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Il modernismo in Italia e in Germania nel contesto europeo a cura di Michele Nicoletti Otto Weiss Società editrice il Mulino Bologna

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Il modernismo in Italia e in Germania nel contesto europeo

a cura di

Michele NicolettiOtto Weiss

Società editrice il Mulino Bologna

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ISBN 978-88-15-13720-3

Copyright © 2010 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Il file può essere utilizzato unicamente ad uso privato e personale, nei termini previsti dalla legge che tutela il diritto d’autore e non può essere caricato in siti internet.

Composizione e impaginazione: FBK - EditoriaScheda bibliografica: FBK - Biblioteca

Il MODERNISMO in Italia e in Germania nel contesto europeo / a cura di Michele Nicoletti, Otto Weiss. - Bologna : Il mulino, 2010. - 498 p. ; 22 cm. - (Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento. Quaderni ; 79) Atti della L settimana di studio del Centro per gli studi storici italo-germanici, tenuta a Trento dal 23 al 26 ottobre 2007. - Nell’occh.: Fonda-zione Bruno KesslerISBN 978-88-15-13720-3 1. Modernismo - Italia - Congressi - Trento - 2007 2. Modernismo - Italia - Congressi - Germania - 2007 I. Nicoletti, Michele II. Weiss, Otto III. Centro per gli studi storici italo-germanici

273.9 (DDC 22.ed.)

FBK - Centro per gli Studi storici italo-germanici

Il modernismo in Italia e in Germania nel contesto europeo

Modernismus in Italien und Deutschland im europäischen Kontext

Atti della L settimana di studioTrento, 23-26 ottobre 2007

Traduzioni di Franco Stelzer

Coordinatori: Michele Nicoletti, Otto Weiss

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Introduzione, di Otto WEISS

Modernismo ed ecumenismo. Un inquadramento sto-rico, di Annibale ZAMBARBIERI

Ripercussioni della crisi modernista all’epoca del nazio-nalsocialismo?, di Claus ARNOLD

Antonietta Giacomelli, Murri e i farisei del modernismo, di Vittorio CARRARA

Filosofi a e teologia nella crisi modernista, di Rocco CERRATO

Modernità giuridica versus modernismo teologico: il «Codex iuris canonici» (1904-1917), di Carlo FANTAPPIÈ

La modernità al cospetto del giudizio della Chiesa, di Otto WEISS

Conseguenze impreviste. Studenti cattolici e accade-mici in Germania e la campagna antimodernista, di Christopher DOWE

Modernismo e cultura femminile, di Roberta FOSSATI

Sommario

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Fogazzaro tra evoluzionismo e modernismo, di Paolo MARANGON

Religione, storia, modernità. Discorsi cattolici sulla storiografi a come scienza attorno al 1900, di Franziska METZGER

Dolorosi strascichi del modernismo: l’interpretazione dei dogmi di padre Ambroise Gardeil, di Wolfgang W. MÜLLER

Il problema della storia dei dogmi: a cent’anni dall’en-ciclica sul modernismo, di Peter NEUNER

La «völkische Bewegung» in Germania, tra modernismo e antimodernismo, di Uwe PUSCHNER

«Modernismo» tra i gesuiti: i casi Hummelauer e Wasmann, di Klaus SCHATZ

Le conseguenze dell’antimodernismo dopo la crisi, di Giovanni VIAN

Modernismo e neoidealismo in Italia. Esame di un confronto irrisolto, di Mauro VISENTIN

Il modernismo e il problema della coscienza credente: John-Henry Newman e George Tyrrell, di Davide ZORDAN

Modelli educativi ed esperienza agiografi ca nel moder-nismo italiano agli albori della società di massa, di Fulvio DE GIORGI

Cent’anni dopo il convegno di Molveno, di Michele NICOLETTI

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Il modernismo e il problema della coscienza credente: John-Henry Newman e George Tyrrell

di Davide Zordan

La teologia non ha mai smesso di interrogarsi circa l’eredità intellettuale e spirituale della cosiddetta «crisi modernista». La persistenza di tale interrogativo, in effetti, è proporzionale all’estensione dei meccanismi di controllo e repressione che furono posti in atto nei confronti dei cosiddetti modernisti. In questo lento processo di compensazione, accade anche che nuovi elementi vengano alla luce, permettendo di volta in volta di apprezzare la ricca complessità del movimento di riforma che cento anni fa aveva scosso il contesto religioso europeo e, in modo specialmente drammatico, la chiesa cattolica. Uno di questi elementi, rimasto piuttosto ai margini della rifl essione sul modernismo, riguarda quella che si può considerare come la dimensione estetica dell’esperienza di fede, e più precisamente il problema della coscienza credente.

1. Il credente e la modernità

È utile premettere qualche chiarifi cazione terminologica. In forma estremamente concisa, per dimensione estetica dell’espe-rienza di fede si intende qui lo spazio disponibile per un’analisi fenomenologica dell’adesione a un orizzonte di trascendenza intuito, percepito e accolto come un bene. Questo elemento è ritenuto oggi importante. Tra i teologi, si fa strada lentamente la convinzione che solo una rinnovata attenzione all’estetico così inteso consenta di ripensare teoreticamente la struttura antropologica della fede nel suo darsi concreto.

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In modo altrettanto conciso, intendo per coscienza credente la coscienza che sostiene e motiva la volontà di credere. Radicata nel sentire, tale coscienza è l’ambito dell’apprezzamento più profondo e personale, l’ambito in cui ci appaiono la qualità e la «convenienza» di determinati giudizi di valore. L’assenso di fede si situa in quello spazio fondamentale dell’esperienza umana che è l’affi damento in libertà, spazio da tutti esperibile e strutturante la personalità.

Ora, l’interesse che rivestono la crisi modernista e i suoi esiti in rapporto a queste tematiche appare evidente. Tra coloro che all’inizio del secolo scorso furono bollati come moderni-sti, alcuni avevano cercato, con modalità e approcci diversi, di appianare l’enorme fossato che si era creato tra la ragione e il sentimento, ponendo l’accento sugli aspetti non specula-tivi della fede e della vita religiosa. La loro condanna senza appello ha avuto per conseguenza l’estromissione del concetto stesso di «esperienza» dalla teologia cattolica, per un periodo eccezionalmente lungo. La radicale sfi ducia nei processi dell’in-teriorità ha impedito, fi no almeno alla metà del XX secolo, ogni cura dell’estetico (nel senso che ho appena indicato) non solo nella rifl essione teologica, ma più in generale nei luoghi dell’educazione e della vita cristiana.

La crisi modernista è riconosciuta come uno dei momenti chiave dell’incontro tra il credente e la modernità, e il termine «credente» è qui quanto mai opportuno: nel modernismo non sono tanto la Chiesa cattolica o la sua teologia a incontrare la modernità – dal momento che, per molti versi, questo incontro venne differito o congelato in una contrapposizione irrisolta –, ma proprio il credente, o almeno alcuni credenti nella loro singolarità e soggettività, fi nalmente affermata e posta in questione. Tanto è vero che la vicenda modernista non è narrabile se non come un insieme di trame personali, di casi di coscienza – di coscienza credente – e si presta molto meno di altre a essere riassunta nei termini più generali di una corrente di pensiero. Tra queste trame personali, quella che riguarda il gesuita irlandese George Tyrrell è una delle più signifi cative rispetto al tema specifi co che qui ci interessa

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e quella che maggiormente sottolinea il ruolo della sensibilità e dell’esperienza nell’apprensione religiosa. Desidero però anzitutto soffermarmi su John Henry Newman, non solo e non tanto per sottolineare l’infl uenza che egli ebbe su Tyrrell, quanto per situare il modernismo e la sua percezione del problema della fede sullo sfondo del processo di secolarizzazione della cultura che ha caratterizzato tutto il secolo XIX – secolo che Newman attraversò quasi per intero.

Nell’arco di questo periodo, lo scollamento tra Chiesa e mondo moderno si era manifestato soprattutto nel campo culturale e accademico, dove il cristianesimo era ormai considerato come oggetto di indagine storica e di rifl essione critica, suscitando forti resistenze soprattutto nella Chiesa cattolica. In Inghilterra, terra natale di Newman e patria d’elezione di Tyrrell, questa separazione appariva ancor più grave proprio per i cattolici, la cui presenza si era accresciuta rapidamente durante tutta la seconda metà del secolo, grazie alle conversioni dall’angli-canesimo e all’immigrazione irlandese.

Il cattolicesimo inglese si presentava come una enclave sociale e culturale a sé stante, fortemente clericale, ultramontana e gelosa del proprio isolamento, in cui gli impulsi verso un rinnovamento di tipo liberale erano estremamente rarefatti. Il clero, in particolare, dissuadeva i cattolici dall’entrare nelle grandi università, di cui si temevano gli infl ussi perniciosi in fatto di fede e morale. Nessuno sforzo era risparmiato, al con-trario, per dotarsi di proprie scuole, sostenute dalla presenza crescente di ordini e congregazioni religiose1.

Ma l’ambito specifi co in cui la secolarizzazione della cultura è stata più dirompente, in Inghilterra e non solo, è stato quello delle scienze naturali. Il rapporto tra il discorso scientifi co e quello religioso è cambiato totalmente tra il primo e l’ultimo quarto del XIX secolo. Quando nel 1831 venne fondata l’Asso-ciazione britannica per il progresso scientifi co la retorica delle scienze era ancora infarcita di riferimenti alla Provvidenza, alla

1 Cfr. J.D. HOLMES, More Roman than Rome: English Catholicism in the Nineteenth Century, London 1978; E. NORMAN, The English Catholic Church in the Nineteenth Century, Oxford 1984.

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magnifi cenza dell’ordine e della gerarchia in natura. Scrivendo su «Nature» nel 1894, al contrario, il biologo Thomas Henry Huxley descriveva una situazione completamente diversa, nella quale gli scienziati e il clero erano visti come «cittadini di due stati», che si esprimevano in lingue diverse e «reciprocamente incomprensibili»2.

È importante accennare a questo sfondo e tener conto dei rinnovati parametri della ricerca e del conoscere che esso favorisce. L’imporsi del metodo scientifi co conduce, in tutti i campi del sapere, a una ricerca assillante di verifi ca per via di evidenza esterna, di riscontro empirico. Come comprendere e giustifi care la fede religiosa in queste condizioni? La risposta di Newman a tale quesito appare ancora oggi piena di equili-brio e di penetrazione, proprio perché sfugge completamente alla logica di ripiegamento così accentuata tra i cattolici del suo tempo.

2. John Henry Newman: «possiamo credere ciò che possiamo immaginare ma non concepire»

Nonostante possa apparire triviale, la questione del moder-nismo latente di Newman riaffi ora regolarmente negli studi specialistici dedicati al pensatore inglese. Essa sembra trovare una decantazione risolutiva nella raccolta di saggi edita nel 1990 nella collana «Internationale Cardinal-Newman-Studien», con il titolo John Henry Newman and Modernism. Gli autori dei saggi qui riuniti concordano evidentemente nel ritenere Newman tanto modernista quanto lo furono Agostino o Pascal. Sottolineano tuttavia che egli anticipò nella vita, più che nella dottrina, certe inquietudini profonde dei cosiddetti modernisti, e che diagnosticò la causa di questo turbamento

2 J.H. BROOKE, Lo sviluppo di una cultura scientifi ca, in H. MCLEOD - S. MEWS - C. D’HAUSSY (edd), Storia religiosa della Gran Bretagna (XIX-XX secolo), trad. it., Milano 1998, pp. 219-240, qui p. 225. Per una corretta impostazione del problema, è ancora valida l’analisi di O. CHADWICK, The Secularization of the European Mind in the Nineteenth Century, Cambridge 1975, pp. 161-188.

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nelle tensioni crescenti tra la vocazione politica, pastorale e profetica della Chiesa3.

In effetti, il solo e indiscutibile motivo per associare Newman al modernismo è il fatto che un numero importante di modernisti lo riconoscono come un riferimento intellettuale determinante per il loro percorso4. Nello specifi co, poi, quando si rifl ette sull’infl uenza di Newman, si tende a focalizzare il discorso sulla sua teoria dello sviluppo del dogma, che fu fondamen-tale soprattutto per Loisy. Lasciando da parte questo aspetto, intendo qui concentrarmi sul problema della fede e più precisamente sul modo in cui Newman intende la razionalità credente. In estrema sintesi, si può dire che Newman giunga a una teoria della conoscenza di fede come atto personale e globale, fatto di libertà e di intelligenza. Non è una novità di poco conto. Infatti la comprensione teologica dell’atto di fede comune nel secolo XIX affermava, in teoria, una cooperazione di ragione, volontà e grazia, ma si limitava poi, di fatto, a una descrizione minuziosa del ruolo della sola ragione, relegando ai margini tanto la grazia quanto la libertà.

In principio, lo schema era il seguente: alla conoscenza razionale del fatto della rivelazione segue il movimento della volontà che induce l’uomo a porre un atto di fede, illuminato dalla grazia divina. In pratica, a una cognizione naturale di credibilità (cui ciascuno può accedere, in virtù del retto uso della ragione) si «aggiungeva» la fede soprannaturale, la quale in qualche modo sopravveniva, nell’incontro della grazia con la libera volontà. Libertà e grazia intervengono così solo alla fi ne di un percorso intellettivo di tipo probante, al quale si riserva tutta l’attenzione.

I limiti di un simile schema appaiono evidenti e da tempo la teologia ne ha preso le distanze. E tuttavia il suo superamento non ha prodotto, a tutt’oggi, un approfondimento della teoria

3 Cfr. A.H. JENKINS (ed), John Henry Newman and Modernism (Interna-tionale Cardinal-Newman-Studien, 14), Sigmaringendorf 1990, p. 11.4 Cfr. G. DALY, Newman and Modernism. A Theological Refl ection, in M.J. WEAVER (ed), Newman and the Modernists, Lanham MD 1985, pp. 185-204.

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della fede che appaia davvero convincente5. Ragion di più per ritornare a Newman e al suo modo innovativo di impostare il problema.

Il pensatore inglese iniziò molto presto a porsi il problema della natura del credere. Ciò accadde segnatamente, secondo i biografi , in occasione del giovanile abbandono della fede da parte di uno dei suoi fratelli minori, Charles. Discutendo con lui, Newman si convinse che le credenze di un uomo dipendono da quanto egli pensa sia probabilmente vero, e ciò soggiace a sua volta a quello che egli chiama disposition, ossia una serie di attese, inclinazioni, opinioni e persuasioni antecedenti la credenza stessa, che non giungono fi no a toccare la conclu-sione desiderata, ma ad essa tendono in modo asintotico. Da tale semplice osservazione, lungamente analizzata e criticata, Newman trarrà i principî essenziali della sua epistemologia della certezza, con le note e accurate osservazioni riguardo alla probabilità antecedente, l’inferenza e il senso illativo.

È la sensibilità verso le dinamiche concrete della conoscenza a convincere Newman della necessità di impostare la questione della fede in un modo nuovo. Proprio in una lettera al fratello, egli confi da:

«Oso dire con una certa fi ducia che, se i contenuti di una rivelazione … su realtà divine dovessero essere la prova della sua autenticità, non ci potrebbe essere fatta nessuna rivelazione; poiché si potrebbero a mala pena mettere insieme due persone che si trovino d’accordo quanto alle loro idee … su Dio e sui suoi propositi verso l’uomo»6.

Dunque ogni discorso «oggettivista» su Dio e sul dogma è anticipatamente rigettato proprio in virtù del credito dato alla disposizione soggettiva, ai processi vitali della ricezione

5 Anche il magistero cattolico condivide questa impasse della teologia: la rifl essione più importante e sistematica sulla fede rimane ancora quella del Vaticano I (Dei Filius, 1870); la stessa Dei Verbum (1965), che pure propone una svolta signifi cativa, dipende interamente dalla costituzione del precedente concilio quanto alle motivazioni della fede.6 I. KER - T. GORNALL (edd), The Letters and Diaries of John Henry Newman, I, Oxford 1978, p. 226, trad. it. in I. KER, Newman. La fede, Milano 1993, p. 8.

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e dell’apprezzamento. Come ogni conoscere che non sia meramente astratto, ma che implichi l’affettività e il volere, l’esperienza del credere è qualitativamente modifi cata dall’in-dividuo che la sostiene.

Ma è possibile determinare con una certa precisione, nel variare delle individualità e delle vicende personali, le dinamiche della volontà che conducono alla decisione di credere, e stabilire quale ruolo giochi in esse la certezza? Dalla possibilità di rispondere affermativamente a queste domande dipende, per Newman, l’intelligibilità della fede, al di là di tutti i baluardi che si possono innalzare attorno ad essa in chiave apologe-tica. Vediamo dunque come egli ha articolato la sua risposta, nell’arco della sua lunga carriera.

Il tema della probabilità antecedente appare centrale già nel gruppo dei Sermoni universitari di Oxford pronunciati tra il 1839 e il 1841. Qui, com’è noto, Newman istituisce un con-fronto tra la ragione e la fede considerate come atteggiamenti spiritualmente antitetici (Sermone X). Mentre la ragione ha bisogno di prove (evidence) dirette e precise, la fede ha esigenze più modeste e si accontenta di prove vaghe e perfi no incom-plete. Essa non può permettersi il lusso di una dimostrazione razionale, in quanto

«è un principio di azione, e l’azione non concede tempo per indagini detta-gliate e complete. Se vogliamo, possiamo pensare che tali indagini siano di grande valore, benché, in verità, abbiano la tendenza a smorzare l’energia pratica della mente, mentre ne migliorano la precisione scientifi ca; ma, qua-lunque siano il loro carattere e le loro conseguenze, esse non rispondono ai bisogni della vita quotidiana»7.

Non solo la pura razionalità è troppo dispendiosa per le esigenze pratiche della fede, ma essa tende a oggettivare ciò che osserva in un isolamento che atrofi zza lo slancio della volontà, del desiderio. Mentre sono proprio il desiderio e le inclinazioni personali a istituire la possibilità di credere, fornendo quelle intime aspettative che ne sono l’indispensabile presupposto.

7 J.H. NEWMAN, Quindici sermoni all’università di Oxford, X,27, in J.H. NEWMAN, Scritti fi losofi ci, a cura di M. MARCHETTO, Milano 2005, p. 357.

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L’evidenza di una prova, per se stessa, conduce soltanto a una conoscenza passiva, mentre anticipazioni e presunzioni sono creazioni dello spirito, che rispondono attivamente alle sue esigenze più profonde8.

Così interpretata, la fede religiosa appare come un itinerario piuttosto che come un atto o una decisione puntuale. Un itinerario indecifrabile per chi si colloca nel suo termine d’approdo, ma che appare coerente a chi ne segue lo sviluppo interno, fi n dal primo sorgere e intrecciarsi delle aspettative personali. Il profi lo morale della fede risulta così riabilitato, non già come pura potentia oboedientialis, ma come paziente opera di discernimento delle proprie predisposizioni:

«Quando le probabilità che assumiamo in realtà non esistono, o i nostri desideri sono smodati, o le nostre opinioni sbagliate, la nostra fede degenera in debolezza, stravaganza, superstizione, fanatismo, settarismo, pregiudizio, a seconda dei casi; ma quando le nostre precomprensioni sono ineccepibili, allora abbiamo ragione di credere o di non credere, non senza, ma in base a prove esigue»9.

Di conseguenza, Newman può affermare che non è la ragione la salvaguardia della fede, ma piuttosto una retta disposizione di cuore (a right state of hearth)10 e, con una formula più inclusiva, che la fede retta è un atto intellettuale compiuto in una certa disposizione morale11. Nell’ampio spazio che viene così a crearsi tra ciò che Newman chiama antecedent grounds e la decisione fi nale di credere o non credere, risulta più facile riconoscere anche il ruolo della grazia divina (indispensabile per l’equilibrio teologico), senza per questo rendere irrilevante l’intimo intrecciarsi di motivazioni e valutazioni, senza svilire in sostanza il gioco della libertà. Come Newman fa dire a Charles, protagonista del romanzo Loss and Gain (1948),

8 Cfr. ibidem, XII,6, p. 421.9 Ibidem, X,31, p. 361.10 Ibidem, XII,16, p. 435.11 Ibidem, XII,26, p. 443. Per questo, aggiunge l’autore, «As far as, and wherever Love is wanting, so far, and there, Faith runs into excess or is perverted».

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«la fede ha inizio con un’avventura, e alla fi ne riceve in premio la capacità di vedere … le nostre motivazioni non possono che essere, nella migliore delle ipotesi, imperfette; ma se, dopo che abbiamo pregato e cercato con diligenza nell’obbedienza e nell’attesa e abbiamo fatto, in poche parole, la nostra parte, esse ci sembrano suffi cienti, sono la Sua voce che ci chiama. In questo caso, è Lui che ce le fa sembrare convincenti»12.

Insomma, se la fede, in quanto virtù teologale, dipende in ultima analisi dalla grazia, ciò che ciascuno ritiene probabile dipende da quello che possiamo chiamare temperamento morale. La probabilità antecedente documenta la complessità dei processi conoscitivi e di apprezzamento che conducono alla fede e sug-gella un percorso personale elaborato a partire dalle disposizioni morali del singolo, tenendo conto della sua indole e della sua storia, dell’unicità del suo itinerario di ricerca, dell’attenzione interiore, della disponibilità a fi darsi. Si potrebbe forse dire, coerentemente con le osservazioni di Newman, che le ragioni per credere non esauriscono le motivazioni sulle quali la fede ha bisogno di fondarsi. Queste ultime offrono una base più ampia, sensibile al dinamismo intenzionale della coscienza. È evidente dunque la preoccupazione di spostare l’ottica del dibattito sulla fede da una razionalità di tipo esteriore alle disposizioni personali, rivalutando la dimensione del sentire e collegandosi al problema della coscienza.

Newman intende così recuperare quello sfondo antropologico (psicologico/estetico) che l’apologetica sacrifi cava al fonda-mento prettamente razionale della fede. Egli non si stanca di ripetere che la fede implica un esercizio della ragione13, non

12 J.H. NEWMAN, Perdita e guadagno, trad. it., Milano 1996, pp. 341-342. Mentre nei Sermoni universitari si legge: «non c’è merito, apprezzamento o biasimo, nel credere o nel non credere; nessuna prova di carattere nell’uno o nell’altro. Ma un uomo è responsabile della sua fede, perché è responsabile di ciò che gli piace e di ciò che non gli piace, delle sue speranze e delle sue opinioni, dalle quali tutte dipende la sua fede»: J.H. NEWMAN, Quindici sermoni all’università di Oxford, cit., X,36, p. 365.13 Cfr. J.H. NEWMAN, Quindici sermoni all’università di Oxford, cit., XII,2.12.16.36, pp. 417, 431, 435 e 461. È appena il caso di notare quanto Newman, pur riconoscendo la ragionevolezza della fede, si tenga distante da ogni sottolineatura enfatica della sua razionalità. Non solo perché ciò che gli preme è la natura della fede piuttosto che la sua attendibilità, ma perché

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però di tipo sillogistico e non vincolato alla dimostrazione. Essa somiglia in questo ad altri tipi di attività intellettuale, di natura presuntiva, inapplicabili al di fuori della categoria del rischio. Presupporre non signifi ca però fare congetture a caso. Si tratta certo di un avanzare nella penombra (a moving forward in the twilight), ma non alla cieca o senza punti di riferimento14. Le presupposizioni infatti traggono forza e valore dalla loro convergenza, da quella accumulazione di probabilità che è, come Newman dirà altrove, «il grande strumento della convinzione»15.

Alla ragione, insomma, va riconosciuto senza dubbio un ruolo critico e valutativo, ma non fondante rispetto alla fede. È qui che appare più evidente la novità dell’impostazione newma-niana. Nel tentativo di dire su cosa si fondi umanamente la fede, Newman non fa appello alla ragione ma piuttosto all’im-maginazione16. Grazie all’immaginazione si può pensare come vero anche quello che non è sperimentabile. Per Newman, imagination indica però qualcosa di più che la mera capacità di produrre immagini mentali o di mediazione simbolica. Con questo termine egli sembra designare non uno degli atti o dei momenti della cognizione, ma una qualità dinamica e costitutiva di tutta la sfera cognitiva, fondata sulla percezione e determinante per passare dall’esperienza all’apprensione, e dall’apprensione all’assenso17.

riconosce senza diffi coltà che le probabilità antecedenti «non sembrano fornire alcuna regola comprensibile per ciò che si deve credere e ciò che non si deve credere; o su come un uomo possa passare da una credenza falsa a una vera» (ibidem, XII,13, p. 433).14 Cfr. ibidem, XII,36, p. 459.15 C.S. DESSAIN (ed), The Letters and Diaries of John Henry Newman, XI, London 1961, p. 293.16 Anche se in verità queste formule oppositive rischiano di essere mere scorciatoie, che tradiscono la complessità della visione di Newman. Questi rimane un pensatore dell’integrazione, abile a sfuggire dalle trappole dei dualismi e degli irrigidimenti semplifi catori. È importante esserne coscienti, ed evitare di accentuare troppo i contrasti. 17 È questa la tesi di D.M. HAMMOND, Imagination in Newman’s Pheno-menology of Cognition, in «The Heythrop Journal», 29, 1988, pp. 21-32.

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È stato spesso notato come i riferimenti all’immaginazione negli scritti anglicani di Newman appaiono in gran parte negativi o comunque prudenti, mentre nelle opere cattoliche egli tende ad attribuire alla facoltà immaginativa un ruolo sempre più positivo e vitale per approdare alla fede18. Così, in un cele-bre passaggio della Apologia pro vita sua, egli dichiara che quando la sua fi ducia nella chiesa anglicana fu scossa decise di lasciarsi guidare dalla ragione più che dall’immaginazione. E annota: «Se non avessi fatto questo severo proposito, sarei diventato cattolico prima»19. Pur senza accentuare le diffe-renze di atteggiamento tra il periodo che precede e quello che segue l’adesione al cattolicesimo, è indubbio che soltanto

Numerosi sono tuttavia i lavori che, nell’ultimo quarto di secolo, hanno messo in luce il ruolo importante dell’immaginazione nel pensiero di Newman, cogliendone l’originalità ben oltre la sua matrice romantica. In proposito si possono leggere i seguenti contributi: J. COULSON, The Meaning and Function of Imagination According to J.H. Newman, and its Relation to his Conception of Conscience and the Church (Internationale Cardinal-Newman Studien, 11), Sigmaringendorf 1980, pp. 53-61, e, dello stesso autore, Religion and Ima-gination. «In Aid of a Grammar of Assent», Oxford 1981; D.M. HAMMOND,Imagination and hermeneutical Theology. Newman’s Contribution to Theolo-gical Method, in «The Downside Review», 106, 1988, 362, pp. 17-33, e Affectivity, Imagination and Intellect in Newman’s Apologia, in «Thought», 67, 1992, pp. 271-286; R. HOLYER, Religious Certainty and the Imagination. An Interpretation of J.H. Newman, in «Thomist», 50, 1986, pp. 395-416; I. KER, Editor’s Note, in J.H. NEWMAN, An Essay in Aid of a Grammar of Assent, London 1870, pp. 348-349; M.P. GALLAGHER, Il pensiero di Newman (1801-1890) su immaginazione e fede, in «Rassegna di teologia», 42, 2001, pp. 645-658; M. MARCHETTO, Monografi a introduttiva. La fi losofi a di John Henry Newman, in J.H. NEWMAN, Scritti fi losofi ci, cit., pp. CLIX-CLXII. Si veda infi ne L. CALLEGARI, Newman e l’universo romantico. Il ruolo dell’im-maginazione nella costruzione della certezza di fede, Dissertazione dottorale in Antropologia fi losofi ca presso l’Università di Parma, 2004.18 Nell’ampio confronto tra fede e ragione istituito nei Sermoni di Oxford, per esempio, l’immaginazione non viene mai messa in relazione alla disposition e alle dinamiche del credere. Si trovano invece, soprattutto nei primi Sermoni, alcuni riferimenti all’immaginazione intesa come una facoltà potenzialmente dannosa, in quanto sottomessa all’inganno dei sensi. Si tratta di accenni piuttosto convenzionali, e comunque caratterizzati da una certa sobrietà. Cfr J.H. NEWMAN, Quindici sermoni all’università di Oxford, cit., I,9; IV,16 e VII,4, pp. 51, 151 e 247.19 J.H. NEWMAN, Apologia pro vita sua, Boston 1956, p. 126, trad. it., Milano 1982, p. 150.

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dopo questo passaggio cruciale Newman si sente autorizzato a utilizzare la categoria dell’immaginazione a sostegno della sua teoria della fede, e fi nirà per attribuirle un ruolo chiave in tutte le dinamiche cognitive che conducono alla certezza.

Appare evidente che in questo modo egli intende restituire dignità a una categoria teologicamente trascurata, e che perce-pisce probabilmente come più vicina alla sensibilità cattolica. Negli appunti privati raccolti nel Philosophical Notebook, che testimoniano della libera elaborazione del pensiero e non sono vincolati all’equilibrio prudente delle pubblicazioni autorizzate, Newman concede ampio spazio a questa dimensione. In un appunto del 28 febbraio 1860 si legge: «È assolutamente vero che l’amore di Dio nel sistema cristiano si fonda sulla fede, non sulla ragione – ossia, in altre parole, su un’immaginazione»20.Ancor più signifi cativa è una nota dell’anno successivo (7 set-tembre 1861):

«Dobbiamo distinguere fra Immaginazione e Concezione. Possiamo immagi-nare cose che non possiamo concepire … possiamo credere ciò che possiamo immaginare, eppure non possiamo concepire. Quello che si chiama spiegare la dottrina della Trinità, in realtà è rivelarla pienamente all’immaginazione altrui e propria. Ne deriva la fallacia del ‘non possiamo credere ciò che non possiamo capire’; potete credere ciò che non potete concepire; capire signifi ca ‘immaginare’; e certamente non credo (se non implicitamente) ciò che non immagino»21.

Pur se nella forma un po’ sbrigativa di annotazioni, si tratta di intuizioni di grande rilievo, che attendono di essere sviluppate in modo analitico e coerente. Ciò avviene, al termine di una lunga e scrupolosa elaborazione, nella Grammatica dell’assenso (1870), in cui il fi losofo indaga fenomenologicamente i processi mentali che conducono all’assenso religioso, per stabilire in modo rigoroso su cosa si fonda la certezza che sostiene, dal punto di vista dell’uomo, la fede teologale. Possiamo dire, in sintesi, che la sfera dell’immaginazione offre lo sfondo a par-

20 J.H. NEWMAN, Quaderno fi losofi co, in J.H. NEWMAN, Scritti fi losofi ci, cit., p. 759.21 Ibidem, pp. 797-799.

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tire dal quale è possibile, per Newman, parlare di un assenso reale, e non solo nozionale. L’assenso è reale, cioè solidamente concreto, in quanto implica «immagini» invece che mere «nozioni». L’immaginazione appare qui come una facoltà di intensifi cazione e di integrazione, che abilita a dare un assenso di tutto cuore, rendendo presente ciò che è assente, come se si potesse vedere22.

Radicata nell’esperienza ma non limitata dai dati dell’esperienza, la certezza è il coronamento di una serie complessa di processi conoscitivi e vitali, compendiati da Newman nella formula del «senso illativo». Essa non ha carattere esclusivamente razionale, ma anche affettivo e volitivo. Essa è, in altre parole, la risultante di libere opzioni in cui tutta la persona è implicata e in cui le dinamiche psicologiche e dell’apprezzamento sono in primo piano. Afferrare gli enunciati della fede, al fi ne di assentire al loro contenuto, è un processo conoscitivo profondamente personale in quanto, potremmo dire, si fonda su un sentire precedente, nel quale si radicano quelle intuizioni fondamentali pre-concettuali che stimolano la facoltà immaginativa.

In conclusione, l’itinerario speculativo proposto da Newman restituisce la conoscenza religiosa all’esercizio della volontà del singolo. Un tale percorso avrebbe dovuto suggerire ai teologi un quadro plausibile all’interno del quale ripensare la teoria della fede. Nell’atto umano di credere il volere è motivato e giustifi cato – ma non necessitato – da una trama complessa di elementi oggettivi e soggettivi, la cui accumulazione convergente assume un peso determinante. È in questa dimensione reale e concreta di libertà che l’intelligenza opera e che la grazia divina si offre, nel brusio delle molte voci che attraggono e disorientano, incitano e frenano, come in ogni scelta veramente umana e personale.

22 «Posso arrivare ad un assenso all’esistenza di un Dio, più vivo di quello che viene dato alle mere nozioni dell’intelletto? … Posso elevarmi a ciò che ho chiamato la sua apprensione immaginativa? Posso credere come se vedessi?»: J.H. NEWMAN, Saggio a sostegno di una grammatica dell’assenso, in J.H. NEWMAN, Scritti fi losofi ci, cit., p. 1021; cfr. J. COULSON, Religion and Imagination, cit., p. 53.

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La proposta di Newman resta però sostanzialmente lettera morta nella letteratura teologica, mentre le argomentazioni scolastiche dei manuali imperano fi no quasi alla vigilia del Concilio Vaticano II. Ora, se la vera ragionevolezza del cre-dere rimane nell’ombra è logico adattarsi a concepire l’assenso religioso come un groviglio di sentimento, di emozione e di imponderabile. Tale reazione, avanzata in ambito teologico dai cosiddetti modernisti, non fu solo inevitabile, ma anche salutare, nella misura in cui obbligò a rivalutare un aspetto irrinunciabile della teoria della fede, che la pone in relazione all’esperienza interiore e alla sua tonalità emotiva.

3. George Tyrrell: «quel tanto di verità che mi può servire»

Tyrrell nasce a Dublino nel 1861 da una famiglia di tradizione protestante originaria dell’Oxfordshire e viene educato nel rispetto dei valori religiosi della Low Church anglicana. La sua giovanile conversione al cattolicesimo e l’ingresso quasi immediato nella Compagnia di Gesù sono motivate dal bisogno di recuperare il contatto con la dimensione autenticamente e profondamente rituale della fede. La lettura dei grandi mistici e di Newman lo spinge a porsi il problema della fede con sempre maggior acutezza, mentre l’incontro con Friedrich von Hügel lo introduce alla critica biblica tedesca e, in generale, alla porzione più vivace della cultura religiosa europea23.

23 Tyrrell riconoscerà sempre il suo debito nei confronti del raffi nato e amabile barone, a cui scriverà, poco prima di morire, di non considerarsi niente più che «your Aron with a more facile tongue and pen than his master». Citato in G. DALY, Transcendence and Immanence. A Study in Catholic Modernism and Integralism, Oxford 1980, p. 140. Ancor più grande era stata però l’ammirazione corrispettiva di von Hügel per Tyrrell, che con-siderava anzitutto come un pensatore spirituale e mistico di rara profondità. In una lettera del maggio 1901, gli scrive che «not since Newman have we English-speaking Catholics had anything like as sweet and deep an ‘organ-voice’, as adequate an expression of the truest, most constitutive forces within ourselves, as is that which God has now given us in you». Citato in L. BARMANN, The Modernist as Mystic, in D. JODOCK (ed), Catholicism Contending with Modernity. Roman Catholic Modernism and Anti-Modernism in Historical Context, Cambridge 2000, pp. 215-247, qui p. 232 nota 48.

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Il problema della fede appare anche a Tyrrell come un problema profondamente personale, inscindibile dalla sua dimensione esistenziale e psicologica. Volgendosi a ritroso a guardare il proprio singolare tragitto, egli scrive in una lettera:

«il mio profondo razionalismo, la mia immaginazione, i miei sensi e le mie passioni sono tutti singolarmente simpatetici con il dubbio. Ma io non combatto i miei dubbi … piuttosto vado deliberatamente alla ricerca di ogni diffi coltà. Una fede come la mia è molto differente dal tranquillo modo di credere di coloro che hanno fede nella fede degli altri … L’intera mia vita non è che un processo di continua revisione; e tutto ciò perché sono troppo miserabilmente onesto per infi lare la testa nella sabbia e stare tranquillo»24.

Una tale lettura della propria esperienza dice già che Tyrrell, prima che modernista, è profondamente moderno, almeno per il modo in cui considera l’inquietudine, il dubbio e la verifi ca come propulsori e non come ostacolo della conoscenza (e di quella conoscenza particolare che è la fede). Questo elemento d’incertezza, soprattutto, non rappresenta per lui una fase pas-seggera, da attraversare per giungere a una comprensione più ampia e piena, ma una dimensione permanente del conoscere per fede. Egli scriveva già nel 1899 in External Religion, un libro di meditazioni, ancora privo di intenzioni polemiche: «È di importanza vitale rendersi conto che la nostra fede non può e non deve fondarsi sui ragionamenti con i quali siamo soliti difenderla»25. Sono parole che avrebbe certamente potuto scri-vere Newman, anche se egli avrebbe dato loro un signifi cato un po’ diverso. Per Tyrrell infatti ciò che conduce alla fede non è il ragionamento ma neppure la disposition, la trama di persuasioni antecedenti nutrite dall’immaginazione. Nello stesso testo leggiamo infatti questo passaggio, che ricorda la mistica radicalità di Meister Eckhart:

«Non è Dio quello che afferrano il nostro spirito o la nostra immaginazione, ma soltanto un’idea o una raffi gurazione di Dio, che abbiamo noi stessi

24 M.D. PETRE, George’s Tyrrell’s Letters, London 1920, cit. in D. ROLANDO, Cristianesimo e religione nel pensiero di George Tyrrell, Firenze 1978, p. 17 nota 13.25 G. TYRRELL, External Religion. Its Use and Abuse, London 19064, p. 211, trad. mia.

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composto per mezzo dei nostri frammenti d’esperienza: le migliori di queste riproduzioni sono informi e infantili. Non è Dio, ma soltanto questa rozza immagine di Dio che noi proponiamo alla nostra intelligenza quando lo preghiamo, quando pensiamo a Lui, quando con tanta fatica cerchiamo di amarlo. È dunque così sorprendente che egli ci appaia così lontano, incerto e impalpabile?»26.

Dove si fonda dunque antropologicamente la fede, se essa non deve fare affi damento né sul ragionamento né sulle rozze immagini ricostruite dai frammenti dell’esperienza? Nel dicem-bre dello stesso anno in cui pubblica External Religion, Tyrrell scrive un articolo per il «Weekly Register», che gli attirerà la prima bocciatura da parte della censura ecclesiastica. In queste pagine si trova un abbozzo di risposta alla domanda appena posta. Tyrrell propone il suo programma in questi termini:

«Una fi losofi a spirituale più sana, scaturita dalla rivolta contro il mate-rialismo … può offrire la base ad una certa attitudine temperatamente agnostica, che rappresenta uno dei requisiti essenziali alla fede intelligente: si abbandona così il vano sforzo di voler interpretare l’inferiore mediante ciò che è più alto; e si accetta come fatale l’incapacità della mente fi nita ad afferrare il fi ne assoluto che governa e muove l’universo, la necessità delle apparenti contraddizioni e diffi coltà negli umani apprezzamenti dei pensieri e dei metodi divini»27.

In questo passaggio fondamentale, la denuncia dei limiti della razionalità umana conduce a un tentativo nuovo di impostare il rapporto tra trascendenza e immanenza, attento a rimarcare al tempo stesso la loro distanza e la loro correlazione28. Con la sua proposta di un’attitudine «moderatamente agnostica», che tanto inquietò i censori, Tyrrell intendeva anzitutto riavvicinarsi alla grande tradizione mistica dell’apofatismo. Allo stesso tempo, attaccando la concezione scolastica della trascendenza («il vano sforzo di voler interpretare l’inferiore mediante ciò che è più in alto»), egli offre un abbozzo di una

26 Ibidem, p. 214, trad. mia.27 G. TYRRELL, A Perverted Devotion, in M.D. PETRE (ed), Giorgio Tyrrell. Autobiografi a (1861-1884) e biografi a (1884-1909), Milano 1915, p. 360.28 Si veda in questo senso il bel capitolo dedicato a Tyrrell in G. DALY, Transcendence and Immanence, cit., pp. 140-164.

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teologia dell’immanenza, che in seguito preciserà rimarcando la dimensione etica della religione.

Maurilio Guasco ha parlato di Tyrrell come dell’unico vero teologo del modernismo29 per sottolineare il fatto che gli altri cosiddetti modernisti avevano interessi prevalentemente fi loso-fi ci o storico-esegetici (o perfi no sociali, in Italia), mentre egli fu l’unico a convogliare interamente l’ansia di rinnovamento sul terreno della teologia fondamentale, partendo da un libe-ralismo teologico moderato e conciliante per giungere, negli ultimi anni, a posizioni decisamente più radicali, apparentate con l’escatologia di Johannes Weiss e Albert Schweitzer.

La defi nizione di Guasco coglie nel segno proprio perché, se Tyrrell ha rivisto più volte le sue posizioni, nel corso di una carriera breve e tormentata, le soluzioni da lui proposte sono sempre state attente all’oggetto squisitamente teologico del contendere. In una lettera a von Hügel del settembre 1904 egli scrive, a proposito dell’ostilità dei teologi delle scuole romane: «in realtà il crepaccio è più largo di quanto pensano. Non si tratta d’una divergenza di opinioni circa questo o quel dogma: noi li accettiamo tutti; ma della parola credo, del senso da attribuirsi all’aggettivo vero, applicato al dogma, dell’intero valore della rivelazione, di tutto questo si tratta»30.

Il problema per Tyrrell è che la teologia sappia riconoscere la propria specifi cità come scienza della fede, uscendo da una grave ambiguità. Un’ambiguità già evidente nell’impianto teo-rico della scolastica, che favorisce secondo lui una tendenziale identifi cazione di rivelazione e teologia, elaborata in sistema e chiusa ad ogni diffi coltà che le si oppone. La scolastica, secondo Tyrrell, si è arrogata i privilegi, tra loro incompatibili, della rivelazione divina e della scienza umana, e in questo modo ha fi nito non solo per diventare «la nemica di entrambe»31, ma

29 Cfr. M. GUASCO, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi, Cinisello Balsamo (Milano) 1995, p. 53.30 M.D. PETRE (ed), Giorgio Tyrrell, cit., p. 435.31 Ibidem, p. 436. La critica vigorosa della scolastica come sistema immutabile è accompagnata peraltro dal riconoscimento dell’utilità che essa potrebbe

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continua a pretendere di dominare sulla sfera scientifi ca – che si evolve continuamente – usando argomenti extra-scientifi ci. Questo conduce infallibilmente «alla penosa conclusione che la scienza abbia un nemico nella religione e che la sincerità e la libertà della ricerca scientifi ca siano di grave pericolo alla fede»32.

È necessario dunque che la teologia lavori umilmente a ride-fi nire il proprio oggetto, svincolandosi da concezioni troppo asfi ttiche, che Tyrrell stigmatizza con il termine di theologism. Per fare questo egli avvicina fi no quasi all’identifi cazione i termini di rivelazione e fede, in quella che chiama religious experience, e introduce invece un’opposizione netta tra rivela-zione e teologia, tra il deposito originario della fede – «questa espressione concreta, colorata, immaginativa dei misteri divini depositata nelle menti dei primi discepoli»33 – e la sua suc-cessiva sistematizzazione nel linguaggio e nelle categorie della fi losofi a. La verità della fede va dunque cercata a monte delle formule della teologia. «La devozione e la religione – scrive ancora – esistono prima della teologia, così come l’arte esiste prima della critica, il ragionamento prima della logica, il discorso prima della grammatica»34.

Quando tratta il concetto di rivelazione, però, Tyrrell si rifi uta di rifugiarsi in una defi nizione e resta volutamente oscuro. In un senso principale, il termine sembra indicare per lui un’espe-

avere, se indagata con spirito libero e critico. «Invece, come vanno ora le cose, la Scolastica è insegnata dommaticamente nello stesso spirito con cui si insegna il catechismo, ed è trattata come la fi losofi a ultima e defi nitiva; non già semplicemente come un sistema che rappresenta ciò che l’Aquinate e i suoi seguaci pensarono e scrissero al loro tempo, bensì come la espres-sione della verità d’oggi, di domani e sempre, come d’allora»: G. TYRRELL, Autobiografi a, in M.D. PETRE (ed), Giorgio Tyrrell, cit., p. 239.32 G. TYRRELL, The Rights and Limits of Theology, in «Quarterly Review», 1905, 4, ripreso in G. TYRRELL, Through Scylla and Charibdis. Or, the Old Theology and the New, London 1907, pp. 224-225, trad. mia.33 G. TYRRELL, The Relation of Theology to Devotion, in «The Month», 1899, 94, ripreso in G. TYRRELL, Through Scylla and Charybdis, cit., p. 95, trad.mia.34 G. TYRRELL, Through Scylla and Charybdis, cit., p. 105, trad. mia.

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rienza diretta, esistenziale e normalmente spontanea. In un senso derivato, rivelazione indica invece l’estrinsecazione e la fi ssazione di questa esperienza. Ora, la sola modalità adeguata a quest’opera di fi ssazione è la profezia. Dalla rivelazione propriamente detta non ci si attende dunque una verità scien-tifi ca ma profetica, e un’espressione proporzionata a questa, simbolica e allegorica. Tale espressione non è superabile né perfettamente traducibile nel linguaggio tecnico della teologia, e soprattutto non è scindibile dall’insieme dell’esperienza spi-rituale di coloro che ne sono stati i primi ricettori, esperienza «intessuta di sentimenti, impulsi e immagini che riverberano in ogni angolo dell’anima e vi lasciano le loro impressioni, nella mente non meno che nel cuore e nella volontà»35.

In termini riassuntivi: «La rivelazione consiste in un mostrarsi dalla parte di Dio; in un vedere dalla parte di colui che la riceve. La profezia è poi la comunicazione di questa visione agli altri. La teologia deve considerare la profezia non come una teoria ma come un’esperienza; deve cercare di comprenderla come un fenomeno religioso e usarla come un fatto, non come una evidenza verbale per le sue costruzioni concettuali di un ordine soprannaturale»36.

La rivelazione attiene dunque all’ambito dell’esperienza religiosa e della fede, mentre la teologia attiene all’ambito della scienza, e come ogni indagine di natura scientifi ca deve continuamente aggiornarsi alla luce delle nuove conoscenze. In un articolo intitolato Per la sincerità, scritto nel 1905, poco prima di lasciare la Compagnia di Gesù, Tyrrell scrive:

«Se gli uomini di Chiesa hanno la convinzione sincera, acquisita o ereditata, che una parte delle cognizioni umane sia infallibilmente e defi nitivamente vera, e non possa esser messa in dubbio senza tradire Iddio, essi non possono concedere né a sé né agli altri il diritto di accogliere qualunque conclusione della ragione o della critica che sia in diretto o indiretto confl itto con le affermazioni della fede. Essi si mostrano pronti a studiare liberamente soltanto perché credono che la ragione giustifi cherà la loro fede,

35 Ibidem, pp. 282-283, trad. mia.36 Ibidem, p. 289, trad. mia.

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oppure perché sono pronti a ripudiare la ragione ove essa non giunga alla giustifi cazione della fede»37.

Il problema, ancora una volta e defi nitivamente, è quello della fede, e non se ne viene a capo, secondo Tyrrell, se non insistendo sugli elementi affettivi e volontari che la caratteriz-zano. La fede sembra essere, in sostanza, la percezione, nella realtà sensibile dei fatti religiosi, della presenza e dell’azione di Dio, che non si lascia limitare dal regime simbolico della rappresentazione, ma resta aperta come una ferita in un con-tinuo auto-trascendimento. L’aver fede in Dio, possiamo dire così, implica di pensare, vedere e vivere le cose del mondo secondo una tonalità mistica, in una luce divina. Al rifl esso di questa luce, il mondo appare riempirsi di nuovo valore. Riconoscere e consentire a questa novità è un atto di fede. È un’attribuzione di signifi cato e di valore alla realtà in assenza di un senso oggettivo. La fede non fa vedere Dio né per-mette di pensarlo, di misurarlo con i concetti, ma permette di vedere e pensare nella luce del suo valore tutte le cose38. Tyrrell intende superare in questo modo lo scarto radicale tra trascendenza e immanenza, come pure quello tra la ragione e il sentimento, tra l’obbedienza della fede e la libertà dello slancio mistico. Costantemente teso a questo superamento, il gesuita irlandese resta un autore poco incline alle sintesi chiare ed esaurienti39, estremamente eclettico nel metodo40, che però

37 G. TYRRELL, A Plea for Candour, ripreso in G. TYRRELL, Through Scylla and Charybdis, cit., pp. 233-234, trad. mia.38 Tenendo a mente la lezione di Newman, Tyrrell scrive che «la nostra scelta non è arbitraria, né capricciosa, dipende dalla nostra visione intel-lettuale, dipende dalle disposizioni morali originarie e acquisite che siamo venuti sviluppando dentro di noi. La fede è in qualche modo una visione di Dio, non faccia a faccia ma nelle creature come in uno specchio fosco … A buon diritto questa visione si chiama divina e soprannaturale perché non dipende dall’arbitrio nostro»: G. TYRRELL, Lettera confi denziale ad un professore di antropologia, trad. it., Milano 1917, pp. 128-129.39 Solo il momento critico della sua rifl essione sulla fede è perfettamente chiaro, nel far saltare l’assoluta corrispondenza tra l’atto personale di assenso e l’apparato delle defi nizioni dogmatiche. 40 Cfr. E. LEONARD, George Tyrrell and the Catholic Tradition, London - New York 1982, pp. 68-70.

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accetta il rischio e la sfi da, veramente teologiche, di restituire il rilievo della componente antropologica della religione per il realizzarsi della fede.

Per riuscire in questo, egli è disposto a sacrifi care buona parte del tradizionale depositum fi dei. Come su una nave in tempesta, infatti, l’uomo di fede deve sbarazzarsi di tutto quanto non è indispensabile alla sua vita spirituale per evitare il naufragio. «Non mi lagno d’essere al buio – confi dava già nel 1902 –, anzi forse lo preferisco perché Dio mi sembra più vicino»41. Tyrrell rinuncia così all’idea che sia possibile elaborare in modo arti-colato e persuasivo il contenuto della fede. Per lui ormai non è suffi ciente affermare che «actus autem credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem»42, bisogna ancora riconoscere che questa res sfugge fatalmente ad ogni enunciazione persuasiva, perché non è una «cosa» del nostro mondo fenomenico. La Confi dential Letter to a Friend Who is a Professor of Anthro-pology, che fa circolare in via riservata tra il 1903 e il 1904, segnala il percorso di elaborazione del lutto per questa sorta di dismissione, non certo indolore ma ormai coscientemente assunta. «Del resto – vi scrive – non è assolutamente necessa-rio che qualcuno formuli una precisa e adeguata defi nizione del Cattolicesimo. Uno può vivere benissimo senza spiegare e defi nire se stesso. Così fa la maggior parte degli uomini»43.

Nel gennaio 1908, quando Tyrrell, caduto in disgrazia, è ormai da tempo ospite fi sso del piccolo cottage messogli a disposizione da Maude Petre, egli confessa, scrivendo a un amico francese:

41 Lettera a un amico, cit. in M.D. PETRE (ed), Giorgio Tyrrell, cit., p. 263.42 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 1, a. 2, ad 2.43 G. TYRRELL, Lettera confi denziale ad un professore di antropologia, cit., p. 103. L’arretramento sul piano cognitivo apre così lo spazio suffi ciente per rivalutare la dimensione spirituale (che si basa su «poche e semplici» verità, «troppo fondamentali perché le possa toccare la sorte incerta di un sistema teologico», ibidem, p. 122) nella sua qualità, o meglio tonalità interiore: «Ogni formula di dogma, ogni simbolo della Divina Bontà fi guratoci nelle credenze e nel culto dei fedeli che hanno lo spirito dell’Evangelo, ci aiuta a formarci un concetto più determinato della divinità e imprime un tono diverso al sen-timento nostro verso di lei. Ma la Divinità non è la somma di questi raggi parziali, è piuttosto la loro sorgente» (ibidem, pp. 152-153, corsivo mio).

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«quello che capisco della SS. Trinità si riduce a del Sabellianismo. Sono persuaso che questo sia assurdamente inadeguato, ma rappresenta quel tanto di verità che mi può servire, ed entro i suoi limiti, è vero: del resto io non sto defi nendo la fede Cattolica, ma vi parlo delle categorie della mia propria vita spirituale … Ma in realtà sento sempre meno l’esigenza di simili categorie. In me tutto è già ridotto ad un dialogo con quel potere sì eviden-temente spirituale e personale che esiste nel mio intimo e richiede ad ogni istante la mia assoluta adorazione e obbedienza … La mia immaginazione è perfettamente guarita dall’idea di un Dio esteriore»44.

A differenza di quanto accade in Newman, l’immaginazione resta dunque per Tyrrell qualcosa da cui guardarsi, una minaccia di degrado per la vita spirituale. In questo Tyrrell è più legato del suo predecessore al linguaggio della teologia di scuola, e dunque maggiormente in diffi coltà quando si tratta di riformulare i termini di un «sapere per fede». Al di là delle formule utilizzate, bisogna cogliere qui l’idea di Tyrrell secondo la quale il sentire spirituale è il luogo di veri-fi ca e di inveramento delle dottrine teologiche, quale che sia il prezzo che queste devono pagare. Questo sembra essere il punto d’approdo cui giunge, nella penosa emarginazione cui fu condannato, il teologo irlandese: lo slancio fi duciale della fede come criterio ineludibile della verità teologica, in cui è essenziale e decisivo il coinvolgimento globale dell’umano45.

Un’ultima citazione proverà a rendere ragione del tentativo di Tyrrell per riconciliare l’antropologia e la teologia, e permette di cogliere l’attualità del suo percorso:

«Ciò che noi sentiamo (‘credo’ o non ‘credo’ che sia) è una forza che lavora per la giustizia: cioè che ci assoggetta a un fi ne – trascendente l’individuo e la società, forza universale di cui non abbiamo un’idea distinta, e che ci possiamo soltanto fi gurare in simboli ed immagini, sia spontaneamente che per deliberato sforzo di volontà … L’energia, la costanza e la sincerità

44 Cit. in M.D. PETRE (ed), Giorgio Tyrrell, cit., p. 637.45 È evidente come gli esiti rinunciatari di un tale itinerario siano assai distanti da Newman. Curiosamente, la rarefazione ideale della fede postulata da Tyrrell si avvicina alla defi nizione che dà Newman della fede abitudinaria di tanti cristiani, che egli intende come l’avvertire «che la religione esterna offerta loro prende forma e risponde ai desideri e ai presentimenti spontanei del loro spirito»: J.H. NEWMAN, Quindici sermoni all’università di Oxford, cit., XII,6, p. 421.

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con cui noi perseguiamo questo compito danno la misura della nostra vita spirituale»46.

L’intrascendibilità della fede si manifesta qui in una «cono-scenza» vitale, che precede ogni elaborazione razionale. Essa è al tempo stesso un sentire e un desiderare (la disposition newmaniana), e possiede il carattere spirituale della fi ducia e dell’affi damento in libertà. Per Tyrrell, e in questo sta la sua modernità, la teologia ha senso solo in quanto tentativo di comunicare l’esperienza dello spirito, della vita nella fede, in un distacco critico rispetto ad ogni rappresentazione supersti-ziosa e partendo dalla conoscenza di se stessi e del mondo. Ma allora essa è propriamente una «fenomenologia dello spirito», che si guarda dall’usare la parola Dio come oggetto – in un modo distintivo, appropriativo – e pone al centro la coscienza e la libertà della persona. Si tratta di una lezione ovviamente parziale, ma che resta fondamentale per la teologia, nella misura in cui mostra come la teoria della fede non possa ignorare il momento propriamente estetico degli atti di credere.

4. Breve chiusura in forma interrogativa

Ho provato ad avvicinare i nomi di Newman e Tyrrell in modo anomalo, ignorando cioè il dibattito teologico su storia e dogma, che è il vero terreno comune della loro rifl essione, quello su cui espressamente il secondo si ispira e poi si allontana dal suo predecessore. Ho proposto questo accostamento inconsueto perché mi pare indicativo di una pista di rifl essione feconda e vitale sul problema della fede, che la crisi modernista ha mantenuto in uno stato di congelamento fi no a un’epoca molto recente. Già prima che questa crisi esplodesse, Newman aveva invitato i teologi a rivalutare il ruolo dell’immaginazione, così tradizionalmente sospetta, nell’atto di fede. L’invito, come si è detto, è rimasto troppo a lungo disatteso. Non si potrebbe dire allora che, nel dramma modernista, una delle mancanze più gravose di cui ha dato prova la Chiesa sia stata proprio una mancanza di immaginazione?

46 G. TYRRELL, Il cristianesimo al bivio, Roma 1910, pp. 159-160.