sgrossati e intagliati con la stessa competenza artigianale che riscontriamo nel fa-legname quando lavora il legno. Ma se «creare concetti sempre nuovi è l’oggettodella filosofia»17, non resta che deviare la prima domanda verso una seconda: checos’è il concetto? Diremo sinteticamente che il concetto è anzi tutto una molte-plicità; «non esistono concetti semplici. Ogni concetto ha delle componenti e sidefinisce a partire da esse: il concetto ha dunque una cifra»18. È la cifra delle suecomponenti che definisce il contorno del concetto come un bordo frastagliato, ir-regolare che lo distingue dal caos mentale in cui si troverebbe altrimenti assorbito;ogni concetto è dunque simile a una lingua di terraferma esposta agli umori prepo-tenti di un oceano minaccioso, costantemente in agguato. Si dirà del concetto che«è un tutto, perché totalizza le sue componenti, ma è un tutto frammentario»19 inquanto gli elementi che lo innervano permangono eterogenei l’uno rispetto all’al-tro, senza stemperarsi in una nuova e comune mescolanza. Se si volesse cogliereil concetto sul nascere, bisognerebbe guardare là dove le forze, che fluiscono sullascia di un problema e della rispettiva soluzione, si addensano in un nodo temati-co dal contorno sempre più deciso20. Risalendo invece lungo i nessi che alcunecomponenti del concetto hanno mantenuto con altri concetti, emersi in seguito aproblemi differenti rispetto a quello che ha chiamato in essere il concetto in que-stione, se ne ricaverebbe la storia: questo perché, una volta accesasi l’urgenza cheinnesca la creazione, «ogni concetto opera un nuovo montaggio, assume nuovi con-torni, deve essere riattivato o ritagliato»21. In altre parole, la genesi di un concettoè scandita dalle interazioni con gli altri flussi concettuali che si vanno addensando

16 Ibid., p. X.17 Ibid., p. XIII.18 Ibid., p. 5.19 Ibid.20 «Ogni concetto rinvia a un problema, a problemi senza i quali non avrebbe senso e che non

possono essere estrapolati o compresi se non nel corso della loro soluzione» (ibid., p. 6).21 Ibid., p. 8.

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all’interno del medesimo piano d’appartenenza22; quanto ai tempi di incubazio-ne, sarebbe superfluo immaginare dei limiti, considerato che la gestazione di unconcetto si protrae per tutta la vita dell’idea come suo irrinunciabile orizzonte dirinascita e di rinnovamento. Infine, non è da escludersi che, fissando lo sguar-do sulle componenti di un concetto, si possano scorgere i germi di altri potenzialiconcetti, destinati a formarsi altrove, evocati da altre domande23.

Potremmo riassumere questi brevi cenni, sottolineando che ciò che davvero im-porta del concetto è la capacità di «rendere le componenti al suo interno inseparabi-li; distinte, eterogenee e tuttavia inscindibili: questo è lo statuto delle componenti,ciò che definisce la consistenza del concetto, la sua endo-consistenza»24; e con-tinuare sostenendo che a questa coesione interna corrisponde un’eso-consistenzache relaziona il concetto e la sua creazione a quella di altri concetti, favorendo intal modo la costruzione di ponti tesi come tra un’isola e l’altra di un arcipelago lacui mappa non la finisce mai col divenire. Descritto altrimenti, «ogni concetto puòessere considerato come il punto di coincidenza, di condensazione o di accumula-zione delle proprie componenti»25: se per un verso ogni componente del concettostringe nuove alleanze con un numero sempre crescente di elementi intensivi e fafibra, per l’altro, il concetto, sospeso in un perenne stato di sorvolo, non smettemai di attraversare la trama che lo costituisce, quasi fosse costantemente chiamatoa farne il punto. «Il concetto è al tempo stesso assoluto e relativo: relativo rispettoalle proprie componenti, agli altri concetti, al piano sul quale si delimita, ai proble-mi che è chiamato a risolvere»26, ovvero rispetto al processo di creazione che lopone in essere senza mai definirlo una volta per tutte; «assoluto rispetto alla con-densazione che opera, al luogo che occupa sul piano, alle condizioni che assegnaal problema»27, ovvero rispetto alla sua auto-posizione. Il costruttivismo, così co-me lo va delineando Deleuze, sposa efficacemente il relativo e l’assoluto e fa delconcetto un sistema auto-referenziale.

Di nuovo, che cos’è la filosofia? «La filosofia è un costruttivismo e il costrutti-vismo ha due aspetti complementari che differiscono per natura: creare dei concettie tracciare un piano»28, vale a dire un piano su cui i concetti possano cum-sistere.Come funziona il piano di consistenza? Il piano di immanenza dei concetti ope-ra come una tavola chimica irreversibilmente aperta ai suoi elementi come ancheai relativi passaggi, ai reciproci scambi che la esplodono squassandola con im-prevedibili dinamismi29; si comporta come un piano illimitato e fluido capace di

22 «Ma un concetto ha pure un divenire che riguarda questa volta il suo rapporto con concettisituati sullo stesso piano» (ibid., p. 8).

23 «Ogni concetto è composto da elementi che possono essere a loro volta presi come concetti»(ibid., p. 9).

24 Ibid., p. 9-10.25 Ibid., p. 10.26 Ibid., p. 12.27 Ibid.28 Ibid., p. 25.29 «Il piano assicura il raccordo dei concetti con delle connessioni in perenne aumento e i concetti

assicurano il popolamento del piano su una curvatura sempre rinnovata, sempre variabile» (ibid.,

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sostenere il passo elastico del concetto30; funziona come un taglio, che predisponeun orizzonte di terra all’incedere del concetto e alla progressiva territorializzazio-ne che traccia attorno a sé31. Bisogna dunque intendere il piano di consistenzanei termini di un piano propriamente concettuale? Non esattamente; il piano diimmanenza non coincide con quel piano concettuale-filosofico su cui le forme delpensiero fanno bella mostra di sé, eppure, paradossalmente, si sbaglierebbe a cer-carlo altrove. Il senso di quanto stiamo precisando può essere rischiarato da unapuntualizzazione che Deleuze sviluppa proprio allo scopo di introdurre la diffe-renza che si tentava poc’anzi di circoscrivere: «ma in realtà gli elementi del pianosono dei “tratti diagrammatici” mentre i concetti sono dei “tratti intensivi”. I pri-mi sono dei movimenti dell’infinito, mentre i secondi sono le ordinate intensive diquesti movimenti, dei tagli originali o delle posizioni originali»32. Ciò significache occorre distinguere la composizione intensiva, che determina il concetto sullasuperficie del piano prettamente filosofico, dalla traccia intuitiva, che lo anticipasul piano di immanenza; la qual cosa ci porta dritti a sostenere la coesistenza, la si-multaneità del piano filosofico e dell’orizzonte pre-filosofico che sempre lo incalzae lo precede senza mancare poi di succedergli e di rilanciarlo in avanti. «Prefilo-sofico non significa qualcosa che preesiste, ma qualcosa che non esiste al di fuoridella filosofia, benché questa lo presupponga»33. Dal momento che la filosofia sioccupa di concetti e ha inizio con la creazione di questi stessi, ne risulta che il pia-no di consistenza, in quanto presupposto, debba essere la potenza pre-filosofica, lacomprensione non concettuale cui ciascun concetto rimanda.

«Il piano di immanenza è come un taglio del caos, e agisce come un setac-cio. [. . . ] Operando un taglio del caos il piano di immanenza fa appello a unacreazione di concetti»34. Lungo la linea di taglio del piano di consistenza, la filo-sofia e l’universo indifferenziato del non-filosofico si fronteggiano35: è un facciaa faccia estremo, dello stesso genere che altrove potrebbe vedere l’uno dinnanziall’altro il tempo vitale di Kronos e l’imperturbata catatonia della morte36. Perchéla situazione non precipiti, urge una qualche mediazione; e così, allo stesso modoin cui Aiôn garantisce a Kronos di sopravvivere a ogni sua breve durata presente,ecco intervenire a tutela della filosofia e del suo lavoro un piano non concettuale,capace di tagliare, filtrare, “imbrigliare” in qualche modo il caos e il suo inafferra-

p. 26).30 La velocità infinita con cui si muove il concetto necessita di «un ambito che sia in sé

infinitamente in movimento, il piano, il vuoto, l’orizzonte» (ibid., p. 26).31 «I concetti lastricano, occupano o popolano il piano, pezzo per pezzo, mentre il piano è a sua

volta l’ambito indivisibile in cui i concetti si distribuiscono senza romperne l’integrità [. . . ]. I concettisono le regioni del piano» (ibid., p. 26).

32 Ibid., p. 30.33 Ibid., p. 31. «La filosofia definita come creazione di concetti implica un presupposto che se ne

distingue e che tuttavia ne è inseparabile» (ibid.).34 Ibid., p. 33.35 «La filosofia lotta con il caos in quanto abisso indifferenziato o oceano della dissimiglianza»

(ibid., p. 218).36 Cfr. R. Ronchi, op. cit., pp. 9-81.

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bile movimento37. Se il piano di immanenza taglia la massa indomabile del caos,rendendone in qualche modo “leggibili” i movimenti attraverso rapidi tratti dia-grammatici, come avviene quest’opera di intercettazione destinata poi a tradursi inconcetto?

La domanda sarebbe stata formulata più correttamente se invece di questionaresul come avesse domandato chi: chi è adibito alla creazione dei concetti? I per-sonaggi concettuali; essi, in qualità di istanze preposte a tale funzione, «operano imovimenti che descrivono il piano di immanenza dell’autore e intervengono nellacreazione stessa dei suoi concetti»38; con una mano pongono in essere il piano diconsistenza, con l’altra ne selezionano alcuni tratti per farne concetti39. Dei per-sonaggi concettuali è possibile dire che sono figure di mezzo, crepuscolari, chevivono tra il piano di taglio e quello propriamente filosofico, come tra la carta e ilfoglio. Né personificazioni astratte né simboli, i personaggi concettuali incarnanopeculiari attitudini di pensiero; della filosofia sono i soggetti atipici. CommentaDeleuze che «il destino del filosofo è quello di diventare il proprio o i propri per-sonaggi concettuali»40; e forse occorre tutta una vita per incontrare questa bizzarratribù senza nome nella quale il pensiero si riconosce per ciò che è, per ciò che èstato, meglio che altrove. Tracciare piani, inventare personaggi, creare concetti:questa in definitiva la «trinità filosofica»41 che detta il costruttivismo; a regolarequeste tre istanze: il gusto. Gusto che è innanzi tutto «gusto del concetto indeter-minato»42 là dove trova applicazione nella libera attività creatrice che sovrintendeal concetto e ne seleziona le componenti intensive; e che trasla, secondariamen-te, in quel gusto squisitamente filosofico per il «concetto ben fatto»43 che raffina ipalati dei competenti.

Accantonando le questioni di gusto, torniamo un istante al piano di immanenza;in riferimento al balzo imprevedibile che tende il pensiero sul suo velo di consi-stenza, Deleuze scrive: «ciò che il pensiero rivendica di diritto, ciò che seleziona,è il movimento infinito o il movimento dell’infinito, che costituisce l’immaginedel pensiero»44. Il pensiero immagina, avverte se stesso come movimento infinito(movimento all’infinito); movimento che a dispetto di qualsivoglia direzione intra-presa, di qualsivoglia dimensione raggiunta, è già sempre ritorno a sé, essendo al

37 «Il problema della filosofia è di acquisire una consistenza, senza perdere l’infinito in cui ilpensiero è immerso (il caos da questo punto di vista ha un’esistenza tanto mentale quanto fisica)»(G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 33).

38 Ibid., p. 53.39 «Il personaggio concettuale e il piano di immanenza stanno in un rapporto di presupposizione

reciproca. Ora il personaggio sembra precedere il piano, e ora seguirlo. [. . . ] Da una parte affondanel caos, ne trae delle determinazioni che saranno i tratti diagrammatici di un piano di immanenza:come se sottraesse al caso-caos una manciata di dadi per lanciarli su un tavolo. D’altra parte, a ognidado che ricade esso fa corrispondere i tratti intensivi di un concetto che viene a occupare una delleregioni del tavolo, come se questo si fendesse secondo cifre» (ibid., p. 65-66).

40 Ibid., p. 53.41 Ibid., p. 67.42 Ibid.43 Ibid., p. 68.44 Ibid., p. 27.

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contempo piega e slancio45. Questo movimento, che non esce mai da se stesso eche emana l’immagine del pensiero che lo governa quasi si trattasse di un effettocollaterale, offre lo spunto che si cercava: balenano subitanee familiarità con quelladanza dello stile che tra impasti di linee e colori, a una velocità differente, rilasciaall’artista l’immagine che attendeva per specchiarsi. Acquisce evidenza il fatto chequalunque tentativo di autoritrarsi da parte di Deleuze deve essere necessariamentepartito da qui, da questo movimento che, pur figurandosi nei concetti, non cessadi sommuoverli nell’intimo, dal di fuori, da qualunque direzione, poiché non c’èluogo che un movimento non sappia occupare. Se è vero che in questo movimentoil pensiero declina nelle sue forme concettuali, non è azzardato riconoscere nell’al-zata della sua onda quella soglia metastabile del divenire di cui abbiamo trattatoinizialmente. Il che ci porta a sostenere che l’esercizio dell’autoritratto, se maipraticato da Deleuze, deve essersi indirizzato non tanto verso le figure ideali dicui è stato capace quanto piuttosto verso le risacche e gli allungamenti che hannoavvicinato il pensiero alla riva del concetto senza mai allontanarlo dal largo.

Affondare il pensiero verso il che delle proprie figure di concetto, per rinvenirelo stile che le ha pazientemente lavorate, può apparire semplice come accostare l’o-recchio alla conchiglia e porsi all’ascolto della melodia del mare; se non fosse cheil semplice è sempre, irrimedialmente, il più difficile a farsi. Rovesciare il pensieroin direzione della sua propria matrice equivale infatti a forzare il pensiero contronatura, dal momento che esso di norma è spontaneamente incline al concetto; inaltri termini, significa obbligarlo brutalmente al cortocircuito. Va da sé che, se l’in-tento fosse quello di costringere il pensiero a ciò che lo ripugna, non si potrebbeaffatto lesinare sulla violenza46. A questo punto varrebbe la pena domandare se sisia mai dato nell’opera di Deleuze un esercizio di pensiero tanto potente da aborti-re il concetto preferendogli l’orizzonte pre-filosofico soggiacente, e tanto feroce daaderirvi quanto basta per prolungare indefinitamente quel punto di incidenza chetrattiene insieme l’idea e la sua alea virtuale, il piano filosofico e la sua ombra. Sitratta di valutare se Deleuze abbia mai saputo fissare il suo proprio divenire, ovverose si sia dimostrato capace in qualche occasione di liberare lo stile da quell’eser-cizio irriflesso che solo in un secondo momento, con la sua specifica produzionedi concetti, dà da riflettere (naturalmente questa eventuale conquista non avrebbenulla a che vedere con la sciocca presunzione di poter in qualche modo governa-re lo stile a piacere). Certo, un esercizio di tal genere, se fosse, non passerebbeinosservato. Inoltre ipotizziamo cautamente che il testo, che dovesse accogliereun simile lavoro, non potrebbe che risultare inclassificabile rispetto ai canoni divalutazione tradizionali. Sorprendentemente questo modesto indizio è sufficientea catapultarci veloci in vista della soluzione, che ora è qui a portata di mano: tut-to converge in direzione di Millepiani, saggio anomalo per eccellenza. Pertanto è

45 «Il movimento infinito è definito da un’andata e ritorno, perché esso non va verso unadestinazione senza fare ritorno su se stesso, essendo l’ago anche il polo» (ibid., p. 28).

46 Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, tr. it. di G. Guglielmi, Cortina, Milano 1997, pp. 169-217.

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lecito presumere che Millepiani altro non sia che il pensiero deleuziano preso nelsuo difficile autoritrarsi.

Guardando al testo, si dirà che nessuna scrittura tra le pagine di Millepiani siconclude in concetto47; ogni attenzione è riposta nell’evitare simili “calcificazio-ni mentali”, a cominciare dalla struttura del saggio, che è vacante, non esiste. Iltesto in questione infatti si compone di piani che il lettore può scegliere di legge-re nell’ordine che preferisce, fatta eccezione per la conclusione che buon senso eautori vogliono che sia lasciata per ultima48. Millepiani non ha capo né coda, nétantomeno sul dorso una qualche parvenza di colonna vertebrale. Difficile pensa-re qualcosa di più lontano dal libro classicamente inteso, da quella sua implicitavocazione all’organizzazione sempre pronta ad articolare la materia distribuendolain parti ragionate in nome della beneamata coerenza discorsiva. Il libro in quantoorganismo, si sa, è un agente dell’ordine e parrebbe che il miglior modo di sfug-girgli sia quello di non fornire alla sua invadente struttura appigli di sorta: e dovepotrebbe trovarne in Millepiani, considerato che è un testo orfano di padre e dimadre, di soggetto e di oggetto, per nulla assimilabile a un insieme sia che lo siconcepisca come unità possibile, sia che lo si immagini come unità perduta, siache lo si sventoli come unità promessa? Millepiani è un corpo senza organi, unpuro piano di immanenza, e per ciò stesso ogni suo piano può essere letto in unordine improvvisato e messo in relazione con qualsivoglia altro: le frange sotterra-nee, che reticolano il libro lungo tutta la sua estensione, consentono infatti balzi diogni misura.

Se Millepiani funziona come una perfetta macchina a-significante è perchéogni suo ingranaggio diserta la funzione abitualmente assegnatagli dalla scrittu-ra. Gli autori abdicano al proprio trono: sono due, sono parecchi, sono moltagente; ora dichiarano di aver perduto il proprio nome, ora di usarlo alla stregua diuno pseudonimo. «Non siamo più noi stessi»49 scrivono, e con questo si dilegua-no lasciando il testo privo di quell’orientamento verticale che di regola rapporta ilconcetto al suo autore, il significato al suo garante. «Rendere impercettibile nontanto noi stessi, ma ciò che ci fa agire, sentire o pensare»50, dicono lo slogan dellafunzione anomala e poi più nulla. La scrittura, dal canto suo, per evitare il vagliodella ragione e il suo immediato filar concetti, si inventa una nuova strada e, invecedi scorrere sotto gli occhi attenti della mente, si imbuca nel loro mezzo, scrollan-dosi di dosso eventuali residui di senso. Di questa scrittura si dirà che «non si puòvedere senza toccarla con la mente, senza che la mente divenga un dito, sia pureattraverso l’occhio»51; ne consegue che, distolto l’occhio dalla consueta funzione

47 Per quanto concerne la potenza antilogica di Millepiani si rinvia a G.B. Vaccaro, Deleuze e ilpensiero del molteplice, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 125-163 e a C. Di Marco, Deleuze e ilpensiero nomade, Franco Angeli, Milano 1995, pp. 244-251.

48 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, cit., vol. I, p. 13.49 Ibid., p. 14.50 Ibid.51 Ibid., vol. IV, p. 121.

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visiva, diviene necessaria una lettura differente, “prensiva”52. E qui entra in giocoil lettore che, affatto invogliato ad assumere un qualsivoglia ruolo significante, ri-torna infante e, come estasiato, prende a seguire istintivamente con il dito le lineedi quei tratti che non sa più interpretare. Del resto, un lettore analfabeta è esatta-mente ciò che Millepiani e le presenze, che lo attraversano, cercano per accendereogni genere di affetti e di divenire. È una scrittura diabolica questa che «chiamaun lettore che non sa più o non sa ancora leggere: vecchi, bambini dell’asilo, chefarneticano sul loro libro aperto»53. Sottraendosi a una seppur generica funzionecomunicativa, Millepiani non impartisce nessuna lezione, né tantomeno sviluppa otrasmette qualche contenuto: la dimensione in cui il testo, i suoi piani, gli autori e illettore stesso circolano è quella del viaggio54. A questo proposito occorre precisareche «quel che distingue i viaggi non è la qualità oggettiva dei luoghi né la quantitàmisurabile del movimento – né qualcosa che sarebbe soltanto nella mente – ma ilmodo di spazializzazione, la maniera d’essere nello spazio, la maniera d’apparte-nere allo spazio»55. E se è vero che è una falsa concezione quella che attribuisce alviaggio un inizio e una fine56, allora va colto appieno il bluff di quelle conclusioniche gli autori, prima di voltarsi altrove, raccomandano di leggere per ultime.

Ma se il senso di Millepiani non è quello linguistico, quale senso gli rimane?Dobbiamo forse supporre che quello di Millepiani sia un divagare senza senso?E che dire di quel divenire che avrebbe dovuto restituire il pensiero deleuziano alsuo orizzonte pre-filosofico di senso, l’unico dal quale potesse mai progredire unqualche tentativo di autoritratto? Come si ricorderà era proprio questa linea fuorifuoco a dover trasfigurare il volto nella sua costante intemporale senza fare null’al-tro che esercitarsi nel proprio stile, pena l’efficacia artistica dell’autoritratto e loscadimento dello stesso a un lavoro da mestieranti di mera riproduzione. In breve,come si mette la faccenda del senso? Millepiani suggerisce che «scrivere non haniente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare, perfinodelle contrade a venire»57. Dunque, il verso del senso che Millepiani esplora nonè quello linguistico-concettuale quanto piuttosto quello topografico. In un saggiodi estetica, Serres, autore con il quale il Deleuze della maturità riconoscerà alcuneaffinità58, commenta sinteticamente: «il senso ha, come minimo, due sensi: quellopredicativo e quello spaziale»59, e riconosce a quest’ultimo una sorta di priorità sul

52 «Prensivo è una parola migliore di tattile, poiché non oppone due organi di senso, ma lasciasupporre che l’occhio stesso possa avere una funzione che non sia visiva» (G. Deleuze, F. Guattari,Millepiani, cit., vol. IV, p. 119).

53 J.-F. Lyotard, Letture d’infanzia, tr. it. di F. Sossi, Anabasi, Milano 1993, p. 6.54 La prospettiva del viaggio è quella che Tiziana Villani riconosce come dominante per tutto il

corso della riflessione deleuziana; essa stessa, a sua volta, se ne serve per rivisitare i volti e i luoghidescritti dal filosofo francese nel suo Deleuze. Un filosofo dalla parte del fuoco, Costa & Nolan,Milano 1998, proponendo un originale “viaggio nel viaggio”.

55 G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, cit., vol. IV, p. 104.56 «Partire nel mezzo, per il mezzo, entrare e uscire, non cominciare né finire» (ibid., vol. I, p. 49).57 Ibid.58 Cfr., per esempio, G. Deleuze, Pourparler, cit., p. 195.59 M. Serres, Carpaccio. Studi, tr. it. di A.-M. Sauzeau Boetti, Hopefulmonster Editore,

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primo quando sostiene lapidariamente che «il senso del senso è il senso topico»60.Se pertanto al senso occorre riconoscere un versante prettamente topico, si provia valutare quanta verità ha da sempre accompagnato l’immagine che da Platonein avanti si attribuisce al lavorio che la definizione di un concetto comporta con isuoi tagli e ritagli, con le sue inclusioni e le sue esclusioni, tutte operazioni, queste,finalizzate alla circoscrizione affatto metaforica di una regione del senso. Ciò cheandiamo dicendo aiuta a comprendere per quale ragione in Millepiani pensare nonè più «un filo teso tra un soggetto e un oggetto, né una rivoluzione dell’uno intornoall’altro»61 quanto piuttosto un movimento che si realizza tra il territorio e la ter-ra. Millepiani andrebbe pertanto utilizzato alla stregua di un fascicolo di mappe,perché ciò che il pensiero vi disegna non è nient’altro che una variegata geografiadelle relazioni. Al buon navigatore, rimasto orfano di stella polare e consimili fe-ticci, non resta che tenere il segno sulla carta fissandolo bene con il dito e valutarein forza dei propri gradienti affettivi la cifra degli spostamenti compiuti.

Ora, a un pensiero che si fa cartografia, quale genere di divenire potrà mai cor-rispondere? Forse un divenire-linea capace di tener testa alla velocità del pensieroche, secondo la celebre formula di Epicuro, si muove alla stessa velocità dell’ato-mo62. Una velocità, quella comune all’atomo e al pensiero, che Deleuze definiscenon a caso assoluta; essa infatti si riferisce al movimento che si fa fra due punti,«nel mezzo dei due, e che traccia una linea di fuga»63. Nulla a che vedere con ilmovimento che banalmente relaziona due punti, procedendo dal primo verso il se-condo a un passo più o meno spedito, il movimento in questione «avviene piuttostotra due livelli come in una differenza di potenziale. È una differenza di intensitàche produce un fenomeno, che lo lascia fuggire o lo espelle, lo invia nello spa-zio»64. Questo movimento è ben noto al ritrattista; lo stile infatti possiede la suastessa natura, altrimenti non si spiegherebbe come gli sarebbe concesso di circolarenel frattempo che scandisce la successione delle durate presenti attraverso le qualiil volto da ritrarre passa senza posa e senza apparente turbamento, né si spieghe-rebbe in quale modo gli riuscirebbe di coniugare nel disegno il viso ritratto con ilsuo divenire senza età: lo stile, come l’atomo e come il pensiero, declina nelle sueforme a velocità assoluta65. Da ciò consegue che opere d’arte, figure sensibili e fi-gure di pensiero frequentano la medesima origine; né verità prima né verità ultima,l’origine in questione non va intesa come un fondamento fisso che va scoperto alfondo di ogni genere di “dato”, ma piuttosto come un movimento semovente.

Valutando complessivamente quanto si è detto a proposito di Millepiani, paredunque che Deleuze sia riuscito a trattenersi miracolosamente sul ciglio del pro-

Firenze 1990, p. 71.60 Ibid., p. 122.61 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 77.62 Epicuro, Epistola ad Erodoto, 61-62.63 G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., p. 36.64 Ibid., p. 36.65 «I grandi filosofi sono anche dei grandi stilisti. Lo stile in filosofia è il movimento del concetto»

(G. Deleuze, C. Parnet, op. cit., p. 187).

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prio pensiero senza nulla concedere alle esigenze del concetto; e che quindi siasensato riconoscere in questa sperimentazione un esercizio del tutto simile a quellodell’autoritratto dal quale siamo partiti. Ciò significa inoltre che lo stile, ovvero ilmovimento del pensiero, è stato liberato con successo dal binario scontato di unapratica irriflessa; anche se il senso di questa presunta appropriazione è tutto da in-dagare visto che non poteva che avvenire a prezzo del proprio nome66. Il progettorivoluzionario di un pensiero senza immagine tanto propagandato nelle pagine diDifferenza e ripetizione trova in Millepiani la sua realizzazione compiuta; alloratroppo lento, il pensiero deleuziano aveva da guadagnare in accelerazione per sol-levarsi alla velocità dell’atomo e, perché gli riuscisse di trovare la spinta necessaria,aveva ancora da lavorare a un accesso che potesse introdurlo nell’intimità del suostesso farsi.

Ma che ne è dell’immagine che il pensiero, preso nelle sue circolazioni, do-vrebbe rilasciare? Non diversamente dall’atomo, che a cavallo delle sue declinazio-ni emana immagini sotto forma di simulacri, al pensiero spetta infatti la produzionedi un’immagine; un’immagine che «esso [ovvero il pensiero] si dà di cosa signifi-chi pensare, usare il pensiero, orientarsi nel pensiero»67. Essenziale al compimentodell’autoritratto, l’immagine del pensiero è ciò che dovrebbe avvicinare il filosofoal suo personaggio concettuale (o ai suoi personaggi concettuali) vincolandoli vi-cendevolmente e stringendoli nella più intima delle prossimità; la sua funzione èanaloga a quella rivestita dall’immagine prodotta dallo stile che, sovrapponendosial volto ritratto, completa l’uomo con l’artista. Ammesso dunque che Millepianiemetta un’immagine, sarebbe erroneo supporla somigliante alla matrice che l’haposta in essere. Le stesse emanazioni spettrali, che gli atomi rilasciano vorticandoognuno secondo la propria inclinazione, in nulla somigliano al movimento che leha generate; discorso invariato per l’immagine dell’artista, anch’essa affatto simileallo stile che la produce. Il criterio della somiglianza, che altrove si dimostra ef-ficace nel ricondurre la causa all’effetto e viceversa, in questa circostanza risultadel tutto inapplicabile. Se è inutile tentare di rinvenire una qualche parvenza disomiglianza tra questo genere di movimenti (siano essi atomici, stilistici o noetici)e i corrispettivi effetti68, lo è ancora di più nel caso di quegli effetti “minori”, col-laterali, quali l’immagine del pensiero, l’immagine dell’artista, i simulacri, i qualiproprio perché immediatamente vicini ai movimenti che descrivono, in nessun casoaccetterebbero mediazioni di sorta per rapportarsi alla propria origine.

Se pertanto dal moto stilistico che travaglia Millepiani si distacca un qualcheeffetto, si cercherà bene se si abbandonerà quella predisposizione d’animo che al-trimenti solleciterebbe a rintracciare qualcosa che avesse un aspetto simile al movi-mento genitore. Escluso che si dia un vincolo di somiglianza che possa approntare

66 «Il nome del filosofo è il semplice pseudonimo dei suoi personaggi» (G. Deleuze, F. Guattari,Che cos’è la filosofia?, cit., p. 53).

67 G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 27.68 Occorre rinnovare la distinzione introdotta inizialmente e tornare a sottolineare che ciò in cui il

pensiero propriamente si effettua è il concetto, così come il movimento atomico nel dato sensibile elo stile nell’opera d’arte.

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una metodologia, foss’anche debole, ma comunque capace di indirizzare sciente-mente l’indagine, non resta altro che pensare che questo sia uno di quei casi incui occorre lasciarsi guidare da quel non so che, da quell’indefinibile aria di fa-miglia che talvolta svela in un modo tanto obliquo quanto potente anche le piùimbarazzanti parentele, rivelando al contempo tresche inconfessabili quando nonaddirittura oscene. Così facendo, approdiamo alla convinzione che Che cos’è lafilosofia? sia l’unica risposta candidata a soddisfare la nostra domanda: di un de-cennio posteriore a Millepiani nella cronologia delle collaborazioni di Deleuze edi Guattari, Che cos’è la filosofia? è l’immagine differita e cogente che il pensie-ro deleuziano rilascia circolando lungo la mutevole scala dei suoi mille+n piani.La struttura coerente nella quale il saggio si articola con quel suo tono ironicamen-te pedagogico e che a prima vista appare un incomprensibile regresso rispetto alleconquiste raggiunte con Millepiani, alla luce di questa prospettiva, d’improvviso,brilla di una necessità che prima solo si intuiva. Tracciare piani, inventare perso-naggi, creare concetti: nel momento in cui Che cos’è la filosofia? descrive in questitermini il lavoro della filosofia, il suo fare, è impossibile non precipitarsi a pensareche Deleuze in definitiva non abbia mai fatto altro che questo. L’inconciliabilitàche di primo acchito paralizzava ogni tentativo di comprensione teso a rischiarareil passaggio da Millepiani a Che cos’è la filosofia? si scioglie riconoscendo l’ine-vitabile consequenzialità che li relaziona, essendo l’uno il movimento e l’altro ilsuo riflesso. Ciononostante, resta assolutamente intaccato quel senso di estraneitàche, frapponendosi tra Millepiani e Che cos’è la filosofia? come tra il lampo eil tuono, ne rivendica l’irriducibile eterogeneità: differente la natura, differente ilpotenziale, differente l’intensità, è anche lungo lo scarto di questa differenza cheil pensiero deleuziano non cessa di circolare a velocità assoluta. L’autoritratto sicompleta, dunque, con l’accostamento di questi due testi. Che il suo esercizio sireplichi in questa manovra di accostamento indica che non c’è modo di vederlorealizzato una volta per tutte, ma che ogni approccio al pensiero deleuziano, cautoo audace che sia, si trasforma automaticamente in un’esecuzione vera e propria chelo vivifica e lo rinnova secondo la ricchezza specifica di ogni incontro. E questopuò significare solo una cosa: che l’autoritratto è riuscito ad arte.

Del movimento che si fa sul piano d’immanenza deleuziano si è trattato, e cosìanche dell’immagine che questo stesso movimento rilascia; ora, mettendo da parteil leitmotiv dell’autoritratto che ci ha accompagnati fin qui, resta da valutare qualesia la direzione intrapresa dal pensiero deleuziano, quale ne sia l’orientamento. Seinfatti il pensiero deleuziano, non diversamente da ogni altro, va inteso in terminidi movimento, dove punta la traiettoria che disegna? Senza troppi preamboli, ladomanda ora formulata affretta un ritorno alla prospettiva geografica, che avevamointrodotta a proposito di Millepiani là dove si evidenziava la difficile operazione diriduzione del senso linguisticamente inteso al suo doppio topografico; prospettivache ora, non potendo limitarsi alla singola mappatura di Millepiani, è necessa-rio che sia ampliata e considerata nella sua portata massima. Questo perché perstimare in quale senso proceda il pensiero deleuziano, è opportuno innanzi tuttoindividuare secondo quale direttrice si muova il vettore-Deleuze rispetto agli scor-

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rimenti che quella potenza anonima, altrove chiamata divenire-filosofia, anticipasulla sua immensa carta per conto di ogni singolo moto di pensiero.

Il divenire-filosofia, si commentava nelle pagine iniziali, è l’istanza che inten-ziona ogni movimento noetico attribuendogli una direzione e destinandolo per ciòstesso a una specifica regione del senso. Se fosse dato approdare al suo orizzonte,sarebbe possibile inaugurare l’era della geofilosofia: le singole geografie tracciatedai differenti movimenti di pensiero si sovrapporrebbero le une alle altre, dando vi-ta a complessi instabili non dissimili da quelli che abitualmente decifrano i geologi;il tempo cronologico cederebbe il trono a un tempo di natura differente, stratigra-fico, capace di rendere conto dei lenti slittamenti come dei violenti smottamentiche non cesserebbero di lavorare la complicata composizione di questi strati postil’uno sull’altro, l’uno accanto all’altro, l’uno nell’altro, come in un inedito acco-stamento di mondi69. Inutile commentare che manca a tutti gli effetti la possibilitàdi guadagnare questo orizzonte globale “a fior di divenire”; perciò, fermo restandoil contesto al quale si riferisce, occorre accontentarsi di rinvenire all’interno di cia-scun pensiero allusioni, accenni, tracce di ogni tipo indicative dell’orientamentoimpressogli dall’istanza che l’ha direzionato. Quello che bisogna ricercare è ciòche nelle inchieste poliziesche si intende comunemente per movente. Come è no-to, la sua importanza in questo genere di investigazioni deriva dal fatto che, unavolta individuato, esso rende chiaramente leggibile il piano d’azione che si è suc-cessivamente concluso con l’atto criminale. Risalire al movente significa infattirintracciare l’input che ha scatenato la pianificazione di ogni singola iniziativa tra-mando un unico disegno, dalla cui efficacia dipende in seguito l’esito finale delprogetto ordito. La risoluzione di un caso è pertanto vincolata all’individuazionedel movente dell’azione criminale, il quale in nulla differisce dalla motivazionetout court che ne ha ispirato il progetto; ma se ci si domandasse quando il moventeha iniziato a lavorare al suo illegale ordito, si resterebbe interdetti, dal momentoche la questione sollevata esulerebbe dall’evidenza dei fatti. La gelosia, che peresempio può motivare un delitto passionale, quando comincia? Tornando alle “in-chieste filosofiche”, occorre pertanto puntualizzare che se l’individuazione dellamotivazione, che agisce all’interno di ogni moto di pensiero, è di incontestabilerilevanza al fine di una comprensione generale del pensiero in oggetto, è bene nonbanalizzare il movente riducendolo a una sterile spiegazione delle ragioni che lohanno posto in essere. Occorre infatti leggere in ogni specifico movente il motoreaffatto immobile della filosofia70; ogni volta diversamente camuffato, esso eccede

69 «Il tempo filosofico è quindi un grandioso tempo di coesistenza, che non esclude il prima e ildopo ma li sovrappone in un ordine stratigrafico. È un divenire infinito della filosofia, che intersecama non si confonde con la sua storia. [. . . ] La filosofia è divenire, non storia; è coesistenza dipiani, non successione di sistemi» (G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 48).Riguardo al rapporto tra divenire e storia, commenta Fadini: «il divenire è una sorta di “ambiente”,o, meglio, un complesso di eventi che si articola su un piano di immanenza. In questo senso haun maggiore significato, per la comprensione dell’evento, il rinvio alla geografia piuttosto che allastoria» (U. Fadini, Deleuze plurale. Per un pensiero nomade, Pendragon, Bologna 1998, p. 30).

70 In casi simili, “fisso” è il termine che Deleuze di regola sostituisce a “immobile”. «Fisso nonvuole dire immobile, indica lo stato assoluto del movimento non meno della stasi, in rapporto al

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per natura il piano nel quale tuttavia non manca di svolgersi garantendo piuttostoche esso abbia un senso ovvero un orientamento. Forte del suo sguardo retrospet-tivo, la storia della filosofia, quando classifica correnti di pensiero e movimenti dirottura, non fa altro che sistematizzare le risultanti più evidenti dei movimenti mo-lecolari che il divenire-filosofia libera incessantemente a ogni livello pressando inmodo scostante e imprevedibile.

In un passo di Differenza e ripetizione Deleuze definisce l’opera filosofica co-me una «specie particolarissima di romanzo poliziesco»71; e lo potrebbe sembraredavvero se in essa si desse effettivamente la possibilità di rintracciare il moventeocculto che rivelerebbe, una volta individuato, la trama, l’orientamento soggiacen-te. Fedele a questa suggestione, Deleuze si avvicina all’opera platonica avendocome obiettivo quello di “stanare” l’implicita motivazione che la sottende; dal mo-mento che tale esemplificazione potrebbe essere di qualche utilità in vista del que-sito posto in merito al movente deleuziano, schematizziamo l’approccio di Deleuzealla filosofia platonica nei termini che seguono. Come è noto, Platone inaugura latradizione filosofica introducendo una distinzione tra il mondo sensibile e il mondointelligibile e stabilendo tra questi due mondi un rapporto simile a quello che in-tercorre tra il modello e la sua copia. Platone intende per modello ciò che permanenella medesima condizione, non essendo soggetto ad alcun mutamento, e per ciòstesso può essere colto soltanto mediante il «puro ragionamento della mente»72;per copia ciò che, al contrario, è in perpetua variazione rispetto a se stessa come ri-spetto a ogni altra cosa e nella propria costitutiva mutevolezza si offre al vaglio deisensi. All’uomo, creatura composta di carne, di ossa e di anima, immersa nel mon-do empirico e ciononostante incline naturalmente all’idea, al vero, spetta la durarisalita dal mondo sensibile al mondo delle idee sul filo delle somiglianze che vin-colano reciprocamente questi due mondi. Affinché il compito assegnato all’uomorisulti plausibile, Platone introduce la celebre teoria della reminiscenza (secondocui «il nostro apprendere non è che un ricordare»73) e con essa il mito, allo scopodi supportarla: il racconto mitico, narrando dell’anima, del suo essere congenere almondo ideale, del carcere che impedisce il suo volo, del suo carro alato e dei suoidue destrieri, così diversi nel carattere, avvalora di fatto la tesi secondo cui l’anima,prima di cadere nuovamente prigioniera del corpo, ha potuto elevarsi all’Iperura-nio e contemplarne le idee; quelle stesse che nel corso del processo conoscitivoriaffiorano attraverso il ricordo nelle rispettive copie sensibili, complice il nesso disomiglianza che le lega al modello cui sono improntate.

Se con l’ausilio della teoria della reminiscenza e del mito il percorso gnoseo-logico, che Platone orienta dalla sponda sensibile a quella intelligibile del reale,trova una sua giustificazione, con l’introduzione della dialettica questo stesso pro-cedimento acquisisce un metodo. La dialettica, difatti, è ciò che rende possibile la

quale tutte le variazioni di velocità relativa diventano esse stesse percettibili» (G. Deleuze, C. Parnet,op. cit., p. 98).

71 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 3.72 Platone, Fedone, 79 a.73 Ibid., 72 e.

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conoscenza del mondo ideale. Essa, con i suoi due momenti, quello noto come uni-ficazione sinottica e quello conosciuto come analisi diairetica, ritma la levitazionedell’anima, il suo batter d’ali tutto teso alla riconquista del mondo ideale. Il primomomento, ovvero quello sinottico, consiste nel raccogliere in un’unica idea ciò chesi trova disperso in molteplici modi con una sorta di colpo d’occhio, con un “sorvo-lo” (nel Fedro questo procedimento si concretizza nel discorso relativo a ciò che èEros); il secondo, quello diairetico, si fonda sulla divisione, che deve essere svoltain base alle articolazioni proprie delle Idee, senza causare stacchi o rotture (semprenel Fedro, si incontra questo procedimento quando Socrate e Fedro, il suo interlo-cutore, affrontano l’Idea di mania, per cui si pone una prima, iniziale, biforcazionedel discorso, che origina una destra e una sinistra, che sviluppate, ognuna per contosuo, fino in fondo, portano come conclusione un amore “sinistro”, da biasimare, eun amore “destro”, divino). Ciò che si ottiene alla fine del procedimento è la de-finizione dell’idea, la qual cosa costituisce un netto guadagno in termini di saperee rappresenta al contempo un nuovo passo conquistato lungo la verticale destinataa ricongiungere l’anima alla realtà sovrasensibile dalla quale proviene. È dunquequesta la motivazione che ha mosso l’intero complesso filosofico platonico, ovverola necessità di fondare un’autentica possibilità di conoscenza, pena il continuo va-gare dell’anima nel mondo delle imperfette riproduzioni del vero? Deleuze ritieneche il movente della filosofia di Platone sia da cercare altrove, e che la possibilitàdi fondare l’episteme sia solo un effetto conseguente all’intervento di quell’agenteprimario che ancora non si è definito.

Analizzando attentamente alcuni passi dei dialoghi platonici, in particolaredel Sofista, Deleuze sottolinea che oltre alla distinzione tra idee e copie, Plato-ne ne impone una seconda, quella tra icone e fantasmi. In entrambi i casi si haa che fare con immagini, che, nel rispetto di quanto già detto, intrattengono conil modello un rapporto di imitazione, per cui la copia risulta somigliante all’ideacui si ispira. Nel caso delle icone, si tratta di un’imitazione interiore, spirituale;nel caso dei simulacri, si tratta invece di un’imitazione solo esteriore, e ingannevo-le proprio perché solo superficiale. Questa seconda distinzione è più vicina dellaprima all’autentica motivazione del pensiero platonico, la quale mira ad escludere,tagliar fuori, una volta per tutte, la dimensione vaga dei simulacri, dei riflessi, dallarealtà propriamente intesa: da una parte, il cerchio ideale del platonismo che or-dina il cosmo disponendo attorno all’idea la sua rosa di copie somiglianti in variogrado alla perfezione del modello riprodotto; dall’altra, i simulacri e il caos indo-mabile su cui affaccia la loro ingannevole pelle. Da qui al movente della filosofiaplatonica il passo è breve: la sua natura morale è ben evidente nella chiara espli-citazione che viene riportata nel Timeo là dove l’intervento creatore del Demiurgosulla massa caotica originaria è giustificato in virtù del fatto che l’ordine è giudi-cato migliore del disordine. Attraverso la narrazione di Timeo, Platone dichiarache dare vita a un mondo ordinato (questo è il significato letterale di cosmo) e perciò stesso conoscibile è cosa buona e giusta74. Siglando questa sentenza, Plato-

74 Platone, Timeo, 29 d – 30 b.

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ne legittima qualsiasi manovra finalizzata all’imposizione dell’ordine su una realtàmondana che, dal canto suo, sfugge alle leggi che ostinatamente cercano di cucir-glielo addosso. Il senso del platonismo, secondo la lettura deleuziana, è proprioquello che si è appena detto; che l’attuale contemporaneità sia tuttora dominatadall’orientamento impresso dalla spinta platonica dovrebbe aiutare a comprenderela potenza di ciò ha agito dietro la filosofia di Platone, indirizzandola verso il cielodel concetto.

Quando Deleuze annuncia il proprio programma filosofico descrivendolo neitermini di un rovesciamento del platonismo, egli svela ed enuncia il proprio mo-vente. Se infatti si dovesse liquidare la questione del rovesciamento considerandolaun’innocua dinamica figurata, si commetterebbe un’imperdonabile leggerezza per-ché si ometterebbe l’unico indizio esplicito dell’orientamento che affatto metafo-ricamente il divenire-filosofia, protetto dal suo anonimato, ha impresso al pensierodeleuziano, declinandone l’inizio. Lo sguardo che tentiamo di gettare sul pen-siero deleuziano, quando ci rivolgiamo alla rivoluzione del platonismo che essoproclama, non ha nulla a che vedere con la prospettiva di un confronto puntualee serrato tra l’immagine del pensiero promulgata da Platone e quella diffusa daDeleuze, che potrebbe al limite consentire una stima dell’esito di questa manovradi ribaltamento. Un confronto di questo genere si limiterebbe infatti a opporre labuona volontà del pensatore platonico, lanciato alla ricerca della verità, all’origi-ne violenta, alla passione del pensiero sostenuta da Deleuze; il sistema chiuso delriconoscimento, che nella gnoseologia platonica regola ciascuna acquisizione delsapere, all’occasionalità dell’incontro che secondo la lezione deleuziana si defini-sce sempre in funzione di un Fuori; il risultato epistemologico, cui mira il processoconoscitivo platonico, al movimento dell’apprendimento, che Deleuze gli sostitui-sce come obiettivo; e così via. Occorre piuttosto focalizzare l’attenzione su quellavoro di ritaglio che Deleuze pratica su elementi cardine del platonismo, qualil’idea, la dialettica, il simulacro; questo perché, una volta svuotati dei rispettivicontenuti platonici, Deleuze provvede a investirli di un nuovo senso, di un senso“altro”, che egli recupera all’interno dell’opera platonica sotto le presunte spogliedi un senso secondo, alternativo al primo, realizzando una vera e propria mano-vra di ri-orientamento, tale a tutti gli effetti75. La rivoluzione filosofica deleuziananon ha altro senso che quello acquisito nel corso di questo minuzioso lavoro di“ri-direzionamento”. Pertanto sottolineamo che il gesto appena descritto è uno deifrangenti attraverso cui si offre la possibilità di leggere la vocazione che governaun pensiero e, per suo tramite, l’istanza perennemente diveniente che lo intenzio-na orientandone il movimento; occasioni di altro genere non si danno. Trascurarequesti brevi scorci significherebbe allora privare il senso del suo doppio geograficoe rinunciare alla possibilità di coltivare una prossimità inedita con il senso, avvici-

75 «Platone non è oltrepassabile e non è di alcun interesse ricominciare quello che lui ha fattoper sempre. Abbiamo solo un’alternativa: o la storia della filosofia oppure degli innesti su Platoneper problemi che non sono più platonici» (G. Deleuze, Pourparler, cit., p. 198). Cfr. A. Delcò,Filosofia della differenza. La critica del pensiero rappresentativo in Deleuze, Pedrazzini, Locarno1988, pp. 18-33.

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nandolo là dove ambiguamente si origina. Per chi dovesse dimostrarsi insensibilea queste occasioni, che senso avrebbe descrivere il movimento del platonismo co-me un movimento di tipo ascensionale e sostenere che quello deleuziano procedeall’opposto? È prevedibile che questo dire suonerebbe facilmente come un parlarda pazzi. E senza dubbio altrettanto insensato potrebbe sembrare anche il definirela dialettica platonica come la bussola che orienta l’anima pia verso l’Iperuranio,puntando su di esso come se fosse il nord. Certo, non molto più assennato sarebbecertamente giudicato il domandarsi quale sia il senso del rovesciamento dell’idea-lismo platonico, dove punti mai; soprattutto se la risposta dovesse essere: versosud76.

76 «Diciamo “sud” senza però attribuirvi una particolare importanza. [. . . ] Ognuno possiede il suosud, situato non importa dove, vale a dire la sua linea di pendenza o di fuga» (G. Deleuze, Pourparler,cit., p. 139).

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