Il mondo, in bianco e nero o a colori? · ... provare sensazioni vive. La storia dell’umanità è...

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di Phillip Noyce

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rie a ognuno dei membri della comunità isolata e apparentemente paci�ca e perfetta. Sanno benissimo che ricordare le cose passate, sentirle intimamente, comporta reazioni anche traumatiche. O, al contrario, bellissime, uniche. Non si può privare – ci ricorda il �lm attraverso i suoi intrepidi eroi – l’individuo del diritto-dovere di sapere, conoscere, provare sensazioni vive. La storia dell’umanità è stata un susseguirsi di atrocità, violenze, dolori inenarrabili. Ma impedire per il quieto vivere di rendersene conto, vuol dire interferire con la libertà personale. Infatti quello in cui è cresciuto Jonas, sono cresciuti i suoi amici, i suoi genitori, e persino gli anziani, è un modello di società totalitaria dove la vita e la morte vengono decisi a tavolino, dove si esercita il controllo delle nascite, si uccidono “delicatamente” i diversi, o meglio: coloro i quali non corrispondono ai parametri di disumana normalità, cominciando dai neonati o dai bambini molto piccoli. Impedire agli esseri umani il contatto �sico, selezionare le parole pertinenti da usare in un discorso, addormentare gli istinti di ciascuno ogni mattina, per prassi, vuol dire trasferire il crimine e l’atr-ocità nelle semplici regole di ogni giorno. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti gli spettatori, poiché questo mondo si presenta da subito in bianco e nero. Ora, chiediamoci se sia giusto prevenire le

guerre, gli atti di violenza, anche a costo di cancellare tutto il resto. Se sia giusto far piazza pulita dell’odio e della menzogna, impo-nendo la rinuncia preventiva anche all’amore e alla verità. Non si può edi�care un progetto di società creando individui simili ad automi, senza linguaggio, convinzioni, sentimenti, gusti, iniziative personali. Se il prezzo da pagare, per essere liberi, è anche la libertà di far del male, sbagliare, incorrere in vecchi vizi, è certamente triste essere d’accordo. Ma dal passato, dalla memoria, persino o soprattutto dalla più spaventosa e vergognosa delle memorie si può anche imparare qualcosa, attrezzarsi per non ricadere nell’errore, far tesoro, ebbene è un dovere ricordare e tramandare i

ricordi. Così come è necessario, anzi indispensabile non dare all’idea di “novità” e di “progresso” un signi�cato simile a quello di “cancellazione” o di “repressione”. Jonas, destinato al ruolo impegnativo di Raccoglitore di memorie, più del suo stesso, addolorato, Donatore, sente la necessità di condividere questo vasto campionario di immagini, storie, oggetti, colori, in nome della libertà. Che è un bene prezioso. Di più: una grandissima responsabilità. Essere liberi non c’entra a�atto con l’inquietante possibilità di opprimere l’altro, negargli diritti essenziali, distruggerlo. L’essere liberi non è una licenza di uccidere, ma un dovere e piacere di amare, vivere appieno e cogliere l’essenza incommensurabile del creato, accorgersi di in�nite sfumature, varietà umane, animali, naturali, caratteriali, religiose, culturali, politiche, cromatiche. Dalla varietà accettata e rilanciata a oltranza, senza limiti, con�ni, muri, divieti o ordinamenti restrittivi nasce semmai la capacità di recepire e rilan-ciare la compresenza, reagire ai soprusi, discutere le norme non condivisibili, proporne di nuove più a misura d’uomo e dell’ambiente circostante. Jonas, nella sua impresa è consapevole del rischio cui espone le persone care e sconosciute, quelle a lui più vicine come quelle a lui sconosciute: il rischio di reiterare gli orrori, le ingiusti-zie, i crimini, assieme all’opportunità di attingere al senso profondo della vita e dei valori cardini della conviven-za e dello stupore di fronte al fascino del mondo. Ma non ha dubbi in proposito: tra la vita, a tutti i costi, impreve-dibile, foriera di straordinarie possibilità, di segno positivo o negativo, e una morte organizzata, geometrica, grigia, privata del libero arbitrio, sceglie la prima, irrinunciabile opzione. Non a caso il regista del �lm, che nella sua lunga carriera, ha realizzato �lm di ogni genere, torna con The Giver sui temi del suo precedente �lm, il bellis-simo La generazione rubata (in originale, Rabbit-Proof Fence, del 2002), che l’avevano visto schierato in prima linea contro le barriere ingiuste e disumane che separavano un’etnia dall’altra nella natia Australia. Già allora si era occupato di �gli sottratti ai legittimi genitori e di intere “generazioni rubate”, ossia di bambini aborigeni australiani forzatamente allontanati dalle loro famiglie, bambini mezzo-sangue nati dall' incrocio tra inglesi e nativi. Come quelle cui appartiene Jonas, personaggio proiettato in un futuro come quello di The Giver, un futuro traspa-rente, allusivo, troppo presente, bisognoso di attingere al passato. Contro ogni infausta tentazione di cancellarlo, vietarlo, rinchiuder-lo in un tempio inaccessibile, riservato a pochi eventuali prescelti.

coglitore” di memorie di turno. Lo schema, per non dire la s�da, che il �lm propone riguarda non soltanto Jonas, i suoi amici, i suoi familiari, gli anziani, gli adulti, i giovani, i bambi-ni, gli abitanti tutti di questa apparente oasi di serenità prossima ventura, ma tutti noi spettatori. Si tratta di accet-tare il principio che il futuro, senza possibilità di decidere in proprio, assumersi la responsabilità del bene e del male, è come un �lm sprovvisto del requisito principale della realtà: la presenza dei colori, che rappresentano la varietà dei punti di vista, delle culture, delle idee, delle perso-nalità, dei sentimenti. Senza libertà, senza autonomia, senza scambi e senza reciprocità. Insomma un mondo, o per meglio dire un �lm, in bianco e nero.

Fantascienza e realtà, utopia e distopiaIl genere cui appartiene The Giver è la fantascienza. Infatti all’origine del �lm c’è il primo di un ciclo di romanzi di fantascienza per ragazzi della scrittrice Lois Lowry. Il libro si intitola esattamente come il �lm, The Giver, ed è del 1993. In Italia The Giver viene pubblicato due anni dopo, nel 1995 con il titolo Il mondo di Jonas. Successivamen-te, in concomitanza con l’uscita in sala del �lm, viene ripubblicato con il titolo originale The Giver, seguito dal sottotitolo Il mondo di Jonas. Seguono La rivincita (in originale Gathering Blue) del 2000, Il messaggero (in origina-le Messanger) del 2004, in�ne Il �glio (Son) del 2012. Ma di che tipo di fantascienza stiamo parlando? La fanta-scienza non è un genere semplice, a senso unico. Esistono diverse tipologie. The Giver appartiene a un tipo di fantascienza che si de�nisce “distopica”. Ebbene l’aggettivo proviene da “distopia”. E per “distopia” (con l’accento sulla penultima vocale, la “i”), che è il contrario di “utopia” (sempre con l’accento sulla “i”), vale a dire “il luogo dove tutto è come dovrebbe essere”. “Distopia” è quindi sinonimo di “anti-utopia” o “utopia negativa”, si intende la rappresentazione di un modello di società frutto dell’immaginazione. Ma non una società qualsiasi, spostata in avanti nel tempo. Bensì una come non vorremmo mai si realizzasse, che mette spavento, dove anziché il progresso sul fronte dei diritti umani, politici e civili o sulle condizioni materiali di vita, si registra un consistente regresso. Una indesiderabile o spaventosa, dove la tecnologia, le guerre, il controllo delle persone raggiungono livelli inimmaginabili. In altre parole la fantascienza cosiddetta “distopica” non è una forma di evasione dalla realtà, dal presente. Non o�re uno svago elementare e disimpegnato. Al contrario, essa ci mette in guardia dalle conseguenze irresponsabili di un presunto progresso privo di garanzie, di un uso e abuso dei mezzi di comuni-cazione e delle nuove frontiere tecnologiche che conduce l’umanità sul baratro, delle guerre da cui è impossibi-le salvarsi. La fantascienza, sempre, in particolare quella “distopica”, come nel caso di The Giver, tanto il libro quanto il �lm, è altamente educativa, ammonitrice, costruttrice di valori. L’uso del futuro diventa un modo estre-mo per spingerci a ri�ettere sul passato e sul presente, ad interrogarci sugli eventuali pericoli insiti nell’attuale senso di marcia del progresso e della civiltà. Lo scopo è quello di pre�gurarci insomma sviluppi indesiderabili, apocalittici, sia sotto forma drammatica, sia sotto forma di satira, cioè di presa in giro non meno allarmante. Tra i maggiori capolavori della fantascienza “distopica” troviamo Il padrone del mondo (Lord of the World, 1907) di

Robert Hugh Benson, Il tallone di ferro (The Iron Heel, 1908) di Jack London, Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley e 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1948) di George Orwell. Da molti di questi libri sono stati tratti altrettanti �lm, ovviamente. Il �lm The Giver è sicuramente uno di questi. Sia l’autore letterario, la statuni-tense Lois Lowry, che quello cinematogra�co, l’australiano Phillip Noyce, hanno letto certamente questi libri e vi si sono ispirati.

Donare e raccogliere memorie collettiveUn �lm come The Giver, prendendo le mosse dall’omonimo romanzo, pone al centro una questione molto importante. E che ci riguarda tutti, oggi più che mai: quello della memoria. Non soltanto un tipo di memoria privata, pur indispensabile, che merita di essere tramandata, ma soprattutto una memoria collettiva, che ci appartiene di diritto, fatta di eventi maggiori e minori, di esperienze piacevoli e terribili. Il �lm, come Jonas o il suo anziano Donatore, non transigono sull’importanza di restituire queste memo-

di Phillip Noyce

Il mondo, in bianco e nero o a colori?Questo �lm ci presenta dal principio immagini in bianco e nero, in un’epoca in cui siamo abituati a vedere quasi esclusivamente �lm a colori. Il bianco e nero, che in un �lm costituisce una scelta fotogra�ca, sta a indicare che è in bianco e nero tutto. Ossia è privo di colori non soltanto il mondo in cui vivono i protagonisti di questa vicen-da proiettata nel futuro ma anche la loro prospettiva, il loro modo di vedere e intendere le cose e le persone. Il bianco e nero, comportando l’assenza del colore, in questo caso mostra un’esistenza priva di slanci, di emozioni autentiche, di libertà di pensiero e di espressione. Solitamente per gli spettatori odierni quello in bianco e nero è un vecchio �lm, sebbene il cinema sia stato a colori sin dal principio, sin da quando il pioniere Georges Meliés era solito colorare a mano in modo artigianale ogni fotogramma dei suoi �lm. Certo, nel cinema, dagli anni Venti agli anni Quaranta, c’è stata un’assoluta prevalenza di �lm in bianco e nero, mentre dagli anni Cinquanta si ribal-ta la tendenza e comincia poco a poco a imporsi il colore. Per questo siamo abituati, cambiando canale sul televisore, a riconoscere un “vecchio” �lm dalla tecnica fotogra�ca adottata del bianco e nero. Ma, come si accen-nava, il bianco e nero è prima di tutto una modalità espressiva del �lm. Detto altrimenti, il �lm in bianco e nero, mediante la rinuncia ai colori e grazie, quindi all’accentuazione dei contrasti, del chiaroscuro, facendo risultare le in�nite, importanti sfumature di grigio, cosa fa? Ci o�re un’immagine del mondo, un’idea di come gli individui, compresi noi spettatori in sala, vedono e sentono la realtà. Per questa ragione, spiegava il regista Wim Wenders, quando vediamo un �lm a colori non ci accorgiamo che, essendo anche la vita sotto i nostri occhi a colori, esso rappresenta la realtà. Viceversa, proprio perché comprendiamo molto bene il signi�cato del colore sullo scher-mo, tendiamo a interpretarlo come un sintomo di qualcosa di molto positivo e piacevole. Il colore trasmette il senso della vivacità, della bellezza, della felicità. Mentre il bianco e nero, di converso, è indice di ciò che la vita diventa senza i colori: un’esperienza triste, spiacevole, noiosa. Ed è proprio questo che si cerca di far capire nel �lm The Giver, che adotta dapprincipio come scelta fotogra�ca prevalente il bianco e nero, facendo progressiva-mente a�orare il colore, che diventa in�ne dominante quando il modo di percepire la realtà da parte di Jonas �nisce per estendersi a tutti gli abitanti di questa cellula di umanità del futuro. Addirittura nella parte centrale del �lm, a colori sono i ricordi indiretti che il “donatore” (il “Giver” del titolo) dispensa, mentre in bianco e nero continua ad essere il presente. Se ci pensiamo, questa è una scelta che va in controtendenza rispet-to alle convenzioni cinematogra�che. Poiché sappiamo che quasi sempre, per tradizione, nei �lm il presente viene restituito a colori, mentre il bianco e nero appartiene ai �ashback. The Giver, chiaramente un �lm di fantascienza, perché proietta le nostre ansie e le nostre aspirazioni presenti in un futuro possi-bile, un futuro ora suggestivo ora soprattutto preoccupante, tinge con i colori della realtà un mondo scomparso, vissuto da persone ormai lontane nel tempo, custodito e tramandato dal “Donatore” al “Rac-

rie a ognuno dei membri della comunità isolata e apparentemente paci�ca e perfetta. Sanno benissimo che ricordare le cose passate, sentirle intimamente, comporta reazioni anche traumatiche. O, al contrario, bellissime, uniche. Non si può privare – ci ricorda il �lm attraverso i suoi intrepidi eroi – l’individuo del diritto-dovere di sapere, conoscere, provare sensazioni vive. La storia dell’umanità è stata un susseguirsi di atrocità, violenze, dolori inenarrabili. Ma impedire per il quieto vivere di rendersene conto, vuol dire interferire con la libertà personale. Infatti quello in cui è cresciuto Jonas, sono cresciuti i suoi amici, i suoi genitori, e persino gli anziani, è un modello di società totalitaria dove la vita e la morte vengono decisi a tavolino, dove si esercita il controllo delle nascite, si uccidono “delicatamente” i diversi, o meglio: coloro i quali non corrispondono ai parametri di disumana normalità, cominciando dai neonati o dai bambini molto piccoli. Impedire agli esseri umani il contatto �sico, selezionare le parole pertinenti da usare in un discorso, addormentare gli istinti di ciascuno ogni mattina, per prassi, vuol dire trasferire il crimine e l’atr-ocità nelle semplici regole di ogni giorno. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti gli spettatori, poiché questo mondo si presenta da subito in bianco e nero. Ora, chiediamoci se sia giusto prevenire le

guerre, gli atti di violenza, anche a costo di cancellare tutto il resto. Se sia giusto far piazza pulita dell’odio e della menzogna, impo-nendo la rinuncia preventiva anche all’amore e alla verità. Non si può edi�care un progetto di società creando individui simili ad automi, senza linguaggio, convinzioni, sentimenti, gusti, iniziative personali. Se il prezzo da pagare, per essere liberi, è anche la libertà di far del male, sbagliare, incorrere in vecchi vizi, è certamente triste essere d’accordo. Ma dal passato, dalla memoria, persino o soprattutto dalla più spaventosa e vergognosa delle memorie si può anche imparare qualcosa, attrezzarsi per non ricadere nell’errore, far tesoro, ebbene è un dovere ricordare e tramandare i

ricordi. Così come è necessario, anzi indispensabile non dare all’idea di “novità” e di “progresso” un signi�cato simile a quello di “cancellazione” o di “repressione”. Jonas, destinato al ruolo impegnativo di Raccoglitore di memorie, più del suo stesso, addolorato, Donatore, sente la necessità di condividere questo vasto campionario di immagini, storie, oggetti, colori, in nome della libertà. Che è un bene prezioso. Di più: una grandissima responsabilità. Essere liberi non c’entra a�atto con l’inquietante possibilità di opprimere l’altro, negargli diritti essenziali, distruggerlo. L’essere liberi non è una licenza di uccidere, ma un dovere e piacere di amare, vivere appieno e cogliere l’essenza incommensurabile del creato, accorgersi di in�nite sfumature, varietà umane, animali, naturali, caratteriali, religiose, culturali, politiche, cromatiche. Dalla varietà accettata e rilanciata a oltranza, senza limiti, con�ni, muri, divieti o ordinamenti restrittivi nasce semmai la capacità di recepire e rilan-ciare la compresenza, reagire ai soprusi, discutere le norme non condivisibili, proporne di nuove più a misura d’uomo e dell’ambiente circostante. Jonas, nella sua impresa è consapevole del rischio cui espone le persone care e sconosciute, quelle a lui più vicine come quelle a lui sconosciute: il rischio di reiterare gli orrori, le ingiusti-zie, i crimini, assieme all’opportunità di attingere al senso profondo della vita e dei valori cardini della conviven-za e dello stupore di fronte al fascino del mondo. Ma non ha dubbi in proposito: tra la vita, a tutti i costi, impreve-dibile, foriera di straordinarie possibilità, di segno positivo o negativo, e una morte organizzata, geometrica, grigia, privata del libero arbitrio, sceglie la prima, irrinunciabile opzione. Non a caso il regista del �lm, che nella sua lunga carriera, ha realizzato �lm di ogni genere, torna con The Giver sui temi del suo precedente �lm, il bellis-simo La generazione rubata (in originale, Rabbit-Proof Fence, del 2002), che l’avevano visto schierato in prima linea contro le barriere ingiuste e disumane che separavano un’etnia dall’altra nella natia Australia. Già allora si era occupato di �gli sottratti ai legittimi genitori e di intere “generazioni rubate”, ossia di bambini aborigeni australiani forzatamente allontanati dalle loro famiglie, bambini mezzo-sangue nati dall' incrocio tra inglesi e nativi. Come quelle cui appartiene Jonas, personaggio proiettato in un futuro come quello di The Giver, un futuro traspa-rente, allusivo, troppo presente, bisognoso di attingere al passato. Contro ogni infausta tentazione di cancellarlo, vietarlo, rinchiuder-lo in un tempio inaccessibile, riservato a pochi eventuali prescelti.

coglitore” di memorie di turno. Lo schema, per non dire la s�da, che il �lm propone riguarda non soltanto Jonas, i suoi amici, i suoi familiari, gli anziani, gli adulti, i giovani, i bambi-ni, gli abitanti tutti di questa apparente oasi di serenità prossima ventura, ma tutti noi spettatori. Si tratta di accet-tare il principio che il futuro, senza possibilità di decidere in proprio, assumersi la responsabilità del bene e del male, è come un �lm sprovvisto del requisito principale della realtà: la presenza dei colori, che rappresentano la varietà dei punti di vista, delle culture, delle idee, delle perso-nalità, dei sentimenti. Senza libertà, senza autonomia, senza scambi e senza reciprocità. Insomma un mondo, o per meglio dire un �lm, in bianco e nero.

Fantascienza e realtà, utopia e distopiaIl genere cui appartiene The Giver è la fantascienza. Infatti all’origine del �lm c’è il primo di un ciclo di romanzi di fantascienza per ragazzi della scrittrice Lois Lowry. Il libro si intitola esattamente come il �lm, The Giver, ed è del 1993. In Italia The Giver viene pubblicato due anni dopo, nel 1995 con il titolo Il mondo di Jonas. Successivamen-te, in concomitanza con l’uscita in sala del �lm, viene ripubblicato con il titolo originale The Giver, seguito dal sottotitolo Il mondo di Jonas. Seguono La rivincita (in originale Gathering Blue) del 2000, Il messaggero (in origina-le Messanger) del 2004, in�ne Il �glio (Son) del 2012. Ma di che tipo di fantascienza stiamo parlando? La fanta-scienza non è un genere semplice, a senso unico. Esistono diverse tipologie. The Giver appartiene a un tipo di fantascienza che si de�nisce “distopica”. Ebbene l’aggettivo proviene da “distopia”. E per “distopia” (con l’accento sulla penultima vocale, la “i”), che è il contrario di “utopia” (sempre con l’accento sulla “i”), vale a dire “il luogo dove tutto è come dovrebbe essere”. “Distopia” è quindi sinonimo di “anti-utopia” o “utopia negativa”, si intende la rappresentazione di un modello di società frutto dell’immaginazione. Ma non una società qualsiasi, spostata in avanti nel tempo. Bensì una come non vorremmo mai si realizzasse, che mette spavento, dove anziché il progresso sul fronte dei diritti umani, politici e civili o sulle condizioni materiali di vita, si registra un consistente regresso. Una indesiderabile o spaventosa, dove la tecnologia, le guerre, il controllo delle persone raggiungono livelli inimmaginabili. In altre parole la fantascienza cosiddetta “distopica” non è una forma di evasione dalla realtà, dal presente. Non o�re uno svago elementare e disimpegnato. Al contrario, essa ci mette in guardia dalle conseguenze irresponsabili di un presunto progresso privo di garanzie, di un uso e abuso dei mezzi di comuni-cazione e delle nuove frontiere tecnologiche che conduce l’umanità sul baratro, delle guerre da cui è impossibi-le salvarsi. La fantascienza, sempre, in particolare quella “distopica”, come nel caso di The Giver, tanto il libro quanto il �lm, è altamente educativa, ammonitrice, costruttrice di valori. L’uso del futuro diventa un modo estre-mo per spingerci a ri�ettere sul passato e sul presente, ad interrogarci sugli eventuali pericoli insiti nell’attuale senso di marcia del progresso e della civiltà. Lo scopo è quello di pre�gurarci insomma sviluppi indesiderabili, apocalittici, sia sotto forma drammatica, sia sotto forma di satira, cioè di presa in giro non meno allarmante. Tra i maggiori capolavori della fantascienza “distopica” troviamo Il padrone del mondo (Lord of the World, 1907) di

Robert Hugh Benson, Il tallone di ferro (The Iron Heel, 1908) di Jack London, Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley e 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1948) di George Orwell. Da molti di questi libri sono stati tratti altrettanti �lm, ovviamente. Il �lm The Giver è sicuramente uno di questi. Sia l’autore letterario, la statuni-tense Lois Lowry, che quello cinematogra�co, l’australiano Phillip Noyce, hanno letto certamente questi libri e vi si sono ispirati.

Donare e raccogliere memorie collettiveUn �lm come The Giver, prendendo le mosse dall’omonimo romanzo, pone al centro una questione molto importante. E che ci riguarda tutti, oggi più che mai: quello della memoria. Non soltanto un tipo di memoria privata, pur indispensabile, che merita di essere tramandata, ma soprattutto una memoria collettiva, che ci appartiene di diritto, fatta di eventi maggiori e minori, di esperienze piacevoli e terribili. Il �lm, come Jonas o il suo anziano Donatore, non transigono sull’importanza di restituire queste memo-

In una società futuristica, tecnologicamente all’avanguardia, l'umanità ha scelto di annullare tutte le di�erenze tra le persone al �ne di evitare con�itti dilanianti. La vita scorre così tranquilla e asettica, senza colori, priva di emozioni e di memo-ria… almeno �no a quando la scelta del giovane Jonas, dodici anni, come nuovo "Raccoglitore di memorie" non porterà ad una ribellione di quest'ultimo che, di nuovo dotato di sentimenti ed emozioni, scoprirà che l'idealizzata comunità in cui vive è in realtà una società totalitarista in cui ogni diversità viene estirpata. Società che presto dovrà fare i conti con le proprie azioni, messe in atto in nome di un folle tentativo di cancellare ogni traccia dell'anima, cuore pulsante dell'essere umano.

Regia: Phillip Noyce; Sogget-to: tratto dal romanzo omoni-mo di Lois Lowry; Sceneggia-tura: Michael Mitnik e Robert B. Weide; Fotogra�a: Ross Emery; Montaggio: Barry Alexander Brown; Musica: Marco Beltra-mi; Scenogra�a: Andrew McCarthy; Interpreti e perso-naggi principali: Je� Bridges (the Giver), Maryl Streep (Capo Anziano), Brenton Thwaites (Jonas), Alexander Skarsgard (il padre di Jonas), Katie Holmes (madre di Jonas), Odeya Rush (Fiona), Cameron Monaghan (Ashes), Taylor Swift (Rose-mary); Origine: USA, 2014; Durata: 97 minuti.

Il mondo, in bianco e nero o a colori?Questo �lm ci presenta dal principio immagini in bianco e nero, in un’epoca in cui siamo abituati a vedere quasi esclusivamente �lm a colori. Il bianco e nero, che in un �lm costituisce una scelta fotogra�ca, sta a indicare che è in bianco e nero tutto. Ossia è privo di colori non soltanto il mondo in cui vivono i protagonisti di questa vicen-da proiettata nel futuro ma anche la loro prospettiva, il loro modo di vedere e intendere le cose e le persone. Il bianco e nero, comportando l’assenza del colore, in questo caso mostra un’esistenza priva di slanci, di emozioni autentiche, di libertà di pensiero e di espressione. Solitamente per gli spettatori odierni quello in bianco e nero è un vecchio �lm, sebbene il cinema sia stato a colori sin dal principio, sin da quando il pioniere Georges Meliés era solito colorare a mano in modo artigianale ogni fotogramma dei suoi �lm. Certo, nel cinema, dagli anni Venti agli anni Quaranta, c’è stata un’assoluta prevalenza di �lm in bianco e nero, mentre dagli anni Cinquanta si ribal-ta la tendenza e comincia poco a poco a imporsi il colore. Per questo siamo abituati, cambiando canale sul televisore, a riconoscere un “vecchio” �lm dalla tecnica fotogra�ca adottata del bianco e nero. Ma, come si accen-nava, il bianco e nero è prima di tutto una modalità espressiva del �lm. Detto altrimenti, il �lm in bianco e nero, mediante la rinuncia ai colori e grazie, quindi all’accentuazione dei contrasti, del chiaroscuro, facendo risultare le in�nite, importanti sfumature di grigio, cosa fa? Ci o�re un’immagine del mondo, un’idea di come gli individui, compresi noi spettatori in sala, vedono e sentono la realtà. Per questa ragione, spiegava il regista Wim Wenders, quando vediamo un �lm a colori non ci accorgiamo che, essendo anche la vita sotto i nostri occhi a colori, esso rappresenta la realtà. Viceversa, proprio perché comprendiamo molto bene il signi�cato del colore sullo scher-mo, tendiamo a interpretarlo come un sintomo di qualcosa di molto positivo e piacevole. Il colore trasmette il senso della vivacità, della bellezza, della felicità. Mentre il bianco e nero, di converso, è indice di ciò che la vita diventa senza i colori: un’esperienza triste, spiacevole, noiosa. Ed è proprio questo che si cerca di far capire nel �lm The Giver, che adotta dapprincipio come scelta fotogra�ca prevalente il bianco e nero, facendo progressiva-mente a�orare il colore, che diventa in�ne dominante quando il modo di percepire la realtà da parte di Jonas �nisce per estendersi a tutti gli abitanti di questa cellula di umanità del futuro. Addirittura nella parte centrale del �lm, a colori sono i ricordi indiretti che il “donatore” (il “Giver” del titolo) dispensa, mentre in bianco e nero continua ad essere il presente. Se ci pensiamo, questa è una scelta che va in controtendenza rispet-to alle convenzioni cinematogra�che. Poiché sappiamo che quasi sempre, per tradizione, nei �lm il presente viene restituito a colori, mentre il bianco e nero appartiene ai �ashback. The Giver, chiaramente un �lm di fantascienza, perché proietta le nostre ansie e le nostre aspirazioni presenti in un futuro possi-bile, un futuro ora suggestivo ora soprattutto preoccupante, tinge con i colori della realtà un mondo scomparso, vissuto da persone ormai lontane nel tempo, custodito e tramandato dal “Donatore” al “Rac-

tram

a

«La vita è a colori,ma il bianco e nero è più realistico»

Wim Wenders

2

rie a ognuno dei membri della comunità isolata e apparentemente paci�ca e perfetta. Sanno benissimo che ricordare le cose passate, sentirle intimamente, comporta reazioni anche traumatiche. O, al contrario, bellissime, uniche. Non si può privare – ci ricorda il �lm attraverso i suoi intrepidi eroi – l’individuo del diritto-dovere di sapere, conoscere, provare sensazioni vive. La storia dell’umanità è stata un susseguirsi di atrocità, violenze, dolori inenarrabili. Ma impedire per il quieto vivere di rendersene conto, vuol dire interferire con la libertà personale. Infatti quello in cui è cresciuto Jonas, sono cresciuti i suoi amici, i suoi genitori, e persino gli anziani, è un modello di società totalitaria dove la vita e la morte vengono decisi a tavolino, dove si esercita il controllo delle nascite, si uccidono “delicatamente” i diversi, o meglio: coloro i quali non corrispondono ai parametri di disumana normalità, cominciando dai neonati o dai bambini molto piccoli. Impedire agli esseri umani il contatto �sico, selezionare le parole pertinenti da usare in un discorso, addormentare gli istinti di ciascuno ogni mattina, per prassi, vuol dire trasferire il crimine e l’atr-ocità nelle semplici regole di ogni giorno. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti gli spettatori, poiché questo mondo si presenta da subito in bianco e nero. Ora, chiediamoci se sia giusto prevenire le

guerre, gli atti di violenza, anche a costo di cancellare tutto il resto. Se sia giusto far piazza pulita dell’odio e della menzogna, impo-nendo la rinuncia preventiva anche all’amore e alla verità. Non si può edi�care un progetto di società creando individui simili ad automi, senza linguaggio, convinzioni, sentimenti, gusti, iniziative personali. Se il prezzo da pagare, per essere liberi, è anche la libertà di far del male, sbagliare, incorrere in vecchi vizi, è certamente triste essere d’accordo. Ma dal passato, dalla memoria, persino o soprattutto dalla più spaventosa e vergognosa delle memorie si può anche imparare qualcosa, attrezzarsi per non ricadere nell’errore, far tesoro, ebbene è un dovere ricordare e tramandare i

ricordi. Così come è necessario, anzi indispensabile non dare all’idea di “novità” e di “progresso” un signi�cato simile a quello di “cancellazione” o di “repressione”. Jonas, destinato al ruolo impegnativo di Raccoglitore di memorie, più del suo stesso, addolorato, Donatore, sente la necessità di condividere questo vasto campionario di immagini, storie, oggetti, colori, in nome della libertà. Che è un bene prezioso. Di più: una grandissima responsabilità. Essere liberi non c’entra a�atto con l’inquietante possibilità di opprimere l’altro, negargli diritti essenziali, distruggerlo. L’essere liberi non è una licenza di uccidere, ma un dovere e piacere di amare, vivere appieno e cogliere l’essenza incommensurabile del creato, accorgersi di in�nite sfumature, varietà umane, animali, naturali, caratteriali, religiose, culturali, politiche, cromatiche. Dalla varietà accettata e rilanciata a oltranza, senza limiti, con�ni, muri, divieti o ordinamenti restrittivi nasce semmai la capacità di recepire e rilan-ciare la compresenza, reagire ai soprusi, discutere le norme non condivisibili, proporne di nuove più a misura d’uomo e dell’ambiente circostante. Jonas, nella sua impresa è consapevole del rischio cui espone le persone care e sconosciute, quelle a lui più vicine come quelle a lui sconosciute: il rischio di reiterare gli orrori, le ingiusti-zie, i crimini, assieme all’opportunità di attingere al senso profondo della vita e dei valori cardini della conviven-za e dello stupore di fronte al fascino del mondo. Ma non ha dubbi in proposito: tra la vita, a tutti i costi, impreve-dibile, foriera di straordinarie possibilità, di segno positivo o negativo, e una morte organizzata, geometrica, grigia, privata del libero arbitrio, sceglie la prima, irrinunciabile opzione. Non a caso il regista del �lm, che nella sua lunga carriera, ha realizzato �lm di ogni genere, torna con The Giver sui temi del suo precedente �lm, il bellis-simo La generazione rubata (in originale, Rabbit-Proof Fence, del 2002), che l’avevano visto schierato in prima linea contro le barriere ingiuste e disumane che separavano un’etnia dall’altra nella natia Australia. Già allora si era occupato di �gli sottratti ai legittimi genitori e di intere “generazioni rubate”, ossia di bambini aborigeni australiani forzatamente allontanati dalle loro famiglie, bambini mezzo-sangue nati dall' incrocio tra inglesi e nativi. Come quelle cui appartiene Jonas, personaggio proiettato in un futuro come quello di The Giver, un futuro traspa-rente, allusivo, troppo presente, bisognoso di attingere al passato. Contro ogni infausta tentazione di cancellarlo, vietarlo, rinchiuder-lo in un tempio inaccessibile, riservato a pochi eventuali prescelti.

coglitore” di memorie di turno. Lo schema, per non dire la s�da, che il �lm propone riguarda non soltanto Jonas, i suoi amici, i suoi familiari, gli anziani, gli adulti, i giovani, i bambi-ni, gli abitanti tutti di questa apparente oasi di serenità prossima ventura, ma tutti noi spettatori. Si tratta di accet-tare il principio che il futuro, senza possibilità di decidere in proprio, assumersi la responsabilità del bene e del male, è come un �lm sprovvisto del requisito principale della realtà: la presenza dei colori, che rappresentano la varietà dei punti di vista, delle culture, delle idee, delle perso-nalità, dei sentimenti. Senza libertà, senza autonomia, senza scambi e senza reciprocità. Insomma un mondo, o per meglio dire un �lm, in bianco e nero.

Fantascienza e realtà, utopia e distopiaIl genere cui appartiene The Giver è la fantascienza. Infatti all’origine del �lm c’è il primo di un ciclo di romanzi di fantascienza per ragazzi della scrittrice Lois Lowry. Il libro si intitola esattamente come il �lm, The Giver, ed è del 1993. In Italia The Giver viene pubblicato due anni dopo, nel 1995 con il titolo Il mondo di Jonas. Successivamen-te, in concomitanza con l’uscita in sala del �lm, viene ripubblicato con il titolo originale The Giver, seguito dal sottotitolo Il mondo di Jonas. Seguono La rivincita (in originale Gathering Blue) del 2000, Il messaggero (in origina-le Messanger) del 2004, in�ne Il �glio (Son) del 2012. Ma di che tipo di fantascienza stiamo parlando? La fanta-scienza non è un genere semplice, a senso unico. Esistono diverse tipologie. The Giver appartiene a un tipo di fantascienza che si de�nisce “distopica”. Ebbene l’aggettivo proviene da “distopia”. E per “distopia” (con l’accento sulla penultima vocale, la “i”), che è il contrario di “utopia” (sempre con l’accento sulla “i”), vale a dire “il luogo dove tutto è come dovrebbe essere”. “Distopia” è quindi sinonimo di “anti-utopia” o “utopia negativa”, si intende la rappresentazione di un modello di società frutto dell’immaginazione. Ma non una società qualsiasi, spostata in avanti nel tempo. Bensì una come non vorremmo mai si realizzasse, che mette spavento, dove anziché il progresso sul fronte dei diritti umani, politici e civili o sulle condizioni materiali di vita, si registra un consistente regresso. Una indesiderabile o spaventosa, dove la tecnologia, le guerre, il controllo delle persone raggiungono livelli inimmaginabili. In altre parole la fantascienza cosiddetta “distopica” non è una forma di evasione dalla realtà, dal presente. Non o�re uno svago elementare e disimpegnato. Al contrario, essa ci mette in guardia dalle conseguenze irresponsabili di un presunto progresso privo di garanzie, di un uso e abuso dei mezzi di comuni-cazione e delle nuove frontiere tecnologiche che conduce l’umanità sul baratro, delle guerre da cui è impossibi-le salvarsi. La fantascienza, sempre, in particolare quella “distopica”, come nel caso di The Giver, tanto il libro quanto il �lm, è altamente educativa, ammonitrice, costruttrice di valori. L’uso del futuro diventa un modo estre-mo per spingerci a ri�ettere sul passato e sul presente, ad interrogarci sugli eventuali pericoli insiti nell’attuale senso di marcia del progresso e della civiltà. Lo scopo è quello di pre�gurarci insomma sviluppi indesiderabili, apocalittici, sia sotto forma drammatica, sia sotto forma di satira, cioè di presa in giro non meno allarmante. Tra i maggiori capolavori della fantascienza “distopica” troviamo Il padrone del mondo (Lord of the World, 1907) di

Robert Hugh Benson, Il tallone di ferro (The Iron Heel, 1908) di Jack London, Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley e 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1948) di George Orwell. Da molti di questi libri sono stati tratti altrettanti �lm, ovviamente. Il �lm The Giver è sicuramente uno di questi. Sia l’autore letterario, la statuni-tense Lois Lowry, che quello cinematogra�co, l’australiano Phillip Noyce, hanno letto certamente questi libri e vi si sono ispirati.

Donare e raccogliere memorie collettiveUn �lm come The Giver, prendendo le mosse dall’omonimo romanzo, pone al centro una questione molto importante. E che ci riguarda tutti, oggi più che mai: quello della memoria. Non soltanto un tipo di memoria privata, pur indispensabile, che merita di essere tramandata, ma soprattutto una memoria collettiva, che ci appartiene di diritto, fatta di eventi maggiori e minori, di esperienze piacevoli e terribili. Il �lm, come Jonas o il suo anziano Donatore, non transigono sull’importanza di restituire queste memo-

Il mondo, in bianco e nero o a colori?Questo �lm ci presenta dal principio immagini in bianco e nero, in un’epoca in cui siamo abituati a vedere quasi esclusivamente �lm a colori. Il bianco e nero, che in un �lm costituisce una scelta fotogra�ca, sta a indicare che è in bianco e nero tutto. Ossia è privo di colori non soltanto il mondo in cui vivono i protagonisti di questa vicen-da proiettata nel futuro ma anche la loro prospettiva, il loro modo di vedere e intendere le cose e le persone. Il bianco e nero, comportando l’assenza del colore, in questo caso mostra un’esistenza priva di slanci, di emozioni autentiche, di libertà di pensiero e di espressione. Solitamente per gli spettatori odierni quello in bianco e nero è un vecchio �lm, sebbene il cinema sia stato a colori sin dal principio, sin da quando il pioniere Georges Meliés era solito colorare a mano in modo artigianale ogni fotogramma dei suoi �lm. Certo, nel cinema, dagli anni Venti agli anni Quaranta, c’è stata un’assoluta prevalenza di �lm in bianco e nero, mentre dagli anni Cinquanta si ribal-ta la tendenza e comincia poco a poco a imporsi il colore. Per questo siamo abituati, cambiando canale sul televisore, a riconoscere un “vecchio” �lm dalla tecnica fotogra�ca adottata del bianco e nero. Ma, come si accen-nava, il bianco e nero è prima di tutto una modalità espressiva del �lm. Detto altrimenti, il �lm in bianco e nero, mediante la rinuncia ai colori e grazie, quindi all’accentuazione dei contrasti, del chiaroscuro, facendo risultare le in�nite, importanti sfumature di grigio, cosa fa? Ci o�re un’immagine del mondo, un’idea di come gli individui, compresi noi spettatori in sala, vedono e sentono la realtà. Per questa ragione, spiegava il regista Wim Wenders, quando vediamo un �lm a colori non ci accorgiamo che, essendo anche la vita sotto i nostri occhi a colori, esso rappresenta la realtà. Viceversa, proprio perché comprendiamo molto bene il signi�cato del colore sullo scher-mo, tendiamo a interpretarlo come un sintomo di qualcosa di molto positivo e piacevole. Il colore trasmette il senso della vivacità, della bellezza, della felicità. Mentre il bianco e nero, di converso, è indice di ciò che la vita diventa senza i colori: un’esperienza triste, spiacevole, noiosa. Ed è proprio questo che si cerca di far capire nel �lm The Giver, che adotta dapprincipio come scelta fotogra�ca prevalente il bianco e nero, facendo progressiva-mente a�orare il colore, che diventa in�ne dominante quando il modo di percepire la realtà da parte di Jonas �nisce per estendersi a tutti gli abitanti di questa cellula di umanità del futuro. Addirittura nella parte centrale del �lm, a colori sono i ricordi indiretti che il “donatore” (il “Giver” del titolo) dispensa, mentre in bianco e nero continua ad essere il presente. Se ci pensiamo, questa è una scelta che va in controtendenza rispet-to alle convenzioni cinematogra�che. Poiché sappiamo che quasi sempre, per tradizione, nei �lm il presente viene restituito a colori, mentre il bianco e nero appartiene ai �ashback. The Giver, chiaramente un �lm di fantascienza, perché proietta le nostre ansie e le nostre aspirazioni presenti in un futuro possi-bile, un futuro ora suggestivo ora soprattutto preoccupante, tinge con i colori della realtà un mondo scomparso, vissuto da persone ormai lontane nel tempo, custodito e tramandato dal “Donatore” al “Rac-

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rie a ognuno dei membri della comunità isolata e apparentemente paci�ca e perfetta. Sanno benissimo che ricordare le cose passate, sentirle intimamente, comporta reazioni anche traumatiche. O, al contrario, bellissime, uniche. Non si può privare – ci ricorda il �lm attraverso i suoi intrepidi eroi – l’individuo del diritto-dovere di sapere, conoscere, provare sensazioni vive. La storia dell’umanità è stata un susseguirsi di atrocità, violenze, dolori inenarrabili. Ma impedire per il quieto vivere di rendersene conto, vuol dire interferire con la libertà personale. Infatti quello in cui è cresciuto Jonas, sono cresciuti i suoi amici, i suoi genitori, e persino gli anziani, è un modello di società totalitaria dove la vita e la morte vengono decisi a tavolino, dove si esercita il controllo delle nascite, si uccidono “delicatamente” i diversi, o meglio: coloro i quali non corrispondono ai parametri di disumana normalità, cominciando dai neonati o dai bambini molto piccoli. Impedire agli esseri umani il contatto �sico, selezionare le parole pertinenti da usare in un discorso, addormentare gli istinti di ciascuno ogni mattina, per prassi, vuol dire trasferire il crimine e l’atr-ocità nelle semplici regole di ogni giorno. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti gli spettatori, poiché questo mondo si presenta da subito in bianco e nero. Ora, chiediamoci se sia giusto prevenire le

guerre, gli atti di violenza, anche a costo di cancellare tutto il resto. Se sia giusto far piazza pulita dell’odio e della menzogna, impo-nendo la rinuncia preventiva anche all’amore e alla verità. Non si può edi�care un progetto di società creando individui simili ad automi, senza linguaggio, convinzioni, sentimenti, gusti, iniziative personali. Se il prezzo da pagare, per essere liberi, è anche la libertà di far del male, sbagliare, incorrere in vecchi vizi, è certamente triste essere d’accordo. Ma dal passato, dalla memoria, persino o soprattutto dalla più spaventosa e vergognosa delle memorie si può anche imparare qualcosa, attrezzarsi per non ricadere nell’errore, far tesoro, ebbene è un dovere ricordare e tramandare i

ricordi. Così come è necessario, anzi indispensabile non dare all’idea di “novità” e di “progresso” un signi�cato simile a quello di “cancellazione” o di “repressione”. Jonas, destinato al ruolo impegnativo di Raccoglitore di memorie, più del suo stesso, addolorato, Donatore, sente la necessità di condividere questo vasto campionario di immagini, storie, oggetti, colori, in nome della libertà. Che è un bene prezioso. Di più: una grandissima responsabilità. Essere liberi non c’entra a�atto con l’inquietante possibilità di opprimere l’altro, negargli diritti essenziali, distruggerlo. L’essere liberi non è una licenza di uccidere, ma un dovere e piacere di amare, vivere appieno e cogliere l’essenza incommensurabile del creato, accorgersi di in�nite sfumature, varietà umane, animali, naturali, caratteriali, religiose, culturali, politiche, cromatiche. Dalla varietà accettata e rilanciata a oltranza, senza limiti, con�ni, muri, divieti o ordinamenti restrittivi nasce semmai la capacità di recepire e rilan-ciare la compresenza, reagire ai soprusi, discutere le norme non condivisibili, proporne di nuove più a misura d’uomo e dell’ambiente circostante. Jonas, nella sua impresa è consapevole del rischio cui espone le persone care e sconosciute, quelle a lui più vicine come quelle a lui sconosciute: il rischio di reiterare gli orrori, le ingiusti-zie, i crimini, assieme all’opportunità di attingere al senso profondo della vita e dei valori cardini della conviven-za e dello stupore di fronte al fascino del mondo. Ma non ha dubbi in proposito: tra la vita, a tutti i costi, impreve-dibile, foriera di straordinarie possibilità, di segno positivo o negativo, e una morte organizzata, geometrica, grigia, privata del libero arbitrio, sceglie la prima, irrinunciabile opzione. Non a caso il regista del �lm, che nella sua lunga carriera, ha realizzato �lm di ogni genere, torna con The Giver sui temi del suo precedente �lm, il bellis-simo La generazione rubata (in originale, Rabbit-Proof Fence, del 2002), che l’avevano visto schierato in prima linea contro le barriere ingiuste e disumane che separavano un’etnia dall’altra nella natia Australia. Già allora si era occupato di �gli sottratti ai legittimi genitori e di intere “generazioni rubate”, ossia di bambini aborigeni australiani forzatamente allontanati dalle loro famiglie, bambini mezzo-sangue nati dall' incrocio tra inglesi e nativi. Come quelle cui appartiene Jonas, personaggio proiettato in un futuro come quello di The Giver, un futuro traspa-rente, allusivo, troppo presente, bisognoso di attingere al passato. Contro ogni infausta tentazione di cancellarlo, vietarlo, rinchiuder-lo in un tempio inaccessibile, riservato a pochi eventuali prescelti.

coglitore” di memorie di turno. Lo schema, per non dire la s�da, che il �lm propone riguarda non soltanto Jonas, i suoi amici, i suoi familiari, gli anziani, gli adulti, i giovani, i bambi-ni, gli abitanti tutti di questa apparente oasi di serenità prossima ventura, ma tutti noi spettatori. Si tratta di accet-tare il principio che il futuro, senza possibilità di decidere in proprio, assumersi la responsabilità del bene e del male, è come un �lm sprovvisto del requisito principale della realtà: la presenza dei colori, che rappresentano la varietà dei punti di vista, delle culture, delle idee, delle perso-nalità, dei sentimenti. Senza libertà, senza autonomia, senza scambi e senza reciprocità. Insomma un mondo, o per meglio dire un �lm, in bianco e nero.

Fantascienza e realtà, utopia e distopiaIl genere cui appartiene The Giver è la fantascienza. Infatti all’origine del �lm c’è il primo di un ciclo di romanzi di fantascienza per ragazzi della scrittrice Lois Lowry. Il libro si intitola esattamente come il �lm, The Giver, ed è del 1993. In Italia The Giver viene pubblicato due anni dopo, nel 1995 con il titolo Il mondo di Jonas. Successivamen-te, in concomitanza con l’uscita in sala del �lm, viene ripubblicato con il titolo originale The Giver, seguito dal sottotitolo Il mondo di Jonas. Seguono La rivincita (in originale Gathering Blue) del 2000, Il messaggero (in origina-le Messanger) del 2004, in�ne Il �glio (Son) del 2012. Ma di che tipo di fantascienza stiamo parlando? La fanta-scienza non è un genere semplice, a senso unico. Esistono diverse tipologie. The Giver appartiene a un tipo di fantascienza che si de�nisce “distopica”. Ebbene l’aggettivo proviene da “distopia”. E per “distopia” (con l’accento sulla penultima vocale, la “i”), che è il contrario di “utopia” (sempre con l’accento sulla “i”), vale a dire “il luogo dove tutto è come dovrebbe essere”. “Distopia” è quindi sinonimo di “anti-utopia” o “utopia negativa”, si intende la rappresentazione di un modello di società frutto dell’immaginazione. Ma non una società qualsiasi, spostata in avanti nel tempo. Bensì una come non vorremmo mai si realizzasse, che mette spavento, dove anziché il progresso sul fronte dei diritti umani, politici e civili o sulle condizioni materiali di vita, si registra un consistente regresso. Una indesiderabile o spaventosa, dove la tecnologia, le guerre, il controllo delle persone raggiungono livelli inimmaginabili. In altre parole la fantascienza cosiddetta “distopica” non è una forma di evasione dalla realtà, dal presente. Non o�re uno svago elementare e disimpegnato. Al contrario, essa ci mette in guardia dalle conseguenze irresponsabili di un presunto progresso privo di garanzie, di un uso e abuso dei mezzi di comuni-cazione e delle nuove frontiere tecnologiche che conduce l’umanità sul baratro, delle guerre da cui è impossibi-le salvarsi. La fantascienza, sempre, in particolare quella “distopica”, come nel caso di The Giver, tanto il libro quanto il �lm, è altamente educativa, ammonitrice, costruttrice di valori. L’uso del futuro diventa un modo estre-mo per spingerci a ri�ettere sul passato e sul presente, ad interrogarci sugli eventuali pericoli insiti nell’attuale senso di marcia del progresso e della civiltà. Lo scopo è quello di pre�gurarci insomma sviluppi indesiderabili, apocalittici, sia sotto forma drammatica, sia sotto forma di satira, cioè di presa in giro non meno allarmante. Tra i maggiori capolavori della fantascienza “distopica” troviamo Il padrone del mondo (Lord of the World, 1907) di

Robert Hugh Benson, Il tallone di ferro (The Iron Heel, 1908) di Jack London, Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley e 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1948) di George Orwell. Da molti di questi libri sono stati tratti altrettanti �lm, ovviamente. Il �lm The Giver è sicuramente uno di questi. Sia l’autore letterario, la statuni-tense Lois Lowry, che quello cinematogra�co, l’australiano Phillip Noyce, hanno letto certamente questi libri e vi si sono ispirati.

Donare e raccogliere memorie collettiveUn �lm come The Giver, prendendo le mosse dall’omonimo romanzo, pone al centro una questione molto importante. E che ci riguarda tutti, oggi più che mai: quello della memoria. Non soltanto un tipo di memoria privata, pur indispensabile, che merita di essere tramandata, ma soprattutto una memoria collettiva, che ci appartiene di diritto, fatta di eventi maggiori e minori, di esperienze piacevoli e terribili. Il �lm, come Jonas o il suo anziano Donatore, non transigono sull’importanza di restituire queste memo-

Il mondo, in bianco e nero o a colori?Questo �lm ci presenta dal principio immagini in bianco e nero, in un’epoca in cui siamo abituati a vedere quasi esclusivamente �lm a colori. Il bianco e nero, che in un �lm costituisce una scelta fotogra�ca, sta a indicare che è in bianco e nero tutto. Ossia è privo di colori non soltanto il mondo in cui vivono i protagonisti di questa vicen-da proiettata nel futuro ma anche la loro prospettiva, il loro modo di vedere e intendere le cose e le persone. Il bianco e nero, comportando l’assenza del colore, in questo caso mostra un’esistenza priva di slanci, di emozioni autentiche, di libertà di pensiero e di espressione. Solitamente per gli spettatori odierni quello in bianco e nero è un vecchio �lm, sebbene il cinema sia stato a colori sin dal principio, sin da quando il pioniere Georges Meliés era solito colorare a mano in modo artigianale ogni fotogramma dei suoi �lm. Certo, nel cinema, dagli anni Venti agli anni Quaranta, c’è stata un’assoluta prevalenza di �lm in bianco e nero, mentre dagli anni Cinquanta si ribal-ta la tendenza e comincia poco a poco a imporsi il colore. Per questo siamo abituati, cambiando canale sul televisore, a riconoscere un “vecchio” �lm dalla tecnica fotogra�ca adottata del bianco e nero. Ma, come si accen-nava, il bianco e nero è prima di tutto una modalità espressiva del �lm. Detto altrimenti, il �lm in bianco e nero, mediante la rinuncia ai colori e grazie, quindi all’accentuazione dei contrasti, del chiaroscuro, facendo risultare le in�nite, importanti sfumature di grigio, cosa fa? Ci o�re un’immagine del mondo, un’idea di come gli individui, compresi noi spettatori in sala, vedono e sentono la realtà. Per questa ragione, spiegava il regista Wim Wenders, quando vediamo un �lm a colori non ci accorgiamo che, essendo anche la vita sotto i nostri occhi a colori, esso rappresenta la realtà. Viceversa, proprio perché comprendiamo molto bene il signi�cato del colore sullo scher-mo, tendiamo a interpretarlo come un sintomo di qualcosa di molto positivo e piacevole. Il colore trasmette il senso della vivacità, della bellezza, della felicità. Mentre il bianco e nero, di converso, è indice di ciò che la vita diventa senza i colori: un’esperienza triste, spiacevole, noiosa. Ed è proprio questo che si cerca di far capire nel �lm The Giver, che adotta dapprincipio come scelta fotogra�ca prevalente il bianco e nero, facendo progressiva-mente a�orare il colore, che diventa in�ne dominante quando il modo di percepire la realtà da parte di Jonas �nisce per estendersi a tutti gli abitanti di questa cellula di umanità del futuro. Addirittura nella parte centrale del �lm, a colori sono i ricordi indiretti che il “donatore” (il “Giver” del titolo) dispensa, mentre in bianco e nero continua ad essere il presente. Se ci pensiamo, questa è una scelta che va in controtendenza rispet-to alle convenzioni cinematogra�che. Poiché sappiamo che quasi sempre, per tradizione, nei �lm il presente viene restituito a colori, mentre il bianco e nero appartiene ai �ashback. The Giver, chiaramente un �lm di fantascienza, perché proietta le nostre ansie e le nostre aspirazioni presenti in un futuro possi-bile, un futuro ora suggestivo ora soprattutto preoccupante, tinge con i colori della realtà un mondo scomparso, vissuto da persone ormai lontane nel tempo, custodito e tramandato dal “Donatore” al “Rac-

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rie a ognuno dei membri della comunità isolata e apparentemente paci�ca e perfetta. Sanno benissimo che ricordare le cose passate, sentirle intimamente, comporta reazioni anche traumatiche. O, al contrario, bellissime, uniche. Non si può privare – ci ricorda il �lm attraverso i suoi intrepidi eroi – l’individuo del diritto-dovere di sapere, conoscere, provare sensazioni vive. La storia dell’umanità è stata un susseguirsi di atrocità, violenze, dolori inenarrabili. Ma impedire per il quieto vivere di rendersene conto, vuol dire interferire con la libertà personale. Infatti quello in cui è cresciuto Jonas, sono cresciuti i suoi amici, i suoi genitori, e persino gli anziani, è un modello di società totalitaria dove la vita e la morte vengono decisi a tavolino, dove si esercita il controllo delle nascite, si uccidono “delicatamente” i diversi, o meglio: coloro i quali non corrispondono ai parametri di disumana normalità, cominciando dai neonati o dai bambini molto piccoli. Impedire agli esseri umani il contatto �sico, selezionare le parole pertinenti da usare in un discorso, addormentare gli istinti di ciascuno ogni mattina, per prassi, vuol dire trasferire il crimine e l’atr-ocità nelle semplici regole di ogni giorno. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti gli spettatori, poiché questo mondo si presenta da subito in bianco e nero. Ora, chiediamoci se sia giusto prevenire le

guerre, gli atti di violenza, anche a costo di cancellare tutto il resto. Se sia giusto far piazza pulita dell’odio e della menzogna, impo-nendo la rinuncia preventiva anche all’amore e alla verità. Non si può edi�care un progetto di società creando individui simili ad automi, senza linguaggio, convinzioni, sentimenti, gusti, iniziative personali. Se il prezzo da pagare, per essere liberi, è anche la libertà di far del male, sbagliare, incorrere in vecchi vizi, è certamente triste essere d’accordo. Ma dal passato, dalla memoria, persino o soprattutto dalla più spaventosa e vergognosa delle memorie si può anche imparare qualcosa, attrezzarsi per non ricadere nell’errore, far tesoro, ebbene è un dovere ricordare e tramandare i

ricordi. Così come è necessario, anzi indispensabile non dare all’idea di “novità” e di “progresso” un signi�cato simile a quello di “cancellazione” o di “repressione”. Jonas, destinato al ruolo impegnativo di Raccoglitore di memorie, più del suo stesso, addolorato, Donatore, sente la necessità di condividere questo vasto campionario di immagini, storie, oggetti, colori, in nome della libertà. Che è un bene prezioso. Di più: una grandissima responsabilità. Essere liberi non c’entra a�atto con l’inquietante possibilità di opprimere l’altro, negargli diritti essenziali, distruggerlo. L’essere liberi non è una licenza di uccidere, ma un dovere e piacere di amare, vivere appieno e cogliere l’essenza incommensurabile del creato, accorgersi di in�nite sfumature, varietà umane, animali, naturali, caratteriali, religiose, culturali, politiche, cromatiche. Dalla varietà accettata e rilanciata a oltranza, senza limiti, con�ni, muri, divieti o ordinamenti restrittivi nasce semmai la capacità di recepire e rilan-ciare la compresenza, reagire ai soprusi, discutere le norme non condivisibili, proporne di nuove più a misura d’uomo e dell’ambiente circostante. Jonas, nella sua impresa è consapevole del rischio cui espone le persone care e sconosciute, quelle a lui più vicine come quelle a lui sconosciute: il rischio di reiterare gli orrori, le ingiusti-zie, i crimini, assieme all’opportunità di attingere al senso profondo della vita e dei valori cardini della conviven-za e dello stupore di fronte al fascino del mondo. Ma non ha dubbi in proposito: tra la vita, a tutti i costi, impreve-dibile, foriera di straordinarie possibilità, di segno positivo o negativo, e una morte organizzata, geometrica, grigia, privata del libero arbitrio, sceglie la prima, irrinunciabile opzione. Non a caso il regista del �lm, che nella sua lunga carriera, ha realizzato �lm di ogni genere, torna con The Giver sui temi del suo precedente �lm, il bellis-simo La generazione rubata (in originale, Rabbit-Proof Fence, del 2002), che l’avevano visto schierato in prima linea contro le barriere ingiuste e disumane che separavano un’etnia dall’altra nella natia Australia. Già allora si era occupato di �gli sottratti ai legittimi genitori e di intere “generazioni rubate”, ossia di bambini aborigeni australiani forzatamente allontanati dalle loro famiglie, bambini mezzo-sangue nati dall' incrocio tra inglesi e nativi. Come quelle cui appartiene Jonas, personaggio proiettato in un futuro come quello di The Giver, un futuro traspa-rente, allusivo, troppo presente, bisognoso di attingere al passato. Contro ogni infausta tentazione di cancellarlo, vietarlo, rinchiuder-lo in un tempio inaccessibile, riservato a pochi eventuali prescelti.

coglitore” di memorie di turno. Lo schema, per non dire la s�da, che il �lm propone riguarda non soltanto Jonas, i suoi amici, i suoi familiari, gli anziani, gli adulti, i giovani, i bambi-ni, gli abitanti tutti di questa apparente oasi di serenità prossima ventura, ma tutti noi spettatori. Si tratta di accet-tare il principio che il futuro, senza possibilità di decidere in proprio, assumersi la responsabilità del bene e del male, è come un �lm sprovvisto del requisito principale della realtà: la presenza dei colori, che rappresentano la varietà dei punti di vista, delle culture, delle idee, delle perso-nalità, dei sentimenti. Senza libertà, senza autonomia, senza scambi e senza reciprocità. Insomma un mondo, o per meglio dire un �lm, in bianco e nero.

Fantascienza e realtà, utopia e distopiaIl genere cui appartiene The Giver è la fantascienza. Infatti all’origine del �lm c’è il primo di un ciclo di romanzi di fantascienza per ragazzi della scrittrice Lois Lowry. Il libro si intitola esattamente come il �lm, The Giver, ed è del 1993. In Italia The Giver viene pubblicato due anni dopo, nel 1995 con il titolo Il mondo di Jonas. Successivamen-te, in concomitanza con l’uscita in sala del �lm, viene ripubblicato con il titolo originale The Giver, seguito dal sottotitolo Il mondo di Jonas. Seguono La rivincita (in originale Gathering Blue) del 2000, Il messaggero (in origina-le Messanger) del 2004, in�ne Il �glio (Son) del 2012. Ma di che tipo di fantascienza stiamo parlando? La fanta-scienza non è un genere semplice, a senso unico. Esistono diverse tipologie. The Giver appartiene a un tipo di fantascienza che si de�nisce “distopica”. Ebbene l’aggettivo proviene da “distopia”. E per “distopia” (con l’accento sulla penultima vocale, la “i”), che è il contrario di “utopia” (sempre con l’accento sulla “i”), vale a dire “il luogo dove tutto è come dovrebbe essere”. “Distopia” è quindi sinonimo di “anti-utopia” o “utopia negativa”, si intende la rappresentazione di un modello di società frutto dell’immaginazione. Ma non una società qualsiasi, spostata in avanti nel tempo. Bensì una come non vorremmo mai si realizzasse, che mette spavento, dove anziché il progresso sul fronte dei diritti umani, politici e civili o sulle condizioni materiali di vita, si registra un consistente regresso. Una indesiderabile o spaventosa, dove la tecnologia, le guerre, il controllo delle persone raggiungono livelli inimmaginabili. In altre parole la fantascienza cosiddetta “distopica” non è una forma di evasione dalla realtà, dal presente. Non o�re uno svago elementare e disimpegnato. Al contrario, essa ci mette in guardia dalle conseguenze irresponsabili di un presunto progresso privo di garanzie, di un uso e abuso dei mezzi di comuni-cazione e delle nuove frontiere tecnologiche che conduce l’umanità sul baratro, delle guerre da cui è impossibi-le salvarsi. La fantascienza, sempre, in particolare quella “distopica”, come nel caso di The Giver, tanto il libro quanto il �lm, è altamente educativa, ammonitrice, costruttrice di valori. L’uso del futuro diventa un modo estre-mo per spingerci a ri�ettere sul passato e sul presente, ad interrogarci sugli eventuali pericoli insiti nell’attuale senso di marcia del progresso e della civiltà. Lo scopo è quello di pre�gurarci insomma sviluppi indesiderabili, apocalittici, sia sotto forma drammatica, sia sotto forma di satira, cioè di presa in giro non meno allarmante. Tra i maggiori capolavori della fantascienza “distopica” troviamo Il padrone del mondo (Lord of the World, 1907) di

Robert Hugh Benson, Il tallone di ferro (The Iron Heel, 1908) di Jack London, Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley e 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1948) di George Orwell. Da molti di questi libri sono stati tratti altrettanti �lm, ovviamente. Il �lm The Giver è sicuramente uno di questi. Sia l’autore letterario, la statuni-tense Lois Lowry, che quello cinematogra�co, l’australiano Phillip Noyce, hanno letto certamente questi libri e vi si sono ispirati.

Donare e raccogliere memorie collettiveUn �lm come The Giver, prendendo le mosse dall’omonimo romanzo, pone al centro una questione molto importante. E che ci riguarda tutti, oggi più che mai: quello della memoria. Non soltanto un tipo di memoria privata, pur indispensabile, che merita di essere tramandata, ma soprattutto una memoria collettiva, che ci appartiene di diritto, fatta di eventi maggiori e minori, di esperienze piacevoli e terribili. Il �lm, come Jonas o il suo anziano Donatore, non transigono sull’importanza di restituire queste memo-

Il mondo, in bianco e nero o a colori?Questo �lm ci presenta dal principio immagini in bianco e nero, in un’epoca in cui siamo abituati a vedere quasi esclusivamente �lm a colori. Il bianco e nero, che in un �lm costituisce una scelta fotogra�ca, sta a indicare che è in bianco e nero tutto. Ossia è privo di colori non soltanto il mondo in cui vivono i protagonisti di questa vicen-da proiettata nel futuro ma anche la loro prospettiva, il loro modo di vedere e intendere le cose e le persone. Il bianco e nero, comportando l’assenza del colore, in questo caso mostra un’esistenza priva di slanci, di emozioni autentiche, di libertà di pensiero e di espressione. Solitamente per gli spettatori odierni quello in bianco e nero è un vecchio �lm, sebbene il cinema sia stato a colori sin dal principio, sin da quando il pioniere Georges Meliés era solito colorare a mano in modo artigianale ogni fotogramma dei suoi �lm. Certo, nel cinema, dagli anni Venti agli anni Quaranta, c’è stata un’assoluta prevalenza di �lm in bianco e nero, mentre dagli anni Cinquanta si ribal-ta la tendenza e comincia poco a poco a imporsi il colore. Per questo siamo abituati, cambiando canale sul televisore, a riconoscere un “vecchio” �lm dalla tecnica fotogra�ca adottata del bianco e nero. Ma, come si accen-nava, il bianco e nero è prima di tutto una modalità espressiva del �lm. Detto altrimenti, il �lm in bianco e nero, mediante la rinuncia ai colori e grazie, quindi all’accentuazione dei contrasti, del chiaroscuro, facendo risultare le in�nite, importanti sfumature di grigio, cosa fa? Ci o�re un’immagine del mondo, un’idea di come gli individui, compresi noi spettatori in sala, vedono e sentono la realtà. Per questa ragione, spiegava il regista Wim Wenders, quando vediamo un �lm a colori non ci accorgiamo che, essendo anche la vita sotto i nostri occhi a colori, esso rappresenta la realtà. Viceversa, proprio perché comprendiamo molto bene il signi�cato del colore sullo scher-mo, tendiamo a interpretarlo come un sintomo di qualcosa di molto positivo e piacevole. Il colore trasmette il senso della vivacità, della bellezza, della felicità. Mentre il bianco e nero, di converso, è indice di ciò che la vita diventa senza i colori: un’esperienza triste, spiacevole, noiosa. Ed è proprio questo che si cerca di far capire nel �lm The Giver, che adotta dapprincipio come scelta fotogra�ca prevalente il bianco e nero, facendo progressiva-mente a�orare il colore, che diventa in�ne dominante quando il modo di percepire la realtà da parte di Jonas �nisce per estendersi a tutti gli abitanti di questa cellula di umanità del futuro. Addirittura nella parte centrale del �lm, a colori sono i ricordi indiretti che il “donatore” (il “Giver” del titolo) dispensa, mentre in bianco e nero continua ad essere il presente. Se ci pensiamo, questa è una scelta che va in controtendenza rispet-to alle convenzioni cinematogra�che. Poiché sappiamo che quasi sempre, per tradizione, nei �lm il presente viene restituito a colori, mentre il bianco e nero appartiene ai �ashback. The Giver, chiaramente un �lm di fantascienza, perché proietta le nostre ansie e le nostre aspirazioni presenti in un futuro possi-bile, un futuro ora suggestivo ora soprattutto preoccupante, tinge con i colori della realtà un mondo scomparso, vissuto da persone ormai lontane nel tempo, custodito e tramandato dal “Donatore” al “Rac-

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... l’attore che interpreta Jonas BRENTON THWAITES:«Nel �lm vengono a�rontate tutte le emozioni, l’amore, il tradimento, la so�erenza e la voglia di uscire per scoprirne altre, l’avventura e la voglia di vivere. Anch’io quando ero bambino, volevo viaggiare e provare cose nuove. E’ esattamente quello che fa Jonas, quindi penso che per questo sia di ispirazione per i ragazzi. Spero che la mia interpretazione di Jonas incoraggi i giovani a provare sensazioni, in qualche modo a non vergo-gnarsi di esprimere le proprie opinioni o sentimenti. C’è molto della nostra vita che sembra come se vivessimo in una bolla di sapone. Questa è una grande metafora in The Giver, che in qualche modo insegna alle persone a rompere questa bolla, seguire i propri sogni, a�rontare le paure, inseguire i propri amori».

... l’attore che interpreta il Donatore anziano JEFF BRIDGES:«La domanda che viene posta al pubblico è: il �ne giusti�ca i mezzi? Cosa siamo disponibili a fare per il quieto vivere? Siamo disposti a cancellare queste giganti opposizioni dalle nostre vite? Possiamo liberarci di terribili so�erenze come di grandi gioie nella vita così da condurre delle esistenze neutrali, sicure e relativamente felici? Ci può bastare?».

... il direttore della fotogra�a ROSS EMERY:«La comunità vive in un ambiente arti�ciale, il loro mondo è tranquillo, blando e senza colori, ma io l'ho visua-lizzato nell'assenza del colore, e non in bianco e nero. Il colore è uno stimolo di sensazioni ampli�cate nella storia. Appena Jonas comincia ad imparare i ricordi, i colori cominciano ad in�ltrarsi nella vicenda. Il rosso rappresenta l'iniziale risveglio della sua passione, e poi mano a mano introduciamo una tavolozza di colori primari».

... l’autrice del libro LOIS LOWRY:«Il libro non è stato frutto di alcuna urgenza politica; è stato ispirato da mio padre che all'epoca era molto vecchio, e la sua memoria stava svanendo. Viveva ad una certa distanza da dove stavo io e gli facevo visita ogni sei settimane. Col tempo divenne evidente che stava perdendo ricordi che per me erano molto impor-tanti. Vedevo anche che era contento, perché aveva dimenticato ogni evento del suo passato che fosse triste o spaventoso, compresa la sua esperienza nella Seconda Guerra Mondiale e la morte della sua primo-genita – mia sorella – quando era ancora molto piccola. Questo mi ha fatto pensare all'importanza della memoria e a come possiamo manipolarla».

rie a ognuno dei membri della comunità isolata e apparentemente paci�ca e perfetta. Sanno benissimo che ricordare le cose passate, sentirle intimamente, comporta reazioni anche traumatiche. O, al contrario, bellissime, uniche. Non si può privare – ci ricorda il �lm attraverso i suoi intrepidi eroi – l’individuo del diritto-dovere di sapere, conoscere, provare sensazioni vive. La storia dell’umanità è stata un susseguirsi di atrocità, violenze, dolori inenarrabili. Ma impedire per il quieto vivere di rendersene conto, vuol dire interferire con la libertà personale. Infatti quello in cui è cresciuto Jonas, sono cresciuti i suoi amici, i suoi genitori, e persino gli anziani, è un modello di società totalitaria dove la vita e la morte vengono decisi a tavolino, dove si esercita il controllo delle nascite, si uccidono “delicatamente” i diversi, o meglio: coloro i quali non corrispondono ai parametri di disumana normalità, cominciando dai neonati o dai bambini molto piccoli. Impedire agli esseri umani il contatto �sico, selezionare le parole pertinenti da usare in un discorso, addormentare gli istinti di ciascuno ogni mattina, per prassi, vuol dire trasferire il crimine e l’atr-ocità nelle semplici regole di ogni giorno. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti gli spettatori, poiché questo mondo si presenta da subito in bianco e nero. Ora, chiediamoci se sia giusto prevenire le

guerre, gli atti di violenza, anche a costo di cancellare tutto il resto. Se sia giusto far piazza pulita dell’odio e della menzogna, impo-nendo la rinuncia preventiva anche all’amore e alla verità. Non si può edi�care un progetto di società creando individui simili ad automi, senza linguaggio, convinzioni, sentimenti, gusti, iniziative personali. Se il prezzo da pagare, per essere liberi, è anche la libertà di far del male, sbagliare, incorrere in vecchi vizi, è certamente triste essere d’accordo. Ma dal passato, dalla memoria, persino o soprattutto dalla più spaventosa e vergognosa delle memorie si può anche imparare qualcosa, attrezzarsi per non ricadere nell’errore, far tesoro, ebbene è un dovere ricordare e tramandare i

ricordi. Così come è necessario, anzi indispensabile non dare all’idea di “novità” e di “progresso” un signi�cato simile a quello di “cancellazione” o di “repressione”. Jonas, destinato al ruolo impegnativo di Raccoglitore di memorie, più del suo stesso, addolorato, Donatore, sente la necessità di condividere questo vasto campionario di immagini, storie, oggetti, colori, in nome della libertà. Che è un bene prezioso. Di più: una grandissima responsabilità. Essere liberi non c’entra a�atto con l’inquietante possibilità di opprimere l’altro, negargli diritti essenziali, distruggerlo. L’essere liberi non è una licenza di uccidere, ma un dovere e piacere di amare, vivere appieno e cogliere l’essenza incommensurabile del creato, accorgersi di in�nite sfumature, varietà umane, animali, naturali, caratteriali, religiose, culturali, politiche, cromatiche. Dalla varietà accettata e rilanciata a oltranza, senza limiti, con�ni, muri, divieti o ordinamenti restrittivi nasce semmai la capacità di recepire e rilan-ciare la compresenza, reagire ai soprusi, discutere le norme non condivisibili, proporne di nuove più a misura d’uomo e dell’ambiente circostante. Jonas, nella sua impresa è consapevole del rischio cui espone le persone care e sconosciute, quelle a lui più vicine come quelle a lui sconosciute: il rischio di reiterare gli orrori, le ingiusti-zie, i crimini, assieme all’opportunità di attingere al senso profondo della vita e dei valori cardini della conviven-za e dello stupore di fronte al fascino del mondo. Ma non ha dubbi in proposito: tra la vita, a tutti i costi, impreve-dibile, foriera di straordinarie possibilità, di segno positivo o negativo, e una morte organizzata, geometrica, grigia, privata del libero arbitrio, sceglie la prima, irrinunciabile opzione. Non a caso il regista del �lm, che nella sua lunga carriera, ha realizzato �lm di ogni genere, torna con The Giver sui temi del suo precedente �lm, il bellis-simo La generazione rubata (in originale, Rabbit-Proof Fence, del 2002), che l’avevano visto schierato in prima linea contro le barriere ingiuste e disumane che separavano un’etnia dall’altra nella natia Australia. Già allora si era occupato di �gli sottratti ai legittimi genitori e di intere “generazioni rubate”, ossia di bambini aborigeni australiani forzatamente allontanati dalle loro famiglie, bambini mezzo-sangue nati dall' incrocio tra inglesi e nativi. Come quelle cui appartiene Jonas, personaggio proiettato in un futuro come quello di The Giver, un futuro traspa-rente, allusivo, troppo presente, bisognoso di attingere al passato. Contro ogni infausta tentazione di cancellarlo, vietarlo, rinchiuder-lo in un tempio inaccessibile, riservato a pochi eventuali prescelti.

coglitore” di memorie di turno. Lo schema, per non dire la s�da, che il �lm propone riguarda non soltanto Jonas, i suoi amici, i suoi familiari, gli anziani, gli adulti, i giovani, i bambi-ni, gli abitanti tutti di questa apparente oasi di serenità prossima ventura, ma tutti noi spettatori. Si tratta di accet-tare il principio che il futuro, senza possibilità di decidere in proprio, assumersi la responsabilità del bene e del male, è come un �lm sprovvisto del requisito principale della realtà: la presenza dei colori, che rappresentano la varietà dei punti di vista, delle culture, delle idee, delle perso-nalità, dei sentimenti. Senza libertà, senza autonomia, senza scambi e senza reciprocità. Insomma un mondo, o per meglio dire un �lm, in bianco e nero.

Fantascienza e realtà, utopia e distopiaIl genere cui appartiene The Giver è la fantascienza. Infatti all’origine del �lm c’è il primo di un ciclo di romanzi di fantascienza per ragazzi della scrittrice Lois Lowry. Il libro si intitola esattamente come il �lm, The Giver, ed è del 1993. In Italia The Giver viene pubblicato due anni dopo, nel 1995 con il titolo Il mondo di Jonas. Successivamen-te, in concomitanza con l’uscita in sala del �lm, viene ripubblicato con il titolo originale The Giver, seguito dal sottotitolo Il mondo di Jonas. Seguono La rivincita (in originale Gathering Blue) del 2000, Il messaggero (in origina-le Messanger) del 2004, in�ne Il �glio (Son) del 2012. Ma di che tipo di fantascienza stiamo parlando? La fanta-scienza non è un genere semplice, a senso unico. Esistono diverse tipologie. The Giver appartiene a un tipo di fantascienza che si de�nisce “distopica”. Ebbene l’aggettivo proviene da “distopia”. E per “distopia” (con l’accento sulla penultima vocale, la “i”), che è il contrario di “utopia” (sempre con l’accento sulla “i”), vale a dire “il luogo dove tutto è come dovrebbe essere”. “Distopia” è quindi sinonimo di “anti-utopia” o “utopia negativa”, si intende la rappresentazione di un modello di società frutto dell’immaginazione. Ma non una società qualsiasi, spostata in avanti nel tempo. Bensì una come non vorremmo mai si realizzasse, che mette spavento, dove anziché il progresso sul fronte dei diritti umani, politici e civili o sulle condizioni materiali di vita, si registra un consistente regresso. Una indesiderabile o spaventosa, dove la tecnologia, le guerre, il controllo delle persone raggiungono livelli inimmaginabili. In altre parole la fantascienza cosiddetta “distopica” non è una forma di evasione dalla realtà, dal presente. Non o�re uno svago elementare e disimpegnato. Al contrario, essa ci mette in guardia dalle conseguenze irresponsabili di un presunto progresso privo di garanzie, di un uso e abuso dei mezzi di comuni-cazione e delle nuove frontiere tecnologiche che conduce l’umanità sul baratro, delle guerre da cui è impossibi-le salvarsi. La fantascienza, sempre, in particolare quella “distopica”, come nel caso di The Giver, tanto il libro quanto il �lm, è altamente educativa, ammonitrice, costruttrice di valori. L’uso del futuro diventa un modo estre-mo per spingerci a ri�ettere sul passato e sul presente, ad interrogarci sugli eventuali pericoli insiti nell’attuale senso di marcia del progresso e della civiltà. Lo scopo è quello di pre�gurarci insomma sviluppi indesiderabili, apocalittici, sia sotto forma drammatica, sia sotto forma di satira, cioè di presa in giro non meno allarmante. Tra i maggiori capolavori della fantascienza “distopica” troviamo Il padrone del mondo (Lord of the World, 1907) di

Robert Hugh Benson, Il tallone di ferro (The Iron Heel, 1908) di Jack London, Il mondo nuovo (Brave New World, 1932) di Aldous Huxley e 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1948) di George Orwell. Da molti di questi libri sono stati tratti altrettanti �lm, ovviamente. Il �lm The Giver è sicuramente uno di questi. Sia l’autore letterario, la statuni-tense Lois Lowry, che quello cinematogra�co, l’australiano Phillip Noyce, hanno letto certamente questi libri e vi si sono ispirati.

Donare e raccogliere memorie collettiveUn �lm come The Giver, prendendo le mosse dall’omonimo romanzo, pone al centro una questione molto importante. E che ci riguarda tutti, oggi più che mai: quello della memoria. Non soltanto un tipo di memoria privata, pur indispensabile, che merita di essere tramandata, ma soprattutto una memoria collettiva, che ci appartiene di diritto, fatta di eventi maggiori e minori, di esperienze piacevoli e terribili. Il �lm, come Jonas o il suo anziano Donatore, non transigono sull’importanza di restituire queste memo-

Il mondo, in bianco e nero o a colori?Questo �lm ci presenta dal principio immagini in bianco e nero, in un’epoca in cui siamo abituati a vedere quasi esclusivamente �lm a colori. Il bianco e nero, che in un �lm costituisce una scelta fotogra�ca, sta a indicare che è in bianco e nero tutto. Ossia è privo di colori non soltanto il mondo in cui vivono i protagonisti di questa vicen-da proiettata nel futuro ma anche la loro prospettiva, il loro modo di vedere e intendere le cose e le persone. Il bianco e nero, comportando l’assenza del colore, in questo caso mostra un’esistenza priva di slanci, di emozioni autentiche, di libertà di pensiero e di espressione. Solitamente per gli spettatori odierni quello in bianco e nero è un vecchio �lm, sebbene il cinema sia stato a colori sin dal principio, sin da quando il pioniere Georges Meliés era solito colorare a mano in modo artigianale ogni fotogramma dei suoi �lm. Certo, nel cinema, dagli anni Venti agli anni Quaranta, c’è stata un’assoluta prevalenza di �lm in bianco e nero, mentre dagli anni Cinquanta si ribal-ta la tendenza e comincia poco a poco a imporsi il colore. Per questo siamo abituati, cambiando canale sul televisore, a riconoscere un “vecchio” �lm dalla tecnica fotogra�ca adottata del bianco e nero. Ma, come si accen-nava, il bianco e nero è prima di tutto una modalità espressiva del �lm. Detto altrimenti, il �lm in bianco e nero, mediante la rinuncia ai colori e grazie, quindi all’accentuazione dei contrasti, del chiaroscuro, facendo risultare le in�nite, importanti sfumature di grigio, cosa fa? Ci o�re un’immagine del mondo, un’idea di come gli individui, compresi noi spettatori in sala, vedono e sentono la realtà. Per questa ragione, spiegava il regista Wim Wenders, quando vediamo un �lm a colori non ci accorgiamo che, essendo anche la vita sotto i nostri occhi a colori, esso rappresenta la realtà. Viceversa, proprio perché comprendiamo molto bene il signi�cato del colore sullo scher-mo, tendiamo a interpretarlo come un sintomo di qualcosa di molto positivo e piacevole. Il colore trasmette il senso della vivacità, della bellezza, della felicità. Mentre il bianco e nero, di converso, è indice di ciò che la vita diventa senza i colori: un’esperienza triste, spiacevole, noiosa. Ed è proprio questo che si cerca di far capire nel �lm The Giver, che adotta dapprincipio come scelta fotogra�ca prevalente il bianco e nero, facendo progressiva-mente a�orare il colore, che diventa in�ne dominante quando il modo di percepire la realtà da parte di Jonas �nisce per estendersi a tutti gli abitanti di questa cellula di umanità del futuro. Addirittura nella parte centrale del �lm, a colori sono i ricordi indiretti che il “donatore” (il “Giver” del titolo) dispensa, mentre in bianco e nero continua ad essere il presente. Se ci pensiamo, questa è una scelta che va in controtendenza rispet-to alle convenzioni cinematogra�che. Poiché sappiamo che quasi sempre, per tradizione, nei �lm il presente viene restituito a colori, mentre il bianco e nero appartiene ai �ashback. The Giver, chiaramente un �lm di fantascienza, perché proietta le nostre ansie e le nostre aspirazioni presenti in un futuro possi-bile, un futuro ora suggestivo ora soprattutto preoccupante, tinge con i colori della realtà un mondo scomparso, vissuto da persone ormai lontane nel tempo, custodito e tramandato dal “Donatore” al “Rac-

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Phillip Noyce è nato in Australia nel 1950. A soli 17 anni ha iniziato a realizzare alcuni cortometraggi, usando i suoi amici come membri del cast. Nel 1977 realizza il suo primo �lm Backroads, seguito da Newsfront del 1978, aggiundicandosi un Australian Film Institute per il miglior �lm, miglior regia e miglior sceneggiatura.In seguito lavora per alcune miniserie tv. Tra i suoi �lm di successo ricor-diamo il thriller Ore 10: Calma piatta del 1989, nello stesso anno dirige Furia cieca a cui seguiranno Giochi di potere, Sliver, Sotto il segno del peri-colo, Il Santo e Il collezionista di ossa.Nel 2002 torna in Australia per girare il bellissimo La generazione rubata e nello stesso anno realizza The Quiet American tratto dal romanzo Un americano tranquillo di Graham Greene. Nel 2009 dirige Angelina Jolie in Salt. The Giver è il suo ultimo lavoro.

il regista P������ N�y��

hanno detto...

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Come mai nel �lm si alternano immagini in bianco e nero e a colori? A quali circostanze o a quali scene corrisponde questa alternanza? Che signi�cato assumono in generale nei �lm scelte fotogra�che come quella del bianco e nero e del colore? A che tipo di �lm associ il bianco e nero e a quale il colore?

Come giudichi le memorie che nel �lm si ripresentano al protagonista Jonas e al suo Donatore? In che misura il passato, dunque le immagini che lo rievocano scelte nel �lm, può essere considerato un dono prezioso, un serbatoio di insegnamenti o una terribile sventura?

Analizza i personaggi principali del �lm, mettendo in risalto ruoli, qualità, aspetti oscuri, principali emo-zioni.

Quale importanza hanno per te le emozioni? È giusto esprimerle o in generale è meglio tenerle in silenzio? Racconta una situazione in cui ti è venuto spontaneo esprimere le tue emozioni e un’altra in cui ti sei senti-to costretto a non esprimerle? Confronta il tuo racconto con quello dei tuoi compagni.

Descrivi il modello di società in cui vive il protagonista e indica tutti i modi in cui la libertà personale viene calpestata. Confronta questo modello di società con quelle in cui viviamo, evidenziando di�erenti ed eventuali analogie.

Descrivi le scenogra�e, gli ambienti del �lm. A quale tipo di architetture ti fanno pensare? Fai una ricerca insieme al tuo docente di storia o di arte.

Alla �ne del �lm c’è un’esplosione di scene diverse e colori molto evidenti. Che signi�cato ha questo �nale del �lm? Ti ha emozionato o ti ha lasciato indi�erente? A cosa ti ha fatto pensare?

Prova a recuperare il romanzo originale e a leggerlo da solo o in gruppo cogliendo analogie e di�erenze rispetto al �lm, in modo da far emergere meglio gli aspetti originali dell’uno e dell’altro.

A quale tipo di fantascienza appartiene questo �lm, e con esso il romanzo originale: a quella utopica o a quella distopica? De�nisci entrambe le categorie e prova a inserire in due corrispondenti tabelle i libri o i �lm di fantascienza che conosci, hai letto o hai visto.

Cerca in videoteca o su internet il precedente �lm del regista Phillip Noyce, La generazione rubata, e con-frontalo con questo The Giver – il mondo di Jonas anche in questo caso indicando analogie e di�erenze.

scheda a cura di R. Ferro e A.G. Mancino

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