Il Mobbing Secondario e gli effetti sulla prole in età evolutiva - Tesi di Laurea. Relatore Matteo...

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Questa tesi ha lo scopo di individuare i disturbi che un genitore vittima di Mobbing provoca sulla prole in età evolutiva. Abbiamo parlato convenzionalmente di “Mobbing Secondario” perché si considerano come primari gli effetti causati dal Mobbing sulla vittima, e secondari tutti gli effetti che a sua volta la vittima provoca sulle persone che gli stanno intorno.

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Elena Orlando

Il Mobbing Secondario e gli effetti sulla prole in età evolutiva

Tesi di Laurea. Relatore Matteo Villanova

Ma. Per. Editrice

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Introduzione Questa tesi ha lo scopo di individuare i disturbi che un

genitore vittima di Mobbing provoca sulla prole in età evolutiva. Abbiamo parlato convenzionalmente di “Mobbing

Secondario” perché si considerano come primari gli effetti causati dal Mobbing sulla vittima, e secondari tutti gli effetti che a sua volta la vittima provoca sulle persone che gli stanno intorno.

Nello svolgimento della tesi ci siamo soffermati sugli effetti del Mobbing Secondario nell’ambito familiare, considerando come vittima di Mobbing un genitore e individuando una serie di disturbi che potrebbero insorgere nella prole in età evolutiva per effetto di un clima familiare deteriorato.

E’ stato detto che il Mobbing avvelena la vita di milioni di persone.

Definito una forma perversa di “terrorismo psicologico sul luogo di lavoro”, il Mobbing appare come una realtà da sempre conosciuta, ma solo da poco identificata e posta al centro di discussioni e analisi. Il numero dei “mobbizzati” è in costante aumento sia per l’espansione del fenomeno, sia per la presa di coscienza che favorisce l’individuazione dei comportamenti devianti.

Nel primo capitolo, l’evoluzione del Mobbing in ambiente lavorativo è vista nei suoi stadi progressivi, nella definizione giuridica e normativa, nella sua classificazione e nelle diverse articolazioni. Inoltre, abbiamo trattato gli aspetti che riguardano la salute, l’importanza della diagnosi, la simulazione e la dissimulazione.

Nel secondo capitolo abbiamo introdotto il discorso del Mobbing Familiare e del Mobbing Secondario, soffermandoci sugli aspetti principali che riguardano le dinamiche

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intrafamiliari e cercando di individuare le conseguenze negative prodotte in ambiente familiare dalla presenza di una genitorialità disturbata.

Nel terzo capitolo ci siamo soffermati sui disturbi individuati, facendo riferimento al Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali - DSM IV.

Il quarto capitolo è la parte conclusiva del lavoro, e contiene appunti e riflessioni sulla formazione, sulla prevenzione e sull’importanza delle terapie.

A corredo sono stati elaborati due casi specifici di Mobbing, inseriti in Appendice. Il primo caso è relativo ad una lavoratrice distaccata da un luogo di lavoro ad un altro, con conseguente dequalificazione professionale; sottoposto a Mobbing, il soggetto trasferisce le sue tensioni ed il suo disagio all’interno della famiglia, con effetti negativi su due figlie in età evolutiva. Il secondo caso riguarda un lavoratore coinvolto in un ampio processo di ristrutturazione aziendale, con cambiamenti radicali sul posto di lavoro; anche in questo caso gli effetti del Mobbing subìto si ripercuotono sulla sfera familiare, e a soffrire è, questa volta, un figlio di 12 anni.

Il fenomeno del Mobbing, oltre ad essere oggetto di discussioni, saggi e testi accademici, ha ispirato pure una serie di film. Per questo motivo, a conclusione della Tesi, sono stati proposti due esempi esplicativi di come il fenomeno del Mobbing viene rappresentato nel cinema: nel primo si vive il vissuto dalla parte del mobbizzato, la vittima; nel secondo il protagonista della pellicola è il mobber, il carnefice. Film profondi, in grado di rappresentare in maniera sconcertante cos’è il Mobbing e quali drammi sociali e umani esso determina.

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Cap. I 1. Termine e definizioni di Mobbing

La parola deriva dall’inglese “to mob” (attaccare, assalire, accalcarsi attorno a qualcuno) ed è presa in prestito dall’Etologia, una scienza che studia il comportamento degli animali. Più in particolare, il termine è stato usato dall’etologo austriaco Konrad Zacharias Lorenz per descrivere il comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo, al fine di allontanarlo.

In Etologia, il termine indica un meccanismo di difesa grazie al quale un gruppo animale mantiene la sua omogeneità ed espelle il “non simile”, mettendo in pratica comportamenti lesivi che in alcuni casi portano fino alla distruzione dell’individuo ritenuto “diverso/inadeguato”.

Il primo a parlare di Mobbing come condizione di persecuzione psicologica in ambiente lavorativo è lo psicologo svedese Heinz Leymann, il quale inizia a studiare il Mobbing in Svezia a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Da allora in Nord Europa sono stati avviati diversi progetti di ricerca.

Leymann definì il Mobbing come una comunicazione ostile e non etica, diretta sistematicamente da uno o più lavoratori verso un soggetto che, a causa del fenomeno, è messo in una condizione di essere senza difesa (Casula D., 2003, pag. 141).

Harald Ege, psicologo nato in Germania, definisce il Mobbing come una “situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente e in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità con lo scopo di provocare alla vittima dei danni di vario tipo e gravità”.

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Il Mobbing, considerato da alcuni una “patologia sociale” che si origina da un processo distruttivo della persona che nasce in un contesto di vessazione emozionale continuativa e reiterata di comunicazione conflittuale e anche da comportamenti apertamente o celatamente ostili, si configura nel contesto relazionale dell’ambiente lavorativo tra lavoratori (Villanova M., 2008, pag. 181).

Con la parola Mobbing intendiamo quindi una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori (mobber), contro una “vittima” (mobbizzato). In ambiente lavorativo, il fenomeno può assumere molteplici forme:

• Emarginazione. L’isolamento è sempre psicologico, fatto di non comunicazione, di ostilità più o meno espressa, ma sovente è anche fisico-logistico, realizzandosi attraverso il trasferimento della vittima in sedi periferiche o l’assegnazione di stanze lontane da quelle dei colleghi. Particolarmente grave è l’esclusione dai flussi informativi, che priva progressivamente il soggetto della conoscenza di quel che succede in azienda.

• Dequalificazione professionale. E’ il più classico metodo di vessazione di matrice datoriale. Consiste nell’assegnazione di incarichi meno importanti o di mansioni totalmente diverse a quelle precedenti. Vi si accompagna frequentemente la privazione di status o comunque di vantaggi connessi alla perduta posizione.

• Accuse e sanzioni immotivate. Anche queste, formulate spesso dal datore di lavoro (o dal superiore gerarchico) davanti ai colleghi e ai clienti, sono finalizzate a svilire sempre più la percezione del contributo produttivo della vittima. Da parte dei colleghi, nel Mobbing in senso

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proprio, il medesimo risultato può essere raggiunto facendo circolare notizie negative, o anche attraverso scherzi, magari pesanti (Dui P., 2004). Nei casi più gravi si può arrivare anche al sabotaggio del

lavoro ed alla messa in atto di vere e proprie azioni illegali. Lo scopo del soggetto che esercita Mobbing è quello di

escludere una persona che è ritenuta, o è divenuta in qualche modo “scomoda”, attaccandola psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle dimissioni volontarie.

Alcune ricerche hanno dimostrato che le cause del terrore psicologico sul posto di lavoro vanno ben oltre i fattori caratteriali: si fa Mobbing su una persona perché ci si sente surclassati ingiustamente, oppure per invidia o gelosia, ma anche per liberarsene, costringendola alle dimissioni senza che si vengano a creare le condizioni per un intervento a difesa da parte delle strutture sindacali.

Nonostante l’importanza assunta dal fenomeno, a oggi non esiste una definizione giuridica di Mobbing, né una normativa unitaria di tutela del lavoratore contro di esso.

Il concetto giuridico di “Mobbing”, da cui può essere affetto un rapporto di lavoro subordinato, presuppone – nell’accezione che va consolidandosi in dottrina e giurisprudenza, pur con varietà di accentuazioni – una durevole serie di reiterati comportamenti vessatori e persecutori rivolti nei confronti del dipendente all’interno dell’ambiente di lavoro in cui egli opera.

Comportamenti vessatori e persecutori capaci di provocare in suo danno una situazione di reale, serio ed effettivo disagio, che si concreta dunque in un danno ingiusto, incidente sulla persona del lavoratore, ed in particolare sulla sua sfera mentale, relazionale e psicosomatica.

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L’illecito si può potenzialmente concretare con una pluralità di comportamenti materiali ovvero anche di provvedimenti, del tutto a prescindere dall’inadempimento di specifici obblighi derivanti dalla normativa stabilita nei Contratti di Lavoro (Tribunale Milano, sezione lavoro, 20 maggio 2000 e Tribunale Milano, sezione lavoro, 11 febbraio 2002; Cassazione civile, sezione lavoro, 6 marzo 2006 n. 4774 ). 2. Le Fasi del Mobbing

Il Mobbing non è una situazione stabile, ma un processo in continua evoluzione. “Conflitto in costante e largamente prevedibile progresso”, dice Harald Ege. Per questo motivo sono stati proposti vari modelli di analisi e di interpretazione del fenomeno. Quello più utilizzato è il modello a 4 fasi, elaborato dal già citato Leymann e brevemente di seguito descritto.

• PRIMA FASE: caratterizzata da segnali premonitori. Inaspettatamente coinvolge un lavoratore che diventa in breve tempo bersaglio da parte di colleghi e/o superiori. Talvolta il Mobbing è scatenato da una promozione o avanzamento di carriera che riguarda la vittima, presa ovviamente di mira dagli altri per invidia o gelosia.

• SECONDA FASE: Mobbing conclamato.

Veri e propri attacchi di vario tipo verso la vittima, attacchi per lo più psicologici da parte di colleghi e/o superiori.

• TERZA FASE: Errori ed abusi dell’amministrazione del

personale. La vittima non riesce a fronteggiare gli attacchi che ritiene immotivati. Seguono assenze sul posto di lavoro,

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sempre più frequenti. L’azienda stessa viene coinvolta, spesso con l’avvio di provvedimenti disciplinari a carico dei lavoratori oppure con l’apertura di un’inchiesta tendente a fare piena luce sul suo comportamento. La vittima non viene difesa dai colleghi, che spesso, con il loro atteggiamento, aggravano la situazione, riportando ai superiori le distrazioni, gli errori e/o l’inefficienza della vittima sul lavoro.

• QUARTA FASE: Esclusione dal mondo del lavoro.

L’azienda prende atto che il soggetto è professionalmente inadeguato e lo mette da parte, utilizzando lo strumento del demansionamento e affidandogli solo incarichi secondari e di poco rilievo. La vittima, sentendosi frustrata, inizia ad accusare i primi sintomi di un malessere psico-fisico. E’ la fase conclusiva, la quale può arrivare all’estromissione della vittima dal contesto lavorativo nel quale opera.

Questo modello, prodotto e sviluppato in Svezia, non

risulta, però, facilmente applicabile in Italia, proprio in considerazione del fatto che il sistema di norme e di valori che regola il contesto lavorativo italiano è diverso dai sistemi esistenti nel nord Europa.

Per tale motivo Ege, specializzato in psicologia del lavoro e dell’organizzazione, studioso della materia, ha operato degli aggiustamenti sul modello base (che conserva la sua validità in maniera indiscutibile nell’area scandinava e germanica), al fine di rendere il modello stesso più adatto all’applicazione nella realtà lavorativa italiana.

Lo studioso tedesco ha così elaborato il “Modello Italiano Ege”, che individua sei stadi progressivi di evoluzione del Mobbing, adattati alla realtà del lavoro in Italia ed alla personalità dell’italiano medio, legati logicamente tra loro e

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preceduti da una sorta di pre-fase, denominata Condizione Zero (osservatoriomobbing.org).

In particolare, Ege sviluppa uno schema che riassume l’iter evolutivo del fenomeno, individua gli avvenimenti tipici che si devono verificare nell’ambiente lavorativo affinché si possa parlare di Mobbing, studia le reazioni dell’individuo in rapporto alla sua indole e personalità e, infine, ne dimostra la verosimiglianza ai casi concreti.

• CONDIZIONE ZERO: fase preliminare di conflitto. Non è una vera e propria fase del Mobbing, però costituisce un indispensabile presupposto che ci aiuta ad analizzare e interpretare il fenomeno. L’assenza, in Italia, di una cultura del lavoro (intesa come mancanza di etica e di civiltà del lavoro) influenza in modo negativo il clima e lo stile aziendale, la stessa organizzazione del lavoro, la cura e la gestione delle risorse umane; e questi aspetti finiscono per caratterizzare le aziende italiane come luogo tipico di conflittualità; sono poche, quelle che sfuggono a questa regola. Conflittualità e tensione generalizzata non costituiscono Mobbing, ma sono fasi che tendono generalmente a degenerare nel fenomeno; esse rappresentano un terreno fertile per il suo sviluppo. Si tratta, in sostanza, di una situazione di conflitto generalizzato, che vede tutti contro tutti e non ha ancora una vittima cristallizzata. Non è del tutto latente, ma si fa notare di tanto in tanto con banali diverbi di opinione, discussioni, piccole accuse e ripicche, manifestazioni del classico ed universalmente noto tentativo di emergere rispetto agli altri. Un aspetto è fondamentale: nella “condizione zero” non c’è da nessuna parte la volontà di distruggere, ma solo

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quella di elevarsi sugli altri; è la fase preliminare di conflitto.

• PRIMA FASE: il conflitto mirato.

E’ la fase in cui si individua una persona verso la quale indirizzare la conflittualità generale e le tensioni aziendali, e questa persona finisce per diventare il capro espiatorio di ogni problema. L’obiettivo non è più solo quello di emergere, ma quello di mettere in difficoltà, o addirittura distruggere l’avversario. Inoltre, il conflitto non è più oggettivo e limitato agli aspetti della vita lavorativa, ma si dirige molto spesso verso la sfera del privato. E’ una fase, però, in cui il Mobbing ancora non emerge e non si sviluppa con chiarezza.

• SECONDA FASE: l’inizio del Mobbing. In questa fase il Mobbing comincia ad essere esercitato con sistematicità e si manifesta in maniera inequivocabile la volontà di alcuni di colpire la vittima, che è l’individuo prescelto oppure scomodo. Gli attacchi da parte del mobber non causano ancora sintomi o malattie di tipo psicosomatico sulla vittima, ma suscitano un senso di disagio e fastidio. L’individuo colpito percepisce un inasprimento delle relazioni con i colleghi ed è portato ad interrogarsi su tale mutamento. Mentre nella prima fase si aspetta un motivo per dare la colpa a qualcuno, nella seconda fase si creano volutamente e deliberatamente le condizioni per accusarlo o denigrarlo.

• TERZA FASE: primi sintomi psicosomatici.

La vittima comincia ad avvertire problemi di salute, attraverso sintomi che si manifestano nelle forme più disparate: senso di insicurezza, insonnia e problemi

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digestivi, inappetenza, fino a raggiungere veri e propri stati d’ansia e depressione. Questa fase può protrarsi anche per un lungo periodo.

• QUARTA FASE: errori ed abusi da parte di terzi.

Il caso di Mobbing diventa di pubblico dominio e, in questa fase, si aggiungono errori o abusi da parte di altri lavoratori colleghi della vittima e, soprattutto, da parte del datore di lavoro, il quale spesso, attraverso l’ufficio del Personale, incappa in errori di valutazione nei confronti della vittima colpita dal fenomeno. Un esempio è quando le sempre più frequenti assenze per malattia del lavoratore non vengono capite e sono considerate in maniera diversa da parte dell’amministrazione del personale stesso.

• QUINTA FASE: aggravamento delle condizioni di

salute. In questa fase le condizioni di salute psico-fisica del mobbizzato si aggravano e la vittima si trova a soffrire di forme depressive più o meno gravi. In genere si ricorre ad un periodo di cure attraverso psicofarmaci e terapie; cure che troppo spesso hanno solo un effetto palliativo, in quanto il problema sul lavoro non solo resta, ma tende ad aggravarsi. L’amministrazione del personale continua a commettere errori, di solito dovuti alla mancanza di conoscenza del fenomeno del Mobbing e delle sue caratteristiche, e di conseguenza i provvedimenti presi nei riguardi del lavoratore sono non solo inadatti, ma anche pericolosi e controproducenti per la vittima stessa. E’ la fase in cui il lavoratore finisce col convincersi di essere la causa di tutto ciò che di negativo avviene attorno a lui; oppure pensa di vivere in un mondo di

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ingiustizie contro cui nessuno può nulla, precipitando ancora di più nella depressione. E’ la fase in cui alle vessazioni in ambiente lavorativo si aggiungono le incomprensioni provenienti dal nucleo familiare, e si sviluppa, così, il cosiddetto “Doppio Mobbing”.

• SESTA FASE: esclusione dal mondo del lavoro.

È la fase finale del percorso, che si manifesta con la ricerca, da parte dell’individuo mobbizzato, di una via d’uscita che lo porti all’esterno del tunnel nel quale si trova. Questa via d’uscita viene spesso trovata nell’allontanamento dall’ambiente di lavoro nel quale il Mobbing si è concretizzato. Un allontanamento che può portare alle dimissioni volontarie, al licenziamento, all’accettazione della mobilità o del prepensionamento. Una forma più grave e drammatica può portare in casi estremi allo sviluppo di manie ossessive, istinti di vendetta sul mobber o, addirittura, al ricorso al suicidio.

3. Studi e Legislazione in Italia

Uno dei primi studiosi ad interessarsi del fenomeno nel nostro Paese è stato il tedesco Harald Ege, collaboratore di Heinz Leymann, lo psicologo svedese che per primo parlò di Mobbing come condizione di persecuzione psicologica in ambiente lavorativo.

Leymann era già stato in Italia, dove aveva tenuto una conferenza sull’argomento, e sin da allora si era potuto inquadrare il problema con maggiore chiarezza e consapevolezza.

Nel 1996, a Bologna, Ege fondò “Prima – Associazione Italiana contro Mobbing e Stress Psico-sociale”, allo scopo di

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intervenire ed operare sulle problematiche connesse a questo fenomeno, da un lato dedicandosi alla prevenzione delle cause scatenanti, dall’altro offrendo assistenza e sostegno a coloro che ne hanno subìto gli effetti. E negli ultimi decenni del secolo scorso, anche in Italia si è iniziato a studiare il fenomeno in maniera scientifica.

“Nessuno in Italia fino a pochissimo tempo fa sapeva cos’è il Mobbing e il mio ruolo è stato (lo è ancora in tante occasioni) principalmente quello di fornire le basi di questa conoscenza, ricorrendo a volte a parole anche troppo semplici, per far avvicinare per gradi e con pazienza chi avevo davanti alla comprensione di questo problema”; così scrive Ege nella premessa di uno dei suoi numerosi libri sul Mobbing pubblicati nel nostro Paese.

Oggi, grazie anche al boom mediatico, si sente sempre più spesso parlare dell’argomento ed il termine Mobbing è diventato ormai di uso comune.

Si calcola che, solo in Italia, più di un milione e mezzo di lavoratori soffrano per Mobbing; e l’incidenza territoriale del fenomeno è, approssimativamente, così distribuita: 64% nell’Italia settentrionale, 25% nell’Italia centrale, 6% nell’Italia meridionale e 5% nelle isole maggiori (Casula D., 2003, pag. 142).

Si presuppone che i dati siano notevolmente sottostimati, sia per la mancanza di un Osservatorio a livello Nazionale e Regionale, sia perché molti episodi rimangono ancora nel sommerso, in quanto non dichiarati per paura o per scarsa consapevolezza del fenomeno.

Complessivamente, dovrebbe essere intorno a 4 milioni il numero di coloro che, in Italia, sono indotti a mobbizzare i colleghi, mentre su una cifra minima di 5 milioni è attestata la quantità di persone in qualche modo coinvolte nel fenomeno, come testimoni, spettatori, colleghi di lavoro, amici e familiari delle vittime.

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Altro esperto di Mobbing in Italia è il Dottor Renato Gilioli, neuropsichiatra e medico del lavoro, Direttore del Centro per il Disadattamento Lavorativo della Clinica di Milano. In tale veste, Gilioli si occupa da oltre vent’anni di socialità aziendale, aiutando migliaia di vittime “perseguitate” nei diversi ambienti di lavoro. Nel Centro, istituito nel 1996, opera un’equipe medica che si occupa di Mobbing nei suoi aspetti clinici, diagnostici, terapeutici, riabilitativi e preventivi; e Gilioli vi svolge attività di coordinamento.

Il medico italiano ha elaborato un protocollo diagnostico interdisciplinare ed un questionario (C.D.L.) specifico per la rilevazione del fenomeno Mobbing.

Il questionario consente un’attenta analisi della situazione che interessa il soggetto analizzato, ed è composto da 40 items, suddivisi in tre aree: 1) attacchi alla persona; 2) attacchi alla situazione lavorativa; 3) azioni punitive subìte; più una parte finale dedicata ai dati anagrafici dell’interessato.

Il contributo dato da Renato Gilioli è importante anche per quanto riguarda la prevenzione, ed il medico ha condotto, in collaborazione con il figlio giornalista Alessandro Gilioli, numerosi studi sull’argomento.

Nel 2000 padre e figlio hanno pubblicato un libro, “Cattivi capi, cattivi colleghi. Come difendersi dal mobbing e dal nuovo capitalismo selvaggio”, in cui il Mobbing viene considerato “il male sociale del nostro tempo”. Le storie raccontate nel volume imprimono nella mente del lettore l’immagine di un mondo del lavoro che si manifesta nei suoi aspetti peggiori, e coinvolgono nella trattazione aziende pubbliche e private, uffici ministeriali, scuole, fabbriche, uffici e persino una redazione di giornali, una tv privata, una casa di cura e un’industria farmaceutica.

In Italia non esiste una legislazione specifica sul Mobbing.

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In Parlamento sono stati presentati diversi progetti di legge. Cinque iniziative regolamentano la materia sotto il profilo civile (disegno di legge n. 6410, dei deputati Benvenuto ed altri; disegno di legge n. 4265, dei sen. Tapparo ed altri; disegno di legge n. 4313, del sen. De Luca; disegno di legge n. 4512, del sen. Tomassini; proposta di legge n. 4802, del sen. Magnalbò). Altre tre iniziative regolamentano la materia sotto il profilo penale (proposta di legge n. 1813, dei deputati Cicu ed altri; proposta di legge n. 6667, del deputato Fiori; proposta di legge n. 7265, dei deputati Volonté ed altri).

Le otto proposte tornano utili per: 1) valutare positivamente l’individuazione e la condanna di quelli che vengono considerati comportamenti persecutori, che è la prima necessaria condizione per garantire una difesa delle vittime; 2) definire illeciti i comportamenti persecutori, consistenti in condotte tese a instaurare una forma di terrore psicologico; 3) sottoporre questi comportamenti a sanzioni penali, che comportano la reclusione fino a tre anni e la comminazione di una multa. Inoltre, il progetto Fiori non è circoscritto al rapporto di lavoro ma sanziona e punisce i comportamenti persecutori che si manifestano e vengono attuati pure al di fuori dell’ambiente di lavoro.

A livello comunitario, la risoluzione A5-0283/2001 della Commissione Europea, dal titolo “Mobbing sul posto di lavoro”, pur ammettendo che il fenomeno non si conosce nella sua reale entità, ha ritenuto il Mobbing un grave problema che si manifesta nel contesto della vita professionale. Per questo motivo, la Commissione ha invitato gli Stati membri a prestare al fenomeno maggiore attenzione e a rafforzare le misure per farvi fronte. Il documento offre non solo una dettagliata analisi del fenomeno, ma anche spunti per un successivo piano di azione, e delinea le idee guida alle quali ogni Stato della Comunità dovrà far riferimento.

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In considerazione del vuoto legislativo esistente in materia e vista la crescente domanda di tutela proveniente dai lavoratori, la questione Mobbing a livello giurisprudenziale e dottrinale è stata affrontata con l’utilizzo degli strumenti legislativi vigenti: a) art. 35 della Costituzione (La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro… omissis…); b) art. 582 del Codice Penale (Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale derivi una malattia del corpo o della mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni. Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni … omissis… il delitto è punibile a querela della persona offesa); c) art. 660 del Codice Penale (Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516); d) art. 2087 del Codice Civile (L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro).

La direttiva quadro 89/391 della CEE, recepita in Italia con il D. Lgs 626/94, prevede tra gli obblighi generali del datore di lavoro la valutazione e l’intervento su ogni tipo di rischio e quindi anche sulla violenza sul lavoro, sia fisica che psicologica. Altra tutela, sempre a livello generico, viene offerta dalla legge 300/70, meglio conosciuta come “Statuto dei Lavoratori”.

In mancanza, dunque, di una definizione legislativa di Mobbing, è la giurisprudenza del lavoro ad occuparsi del fenomeno della persecuzione psicologica in azienda e, in assenza di specifiche norme scritte dal legislatore, l’illecito derivante e l’ingiustizia conseguente possono essere sanzionati

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opportunamente con forme risarcitorie ed inibitorie, che offrono tutela alla potenziale vittima.

Secondo alcuni studiosi, la prima sentenza che ha affrontato un caso di Mobbing sul lavoro, qualificandolo come tale, è la sentenza emessa il 6/10/99 dal Tribunale di Torino, in cui per la prima volta, in giurisprudenza, si parla espressamente di Mobbing (De Luca M.). La sentenza ravvisa nell’articolo 2087 del Codice Civile il fondamento della tutela per i lavoratori vittime di comportamenti persecutori posti in essere nell’azienda. Ma in merito a questa sentenza, Harald Ege precisa che il dispositivo di Torino si riferisce ad una singola azione perpetrata ai danni della ricorrente: affidamento di mansioni spiacevoli.

Il termine Mobbing si ritrova poi nella sentenza n. 143/2000 della Cassazione, che qualifica il fenomeno come “l’aggredire la sfera psichica altrui”.

Ma è con sentenza n. 84 della Sezione Lavoro del Tribunale di Forlì, emessa il 23/02/2001, che si giunge, per la prima volta in giurisprudenza, ad una compiuta analisi e definizione del fenomeno Mobbing. E, guarda caso, in questa causa Consulente Tecnico d’Ufficio è stato proprio Harald Ege.

In assenza di una specifica collocazione nell’ordinamento giuridico, il sistema penale riconduce la lettura del fenomeno e la rilevanza penale del danno da mobbing all’interno di precise configurazioni delittuali. Tra queste si segnalano: “ingiuria e diffamazione” (artt. 594, 595 c.p.); “violenza privata” (art. 610 c.p.); “lesioni personali e percosse” (artt. 582, 583 c.p.); “estorsione” (art. 629 c.p.). Inoltre, la possibilità di applicazione del Mobbing nel diritto penale trova ampio respiro in un intervento della Cassazione (Cass. pen., sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 10090), mediante il quale il legislatore crea un parallelismo tra i maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e quelli subìti sul posto di lavoro, investendo il datore di

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lavoro della medesima autorità di chi riveste il ruolo genitoriale (diritto.it).

Questa interpretazione consente di includere a pieno titolo nelle condotte mobbizzanti, non solo le lesioni, le percosse, le ingiurie, ma anche quegli atti di disprezzo e offesa alla dignità personale che si risolvono in sofferenze morali. 4. Classificazione e articolazioni del Mobbing

La pratica del Mobbing sul posto di lavoro consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica.

Si possono distinguere differenti tipologie di Mobbing. Una prima ed essenziale suddivisione potrebbe essere quella che distingue Mobbing ambientale/orizzontale dal Mobbing gerarchico/verticale. Vediamo nel dettaglio queste tipologie.

• Mobbing Orizzontale: viene fatto da colleghi di pari grado, in genere per impedire ad uno o più colleghi l’avanzamento di carriera. Può essere condotto singolarmente o in gruppo.

• Mobbing Verticale: la condotta persecutoria viene “dall’alto”, da colleghi di grado superiore, che spesso, per mantenere determinati privilegi o per imporre la propria autorità, esercitano arbitrariamente le loro funzioni e assumono comportamenti aggressivi nei confronti di una vittima. Il Mobbing si può definire Strategico: laddove in

Imprese, Aziende ed Enti, nascono situazioni di instabilità, dovute a cambiamenti, fusioni o riduzione del personale. In tali contesti è frequente il ricorso al Mobbing Strategico come vero e proprio strumento di difesa di un lavoratore rispetto ad un altro e come strumento di riduzioni del personale.

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Il Mobbing Strategico è, dunque, attuato intenzionalmente per neutralizzare o allontanare definitivamente dall’ambito lavorativo aziendale dipendenti considerati scomodi oppure non più utili.

Il Mobbing Trasversale: coinvolge persone esterne all’azienda, che in collaborazione con il mobber attuano comportamenti discriminanti nei confronti del mobbizzato.

Il Mobbing Relazionale: si riferisce ai rapporti tra le persone, e alcuni studiosi (Prof. E. Costa, Università degli studi di Roma “La Sapienza”, Dipartimento di Scienze Psichiatriche)

lo considerano di tipo cognitivo e di tipo emozionale. Il Mobbing Relazionale di tipo cognitivo si riferisce

principalmente a precise strategie di potere, e tende a mettere le persone le une contro le altre, allo scopo di squalificare e mettere in difficoltà le vittime designate, arrivando persino a nascondere o travisare la comunicazione aziendale diretta, spingendo il lavoratore verso l’errore.

Il Mobbing Relazionale di tipo emozionale si riferisce principalmente alla sfera della personalità di ogni singolo lavoratore. L’azione del mobber è volta a creare invidia, gelosia, minaccia all’autostima; questo tipo di Mobbing, inoltre, fa leva anche sulle differenze di genere, di cultura e di classe, ed è finalizzato a bloccare carriere, togliere potere, rendere il lavoratore impotente ed inaffidabile, fino ad estromettere il soggetto dal processo lavorativo. Harald Ege, nel corso dei suoi studi, ha evidenziato un ulteriore aspetto del fenomeno, denominato il Doppio Mobbing. Sono le vessazioni e le incomprensioni che nascono in famiglia e che vanno ad aggiungersi a quelle subìte in ambiente lavorativo. Pertanto, il Doppio Mobbing è un fenomeno che l’individuo, già vittima sul posto di lavoro, può subire dalla famiglia.

La vittima considera la famiglia l’unico ambiente nel quale riversare l’ansia e la depressione. La famiglia diventa così

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una sorta di rifugio dentro il quale l’individuo si illude di poter cercare e trovare comprensione e protezione.

Infatti, il carico di tensioni portato dal mobbizzato all’interno del nucleo familiare, in un primo momento, viene compreso e tollerato; ma con il passare del tempo, l’individuo viene ignorato, trascurato e alla fine colpevolizzato anche in ambito familiare.

E’ successo che i membri del nucleo familiare, dapprima comprensivi e disposti a fornire protezione al mobbizzato, hanno abbandonato tale atteggiamento di tolleranza e solidarietà ed hanno assunto comportamenti che alla fine tendono ad isolare il familiare, considerandolo un peso ed un pericolo per se stessi e per gli altri.

Si viene dunque a creare una frattura non solo comunicativa, ma anche e soprattutto affettiva all’interno del nucleo familiare; frattura che si trasforma in un vero e proprio rapporto conflittuale, tale da non consentire più la sopportazione del disagio provato dalla vittima. E tutto questo non fa che peggiorare il disagio stesso. Si tratta naturalmente di un processo inconscio: nessun componente sarà mai consapevole di aver cessato di aiutare e sostenere il proprio caro.

A seguito di questi comportamenti, il mobbizzato si troverà a ricoprire il ruolo di vittima due volte: prima nell’ambito lavorativo (da parte dei colleghi e/o superiori), e poi nel contesto familiare, in quanto abbandonato e allontanato dal coniuge e dai figli. Il Mobbing a cui è sottoposto il soggetto è raddoppiato. Per questo si parla di Doppio Mobbing: il fenomeno non è solo presente in ambiente lavorativo, ma continua, con altre modalità, anche a casa, in famiglia.

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5. Mobbing e salute

Dopo aver definito il fenomeno del Mobbing nella dimensione giuridica e nella realtà, dopo averne esaminato le diverse classificazioni e gli aspetti legati alla legislazione vigente, occorre porsi una domanda: Quali effetti produce, sulla salute, una situazione lavorativa così opprimente?

Il Mobbing non è una malattia, ma può esserne la causa. Dalla letteratura scientifica più recente, emerge il ruolo determinante di situazioni negative di lavoro nello sviluppo di sintomatologie di ordine psichico, psicosomatico e comportamentale, le quali possono essere così sintetizzate:

• Sintomi psicopatologici: alterazioni dell’umore, depressione, disturbi d’ansia, attacchi di panico, apatia, irritabilità, flashback, incubi ricorrenti, insicurezza, disturbi del sonno, iperallerta, melanconia, pensiero intrusivo, perdita di iniziativa, problemi di concentrazione, reazioni di evitamento, reazioni fobiche.

• Sintomi psicosomatici: attacchi d’asma, cefalee, crisi anginose, crisi emicraniche, dermatite, disturbi dell’equilibrio, dolori articolari e muscolari, gastralgie, ipertensione arteriosa, palpitazione, perdita di capelli, tachicardia, ulcere gastroduodenali.

• Sintomi comportamentali: aumento del consumo alcolico e di farmaci, aumento del fumo, disfunzioni sessuali, disturbi dell’alimentazione, isolamento sociale, reazioni auto ed etero aggressive.

I disturbi appena elencati possono essere transitori, e

quindi si risolvono quando le condizioni di lavoro migliorano, o quando la situazione cambia in modo positivo.

Nelle situazioni in cui, invece, il conflitto non ha una soluzione, o, come spesso avviene, peggiora, i disturbi possono

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strutturarsi in vere e proprie sindromi che rappresentano una risposta disadattiva a stimoli esterni ed avversativi. Nei casi di danno biologico da Mobbing è frequente riscontrare, secondo i criteri del DSM-IV, i seguenti disturbi:

• la Sindrome da Disadattamento (SDD): è un malessere soggettivo e disturbo emozionale che in genere interferisce con il funzionamento e le prestazioni sociali e che insorge nel periodo di adattamento ad un significativo cambiamento di vita o ad un evento di vita stressante (ICD-10 oppure, secondo il DSM IV, Disturbo dell’Adattamento “DDA”).

• la Sindrome Post Traumatica da Stress (SPTS): è una risposta ritardata protratta ad un evento stressante o ad una situazione di natura eccezionalmente minacciosa o catastrofica, in grado di provocare diffuso malessere in quasi tutte le persone (ICD-10 oppure, secondo il DSM IV, Disturbo Post Traumatico da Stress “DPTS”).

• Disturbo d’Ansia Generalizzato (DAG): è un malessere caratterizzato da presenza di ansia e preoccupazione eccessiva, le quali si manifestano per la maggior parte del tempo per almeno sei mesi, nei riguardi di una quantità di eventi o attività (ICD-10 oppure, secondo il DSM IV, Disturbo d’Ansia Generalizzato “DAG”).

• Disturbo Distimico (DD): è caratterizzato da umore cronicamente depresso, presente per la maggior parte del giorno. Gli individui possono riferire la presenza rilevante di riduzione degli interessi e di autocritica (ICD-10 oppure, secondo il DSM IV, Disturbo Distimico “DD”). Come abbiamo più volte sottolineato, il mobbing non è

una condizione statica della situazione lavorativa, ma un processo in continua evoluzione, con un suo regolare sviluppo;

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per questa ragione, pure le conseguenze sulla salute delle vittime evolvono progressivamente, con una variabilità di sintomatologie che si sviluppano a seconda dei soggetti che subiscono la persecuzione.

In alcuni casi, queste conseguenze possono riacutizzare o slatentizzare patologie psicosomatiche e/o psicologiche precedentemente accusate.

La patologia psichiatrica più riscontrata è un disturbo dell’adattamento, che comprende una serie di sintomi che vanno dall’ansia alla depressione. Le conseguenze possono essere perdita dell’autostima, insonnia, anoressia, gastriti, fino a portare nei casi più gravi al suicidio.

I medici definiscono le conseguenze del Mobbing come danno esistenziale, cioè un peggioramento generale delle condizioni di vita, con difficoltà a mantenere i rapporti sociali e lavorativi e, a maggior ragione, a stringerne di nuovi.

Come abbiamo potuto notare, le conseguenze sono di tre tipi: psicopatologiche, psicosomatiche, comportamentali.

Dopo l’emanazione della Direttiva europea del 26/4/2007 sulla violenza, le conseguenze principali subìte dalla vittima sono riconducibili a quattro categorie: 1) disturbi psicopatologici (disturbo post-traumatico da stress, disturbi di ansia, disturbi dell’adattamento, depressione); 2) alterazione dell’equilibrio socio-emotivo (stati di preallarme, isolamento, ossessione, anestesia reattiva, depersonalizzazione); 3) alterazioni psico-fisiologiche (disturbi del sonno, della sessualità, gastrointestinali, senso di oppressione, cefalea, vertigini, tachicardia, dermatosi); 4) disturbi del comportamento (disturbi alimentari, disturbi da sostanze psicoattive, aggressività).

Il tutto, con possibili alterazioni psicosomatiche degli apparati digerente, respiratorio, cardiaco o osteo-articolare e muscolare. In alcuni casi, inoltre, il senso di svilimento può portare anche ad atti di autolesionismo o al suicidio.

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6. Simulazione, dissimulazione e importanza della diagnosi

Gli effetti del mobbing sono considerati una vera e propria malattia professionale, combinata ad un rischio professionale, e di conseguenza possono essere connessi a problematiche di risarcimento economico. In sede giudiziaria, per la quantificazione del danno, sarà necessario definire innanzitutto “l’apprezzabilità giuridica”, cioè la veridicità del fatto, e dimostrare poi il nesso causale tra il fatto lesivo e il danno psichico lamentato. Parliamo, pertanto, di simulazione e di dissimulazione.

Il primo termine deriva dal latino “simulatio” e significa finzione, inganno. Dalla medesima area semantica deriva il secondo termine, “dissimulatio”.

La differenza fra simulazione e dissimulazione si trova efficacemente enunciata nel volume Polyanthea del 1607, una sorta di censimento dei lemmi ordinati alfabeticamente, opera curata da Joseph Lang (Langius), che si colloca tra un dizionario delle idee e un dizionario storico della lingua: “Simulo et dissimulo ita differunt: simulamus enim esse ea quae non sunt, dissimulamus ea non esse quae sunt”, che in italiano significa “Simulare e dissimulare in questo differiscono: simuliamo, infatti, quelle cose che non esistono, dissimuliamo quelle cose che esistono”. (italica.rai.it).

Dal momento che è frequente la presentazione di istanze di indennizzo economico simulate, che contengono false accuse di mobbing con lo scopo di ricevere l’indennizzo, diventa necessario riscontrare con strumenti obiettivi la veridicità dei fatti esposti. E da qui nasce l’importanza della diagnosi.

Episodi di simulazione possono verificarsi in ambito peritale, dopo la richiesta del giudice al fine di acquisire validi elementi di giudizio. Pertanto, l’esperto deve essere in grado di saper discernere le manifestazioni sintomatologiche reali, e

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collegare poi queste eventuali sintomatologie a presunte accuse di mobbing.

La simulazione, o l’amplificazione simulatoria in tema di Mobbing, viene a realizzarsi allorquando si osservano ostentazione monosintomatica e riproduzione ed imitazione di sintomi singoli, isolati, spesso solamente riferiti e non correlabili ad un reale contesto di situazioni mobbizzanti; inoltre, nei colloqui con l’esperto, emergono spesso esibizione enfatica e teatrale degli eventi vessatori e doviziosa elencazione reiterata della sintomatologia, anziché la dignitosa e orgogliosa occultazione e/o minimizzazione del vero mobbizzato.

Il soggetto espone con modo sfacciato e spesso puerile il proprio vissuto all’interno del posto di lavoro, ed è facile per il perito osservare la mancanza di quel tipico distacco comunicazionale ed emozionale, che è caratteristico in soggetti sottoposti effettivamente a fenomeni di Mobbing.

Infine, è possibile osservare la tendenza a richiamare costantemente l’attenzione e la partecipazione emozionale dell’osservatore, mediante frequenti citazioni degli eventi vessatori subìti (Villanova M., 2008, pag. 184).

La tecnica della simulazione, come è ben capibile, viene attuata dal lavoratore per ricevere un indennizzo; spesso ha carattere vendicativo, e nasce dalla ripetuta opposizione da parte dell’azienda alle richieste di aumenti di stipendio, di trasferimenti o di avanzamenti di carriera. Il soggetto finge dunque di aver subìto mobbing e giunge a far causa all’azienda stessa, dalla quale spera di ottenere un risarcimento che, nella sua immaginazione, serve a ripagarlo per le negazioni, e non dagli effetti devastanti del Mobbing, in realtà non subìto.

Più gravi, meno visibili, più subdoli sono invece i casi in cui il mobbizzato è realmente vittima di un’azione vessatoria, ma tende a dissimulare i sintomi: nasconde, cioè, le cose che esistono.

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La dissimulazione rende difficile l’individuazione di casi di Mobbing. In questa situazione, il fenomeno risulta ancora più difficile da combattere, e diventa quasi impossibile ogni intervento, sia in ambito lavorativo su chi lo attua che a livello psicologico, medico e legale su chi lo subisce. L’evento Mobbing diventa così meno visibile, poiché non palesato, non denunciato.

La dissimulazione accade in maniera più frequente di quanto possiamo immaginare, e la vittima, normalmente, evita di parlare con i familiari perché considera la sua situazione frutto di un fallimento personale.

Spesso si è portati alla dissimulazione per vergogna, per paura di essere giudicati o, fatto ancora più grave, per il terrore di un inasprimento delle violenze e delle angherie subìte in ambito lavorativo. In ambito familiare il mobbizzato, soprattutto se uomo, dissimula per paura di “perdere” quel ruolo che l’uomo tradizionalmente riveste quale capo famiglia.

In casi come questi la vittima tenderà a subire le persecuzioni sul lavoro, mascherando tutta quella serie di sintomi psicosomatici che ne derivano; però risulta difficile dissimulare a lungo sia la tensione che i sintomi conseguenti al Mobbing, e a lungo andare molti soggetti finiscono per fissarsi sul tema del lavoro in modo ossessivo, al punto tale da compromettere le proprie relazioni familiari e sociali.

Nei casi di dissimulazione, un ruolo fondamentale spetta al medico di famiglia. Se il professionista è attento e particolarmente scrupoloso, si accorge che qualcosa non funziona e può decidere di indagare in modo più specifico sulle cause dei disturbi riscontrati, estendendo la sua analisi anche alle relazioni intercorrenti in un contesto lavorativo.

Una diagnosi completa e corretta deve comprendere una valutazione clinica fondata su stato di salute del soggetto interessato, anamnesi familiare, situazione occupazionale, sociale e relazionale.

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Gli strumenti necessari a soddisfare questi criteri sono:

• la specifica preparazione alla conduzione di colloqui psicologico-psichiatrici mirati;

• l’impiego di strumenti di rilevazione della situazione di Mobbing validi e sensibili, con particolare riferimento all’organizzazione del lavoro all’interno dell’azienda;

• l’impiego di metodi psicodiagnostici; • l’effettuazione di diagnosi sindromica.

In ogni caso, la diagnosi deve avvenire attraverso un

lavoro di equipe multidisciplinare, specialisti che operano in parallelo e coordinati tra loro. (diritto.it). In particolare, le figure del team di lavoro dovrebbero interessare:

• Medico del Lavoro, con particolare riferimento all’anamnesi lavorativa e all’analisi dell’organizzazione del lavoro.

• Psicologo del Lavoro, per l’analisi e la valutazione dei fattori di rischio, cosiddetti trasversali, in particolare sociali e psicologici.

• Medico Psichiatra, per la diagnosi psichiatrica. • Psicologo Clinico, per l’analisi e la valutazione delle

manifestazioni psicopatologiche attuali e/o pregresse, attraverso la somministrazione di test mirati.

• Medico Legale, per la valutazione analitica della sussistenza di un nesso di causalità e per l’individuazione di un eventuale danno biologico.

La diagnosi, e la conseguente valutazione del danno,

sono elementi indispensabili per dar luogo ad azioni in ambito giudiziario, ed il giudice, nella maggior parte dei casi, può disporre una perizia (in ambito penale) o una consulenza tecnica

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di ufficio c.t.u. (in ambito civile) per acquisire le informazioni che richiedano una particolare competenza. Gli elementi acquisiti sono necessari per la formulazione del giudizio.

Il consulente esprime “un parere tecnico motivato” e, in casi come questi, il giudice può far ricorso pure alla disciplina della psicologia giuridica, la quale, nell’occorrenza, svolge un ruolo utile al diritto per l’enunciazione del giudizio.

Con il conferimento dell’incarico, l’esperto nominato dal Tribunale è chiamato a rispondere ai quesiti posti dal giudice per determinare l’insorgenza di un danno psichico da Mobbing, con conseguente valutazione dell’integrità psicofisica del soggetto. In particolare, il perito dovrà accertare i seguenti parametri: 1) l’esistenza del danno da Mobbing; 2) la diagnosi clinica; 3) il rapporto cronologico tra l’evento scatenante e il danno stesso; 4) la dimensione temporale; 5) l’esclusione di simulazioni o nevrosi da indennizzo; 6) la quantificazione del danno ai fini della liquidazione.

Tecnicamente, il lavoro del consulente inizia con la lettura degli atti che compongono il fascicolo (memorie di avvocati, verbali di udienze precedenti, documentazione clinica precedente, ecc.), e prosegue con la raccolta dell’anamnesi e con il colloquio clinico. Viene, perciò, indagata la vita personale, familiare e professionale del soggetto, con particolare riferimento all’anamnesi occupazionale, la quale serve a focalizzare l’attenzione su eventuali eventi psicostressanti che nascono in ambiente di lavoro e che sono capaci di sprigionare una forte carica di intensità lesiva.

Nel corso di quest’ultima indagine, saranno analizzati i precedenti lavorativi del soggetto, la frequenza e le motivazioni di eventuali cambiamenti del posto di lavoro, il livello di soddisfazione lavorativa, il grado di integrazione sul posto di lavoro, la definizione del momento di disagio nell’ambiente lavorativo, la modalità d’esercizio di abuso, l’identificazione

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degli autori, le risposte del soggetto mobbizzato e la descrizione dell’evento ritenuto fonte del danno.

Obiettivo dei colloqui è delineare il decorso e i sintomi del disturbo psichico, accertare lo stato anteriore del periziando attraverso una ricostruzione dei fatti e degli episodi vissuti, definire il rapporto cronologico tra evento e danno. I colloqui possono essere estesi anche a colleghi di lavoro e/o datore di lavoro, familiari e amici, in grado di descrivere, tramite la loro testimonianza, la qualità della vita del soggetto e la rivelazione delle sue funzioni prima dell’evento.

I dati anamnestici raccolti e l’osservazione dello stato psichico del soggetto vengono poi confrontati con i risultati della somministrazione di test psicodiagnostici, come questionari di personalità, test proiettivi, scale di valutazione dell’ansia e depressione, aggressività, disturbo post traumatico da stress e amplificazione di sintomi psico-somatici.

Naturalmente non tutti i disagi derivanti dall’attività professionale possono essere identificati come azioni di Mobbing; molti atteggiamenti, infatti, sono falsamente interpretati dal lavoratore come tali, ed azioni considerate vessatorie, spesso, rientrano nella piena funzione di gestione da parte del datore di lavoro. E’ pure importante non confondere azioni mobbizzanti con la normale e fisiologica conflittualità esistente tra colleghi, che è tipica in un ambiente di lavoro competitivo, tenendo ben presente che le reazioni umane dipendono molto dall’equilibrio che c’è tra i fattori stressanti e la capacità dell’individuo di farvi fronte.

Ai fini di un risarcimento economico, in ambito peritale, possono verificarsi anche episodi di simulazione; in questo caso l’esperto deve essere in grado di saper discernere tra manifestazioni sintomatologiche reali e false accuse di Mobbing.

Alcuni autori ritengono i casi di simulazioni poco frequenti; altri, invece, parlano di problema sottovalutato, in

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quanto alcuni questionari per la rilevazione del fenomeno sono formulati in modo tanto palese da consentire l’indicazione di sintomi veri anche quando sono simulati. Un metodo sicuro per escludere la simulazione e l’enfatizzazione è accertare la coerenza fra i punteggi dei test, i colloqui, i dati anamnestici, l’esame obiettivo del periziando durante gli incontri e l’analisi degli atti che compongo il fascicolo.

La valutazione peritale deve tenere conto anche della dimensione temporale, perché, prolungando il periodo di osservazione, si possono ottenere informazioni cliniche più veritiere, in modo che la situazione sintomatologica tenda a stabilizzarsi. A questo proposito, nel caso della valutazione per danno da Mobbing, i tempi si prolungano fino a due anni, proprio per il carattere di logoramento che questa tipologia presenta.

Riguardo ai criteri di quantificazione del danno, in Italia è assente un principio univoco di liquidazione; pertanto, si possono solo individuare dei macro-metodi, anche se diversi Tribunali hanno adottato specifiche tabelle proprie.

Il lavoro del consulente ha termine con la stesura per iscritto della perizia, il mezzo di comunicazione con il quale l’esperto espone al magistrato, o al giudice che gli ha affidato l’incarico, le sue analisi e le conclusioni circa il caso.

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Cap. II 1. Premessa

Abbiamo più volte sottolineato il fatto che il conflitto che genera Mobbing sorge, si realizza e si consuma all’interno di un luogo di lavoro. Questo risulta dall’applicazione del modello elaborato dal prof. Harald Ege; il modello di riferimento più accreditato e maggiormente utilizzato anche dalla Giurisprudenza.

Abbiamo inoltre fornito una descrizione del cosiddetto Doppio Mobbing, il quale indica la situazione in cui la vittima si trova da un lato aggredita e vessata sul posto di lavoro, e dall’altro privata della comprensione e dell’aiuto della famiglia. In sostanza, il Mobbing si manifesta due volte, e questo fenomeno è largamente presente in Italia, considerato pure il ruolo particolare che la famiglia ricopre nella società nazionale.

Oltre che in ambito lavorativo, il Mobbing si manifesta in altri contesti:

• Contesto scolastico.

Il fenomeno (che, come nel mondo del lavoro, può essere orizzontale o verticale) si manifesta sotto forma di “vessazione di branco”, una sorta di bullismo di gruppo organizzato ai danni di un compagno di classe; oppure come Mobbing verticale, “dall’alto”, ossia praticato da un insegnante a danno di uno o più allievi. E le azioni messe in atto possono essere, di volta in volta, singole o associate: espressioni sistematicamente denigratorie, provvedimenti disciplinari persecutori, valutazioni o giudizi ingiustificatamente negativi.

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• Contesto sociale. Il fenomeno si manifesta tra amici, tra gruppi, tra bande giovanili, tra circoli sportivi rivali e altro. Lo scopo è quello di indurre all’autoallontanamento spontaneo un membro del gruppo che non risulta più gradito o accettato.

• Contesto familiare. Il fenomeno si manifesta all’interno del nucleo familiare e la forma più frequente colpisce le famiglie nei casi di separazione/divorzio. Esso viene messo in pratica da parte di un genitore nei confronti dell’altro, ed ha come scopo quello di spezzare il legame con i figli. Questo processo è noto come PAS (Sindrome da Alienazione Parentale).

2. Mobbing Familiare

Fra i tre contesti che abbiamo appena accennato, quello che ci interessa approfondire è il Mobbing Familiare, perché questa tipologia di fenomeno, assieme al Mobbing in ambiente lavorativo, concorre in forma maggiore, rispetto agli altri, ad alimentare una serie di conseguenze che producono effetti patologici non solo sulla vittima, ma all’interno delle relazioni interpersonali e all’interno del gruppo familiare, e quindi pure sulla prole in età evolutiva.

La figura del Mobbing familiare (altalex.com) ha trovato spazio in una sentenza della Corte d’Appello di Torino del 21 febbraio 2000, con la quale i giudici di secondo grado hanno sdoganato il fenomeno dall’ambito del diritto del lavoro perché trovasse ingresso nel diritto di famiglia.

Definire il fenomeno del Mobbing in ambito familiare è estremamente difficile, in quanto gli studi portati avanti dagli psicologi si riferiscono quasi esclusivamente all’ambito del lavoro, settore in cui l’uomo realizza la sua personalità così

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come previsto dalla Costituzione. Sicuramente, possiamo prendere in prestito la definizione di studiosi come Leymann, elaborata descrivendo le ripercussioni di chi subisce un comportamento sfavorevole e prolungato nel tempo nel proprio ambito di lavoro da parte di colleghi e superiori. Dunque, il fenomeno è individuato come una strategia prolungata nel tempo, volta a svalutare la personalità del lavoratore mediante l’attuazione di comportamenti coercitivi o di persecuzione psicologica tanto da costringerlo nei casi più gravi alle dimissioni.

In ambito familiare il Mobbing assume caratteristiche meno definite e più complesse, stante la particolarità della formazione sociale, in cui l’uomo esplica la propria personalità. È noto, infatti, che la famiglia è la prima società naturale in cui l’essere umano si esprime, e che i coniugi, con il matrimonio, assumono obblighi ben precisi di fronte a se stessi e alla legge.

L’articolo 143 del Codice Civile (Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia) enuncia in maniera lapidaria la parità degli stessi, rafforzando il dettato costituzionale in tema. Ed il mancato rispetto degli obblighi di coabitazione, collaborazione all’indirizzo familiare, fedeltà e assistenza morale e materiale, può determinare il ricorso per separazione e giustificare l’addebito al coniuge inadempiente.

Parliamo, quindi, di Mobbing Familiare quando uno dei coniugi è portato ad attuare comportamenti o molestie psico-fisiche che provocano all’altro coniuge la perdita dell’autostima e della propria identità, fino a distruggerne la personalità e a condurlo, spesso, verso un percorso di malattie fisiche.

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Il fenomeno è poco conosciuto poiché questi comportamenti, proprio perché attuati all’interno della vita matrimoniale, difficilmente emergono o vengono portati alla luce; uno dei momenti in cui il conflitto esplode in tutta la sua violenza è nelle ipotesi di separazione della coppia. 3. Mobbing cosiddetto “Secondario”

L’avvento di un sistema economico e produttivo che supera le mura domestiche e diventa sempre più globalizzato, assieme all’applicazione di una tecnologia avanzata, hanno fatto sì che l’impegno psichico richiesto sui posti di lavoro sia di gran lunga superiore all’impegno fisico. Inoltre, le innovazioni ed i cambiamenti che hanno interessato il mondo del lavoro hanno fatto passare in secondo piano l’idea del “posto fisso”, e negli ultimi anni si sono affermate modalità particolari, quali il lavoro a tempo determinato, il part-time, il lavoro in affitto, il lavoro interinale, il lavoro a progetto, etc.

Non c’è dubbio: questi cambiamenti, che da alcuni possono essere vissuti come veri e propri fatti rivoluzionari, hanno contribuito ad alimentare variabili ansiogene che possono determinare disagio psichico sia a livello individuale che di gruppo.

Il primo nucleo sociale che vive di riflesso tale problema è sicuramente la famiglia. In Italia il legame all’interno della famiglia è ancora molto forte; in genere, i suoi componenti sono molto presenti e partecipano alle vicende della vita quotidiana: i genitori si interessano al percorso scolastico e professionale dei figli; i coniugi seguono, in linea di massima, la rispettiva vita lavorativa; tutti partecipano quasi in prima persona alle gioie e ai problemi.

L’istituzione “famiglia” - primo nucleo della società - così concepita, rappresenta quello che può essere definito un

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welfare familiare, in cui consigli, aiuti e protezione provengono spesso in primo luogo dal contesto familiare, sempre pronto a sorreggere, proteggere, aiutare e confortare i suoi membri.

E’ proprio la strutturazione di questo modello, che consente al Mobbing di estendere i suoi effetti negativi sulla famiglia, esponendo tutti i componenti ai riflessi devastanti causati dalla presenza, nel nucleo abitativo, di un esponente fatto oggetto di Mobbing. Riflessi devastanti che finiscono inevitabilmente per causare effetti secondari sull’altro coniuge e sui figli, e che vanno ad aggiungersi agli effetti principali subìti dal mobbizzato.

Il Prof. Corsaro, insegnante di Socializzazione infantile e Metodi etnografici di ricerca nell’Indiana University, scrive che le famiglie stanno passando per un periodo di importante ridefinizione e accomodamento ed i bambini, ovviamente, risentono dell’influenza dei cambiamenti sociali recentemente intervenuti e della crescente diversità delle famiglie nelle società industrializzate e in quelle in via di sviluppo. Esiste una tradizione consolidata di ricerca psicologica sugli effetti dello sviluppo individuale dell’attaccamento e del legame emozionale, delle pratiche di socializzazione e degli stili parentali, della crisi della famiglia e del ruolo dei media. Il lavoro della psicologa Judy Dunn sul coinvolgimento dei bambini nella vita familiare con i genitori e i fratelli è stato rivoluzionario - afferma il docente - e rappresenta uno dei pochi tentativi condotti nella psicologia dello sviluppo per indagare da vicino l’importanza delle relazioni interpersonali nel contesto della vita familiare per lo sviluppo sociale ed emotivo. Molti dei comportamenti del bambino nei primi anni di vita sono quindi motivati dall’interesse soggettivo. Questo non significa sostenere che i bambini ricercano semplicemente il proprio interesse, ma che piuttosto desiderano diventare membri a pieno diritto delle proprie famiglie. In quest’ottica, Dunn sostiene che “i bambini sono motivati a comprendere le regole e i rapporti sociali nel

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loro mondo culturale perché sentono la necessità di essere efficaci nei loro rapporti familiari” (Corsaro W. A., 2003, pag.107-112).

Alla domanda “Che cosa succede quando il mobbizzato conclude la giornata di lavoro?”, Gilioli risponde: “Torna a casa e si sfoga in famiglia. L’ambiente domestico, ancor più che gli amici, è per gli italiani il luogo in cui si riversano tutte le ansie accumulate nella giornata. Ci si sfoga, si cerca di alleggerirsi, ma si fa peggio. La moglie, o il marito, che in un primo momento sono comprensivi, poi è normale che non ce la facciano più con queste ossessioni. E allora si creano dei veri drammi” (Gilioli R., 1999).

La vittima soffre e trasmette la sua sofferenza e le sue ansie a coniuge e figli; molto spesso sfogherà proprio su questi ultimi la rabbia, l’insoddisfazione e la depressione che ha accumulato sul posto di lavoro. Il mobbizzato, in un certo senso, farà, inconsapevolmente, della famiglia la sua valvola di sfogo; e la famiglia, a sua volta, si troverà ad assorbire tutta una serie di frustrazioni e negatività.

La vittima, infatti, dopo aver subìto alienazione in ambito lavorativo, e dopo essersi estraniata da ogni aspetto della vita sociale ed extra professionale (cioè da ogni aspetto della vita di relazione), mette in atto comportamenti simili anche in ambito familiare, fino a produrre effetti negativi nella sfera più intima dei suoi affetti e fino a coinvolgere e a pervadere patologicamente anche la prole.

La perdita dell’autostima e del ruolo sociale, si sa, comporta insicurezza, difficoltà relazionali e, per le fasce d’età più avanzate, l’impossibilità di nuovi inserimenti lavorativi. Il soggetto porta all’interno dell’ambito familiare il proprio stato di grave disagio, e non sono rari i casi di separazioni e divorzi, disturbi nello sviluppo psicofisico dei figli e disturbi nelle relazioni sociali.

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Abbiamo così parlato di Mobbing Secondario, riferendoci a quei riflessi e ripercussioni che un soggetto vittima di Mobbing riporta e riversa all’interno del proprio nucleo abitativo, generando nei suoi componenti una serie di problematiche più o meno gravi che investono la sfera psicologica e comportamentale in ambito familiare. Una caratteristica di Mobbing, quella secondaria, differente dal Doppio Mobbing, a causa del quale l’individuo si viene a trovare doppiamente vittima: prima bersagliata sul posto di lavoro e poi privata di comprensione e abbandonata all’interno del proprio nucleo familiare.

Per comodità di definizione, chiameremo “Mobbing Secondario” questo fenomeno, e su questo aspetto svilupperemo la restante parte del nostro lavoro.

Nel Secondario, la vittima di Mobbing tende a riversare nel contesto familiare tutta una serie di ansie e frustrazioni generate dai conflitti vissuti a causa del Mobbing. Il carico di negatività generato dal fenomeno in ambito lavorativo (e - perché no! - generato pure in altri ambiti: Mobbing Familiare), finisce per ricadere sul partner e soprattutto sui figli, ed è facile rendersi conto come una genitorialità disturbata possa correlarsi con l’eventuale insorgere di disturbi a livello psicologico, somatico e comportamentale nei figli.

Il mondo adulto, scrive Corsaro, per sua natura esercita profondi effetti sull’infanzia ed i bambini riescono ad appropriarsi di questa cultura per costruire il proprio mondo (Corsaro W. A., 2003, pag. 259).

Per quanto riguarda l’insorgere di disturbi nei minori, dunque, grande importanza viene attribuita ai contesti interattivi più vicini all’ambito in cui il minore stesso vive. Ed il contesto che più influenza l’ambito fondamentale di vita della prole in età evolutiva è la famiglia; questo contesto, ovviamente, può essere più o meno ottimale. Tenendo pure presente che fattori di ordine storico, culturale, religioso e sociale influiscono sull’assetto

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familiare, e questo non può non avere conseguenze sullo sviluppo psicologico del bambino (Sanavio E.- Cornoldi C., 2001, pag. 55-56).

Le forme attraverso le quali si manifestano in famiglia gli effetti “secondari” del Mobbing sono molteplici, e rientrano in una casistica di relazioni-incontri-scontri fra coniugi e figli molto ampia. Nelle righe che seguono tenteremo di proporre alcuni esempi e alcune dinamiche possibili. Quando il mobbizzato viene abbandonato perché non gli viene più riconosciuto il ruolo di “capo della famiglia” o, più semplicemente, il ruolo di colonna portante, oppure quando egli non è più ritenuto idoneo ad essere indicato come esempio per i figli (Mobbing Doppio), allora si apre, per il mobbizzato stesso, una fase di isolamento e/o annullamento tale che le persone a lui vicine non riescono più a trovare un canale di comunicazione in grado di tenerli ancora in contatto.

Nella famiglia, il dialogo e l’ascolto, ma soprattutto il confronto, rappresentano un mezzo fondamentale per creare quel senso di fiducia, quei sentimenti di affetto e di appartenenza che i figli ricercano nei genitori.

La mancanza di comunicazione e peggio ancora di affettività, il clima teso, le continue liti, ed il progressivo allontanamento di una delle due figure genitoriali - a causa del Mobbing Doppio - sono comportamenti che possono sfociare in una serie di problematiche, più o meno gravi e più o meno permanenti, che riguardano la prole.

La comunicazione intrafamiliare è un aspetto essenziale nella formazione del carattere dei bambini. E fra le ripercussioni più comuni che un genitore, vittima di Mobbing, può riportare nel contesto familiare, c’è senza dubbio la compromissione di queste dinamiche, causata da una serie di comportamenti che generano, all’interno del nucleo familiare, ed in particolar modo all’interno della diade genitore-figlio, un clima di costante freddezza, che si alterna con accesi e violenti conflitti verbali.

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In alcuni casi, comportamenti simili possono sfociare in un atteggiamento spontaneo, di difesa, che è quello della chiusura: ecco allora spuntare il mutismo, il non parlare e, nello stesso tempo, il non riuscire ad ascoltare l’altro.

L’assenza di dialogo, o peggio il non riuscire ad ascoltare, sono situazioni che non permettono ai bambini di sviluppare un buon livello di autostima, senso critico e capacità di interpretare in modo corretto eventi, situazioni e comportamenti. Ed ecco comparire in famiglia gli effetti secondari del Mobbing.

Pure la trascuratezza emozionale, fenomeno poco studiato e difficile da documentare, contribuisce a creare disagio nel bambino, il quale non è più in grado di comprendere le disattenzioni - o la non disponibilità, seppur momentanea - da parte del genitore; allora la prima difesa messa in atto dalla prole è l’isolamento.

Ci sono casi in cui il mobbizzato preferisce tenere la famiglia all’oscuro di quanto gli succede in ambito lavorativo, per non coinvolgerla nei suoi problemi, per preservarla da eventuali attacchi indiretti portati avanti dal mobber, oppure per timore di perdere prestigio ed essere considerato dai propri cari un incompetente, un incapace, un fallito o un vigliacco. Quando non è più possibile mentire, per l’insorgenza di una malattia fisica o perché le ripercussioni che il mobbing ha sulla vittima sono ormai difficili da nascondere, allora il comportamento del mobbizzato diventa aggressivo nei confronti del nucleo familiare ed i primi a farne le spese sono i figli.

Anche nei casi estremi in cui la vittima vede e pratica il suicidio come soluzione finale dei suoi problemi, e dei problemi che potrebbe recare ai familiari, allora si manifestano, in forma indiretta, gli effetti secondari del Mobbing sulla prole. E’ chiaro che i figli subiscono un trauma, in presenza di questo evento luttuoso, ed è chiaro che l’assenza del genitore, perduto prematuramente e così violentemente, influirà negativamente

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sullo sviluppo e sulla crescita. A volte la persistenza dei disturbi psicofisici porta il

mobbizzato ad essere assente dal lavoro per periodi sempre più prolungati: è la cosiddetta “sindrome da rientro al lavoro”, la quale, nelle forme più accentuate, può portare alle dimissioni volontarie o al licenziamento. In questo caso, le conseguenze sociali, per la famiglia, possono essere devastanti, perché essa rischia di subire un dissesto non solo in termini di coesione interna, ma pure in termini economici.

Trasferire all’interno di un nucleo familiare destabilizzato tutte le tensioni negative vuol dire compromettere i rapporti con gli altri componenti della famiglia. Aggiungere a ciò anche i problemi di ordine finanziario, con il carico di costi da sostenere per visite mediche, consumo di medicinali, sedute di psicoterapia, o anche per spese legali (se il mobbizzato chiama in giudizio il suo datore di lavoro), è una circostanza che aggrava ulteriormente la dinamica dei rapporti all’interno della famiglia, con conseguenze ancora una volta negative per gli effetti secondari prodotti sulla prole.

Come abbiamo più volte sottolineato, il Mobbing agisce nel contesto che forma l’esistenza e la personalità dell’individuo; e quando la personalità aggressiva incontra la vittima designata, vengono ad alterarsi sia le regole dell’organizzazione del lavoro sia la rete di relazioni interpersonali: è in questa fase che il Mobbing provoca sulla vittima reazioni depressivo-ansiose, oppure scatena meccanismi di aggressione che il mobbizzato si porterà dietro per tutto il resto della vita.

Tale ricordo segnerà la loro esistenza lavorativa e sociale nei giorni a venire, ed anche quando la vittima lascia in anticipo (tramite il prepensionamento) un ambiente di lavoro vissuto come minaccioso, deludente e alienante, dal quale è meglio allontanarsi il più possibile, diventa estremamente difficile, ed a

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volte impossibile, recuperare in ambito sociale i rapporti personali danneggiati a causa del Mobbing. Il rischio di considerarsi delle nullità e degli incapaci, o anche dei falliti in campo professionale, è dietro l’angolo, e a farne le spese, ancora una volta, è il nucleo familiare, con i suoi componenti più deboli e più esposti. Anzi, lasciato l’ambiente di lavoro, l’unico campo rimasto sul quale indirizzare il proprio sfogo e la propria rabbia diventa proprio la famiglia.

Le forme e le modalità attraverso le quali il cosiddetto Mobbing Secondario nasce e produce effetti sono, dunque, numerose. Quelle proposte sono solo alcuni esempi di come questo tipo particolare di fenomeno si manifesta all’interno della famiglia. Restano da analizzare gli effetti che il Mobbing Secondario produce sulla prole in età evolutiva. 4. Effetti del Mobbing Secondario sull’età evolutiva

Giovanni Bollea, padre della moderna neuropsichiatria infantile, suddivide l’età evolutiva nei seguenti periodi (Villanova M., 2008, pag. 16):

• prima infanzia, dalla nascita al secondo anno di vita; • seconda infanzia o età prescolare, dalla fine del secondo

anno alle soglie dell’età scolare; • terza infanzia o età scolare, da sei a dieci-undici anni; • adolescenza, suddivisa in preadolescenza, undici-tredici

anni, e tarda adolescenza, dai quattordici ai sedici anni. Queste suddivisioni si fondano sul presupposto che da un periodo all’altro si verificano cambiamenti molto importanti (camminare, parlare, ragionare ecc.), e tengono anche conto dei cambiamenti ambientali (ad esempio, il passaggio dal mondo familiare alla scuola) e della posizione che gli individui in quella determinata età occupano nella società.

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Lo sviluppo psichico e la crescita fisica sono quindi due processi analoghi per la psicologia dell’età evolutiva; processi che tendono al perfezionamento delle capacità dell’individuo, e loro punto d’arrivo è la maturità. L’individuo è maturo quando sul piano cognitivo, linguistico, affettivo, sociale non ha più le caratteristiche infantili (guidamaturita.it).

Durante la fase dell’età evolutiva, le figure genitoriali assumono un’importanza centrale nello sviluppo degli individui. Come suggerisce la Teoria dell’Attaccamento, il bambino costruisce la propria rappresentazione di sé, dell’altro e del mondo esterno sulla base delle interazioni ripetute con le principali figure d’accudimento; è per questo che i genitori hanno una fondamentale importanza nell’organizzare la personalità del bambino.

In sostanza, la genitorialità e l’età evolutiva rappresentano due momenti del ciclo di vita fortemente interconnessi e interagenti tra loro. I due individui in gioco, il genitore e il bambino, seppur distinti nella loro individualità personale e di ruolo, sono considerati in ugual misura attivi partner co-costruttori della stessa interazione.

Si viene a creare, così, una circolarità di influenzamenti e di adattamenti reciproci, che rendono la diade genitore-bambino o la triade mamma-papà-bambino fortemente interdipendenti. Infatti, la funzione genitoriale, così come esercitata dal genitore, può avere molteplici influenze sia sullo sviluppo della prole in generale che sulla modalità in cui verrà interiorizzata ed esercitata a sua volta la funzione genitoriale dei figli. Allo stesso modo, lo sviluppo e le caratteristiche del figlio hanno degli effetti importanti sulle modalità di assunzione della funzione genitoriale e dell’integrazione di questo ruolo nella propria identità globale di adulto.

Detto questo, è facile comprendere come una genitorialità disturbata possa correlarsi con l’eventuale evoluzione patologica dei figli (genitorialita.it). Mentre una

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genitorialità valida e competente - scrive il Prof. Villanova - è in grado di offrire al bambino e all’adolescente, la possibilità di percepirsi come essere separato, con una propria individualità, e lo sostiene, o dovrebbe sostenerlo, nel percorso di valorizzazione e conoscenza delle sue risorse e caratteristiche personali.

“In sintesi - conclude Villanova - l’adulto competente è colui che: incoraggia l’autostima; favorisce la presa di coscienza dei bisogni e dei desideri e delle loro possibilità concrete di realizzazione; aiuta a distinguere tra un sogno o meta idealizzata e la costruzione di un progetto concreto, garantendo la possibilità di sostegno in caso di richiesta o di necessità e arginando le fughe in avanti o i ripiegamenti passivizzanti e deresponsabilizzanti” (Villanova M., 2008, pag. 192). I bambini sono le vittime maggiormente colpite dagli effetti del Mobbing Secondario. Le piccole vittime di questo fenomeno sono tutte accomunate da gravi carenze nelle relazioni con le figure genitoriali, da una immagine negativa di sé, da sfiducia, incertezza e fragilità emotiva.

Un’analisi superficiale delle reazioni psicologiche negative messe in atto dalla prole può indurre a sottovalutare i segnali di disagio e può far apparire il percorso evolutivo quasi normale, facendo pensare a cadute e carenze solo in alcune aree dello sviluppo. Si rischia, in questi casi, di interpretare in modo errato quei comportamenti e sintomi che, soprattutto nelle fasi iniziali, si presentano in forma lieve e variano al mutare della situazione familiare. Anche perché genitori violenti e trascuranti (nel nostro caso genitori vittime di Mobbing) spesso assumono essi stessi atteggiamenti contraddittori verso i figli, i quali diventano oggetto a volte di odio, altre volte di amore e di attenzioni (Di Blasio P., 2000, pag. 10).

Il tentativo di questo lavoro è quello di portare l’attenzione sulle conseguenze psicologiche che il Mobbing

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Secondario può determinare sulla prole in età evolutiva, nella prospettiva di contribuire a far emergere le difficoltà nelle quali può imbattersi un bambino in un contesto dove il genitore, a causa del Mobbing subìto, risulta assente, distante, poco comunicativo o eccessivamente presente e invadente.

I disturbi ricorrenti, generati da queste dinamiche familiari, possono essere così riepilogati: 1) disturbi dell’apprendimento; 2) disturbi del linguaggio; 3) disturbi dell’evacuazione; 4) disturbi della condotta alimentare; 5) disturbi del sonno; 6) disturbi dell’umore; 7) disturbi d’ansia; 8) disturbo borderline di personalità; 9) disturbi da deficit dell’attenzione e da comportamento dirompente; 10) altri disturbi del comportamento.

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Cap. III 1. Premessa

I disturbi presi in considerazione per l’analisi riguardante la Tesi possono essere ricondotti ad una pluralità di cause: fattori genetici, deficit intellettivi o motori, fattori ambientali, ecc.; i disturbi ai quali faremo riferimento nel corso della trattazione sono riferibili a cause ambientali, e più precisamente a fattori che vengono generati in ambiente familiare e che producono deprivazioni affettive, carenze di stimoli, mancanza di comunicazione, episodi stressanti o traumatizzanti ed ogni altro evento capace di alimentare disagio all’interno del nucleo familiare.

I disturbi indicati non sono da sottovalutare, perché la loro insorgenza nella prole in età evolutiva produce effetti negativi non solo in ambiente familiare, ma pure nei rapporti di socializzazione. Essi rappresentano una fonte di disagio e di imbarazzo e spingono il soggetto colpito a vergognarsi e ad evitare luoghi e situazioni dove possono essere messi in difficoltà, limitando così le loro possibilità di frequentazione e di socializzazione.

Per elencare i disturbi e per elaborarne l’analisi abbiamo fatto riferimento al DSM IV, un “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali” che è tra i più utilizzati in campo medico, psicologico e psichiatrico.

Il Manuale è uno strumento di diagnostica descrittiva; la sua struttura segue un sistema multi assiale e divide i disturbi in cinque ASSI, così ripartiti:

• I ASSE: diagnosi di base: disturbi clinici, temporanei o permanenti;

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• II ASSE: eventuali diagnosi associate;

• III ASSE: condizioni mediche di salute fisica;

• IV ASSE: condizioni psicosociali ed ambientali che contribuiscono al disordine;

• V ASSE: valutazione globale del funzionamento.

Questa breve parentesi sulla strutturazione del DSM IV è

ritenuta necessaria per illustrare il metodo di ricerca utilizzato nell’individuazione della serie di disturbi trattati. Risulta palese il fatto che sia stata prestata particolare attenzione al IV ASSE del Manuale, che ci ha permesso di individuare e selezionare i disturbi causati da eventi riconducibili a condizioni psicosociali ed ambientali che si sviluppano in un contesto familiare caratterizzato dalla presenza di un soggetto mobbizzato.

Fatta questa premessa, passiamo ad elencare ed analizzare, nelle pagine che seguono, ogni singolo disturbo. 2. Analisi dei Disturbi 2.1 Disturbi dell’Apprendimento

La mancanza di una corretta comunicazione intrafamiliare e le carenze riguardanti la sfera affettiva sono fattori che, nella prole in età evolutiva, possono influenzare negativamente lo sviluppo dell’autostima e possono provocare senso di inadeguatezza di fronte alle richieste scolastiche e demotivazione ad apprendere. Disturbi, dunque, la cui origine non è solo riconducibile alla presenza di patologie quali

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sofferenza cerebrale, alterazione delle percezioni, ritardo mentale, problemi di lateralizzazione.

I disturbi dell’apprendimento vengono diagnosticati quando i test standardizzati, somministrati individualmente, su lettura, calcolo o espressione scritta, consegnano un risultato significativamente al di sotto di quello previsto in base all’età, all’istruzione e al livello di intelligenza.

I problemi di apprendimento interferiscono in modo significativo sul rendimento scolastico e sulle attività della vita quotidiana che richiedono capacità di lettura, di calcolo o di scrittura; essi, infatti, concorrono a creare nei minori situazioni di demoralizzazione, scarsa autostima e deficit nelle capacità relazionali.

I disturbi dell’apprendimento sono: dislessia, disgrafia, discalculia e disortografia. Nel dettaglio:

• Dislessia o disturbo della lettura, si manifesta quando il livello di capacità di leggere raggiunto (cioè, precisione, velocità, o comprensione della lettura misurate da test standardizzati somministrati individualmente) risulta ridotto rispetto a quanto sarebbe adeguato all'età cronologica del soggetto, ovviamente le difficoltà di lettura non devono dipendere da alterazioni neurologiche o deficit sensoriale o intellettivo. Il dislessico ha difficoltà nel passaggio dalla percezione del simbolo grafico alla comprensione del suo significato. Sul piano clinico è possibile notare che esso è caratterizzato dalla confusione tra lettere e sillabe con suono simile.

• Discalculia o disturbo del calcolo, la caratteristica principale del Disturbo del Calcolo è una capacità di calcolo (misurata con test standardizzati somministrati individualmente sul calcolo o sul ragionamento

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matematico) che si situa sostanzialmente al di sotto di quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto ed in assenza di alterazioni neurologiche o difetti riguardanti le capacità intellettive. Si possono riscontrare lentezza, confusione nei concetti numerici o incapacità di contare con precisione.

• Disgrafia o disturbo dell’espressione scritta, è una capacità di scrittura (misurata con un test standardizzato somministrato individualmente o con una valutazione funzionale delle capacità di scrittura) che si situa sostanzialmente al di sotto di quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto, in assenza di alterazioni neurologiche o deficit intellettivi. Si può presentare come difficoltà nella lettura dei simboli con conseguente grafia irregolare e spesso poco comprensibile.

• Disortografia è la difficoltà a tradurre correttamente i suoni che compongono la parola in simbolo grafici, non imputabile ad alterazioni neurologiche o deficit intellettivi. Si presenta con errori riconducibili a confusione tra fonemi (es., F e V), confusione tra grafemi simili (es., p e b), omissioni di parti della parola (es., tavolo e taolo), inversioni delle sillabe nella parola (tavolo e talovo).

2.2 Disturbi del Linguaggio

La caratteristica principale dei disturbi specifici del linguaggio è una compromissione dello sviluppo del linguaggio espressivo. Le difficoltà di linguaggio interferiscono con i risultati scolastici e con la comunicazione sociale, e in futuro creano problemi anche in campo lavorativo. Come effetto del Mobbing sulla prole, fra questi disturbi abbiamo individuato la balbuzie.

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Come ben sappiamo, la balbuzie è un difetto nell’emissione della parola, e si presenta con alterazioni del flusso e della cadenza, ripetizione o prolungamento di vocali o consonanti e sillabe (es. ta ta ta tavolo). In relazione al blocco, la balbuzie si presenta sotto diverse forme:

• balbuzie tonica: quando, dopo una difficoltà iniziale con prolungamenti del suono, la parola viene pronunciata in modo improvviso ed esplosivo;

• balbuzie clonica: caratterizzata da ripetizioni del fonema iniziale oppure dell’intera parola;

• balbuzie mista: quando sono presenti sia la forma tonica che quella clonica con prolungamenti e ripetizioni;

• balbuzie palilalica: quando il soggetto ripete spasmodicamente una sillaba non attinente alla frase che si vuole pronunciare. La consapevolezza della balbuzie coinvolge la sfera

emotiva del soggetto e complica diverse altre manifestazioni di disagio: ansia, frustrazione, stress, fobie, senso di inferiorità; il difetto, inoltre, può portare a reazioni vasomotorie quali tachicardia, dispnea e sudorazione.

E’ evidente il collegamento con un ambiente interessato dal Mobbing, ed è altrettanto evidente come un nucleo familiare che ospita al suo interno un individuo vittima di Mobbing non può che provocare e/o aggravare il problema. Non a caso la foniatra francese Suzanne Borrel afferma che nel balbuziente c’è sempre una componente psicologica caratterizzata da fragilità emotiva nella relazione sociale. 2.3 Disturbi dell’Evacuazione

Questo disturbo è legato al controllo degli sfinteri, uretrale ed anale.

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La maturazione fisiologica ha un ruolo fondamentale nell’acquisizione del controllo sfinterico; il raggiungimento della maturazione fisiologica, però, non è il solo fattore da prendere in considerazione, perché accanto ad essa esistono fattori legati al contesto socioculturale nel quale vive il minore.

Alcune ricerche hanno dimostrato che, anche se è stato acquisito un corretto controllo fisiologico degli sfinteri, fattori come mancanza di affettività, pressioni sociali, ansia, stress e carenze igieniche possono portare ad una regressione, dando luogo al verificarsi di fenomeni di enuresi ed encopresi.

• Enuresi: ripetuta emissione di urine incontrollata o voluta, durante il giorno o di notte, nel letto o nei vestiti.

• Encopresi: ripetuta evacuazione di feci in luoghi inappropriati, per esempio, nei vestiti o sul pavimento.

I fattori psicologici sono quelli più frequentemente riconosciuti come causa del disturbo. Spesso questi disturbi si manifestano dopo episodi vissuti dal minore con disagio, dopo momenti di crisi o situazioni di abbandono (reali o immaginate), per effetto di frustrazioni ed ansia conseguenti ad eventi traumatici.

Attraverso l’enuresi e l’encopresi, il bambino attua una sorta di protesa, attraverso la quale tenta di “ricatturare” su di sé l’attenzione di un adulto, che egli vive come distante affettivamente o addirittura assente. 2. 4 Disturbi della Condotta Alimentare

I disturbi dell’alimentazione sono caratterizzati dalla presenza di alterazioni del comportamento alimentare.

Le cause dell’insorgere di tali disturbi sono diverse: il desiderio, sempre più presente nel modo di vivere del nostro tempo, di attenersi a specifici canoni di bellezza che spesso privilegiano la magrezza; una malattia, che ha come conseguenza un drastico dimagrimento; un evento stressante, che sconvolge l’equilibrio psicofisico del soggetto.

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In quest’ultima causa rientrano i disturbi alimentari che nascono - o si amplificano - come effetto di un ambiente familiare caratterizzato dalla presenza di un coniuge vittima di Mobbing. Infatti, in un contesto familiare teso, il cibo può assumere diversi significati: in presenza di un genitore mobbizzato, l’abitudine del “mangia e taci” è molto frequente ed è utilizzata come forma di allontanamento e di distacco da parte del genitore nei confronti del figlio; a questa abitudine spesso si associa pure quella di demandare alla televisione il compito di intrattenere il bambino. Proprio in funzione di questo particolare “uso”, il cibo diventa un mezzo al quale il bambino ricorre per inviare messaggi (di conferma o di rifiuto) alle figure genitoriali.

La letteratura concorda nella descrizione di caratteristiche particolari nella famiglia delle anoressiche, dove sembra molto frequente un’organizzazione piuttosto rigida e dove la figura predominante è quella materna, soprattutto per quanto riguarda l’ambito familiare e la cura dei figli (Fagiani M. B., 2006, pag 128). “Si tratta sovente di donne che hanno rinunciato ad attività extrafamiliari o avanzamenti di carriera per cui, invece, avevano capacità e basi culturali e che si sentono frustrate da queste rinunce volontarie o meno”, scrive Fagiani, la quale aggiunge: “Esse compenserebbero questo insoddisfacente stato di cose concentrando le loro cure sulle figlie alle quali dedicherebbero ogni attenzione, ma che considererebbero loro proprietà, mal tollerando aspirazioni all’indipendenza”.

E nelle pagine precedenti abbiamo anche visto che, fra le possibili conseguenze del Mobbing in ambito lavorativo, ci sono proprio la rinuncia ad attività extrafamiliari (dimissioni) ed i mancati avanzamenti di carriera. In questa ottica, la scorretta utilizzazione del cibo esprime un disagio, all’interno del quale il cibo stesso diventa veicolo di comunicazione.

Nella classificazione dei disturbi alimentari sono comprese due categorie specifiche: l’anoressia nervosa e la

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bulimia nervosa. Caratteristica essenziale, comune ad entrambe le categorie, è la presenza di una alterata percezione del peso e della propria immagine corporea.

• Anoressia Nervosa: si manifesta attraverso un rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra del peso minimo normale considerato per età e per altezza, oppure incapacità di raggiungere il peso previsto durante il periodo della crescita in altezza. L’inizio dell’anoressia è solitamente graduale e, rimanendo nel campo d’indagine riguardante la nostra Tesi, il disturbo può nascere come forma di protesta nei confronti dei genitori, e quindi come conseguenza di una condizione di disagio vissuta all’interno dal nucleo familiare. La perdita di peso è controllata attraverso la riduzione della quantità di cibo ingerita. Il peso può anche essere tenuto sotto controllo mediante condotte di eliminazione, come il vomito autoindotto e l’uso di lassativi e diuretici, oppure attraverso eccessiva attività fisica.

• Bulimia Nervosa: si manifesta con la presenza di abbuffate e metodi inappropriati e compensatori per prevenire l’aumento di peso. Per abbuffata si intende una condotta alimentare che si verifica attraverso l’ingestione, in un determinato periodo di tempo, di una quantità di cibo più grande rispetto a quanto la maggioranza degli individui assumerebbe in circostanze simili. Per essere diagnosticato come bulimico, il soggetto deve presentare un minimo di due episodi di abbuffate e di comportamenti compensatori inappropriati alla settimana, per un periodo di tempo di almeno tre mesi. Caratteristica frequente, come nell’Anoressia, è il ricorso a inappropriati comportamenti compensatori per neutralizzare gli effetti dell’abbuffata; tra questi, quello

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più frequentemente utilizzato è il ricorso al vomito autoindotto.

2.5 Disturbi del Sonno

I disturbi si riscontrano quando il sonno fisiologico non si manifesta nella sua forma corretta e possono derivare da varie cause. E’ però dimostrato come l’insorgere di tali disturbi sia frequente in soggetti che presentano sintomi di ansietà e depressione dovuti, generalmente, a problemi interpersonali, sociali e lavorativi. Ecco perché abbiamo inserito i disturbi del sonno nell’elenco delle problematiche che possono interessare i bambini come effetto del Mobbing vissuto da uno dei genitori e riportato in famiglia.

La misurazione delle fasi del sonno avviene attraverso l’uso di strumenti che effettuano il monitoraggio dei parametri elettrofisiologici durante il sonno.

Nel sonno fisiologico le fasi REM (Rapid Eye Movimenti, caratterizzato da attività elettrica rapida, come rapidi risultano i movimenti oculari, e da rilassamento del tono muscolare; in questa fase si manifesta l’attività di sogno) si alternano a quelle del NONREM (detto anche calmo), di modo che ad una fase NREM segue una fase REM. I disturbi si distinguono in dissonnie e parasonnie.

• Dissonnie: sono disturbi primari dell’inizio o del mantenimento del sonno, oppure disturbi dovuti ad eccessiva sonnolenza. Sono caratterizzate da un’alterazione della quantità, della qualità o della sequenza temporale del sonno. Vi sono tre principali tipi di dissonnie: 1) Insonnia Primaria: si manifesta con la difficoltà ad iniziare o a mantenere il sonno, oppure con la presenza di un sonno non-ristoratore; 2) Disturbi dell’addormentamento: sono molto frequenti nell’infanzia e si manifestano attraverso

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il rifiuto dell’andare a dormire, con la conseguente messa in atto di strategie mirate a tergiversare al momento di coricarsi (esempio: attraverso la richiesta di addormentarsi in compagnia di un genitore, dopo la lettura di una favola o dopo rituali vari); 3) Ipersonnia Primaria: è un eccesso di sonnolenza che può esprimersi con episodi di sonnolenza diurni, prolungato sonno notturno, difficoltà nel risveglio.

• Parasonnie: sono disturbi caratterizzati da comportamenti anomali o da eventi fisiologici che si manifestano durante il sonno. Sono inclusi nelle parasonnie: 1) Disturbo da Incubi: la caratteristica è il ripetuto manifestarsi di sogni terrificanti che portano ad un brusco risveglio; 2) Disturbo da Terrore nel Sonno: è una manifestazione ripetuta di terrore nel sonno, caratterizzata da bruschi risvegli che cominciano di solito con un grido di paura o con un pianto; 3) Sonnambulismo: ripetizione di episodi di comportamento motorio durante il sonno, come il sollevarsi dal letto e il deambulare nelle vicinanze.

2. 6 Disturbi dell’Umore

La possibilità del riscontro di disturbi dell’umore in età evolutiva è stata a lungo oggetto di controversie, soprattutto per quanto riguarda l’età infantile. Oggi è riconosciuta la presenza di alterazioni dell’umore, soprattutto quelle che fanno parte della polarità depressiva, anche in età adolescenziale e infantile, e con caratteristiche - almeno per quanto riguarda i sintomi - pressoché sovrapponibili a quelle che si riscontrano in età adulta, tanto che il DSM IV ne fornisce un’unica descrizione e classificazione nosografica, limitandosi a sottolineare quei sintomi che si riscontrano con particolare frequenza o specifiche

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modalità nel bambino e nell’adolescente (Fagiani M. B., 2006, pag. 171-172).

I disturbi hanno come caratteristica predominante alterazione dell’umore e alterazioni della sfera affettiva. Essi sono suddivisi in “episodi” e “disturbi”. Si parla di “episodi” quando vi è la presenza continuativa di un determinato sintomo, per un certo periodo di tempo; si parla invece di “disturbi”, quando nella storia clinica del soggetto è presente uno o più episodi. Inoltre, vengono a loro volta suddivisi in disturbi depressivi (unipolari) e disturbi depressivi bipolari.

I disturbi dell’umore sono diversi, differenti per gravità, temporalità e modalità di intervento. Nel proseguire il lavoro, seguiamo la classificazione presente all’interno del DSM IV. Episodi di Alterazione dell’Umore:

• Episodio Depressivo Maggiore: costituisce un fatto transitorio, e la caratteristica essenziale è la depressione dell’umore, o perdita di interesse o di piacere verso quasi tutte le attività; il disturbo deve protrarsi per un periodo di tempo di almeno 2 settimane. Nei bambini e negli adolescenti l’umore può essere irritabile anziché triste; possono emergere alterazioni dell’appetito, alterazioni del sonno, continuo senso di stanchezza, facile stancabilità, agitazione o rallentamento psicomotorio, frequenti pianti, difficoltà di concentrazione.

• Episodio Maniacale: è definito da un periodo durante il quale vi è un umore anormalmente e persistentemente elevato, espanso o irritabile. Questo periodo deve durare almeno una settimana. Nell’età evolutiva, all’episodio si accompagnano problemi a livello scolastico e nei rapporti interpersonali.

• Episodio Misto: è caratterizzato da un periodo di tempo, di almeno una settimana, durante il quale risultano soddisfatti i criteri sia per l’Episodio Maniacale che per l’Episodio Depressivo Maggiore quasi ogni giorno.

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• Episodio Ipomaniacale: è definito come un periodo distinto durante il quale è presente un umore persistentemente elevato, espanso o irritabile che dura almeno 4 giorni. Negli adolescenti gli episodi ipomaniacali possono essere associati con assenteismo da scuola, comportamento antisociale, insuccesso scolastico o uso di sostanze.

Disturbi Depressivi: • Disturbo Depressivo Maggiore: caratterizzato da uno o

più Episodi Depressivi Maggiori. Può esordire ad ogni età, con un’età media intorno ai 25 anni. Nei bambini prepuberi, maschi e femmine sono ugualmente affetti.

• Disturbo Distimico: è un umore cronicamente depresso, presente per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, accertato per un periodo di almeno 2 anni. Nei bambini la durata minima richiesta è solo di un anno; il disturbo spesso determina una bassa autostima e compromissioni delle prestazioni scolastiche e delle interazioni sociali; l’umore può essere irritabile anziché depresso, e sovente prevale il pessimismo.

Disturbi Depressivi Bipolari: • Disturbo Bipolare I: caratterizzato da un decorso clinico

con la presenza di uno o più Episodi Maniacali o Episodi Misti.

• Disturbo Bipolare II: caratterizzato da un decorso clinico con uno o più Episodi Depressivi Maggiori accompagnati da almeno un Episodio Ipomaniacale.

• Disturbo Ciclotimico: è un’alterazione dell’umore cronica fluttuante, con numerosi periodi con sintomi ipomaniacali e numerosi periodi con sintomi depressivi.

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2.7 Disturbi d’Ansia

L’ansia è un fenomeno esclusivamente psichico, e le situazioni di ansia che investono il nucleo familiare finiscono per creare comportamenti ansiosi anche nella prole in età evolutiva.

Per ansia si intende l’anticipazione apprensiva di un pericolo o di un evento negativo futuri, accompagnata da sentimenti di disforia o da sintomi fisici di tensione. Gli elementi esposti a rischio possono appartenere sia al mondo interno che al mondo estero.

I disturbi d’ansia generano nei bambini sentimenti di oppressione, associati a sentimenti di attesa verso avvenimenti (reali o inventati) vissuti come spiacevoli. L’angoscia nei bambini trova espressione attraverso il corpo, sotto forma di sintomi somatici (cefalea, vomito, dolori addominali o degli arti) oppure sotto forma di diminuzione delle capacità di attenzione (distrazione, svogliatezza).

A partire dalla preadolescenza, verso gli undici/dodici anni, l’angoscia si esprime attraverso crisi di collera, atteggiamenti di continue richieste, alterazioni comportamentali.

I disturbi d’ansia che compaiono nei bambini in età evolutiva sono simili ai disturbi che compaiono negli adulti, tant’è vero che nel DSM IV sono descritti senza distinzione tra le loro manifestazioni in età evolutiva ed in età adulta. Fra i disturbi “diagnosticati nell’infanzia, nella fanciullezza e nell’adolescenza”, trovano posto solo alcuni specifici disturbi d’ansia, che si manifestano, appunto, solo in età evolutiva (Fagiani M. B., 2006, pag. 157). Solo che nei bambini questi disturbi assumono caratteristiche specifiche, come le preoccupazioni relative alle prestazioni o alla preparazione a scuola o negli eventi sportivi, anche quando la prestazione non deve essere valutata da altri.

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Nel caso in cui il disturbo insorga in età infantile, i bambini presentano tipicamente paure specifiche legate alla loro età; paure associate, cioè, ad oggetti che fanno parte della loro quotidianità.

Esempio di alcune paure tipiche associate alle diverse età (Sanavio E., Cornoldi C., 2001, pag 80): - otto mesi - due anni: ansia da separazione dalla mamma o dalla persona che si prende cura del bambino; - due - quattro anni: paura degli animali e del buio; - quattro - sei anni: paura dei fantasmi, dei mostri, di suoni strani durante la notte; - sei - tredici anni: timore di essere attaccati, feriti; timore di morte e catastrofi; - adolescenza: paura di non essere accettati dagli altri. I principali disturbi presi in considerazione per il nostro lavoro sono:

• Disturbo d’Ansia da Separazione. L’ansia riguarda in modo prevalente la separazione da casa e dalle figure di attaccamento. Il disturbo può assumere entità tale da provocare disagio significativo e problemi a livello relazionale, di rapporto con l’ambiente. E’ frequente la richiesta di continue attenzioni sollecitate all’adulto. Tipica è la richiesta di non voler andare a scuola, per eliminare la paura di separarsi dal genitore. I soggetti presentano difficoltà nell’addormentamento e alterazioni del sonno; possono avere incubi il cui contenuto esprime le paure del soggetto stesso, per esempio la distruzione della famiglia.

• Disturbo Reattivo dell’Attaccamento. E’ una modalità di relazione sociale, notevolmente disturbata e inadeguata rispetto al livello di sviluppo, che si manifesta in una serie di condotte volte a mantenere la vicinanza con la figura genitoriale di riferimento. La mancanza che vive il bambino non è solo fisica, ma anche affettiva, emotiva;

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questo si verifica quando il genitore non risulta sufficientemente attento ai bisogni del bambino, o è discontinuo nelle sue cure. Esistono due tipi di sintomatologia clinica: 1) Tipo Inibito; il bambino è incapace di porsi in relazione con gli altri; si mostra eccessivamente inibito, ipervigile, o altamente ambivalente, cioè presenta comportamenti che rivelano desiderio di stabilire relazioni, ma nello stesso tempo tende ad evitare il rapporto interpersonale; 2) Tipo Disinibito; vi è una modalità di attaccamento diffuso; il bambino si mostra eccessivamente socievole con mancanza di selettività nella scelta delle figure di attaccamento.

• Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Sono ossessioni o compulsioni ricorrenti ed eccessive, talora riconosciute come irragionevoli, ma accompagnate da un vissuto di angoscia. Le ossessioni sono idee, pensieri, impulsi o immagini persistenti, vissute come intrusive e inappropriate, e causano ansia o disagio marcati. Frequenti sono le ossessioni del dubbio: aver fatto o non fatto qualcosa (esempio: spento il televisore). Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi (cioè lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (per es., pregare, contare) il cui obbiettivo è quello di prevenire o ridurre l’ansia o il disagio, e non quello di fornire piacere o gratificazione. Nell’infanzia sono piuttosto rare le idee ossessive, mentre sono prevalentemente presenti le compulsioni. Sono, infatti, molto comuni abitudini (come ad es: dormire con un pupazzetto, guardare sotto al letto prima di coricarsi) note come “rituali dell’addormentamento”, messi in atto con lo scopo di compensare l’ansia, quasi con funzione controfobica.

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• Disturbo Post-traumatico da Stress. E’ lo sviluppo di sintomi tipici che seguono l’esposizione ad un fatto traumatico estremo che implica l’esperienza personale diretta o di un’altra persona. I sintomi includono il continuo rivivere l’evento traumatico e l’evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma. L’evento traumatico può essere rivissuto in vari modi, attraverso ricordi intrusivi dell’evento o sogni sgradevoli. I sintomi devono avere una certa durata e possono presentarsi anche dopo un tempo relativamente lungo dopo l’evento traumatico. Nei bambini più piccoli, i sogni spiacevoli riguardanti l’evento possono, nel giro di alcune settimane, trasformarsi in incubi generalizzati con mostri, con salvataggi o con minacce per sé o per altri. I bambini piccoli, di solito, non hanno la sensazione di rivivere il passato; piuttosto il rivivere il trauma si manifesta attraverso un gioco ripetitivo: per esempio, se sono frequenti le liti violente in famiglia, egli, attraverso il gioco, metterà in scena ripetutamente giocattoli simbolo delle figure genitoriali che litigano.

• Disturbo d’Ansia Generalizzato. E’ la presenza di ansia e preoccupazione eccessive che si manifestano per la maggior parte del tempo per almeno 6 mesi, nei riguardi di una quantità di eventi o attività. Nei bambini il disturbo può insorgere spesso dopo circostanze quotidiane vissute negativamente, e causa preoccupazione eccessiva per la puntualità, per la preparazione scolastica o sportiva, per eventi catastrofici come terremoti o guerre nucleari.

2.8 Disturbo Borderline di Personalità

E’ descritto dal DSM IV all’interno dei Disturbi di Personalità. Le caratteristiche essenziali del disturbo sono una

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modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’autostima e dell’umore, e una marcata impulsività, che iniziano nella prima età adulta.

Il disturbo è interessante dal punto di vista della psicologia dell’età evolutiva, perché le sue prime manifestazioni, visibili nella prima età adulta, possono cominciare a presentarsi e strutturarsi nel periodo adolescenziale. Gli individui con Disturbo Borderline compiono sforzi enormi per evitare abbandoni reali o immaginati, e sono oppressi dalla percezione della separazione o del rifiuto imminenti.

Nei bambini è frequente la convinzione che la conseguenza di tali abbandoni sia dovuta al fatto che essi sono “cattivi”. Il timore dell’abbandono è correlato all’intolleranza dello stare soli, e ad una necessità di avere le persone vicino a loro. Spesso è presente un disturbo dell’identità caratterizzato da un’immagine di sé o da una percezione di sé instabile, con alternanza tra estremi di iperidealizzazione e svalutazione; inoltre è presente impulsività che si può manifestare in abuso di sostanze o comportamenti alimentari abnormi. In questi soggetti è stato pure osservato il passaggio dall’idealizzare allo svalutare rapidamente le altre persone, sentire che l’altra persona non si occupa abbastanza di loro, non dà abbastanza, non è abbastanza “presente”.

L’abuso fisico, l’incuria, il conflitto ostile o la separazione dei genitori, nelle storie infantili di persone con Disturbo Borderline di Personalità, sono fra i più comuni eventi vissuti in famiglia; e siccome abuso fisico, incuria, conflitto ostile e separazione dei genitori potrebbero scaturire da una situazione di disagio vissuta all’interno della famiglia, ecco effettuato il collegamento fra il Mobbing e gli effetti sull’età evolutiva.

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2.9 Disturbo da Deficit dell’Attenzione e da Comportamento Dirompente

Si riferiscono a comportamenti che vedono nel bambino uno scarso controllo nel mantenere l’attenzione e nello stesso tempo nel controllare il grado della propria attività.

Nei sistemi di classificazione classici, i disturbi di attenzione/iperattività (DDAI) e i disturbi della condotta (DC) vengono spesso considerati separatamente; ma è possibile che in molti casi si verifichi una comorbidità, ossia la presenza di entrambi gli aspetti; comorbidità che non è casuale, ma che è frutto di una interazione: l’uno è spesso causa dell’altro.

Sono compresi sotto questa definizione il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, il disturbo della condotta, il disturbo oppositivo provocatorio. Nel dettaglio:

• Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività. E’ una persistente modalità di disattenzione e/o iperattività-impulsività, che interferisce con il funzionamento sociale, scolastico o lavorativo. La disattenzione può manifestarsi attraverso il non riuscire a prestare o mantenere l’attenzione su attività, compiti, lavori e persino giochi; sono frequenti errori di distrazione e il risultato è spesso disordinato e svolto senza cura. L’iperattività può manifestarsi attraverso attività motoria eccessiva, agitandosi e dimenandosi sulla propria sedia, non restando seduti quando si dovrebbe, correndo ecc. L’impulsività si manifesta con l’impazienza, la difficoltà a tenere a freno le proprie reazioni, “sparando” le risposte prima che le domande siano state completate, con difficoltà ad attendere il proprio turno e interrompendo spesso gli altri, fino al punto di causare difficoltà nell’ambiente sociale, scolastico o lavorativo.

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• Disturbi della Condotta. La caratteristica fondamentale del disturbo è una modalità di comportamento ripetitiva e persistente in cui i diritti fondamentali degli altri, oppure le norme o le regole della società appropriate per l’età adulta, vengono violate. Questi comportamenti si inseriscono in quattro gruppi: 1) condotta aggressiva che causa o minaccia danni fisici ad altre persone o ad animali; 2) condotta non aggressiva che causa perdita o danneggiamento della proprietà; 3) frode o furto; 4) gravi violazioni di regole. Sono stati distinti due sottotipi di Disturbo della Condotta a seconda dell’età all’esordio del disturbo: 1) tipo con Esordio nella Fanciullezza, con esordio prima dei 10 anni di età; 2) tipo ad Esordio nell’Adolescenza, in cui non è presente alcun sintomo del disturbo prima dei 10 anni di età. Nei bambini e negli adolescenti, i disturbi della Condotta spesso innescano comportamento aggressivo e reagiscono aggressivamente contro gli altri. Essi possono mostrare un comportamento prepotente, minaccioso o intimidatorio; dare inizio frequentemente a colluttazioni fisiche; usare un’arma che può causare seri danni fisici; essere fisicamente crudeli con le persone o con gli animali; rubare affrontando la vittima; oppure forzare un’altra persona all’attività sessuale.

• Disturbo Oppositivo Provocatorio. La caratteristica fondamentale del disturbo è una modalità ricorrente di comportamento negativistico, provocatorio, disobbediente ed ostile nei confronti delle figure dotate di autorità. Il bambino o l’adolescente colpito dal disturbo esterna spesso manifestazioni di collera rivolte verso coetanei o adulti, litiga, sfida, rifiuta di rispettare le regole degli adulti, irrita deliberatamente le persone, accusa gli altri

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per i propri errori o il proprio cattivo comportamento, è dispettoso, vendicativo, suscettibile, arrabbiato e rancoroso. La presenza di problemi scolastici è una caratteristica centrale di questo disturbo, dal momento che sono presenti comportamenti disturbanti e distruttivi in classe, che interferiscono con l’apprendimento e compromettono i risultati scolastici.

2.10 Altri Disturbi del Comportamento

Non sono vere e proprie patologie, ma esprimono disagio e disadattamento attraverso comportamenti più o meno leciti e più o meno autolesionistici. Essi si manifestano tramite menzogna, fuga, furto, bullismo e condotte autolesionistiche.

• Menzogna: azione attraverso la quale il soggetto altera volontariamente la verità. A seconda delle modalità, della situazione e dei meccanismi psichici che la determinano, si distinguono diversi tipi di menzogna: 1) menzogna utilitaristica: per ottenere vantaggi ed evitare una situazione ritenuta pericolosa o negativa; 2) menzogna compensatoria: spesso utilizzata per fornire un’immagine di sé più valorizzata e gratificante; 3) menzogna di tipo mitomanico: il soggetto attribuisce a sé ruoli esageratamente positivi o negativi.

• Fuga: allontanamento volontario dal proprio domicilio, o da altro luogo in cui il bambino dovrebbe essere normalmente. In genere la fuga è utilizzata come risposta ad eventi particolarmente frustranti, quali, litigi dei genitori, mancata attenzione verso i bisogni del bambino, paure di rimproveri ecc.; esistono le sottospecie di “fughe da…” e “fughe verso…”.

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• Furto: nell’infanzia è espressione di un disagio che ha radici nei nuclei conflittuali e nei nuclei caratterizzati da carenze affettive. L’oggetto rubato soddisfa un desiderio a livello cosciente, ma soprattutto costituisce compensazione per le carenze genitoriali vere o presunte.

• Bullismo: è equivalente al fenomeno che in ambiente di lavoro viene definito Mobbing. Anche questo disturbo può essere un effetto del cosiddetto Mobbing secondario, visto che il fenomeno è dovuto non solo a caratteristiche individuali e personali del bambino, ma anche e soprattutto a sistemi di interazione sociale e familiare (quale uno scarso rapporto tra genitore e figlio). Il ragazzo, subendo gli effetti del Mobbing trasferiti dal mobbizzato in ambiente familiare, è portato a mettere in atto gli stessi comportamenti che hanno fatto del genitore una vittima, quasi come una sorta di rivalsa, ubbidendo al desiderio di essere lui l’attore e il carnefice, e non la vittima. Il bullismo si esplica attraverso una condotta aggressiva e prepotente manifestata con costanza nel tempo; in questi casi, il bambino o l’adolescente attuano comportamenti aggressivi, fisici o psicologici nei confronti di una vittima o di un gruppo di persone, di animali o cose.

• Condotte autolesioniste: è il tentativo di rivolgere deliberatamente una lesione sul proprio corpo, tale da causare un danno a tessuti o organi. Nell’età evolutiva è espressione acuta di un disagio giovanile, che si trasforma in aggressività verso se stessi, e anche in questo caso alla base potrebbe esserci una richiesta di attenzione e di aiuto. Le condotte autolesionistiche possono andare da atti meno gravi, più superficiali, comunque dannosi per la persona (come mangiarsi le unghie, strapparsi i capelli come nella tricotillomania,

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mordersi le labbra), ad atti più gravi e pericolosi (il procurarsi ferite, tagli, bruciature), fino ad attuare sul proprio corpo vere e proprie mutilazioni. Spesso le condotte autolesionistiche si manifestano in concomitanza con altri disturbi psichici; in particolare, il disturbo è associato a sindromi maniaco depressive e disturbi del comportamento alimentare. Una delle più frequenti ed evidenti manifestazioni del disturbo è il ricorso a piercing e tatuaggi, il cui uso va ben oltre i concetti di “abbellimento” o “moda”. Spiega la psicologa Marangio che le motivazioni che spingono un giovane adulto del XX secolo a tatuare il proprio corpo o a forare la propria pelle sono state indagate da alcuni autori per risalire a motivazioni più profonde, come se il tatuaggio e il suo vero significato potessero riflettere il “mondo interno” del soggetto; ed i risultati conseguiti hanno portato alla conclusione che queste pratiche, per quanto discutibili, dovrebbero indurre a prestare più attenzione ai soggetti che, al di là delle mode e delle subculture, modificando radicalmente il loro aspetto, possono manifestare il loro disagio psichico (Marangio P., 2006, vertici.com).

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Cap. IV 1. Formazione e Prevenzione

“Per combattere qualcosa, dobbiamo prima imparare a conoscerlo”, dice il Dott. Mauri (Mauri A., osservatoriomobbing.org), e poi aggiunge: “Il punto di partenza per l’intervento sul Mobbing consiste in un profondo lavoro di sensibilizzazione dell’opinione pubblica”. L’opera formativa dovrebbe partire, ovviamente, dal posto di lavoro, per poi estendersi nelle scuole e nell’assistenza pubblica. Essa è necessaria per rendere le persone consapevoli del fenomeno.

Diverse ricerche dimostrano come le aziende che hanno formato i loro dipendenti abbiano ottenuto grandi vantaggi in termini di soddisfazione sul lavoro e di riduzione dei costi complessivi del personale. Nei luoghi dove è stata effettuata una campagna di informazione e di formazione, i lavoratori hanno mostrato più attenzione e più sensibilità rispetto a ciò che avviene sul posto di lavoro.

La formazione sul Mobbing, estesa ai vertici aziendali, è servita a migliorare i rapporti tra dirigenti e dipendenti ed è stato dimostrato che in più casi è stato registrato un netto cambiamento di atteggiamento nei confronti dei dipendenti vittime del fenomeno. D’altra parte, le spese che subisce l’azienda a causa di situazioni mobbizzanti sono notevoli, perché situazioni di Mobbing influiscono negativamente sulla produttività, non valorizzano adeguatamente le qualità dei lavoratori e disturbano l’atmosfera emotiva del posto di lavoro.

Per la formazione, il momento più complicato risulta essere l’inizio del Mobbing, quando, cioè, in presenza di conflitti quotidiani, è difficile stabilire se si tratta di inizio di Mobbing oppure di un episodio abituale, e dunque transitorio.

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E’ chiara, quindi, l’importanza attribuita alla prevenzione. Solo attraverso un intervento preventivo gli attori del Mobbing riconoscono le loro azioni e affrontano la situazione in cui possono venire a trovarsi.

Quando, invece, il Mobbing manifesta già i suoi effetti ed esplodono i sintomi della malattia, è necessario prendere consapevolezza di essere nel pieno del fenomeno. In questa fase il mobbizzato tende a percepire un crescente malessere e a cercare una soluzione presso le abituali strutture di assistenza, le quali, se non sono preparate, difficilmente riusciranno ad individuare le reali cause dei problemi dell’individuo.

Le aziende possono intervenire con un esperto del fenomeno (psicologo del lavoro) per mediare il conflitto sul posto di lavoro e portarlo ad una soluzione, creando nello stesso tempo una via di uscita adeguata per la vittima. Nelle fasi successive, quando la vittima avverte i sintomi psicosomatici, quando il Mobbing diviene di pubblico dominio ed hanno inizio errori e abusi da parte di soggetti terzi, quando alle vessazioni sul lavoro si aggiungono le incomprensioni che provengono dal nucleo familiare (Doppio Mobbing), e quando si entra nella fase finale, che culmina con l’esclusione dal mondo del lavoro, diventa necessaria la presenza di un medico specialista del fenomeno, esterno all’azienda, che si occupi non solo della salute psicofisica della vittima, ma che sia in grado di garantire il mantenimento della dignità del lavoratore.

Assistenza e formazione sono necessarie per tentare, nei casi estremi, il reinserimento nel mondo del lavoro. Fermo restando che l’assistenza deve essere continuamente mirata alla comprensione del Mobbing, perché solo attraverso la conoscenza del fenomeno è possibile apprendere una capacità di difesa efficace e riacquistare una completa sicurezza sul posto di lavoro.

Prevenire e combattere il Mobbing deve essere una prerogativa di qualsiasi livello aziendale, partendo dal basso fino

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ad arrivare ai quadri dirigenti; e quest’opera di prevenzione deve coinvolgere anche le strutture assistenziali esterne all’azienda.

Quanto detto sopra si riferisce prevalentemente al Mobbing in ambiente lavorativo, dove le disposizioni vigenti (Decreto legislativo 626/94, Misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori) assegnano al datore di lavoro e alle rappresentanze sindacali compiti preventivi di accertamento e di individuazione delle misure necessarie per il rispetto della legge ed il ripristino della legalità. Il Sindacato preferisce questa via, piuttosto che seguire la strada delle strutture esterne all’azienda, considerato pure il fatto che gli organismi paritetici nazionali, territoriali e di settore, voluti dalla 626/94 per svolgere il ruolo di promozione della cultura della prevenzione, una volta insediati, non hanno messo sufficiente convinzione nelle loro iniziative, e sono risultati, per questo, poco visibili, privi di efficacia, incapaci a farsi riconoscere dalle aziende e dai lavoratori come sedi dove trovare indirizzi e orientamento, dove risolvere conflitti e trovare sostegno.

C’è da dire che all’esterno del mondo del lavoro i centri antimobbing e i professionisti preparati sono ancora pochi. C’è da aggiungere, tuttavia, che associazioni e sindacati, soggetti pubblici e privati si stanno muovendo nell’ambito della prevenzione, per creare ambienti di lavoro a misura d’uomo.

Il Dott. Passanante afferma che la violenza dell’uomo sull’uomo è biblica. “Per la mia esperienza di educatore e psicoterapeuta, comincia addirittura nelle scuole dell’infanzia, quando qualche bambino prepotente usa la violenza fisica, le minacce o il ricatto sugli altri compagni...”. “Questo comportamento può essere considerato mobbing in nuce oppure soltanto un gioco di bambini innocenti, che contiene già però il seme della violenza?”. A scuola si chiama bullismo, nelle caserme nonnismo, all’università goliardia, conclude Passanante, il quale conferma: tutti gli ambienti, in vario modo e

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in modi naturalmente diversificati, risentono di rapporti conflittuali (Passanante E., psicologiasalute.it).

Eccoci giunti al Mobbing in ambiente diverso dal mondo del lavoro; in quegli ambienti, cioè, dove gli effetti perversi del fenomeno si manifestano non solo sul mobbizzato, ma coinvolgono i membri della famiglia, e dunque la prole in età evolutiva.

Anche in questa direzione, i centri di assistenza e di supporto contro il Mobbing sono pochi. E’ superfluo dire che l’intervento psicologico deve essere rivolto principalmente alla famiglia, che le informazioni e le indicazioni per una migliore comprensione dei sentimenti del bambino devono essere fornite alla famiglia, perché proprio la famiglia è ritenuta un’importante risorsa e, in questi casi, il principale strumento di supporto, il luogo dove adottare comportamenti capaci di rassicurare la prole, permettendo loro di sviluppare una graduale sicurezza per affrontare le situazioni che destano maggiore preoccupazione.

Qui, in famiglia, non ci sono datori di lavoro da citare in giudizio, non ci sono Tribunali ai quali chiedere il riconoscimento del danno biologico; ci sono bambini che soffrono, bambini che hanno diritto ad un’infanzia serena e che non hanno alcuna forza per rivendicare questo loro diritto. Il riconoscimento precoce di un problema d’ansia e una corretta presa in carico del problema, per esempio, può ridurre il rischio che si sviluppino problemi più gravi in una fase successiva, o che si instaurino delle patologie.

E’ importante, quindi, individuare subito la presenza di segnali patologici nello sviluppo della prole, perché così facendo aumentano le possibilità di agire sul disturbo efficacemente e a livello terapeutico. Un intervento psicologico tempestivo impedisce che il disturbo interferisca con lo sviluppo cognitivo, relazionale e affettivo del soggetto (psicologia-sviluppo.com).

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La prevenzione in età evolutiva e gli interventi psico-educativi rappresentano le tipologie di trattamento più utilizzate, e in molti casi i percorsi arrivano a coinvolgere pure qualche membro della famiglia. Questo coinvolgimento genitoriale è indicato perché in età preadolescenziale si cerca di evitare un intervento diretto sulla prole e si preferisce lavorare su modelli di interazione che possono essere gestiti poi dalla famiglia.

Quando, infatti, la comunicazione fra genitori e figli è diventata difficile, i genitori si sentono insicuri ed i figli si sentono incompresi, non ascoltati; fra le due parti, non ci sono argomenti da condividere e si rompono i rapporti.

Ci sono casi in cui per i genitori diventa necessario cambiare le modalità comunicative adottate, perché continuando a mantenere un certo tipo di rapporto maturato con il figlio - spiega la Dott.ssa Maduli - si rischia di alimentare le incomprensioni e di favorire richieste esasperate e provocazioni da parte del ragazzo, col risultato finale di compromettere il dialogo (psicologia-sviluppo.com). “L’atteggiamento più efficace, in base all’età, potrebbe essere quello di stabilire degli orientamenti, dopo averli discussi, con i figli, cercando di arrivare a delle regole il più possibile condivise, senza imposizioni troppo rigide”, scrive Maduli, e poi conclude: “Nella famiglia, il dialogo e il confronto rappresentano un mezzo per creare senso di fiducia, affetto e senso di appartenenza”.

E sono proprio il senso di fiducia, l’affetto ed il senso di appartenenza i sentimenti che più degli altri, nella prole in età evolutiva, sono attaccati e compromessi dagli effetti devastanti prodotti da un soggetto, vittima di Mobbing, che riversa sulla famiglia ansie, frustrazioni, preoccupazioni e malattie.

In un’ottica di prevenzione, lo psicologo propone al nucleo familiare percorsi di approfondimento e miglioramento degli stili educativi e della comunicazione in famiglia, approfondisce il confronto sulle diverse reazioni emotive

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(amore, rabbia, insofferenza, tenerezza, frustrazione, affetto, passione, attaccamento, avversione, indifferenza, solidarietà, ostilità, ecc.) dei singoli membri della famiglia, individua e verifica modalità alternative di comportamento, in modo tale da fornire vie di uscita dalle situazioni di disagio create, direttamente o indirettamente dal Mobbing. 2. Conclusione: l’importanza delle terapie

Abbiamo scritto nel paragrafo precedente che la prevenzione in età evolutiva e gli interventi psico-educativi rappresentano le tipologie di trattamento più utilizzate, ed abbiamo anche visto che in molti casi i percorsi arrivano a coinvolgere i membri della famiglia.

Particolare importanza viene data alla prevenzione primaria in rapporto alla prole in età evolutiva, perché, scrive Villanova, l’inizio di ogni intervento terapeutico può essere individuato prima, o non soltanto in concomitanza con il manifestarsi del disagio, o peggio ancora all’insorgere del sintomo (Villanova M., 2008, pag. 9-11). Non per niente la prevenzione primaria ha lo scopo di ridurre il rischio di future situazioni di disagio, di disadattamento e di psicopatologia.

Altra forma di “prevenzione” può essere l’educazione alla genitorialità, utile a preparare il genitore al proprio compito. Da tenere presente, tuttavia, che nei casi in cui il genitore si trova a dover gestire disturbi del figlio e problematiche emergenti, l’educazione alla genitorialità non ha effetti “curativi”, proprio perché questa forma di prevenzione aiuta i coniugi ad acquisire consapevolezza o stimolare le proprie capacità di genitore.

La terapia è sempre in rapporto alla causa del disturbo. In presenza di situazioni, soprattutto in età evolutiva e in prima adolescenza, per le quali lo psicologo sconsiglia il trattamento

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sul paziente, in quanto inserire un ragazzo in un contesto di cura potrebbe essere controproducente, si può ricorrere ad una forma di trattamento terapeutico indiretto, che esclude il “portatore del sintomo” e si concentra sul contesto familiare.

Il trattamento indiretto - scrive la psicologa Maduli - non è soltanto un intervento sui genitori, ma un intervento con i genitori per il benessere del figlio e della famiglia nella sua complessità. L’obiettivo è la riorganizzazione funzionale del sistema sul quale si interviene, facendo leva sulle risorse che ruotano intorno al soggetto portatore (Baranello M., psicologiapsicoterapia.com). Infatti, il rischio maggiore al quale una famiglia può andare incontro è che un problema possa trasformarsi in un profondo disagio, e successivamente in una forma psicopatologica grave.

E’ dunque fuori dubbio che, quando alla base vi è una situazione di disagio intrafamiliare, l’approccio terapeutico primario risulta quello psicologico, volto a individuare, analizzare e comprendere il disagio profondo che si nasconde dietro i disturbi che abbiamo preso in considerazione in questo nostro lavoro. E siccome capita spesso che agire sul bambino non risulta risolutivo se il contesto nel quale egli vive non si modifica positivamente, la psicoterapia, oltre che a rivolgersi direttamente sulla prole che subisce gli effetti del Mobbing, deve intervenire nel contesto ambientale e familiare, coinvolgendo nell’intervento pedagogico e riabilitativo tutti i componenti del nucleo abitativo, allo scopo di rimuovere, o far evolvere in senso positivo, gli eventuali problemi di rapporto, le ansie e le situazioni conflittuali.

Un intervento psicologico tempestivo può impedire prima l’insorgenza del disturbo, e poi può curare il disturbo stesso prima che questo diventi patologico e interferisca con lo sviluppo cognitivo, relazionale e affettivo del minore.

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Quando alcuni disturbi richiedono terapie farmacologiche (casi gravi di depressione, di anoressia ecc.), detto intervento deve essere sempre accompagnato da una terapia di sostegno psicologico.

Di particolare importanza sono le cosiddette terapie comportamentali: l’applicazione di tecniche volte ad aiutare i soggetti a modificare condotte e aspetti del proprio comportamento che procurano disagi (ad esempio, disturbi alimentari o controllo degli sfinteri). In questi casi, una modificazione di determinati comportamenti potrebbe portare ad un alleviamento o scomparsa del disturbo stesso.

Abbiamo già ricordato il concetto espresso dal Prof. Villanova, secondo il quale una genitorialità valida e competente è in grado di offrire alla prole in età evolutiva la possibilità di percepirsi come essere separato, con una propria individualità, e nello stesso tempo è in grado di sostenere il bambino e l’adolescente nel percorso di valorizzazione e conoscenza delle sue risorse e caratteristiche personali.

Il benessere complessivo della famiglia, indipendentemente dalle cause che possono aver originato il disagio del minore (nascita di un fratello, separazione, malattia, lutto, trasloco, inserimento scolastico, effetti del Mobbing e altro), è una buona garanzia di efficacia per ogni metodologia clinica. E’ per questo che sono convinta che la migliore prevenzione del disagio adolescenziale e giovanile si possa praticare proprio in famiglia, come indicato da Villanova, mediante la formazione di una genitorialità valida e competente. E’ un sogno difficilmente realizzabile? Può darsi. Però è la migliore strada da seguire per attuare e salvaguardare il diritto all’infanzia.

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APPENDICE 1. Caso I

Il primo caso che proponiamo a corredo della Tesi ha come protagonista una lavoratrice di 48 anni, sposata, con due figlie, una di 14 e l’altra di 7 anni.

Il nucleo familiare così composto vive in una città del nord; il coniuge lavora come impiegato amministrativo in una struttura scolastica; la lavoratrice protagonista di questa storia, che chiameremo con il nome convenzionale di Sofia, lavora presso un ente statale, successivamente privatizzato sotto forma di SpA.

Sofia è una signora dal carattere aperto, molto socievole, predisposta ad allacciare nuove relazioni amicali, legata alla famiglia ed attenta ai bisogni delle figlie. Ha iniziato a lavorare da giovane, per raggiungere un’indipendenza economica e costruirsi un avvenire. Ha esercitato diversi lavori, spesso saltuari e/o stagionali, ed alla fine è approdata a questo ente pubblico tramite concorso.

La città presso la quale lavora non è stata una sua libera scelta, ma è stata imposta da precise esigenze aziendali.

In questa città incontra un uomo, con il quale ha in comune la stessa regione di provenienza, e dopo un periodo di frequentazione si sposano; dal matrimonio nascono le due figlie.

Il nucleo familiare vive una vita relativamente tranquilla, con frequenti viaggi nei luoghi di origine e visite ai parenti; la prole è inserita adeguatamente nel contesto ambientale e scolastico, frequenta regolarmente la scuola e nel tempo libero frequenta la parrocchia e l’associazione degli scout.

Il posto di lavoro assegnato a Sofia si trova in una struttura centrale di questo ente pubblico, e la lavoratrice svolge con diligenza i propri compiti, soddisfatta per il ruolo che

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l’azienda le ha riservato. Il lavoro per lei è piacevole, e anche se con qualche sacrificio i coniugi riescono a gestire bene la vita familiare da un punto di vista affettivo e finanziario, riuscendo anche a rendere compatibili le loro esigenze familiari con gli orari scolastici di entrata e di uscita della prole.

Tutto questo fino a quando l’azienda non avvia una vera e propria ristrutturazione. La struttura centrale viene ridimensionata, sono accorpati alcuni reparti, sono eliminate funzioni e alcune strutture di supporto sono trasferite in altre città.

Sofia è coinvolta in questa ristrutturazione. Il lavoro al quale era stata assegnata non è più disponibile, e lei viene utilizzata per incarichi di front-office in una struttura periferica dell’azienda, ubicata in un centro limitrofo.

In un primo tempo questi nuovi compiti, anche se frutto di decisioni aziendali, sono bene accolti da Sofia, la quale frequenta con diligenza il corso di formazione professionale organizzato dalla società e finalizzato all’apprendimento delle procedure per il corretto svolgimento delle nuove mansioni. Quando però, il nuovo compito diventa operativo cominciano i problemi.

Le prime difficoltà si manifestano non solo nell’incapacità ad ambientarsi con tempestività nel nuovo luogo di lavoro, ma anche nell’allacciare proficue relazioni professionali con i nuovi colleghi.

Le mancano i vecchi colleghi, la routine che si svolgeva nel precedente posto di lavoro, le pause caffè, le pause pranzo con i colleghi, l’aiutarsi e il venirsi incontro nei momenti di difficoltà, il coprire le mancanze del collega e il sapere di poter contare su di loro in momenti di particolare bisogno. E soprattutto le manca il rapporto di stima reciproca tra lei e il suo vecchio capo, e, infine, il tragitto che ogni mattina lei faceva per recarsi sul posto di lavoro. Sofia non ha la patente, è dunque

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costretta a servirsi dei mezzi pubblici. Ciò complica la situazione ed aumenta il disagio.

Dover raggiungere una sede periferica comporta l’obbligo di uscire di mattina ad un orario più anticipato rispetto al passato, e ciò causa le prime difficoltà. Sofia non riesce più a seguire le sue figlie; la mattina esce spesso prima che le stesse si siano svegliate, e non è con loro durante la colazione e nella preparazione per la scuola.

Nella nuova sede Sofia, pur essendo molto socievole, non riesce a stringere rapporti con molti dei suoi nuovi colleghi di lavoro. Si verifica così una prima fase di conflitto, durante il quale lei stessa e una sua collega, come lei giunta da poco nella nuova sede, divengono ben presto il bersaglio prescelto dai colleghi, che riservano loro lo svolgimento di mansioni “scomode”, quali, ad esempio “portare il caffè al capo”, fare fotocopie, occuparsi di pratiche “pesanti e con clienti difficili”.

In più, a Sofia vengono spesso richiesti l’immediata archiviazione o il controllo di nuove pratiche, senza preavviso, è ciò rallenta la sua normale attività e causa un sovraccarico di lavoro.

Un tentativo di rivolgersi al superiore è stato placato dai colleghi con sottili minacce e intimidazioni: “noi siamo qui da più tempo di te; a chi crederà il capo?”.

Sofia comincia così ad accusare i primi sintomi del mobbing. Recarsi al lavoro non è più piacevole come prima, anzi è fonte di disagio e preoccupazione.

Dopo otto mesi di lavoro in queste condizioni, il rendimento cala e cominciano ad arrivare i primi richiami da parte dei superiori. Cominciano così le richieste, sempre più ravvicinate, di ferie o malattia, i ritardi e le assenze ingiustificate.

Il medico di famiglia, al quale in un primo momento Sofia si rivolge, dopo averla visitata la indirizza verso il Centro di Igiene Mentale, e qui la diagnosi è: depressione reattiva con

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marcati tratti ansiosi. La paziente comincia una terapia psicologica e farmacologica, con farmaci (Eutimil e Xanax) associati a periodiche sedute presso uno psichiatra dell’unità operativa del centro salute mentale.

Anche dopo l’inizio delle terapie, l’umore è depresso e Sofia risulta scostante nei confronti del coniuge e delle figlie; diventano frequenti e continue le crisi di pianto improvviso, anche davanti alla prole.

Tutto ciò ha ovvie ripercussioni in famiglia. Pur sforzandosi, Sofia non riesce a nascondere il disagio al coniuge, il quale cerca di starle vicino tentando di giustificare alle figlie i comportamenti nervosi e scostanti della madre; egli, inoltre, si sforza di sopperire alle mancanze che la madre, pur non volendo, attua nei confronti della famiglia.

Tralascio di trattare i problemi relativi al rapporto con il coniuge, poiché non sono oggetto della tesi; mi soffermo invece sui cambiamenti che si verificano tra la madre (soggetto mobbizzato) e le figlie.

Da questi cambiamenti scaturiscono una serie di disturbi sulla prole, favoriti dalla destabilizzazione del clima intrafamiliare, non più palcoscenico delle normali dinamiche (anche problematiche) tipiche del normale rapporto madre-figli, ma luogo destabilizzato da una condizione di sofferenza vissuta da una persona (madre e lavoratrice) che è vittima di mobbing sul posto di lavoro.

Le figlie in un primo momento non si accorgono di nulla; poi, con il passare del tempo, iniziano ad attuare una serie di comportamenti differenti che diventano la spia del disagio percepito.

La figlia maggiore, molto attaccata alla madre, tenta di mostrarsi indipendente, non si rivolge più a lei durante lo svolgimento dei compiti, e non si intrattiene più in lunghe chiacchierate sui racconti di ciò che è accaduto a scuola o con le compagne. L’assenza di dialogo viene percepita dalla figlia

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come una mancanza di voglia di ascolto da parte della madre, e ciò spinge la ragazza ad un progressivo allontanamento dalla figura materna; figura per lei centrale, che ora viene gradatamente e forzatamente sostituita e ricercata nel padre.

La figlia minore, al contrario, sembra continuare a ricercare, a volte anche con prepotenza, il contatto con la madre.

Sofia, spesso stanca per il lavoro, dopo essere rientrata a casa e dopo aver svolto le faccende domestiche, cerca momenti per rilassarsi; attimi per lei importanti, che fungono da ricerca di un equilibrio con se stessa e che servono a scacciare dalla mente il pensiero della giornata lavorativa appena trascorsa, ed allontanare quello della giornata che verrà. In questi momenti, però, viene spesso interrotta dalla figlia minore, che in vari modi cerca di attirarne l’attenzione. Alcune volte la madre accontenta la figlia; altre volte la “allontana” anche in modo brusco.

Il coniuge si mostra partecipe e comprensivo, ma accade spesso che i due comincino a discutere, anche per futili problemi, in presenza delle figlie.

Tutto questo genera nella prole una sorta di ansia, soprattutto nella figlia maggiore, che alla prima avvisaglia di discussione si intromette tra i due e cerca di attirarne l’attenzione, sforzandosi pure di spostare la discussione su altri argomenti meno problematici.

Si capiscono così la sensazione di ansia provata dalla ragazza ed il tentativo di voler tenere tutto sotto controllo, al fine di riuscire ad evitare tutte quelle discussioni familiari che in altre situazioni possono apparire normali, e che ora rischiano di essere vissute come una catastrofe.

Altro disagio espresso dalla figlia maggiore è nei confronti del cibo. Per Sofia il rituale del cibo è quasi sacro; cresciuta in una famiglia numerosa, era stata abituata a vedere in questa occasione un momento importante della giornata, durante il quale tutta la famiglia si riuniva intorno alla tavola, discuteva, si

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confrontava, rideva. La madre era dunque fiera di avere trasmesso l’importanza di questo momento di comunione e condivisione anche alla sua famiglia, e quando la figlia era restia a mangiare determinati cibi, cercava in ogni modo di andarle incontro soddisfacendo le sue esigenze alimentari.

Ora la situazione è cambiata, e la stessa madre è costretta ad ammettere: “Lei non mangia tutto, mi causa molti problemi; prima, però, ero più attenta e se cucinavo qualcosa che e a lei non piaceva, avevo l’accortezza di prepararle altre pietanze in sostituzione. Ora non è più così. Quello che porto in tavola si deve mangiare, e chi non gradisce può benissimo andare a letto senza cena”.

Ecco allora la scatola delle merendine, che prima durava una settimana, ora si esaurisce in tempi più stretti, e osservando con più attenzione i comportamenti della figlia maggiore, Sofia si accorge che molto spesso, ad un digiuno a tavola, seguono abbuffate segrete, spesso notturne, di merendine.

La figlia più piccola, che prima dormiva regolarmente nel suo lettino, in camera con la sorella, ora la ritrova di mattina nel letto della sorella maggiore, e questo comportamento segnala una ricerca di affetto non trovato nella madre e cercato nella sorella. Alle continue richieste sul perché di tale comportamento, la piccola dice di aver fatto un brutto sogno, oppure confessa di non riuscire a prendere sonno.

A scuola, le maestre si lamentano per il calo di rendimento e notano la svogliatezza con la quale la bambina eseguiva i compiti; spesso neppure li completava, e si giustificava dicendo: “Non sono stata bene”. Sintomo, anche questo, del disagio vissuto dalla bambina.

Ecco dunque dimostrato come la carenza di affettività e la mancanza di comunicazione in ambito familiare hanno generato nei figli una serie di disturbi, più o meno gravi; disturbi che, se non trattati tempestivamente, possono causare serie

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ripercussioni sulla salute fisica e psichica della prole in età evolutiva.

Durante quel periodo, Sofia riusciva a prendere coscienza dei disagi delle figlie e dei problemi creati in famiglia, ma non era in grado di reagire positivamente. “Non avevo più le forze, né la voglia di reagire”, ricorda, e rievoca i momenti in cui si chiudeva, quando cominciava ad isolarsi dal resto della famiglia, provando quasi una sorta di fastidio nei confronti dei vari tentativi di aiuto che venivano da parte del coniuge e delle figlie.

Tutto cambia all’improvviso, e la spinta positiva le viene data un giorno dalla figlia maggiore, la quale, vedendola troppo spesso sul divano (anche a causa delle lunghe assenze dal lavoro), le si avvicina, cerca il contatto, rompe l’isolamento della madre e pian piano le fa ritornare la voglia di aprirsi e di partecipare alle dinamiche familiari come una volta.

Sofia accetta anche l’aiuto del coniuge e, per contrastare il malessere causato sul posto di lavoro, si sottopone alla psicoterapia e a diverse sedute di terapia familiare; a queste ultime partecipano pure le due figlie. Riesce così a fronteggiare i disagi provocati dalla sua condizione di mobbizzata, diventa più reattiva e determinata, torna ad inserirsi nelle dinamiche familiari e, alla fine, riesce ad uscire dal tunnel nel quale il mobbing l’aveva ricacciata.

2. Caso II

Il secondo caso riguarda un lavoratore di 55 anni, sposato, con un figlio di 12 anni.

Il protagonista, al quale daremo il nome di Mario, lavora presso un Mediocredito, istituto di credito abilitato ad erogare finanziamenti a piccole e medie imprese; la moglie lavora come assistente presso uno studio dentistico; per entrambi, la sede di

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lavoro è a Roma, città nella quale sono nati e dove tuttora vivono.

Mario è un uomo riflessivo, meticoloso, ordinato e dal carattere schivo. Porta avanti il suo lavoro con passione e professionalità. Lavora in questa azienda da circa trent’anni e afferma di non aver mai avuto in precedenza problemi con i colleghi o con i superiori.

Il lavoro, pur impegnandolo molto, gli consente di partecipare attivamente alla gestione familiare e di seguire il figlio nella crescita e nel percorso scolastico e sportivo.

Mario ha dedicato gran parte della sua vita al suo lavoro. È stato assunto subito dopo il conseguimento della Laurea, al termine del servizio militare, ed ha percorso tutta la scala gerarchica, fino a diventare prima capoufficio e poi funzionario. Ha svolto le sue funzioni all’interno di una banca di piccole dimensioni, con una clientela regionale, e la principale attività è stata quella di fornire finanziamenti alle aziende locali.

Per molti anni i lavoratori di questa banca hanno lavorato in armonia, senza grandi problemi di mercato e di concorrenza, grazie anche alla gestione di contributi a fondo perduto che le leggi statali e regionali avevano stanziato a favore delle piccole e medie imprese.

A seguito della ristrutturazione che ha coinvolto l’intero settore del credito, la Cassa di Risparmio che deteneva la maggioranza del pacchetto azionario del Mediocredito è stata assorbita da un grande gruppo bancario nazionale. Di conseguenza, anche l’Istituto di Mario è stato colpito da questa ristrutturazione e, da banca autonoma, con carattere locale, è diventata una filiale di un Istituto di Credito di proporzioni più ampie, con sede a Milano e con possibilità di intervento su tutto il territorio nazionale. Sono stati così eliminati tutti i servizi (risorse umane, amministrazione del personale, ufficio legale, ufficio tecnico) e sono stati lasciati sul territorio soltanto gli uffici relativi all’attività principale: acquisizione e istruttoria

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delle richieste di finanziamento, stipulazione dei contratti ed erogazione del credito. Ciò ha comportato una drastica riduzione del numero dei dipendenti; alcuni sono stati incentivati per un esodo volontario, altri sono stati riqualificati e collocati negli sportelli della banca ordinaria di riferimento.

Mario ha continuato a svolgere la sua funzione all’interno del servizio fidi rimasto di competenza della struttura esistente, diventata nel frattempo filiale; un incarico che gli ha consentito di mantenere sia la qualifica che le responsabilità acquisite.

Nel frattempo, però, lo Stato ha cominciato ad eliminare gran parte degli incentivi e dei contributi a favore delle imprese che avevano consentito al Mediocredito di mantenersi sul mercato.

La clientela cominciava a diventare sempre più esigente, e si avvertiva il bisogno di un sempre maggiore sforzo di attenzione e di selezione, per evitare di concedere finanziamenti ad aziende che poi non avrebbero avuto la possibilità di restituire il debito. Contemporaneamente a questi eventi, le privatizzazioni e la liberalizzazione del credito avevano favorito l’arrivo sul territorio di altre imprese bancarie; non si operava più in regime di quasi monopolio e si era creata molta più concorrenza rispetto al passato.

Nel giro di pochi mesi, la nuova direzione aziendale aveva operato una profonda ristrutturazione negli uffici di Roma e, stravolta l’intera struttura dell’ex banca locale, aveva assegnato alla filiale l’obiettivo di un volume di affari che aumentava di anno in anno.

Per Mario nascono i primi problemi: nuova organizzazione del lavoro, procedure più complicate, autonomia limitata, referenti gerarchici non più a portata di mano ma collocati negli uffici della Sede Centrale di Milano, lavoro manuale ridotto all’indispensabile e sostituito dall’utilizzo di nuove tecnologie informatiche…; tutto questo rappresentava un

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fatto imprevisto, ed era vissuto come una vera e propria “rivoluzione” sul posto di lavoro.

Ma ciò che creava più ansia erano il raggiungimento degli obiettivi assegnati, reso difficile da un mercato diventato più sofisticato e invaso dalla concorrenza, e la propensione della nuova azienda a ridurre sempre più il personale.

Nonostante ciò, i primi anni passano senza eccessive e ulteriori complicazioni.

Quando però l’azienda continua ad aumentare gli obiettivi, Mario è costretto a difendersi, chiedendo l’intervento del Sindacato. Dopo alcuni mesi di trattative e discussioni, e dopo l’intervento dell’ufficio legale del Sindacato, l’azienda è costretta ad accettare il fatto che in un contratto di lavoro subordinato il lavoratore “è debitore di una prestazione lavorativa senza rischio del risultato; di conseguenza il perseguimento di determinati obiettivi deve iscriversi necessariamente fra le varie forme di salario flessibile, e cioè fra i metodi per l’incentivazione dei soggetti più attivi e meritevoli, ma non può assolutamente rientrare nell’obbligo di diligenza prevista dalla legge come metro per valutare l’esatto adempimento della prestazione”.

Mario è contento del modo con il quale è stata conclusa la vertenza. A questo punto, i suoi problemi dovrebbero essere arrivati alla fine.

Per l’azienda, invece, è solo l’inizio. Avendo come finalità l’incremento dei budget da un lato, e la riduzione del personale dall’altro, Mario è, per la Banca, un problema: il lavoratore non produce per quanto è richiesto, e per eliminare questo problema l’unica strada percorribile è quella di spingerlo ad uscire dall’azienda.

Il terreno per seguire questa strada è agevole, proprio perché la maggior parte dei colleghi di Mario, pur di conservare il posto di lavoro nel luogo di residenza, ha accettato le nuove dinamiche aziendali ed ha impiegato il massimo delle proprie

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risorse per il raggiungimento dei budget assegnati, arrivando a sacrificare gran parte del loro tempo libero, oppure sottraendo tempo alla famiglia.

Mario si è trovato isolato all’interno del suo stesso ambiente di lavoro, ed ha perso tutte quelle “complicità” che lo avevano protetto nei lunghi anni di servizio passati al Mediocredito. Nel giro di pochi mesi è escluso dai circuiti di comunicazione e di informazione aziendale; il suo ruolo è ridimensionato mediante l’assegnazione di operazioni di finanziamento di modesta entità; e la sua persona diventa oggetto di malversazioni quotidiane anche da parte dei colleghi, sempre più coinvolti nei percorsi di carriera messi in atto dall’azienda.

A tre anni di distanza dall’intervento di ristrutturazione aziendale e di accorpamento del Mediocredito locale ad una Banca di dimensione nazionale, Mario si è trovato vittima di una vera e propria azione di mobbing, che comincia a provocare danni non solo alla salute fisica e psichica (disturbi nervosi, ansia e panico, difficoltà di concentrazione, insorgenza di dermatosi, emicrania, debolezza, senso di oppressione, tachicardia e palpitazioni), ma anche ripercussioni all’interno del nucleo familiare; ripercussioni che coinvolgono principalmente il figlio di 12 anni.

Mario ricorre spesso al medico di famiglia e si assenta frequentemente dall’ufficio. Ma sono proprio queste assenze per malattia che spingono l’azienda a trasferire Mario dal servizio Fidi (presso il quale aveva sempre lavorato) ad un ufficio di back-office; la motivazione addotta ufficialmente è stata quella di “non compromettere l’immagine della banca agli occhi della clientela”.

L’umore di Mario è depresso, a casa si mostra scostante e nervoso e non sono rari gli attacchi d’ira. Non partecipa più alla conduzione della famiglia, non mostra interesse per la vita del figlio. Le liti divengono sempre più frequenti ed esagerate e,

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nonostante tutto, la moglie si mostra ancora comprensiva e collaborativa.

Il figlio comincia invece ad evidenziare una serie di comportamenti aggressivi nei confronti di cose e persone. La stima che nutriva nei confronti del padre, visto come il capo famiglia, come la colonna portante, comincia a venir meno. Le domeniche da trascorrere insieme, le partite da guardare in tv, da momenti felici si trasformano, per il ragazzo, in momenti scomodi: quell’uomo non è più quello di una volta.

Il figlio comincia così ad allontanarsi dai genitori e riguardo alla madre non riesce a capire come mai lei possa essere così accomodante e accondiscendente nei confronti del marito. Per lui, si manifestano le caratteristiche principali del disturbo oppositivo provocatorio, ed il ragazzo comincia ad attuare comportamenti negativistici e provocatori nei confronti di entrambi i genitori.

Gravi problemi scolastici e di condotta vengono sempre più frequentemente denunciati dai professori, che continuano a richiamare i genitori in frequenti colloqui.

La mancanza di dialogo e l’incapacità di relazionarsi del padre, troppo preso dai suoi problemi per effetto del mobbing subìto sul posto di lavoro, non fanno che aumentare il disagio del ragazzo.

Altro comportamento che evidenzia il reale stato di disagio della prole è l’allontanamento dagli interessi sportivi, una volta fonte di realizzazione e di gioia per il figlio e fonte di orgoglio per i genitori. Il ragazzo faceva parte della squadra di calcio del quartiere, era molto apprezzato dai compagni e dal preparatore tecnico, ed i genitori seguivano con interesse ogni partita.

Da un momento all’altro, il giovane decide di abbandonare tutto, comincia a frequentare nuove compagnie, cambia interessi e quello stile di vita sano che aveva condotto fino a poco tempo prima viene da lui stesso non solo

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abbandonato, ma rinnegato e deriso, contrapponendo al passato uno stile di vita diverso, sregolato, esagerato.

L’atteggiamento oppositivo provocatorio del ragazzo si manifesta anche mettendo in atto azioni che egli sa che possono turbare ulteriormente i genitori; e per questo si è fatto eseguire vari tatuaggi e piercing, pur sapendo che i genitori non sono mai stati favorevoli a queste pratiche, quasi come una sorta di denuncia contro i genitori: “Solo io ho il controllo della mia vita e del mio corpo”.

Altro disagio che si rende palese nei momenti in cui una famiglia dovrebbe essere unita, si riscontra durante i pasti: il ragazzo, come se assumesse un atteggiamento di sfida, si rifiuta di sedere a tavola assieme ai genitori, e finisce per pranzare da solo sul divano, davanti alla tv. Nel pomeriggio, dopo pranzo, esce spesso e rincasa la sera, dopo la cena. I continui rimproveri della madre non portano a nulla, poiché vengono ignorati completamente.

La madre si rivolge al padre spingendolo ad attuare un qualche provvedimento. Il padre cerca di interessarsi del figlio, si sforza di essere comprensivo e ragionevole, ma finisce sempre per rimproverarlo e basta; e ai rimproveri del padre seguono, ancora una volta, litigi e comportamenti aggressivi.

E come se ciò non bastasse, si verifica anche un altro fenomeno: il ragazzo, assistendo agli effetti devastanti che il mobbing sul lavoro provoca sul padre, quasi attuando una sorta di compensazione o protezione, è portato a mettere in atto, nei confronti degli altri, gli stessi comportamenti che hanno fatto del padre una vittima. Una sorta di rivalsa e di denuncia, attraverso la quale si cerca di dimostrare che si è attuata una scelta, quella di essere lui il carnefice e non la vittima.

Per molti mesi Mario è sotto cura da uno psicologo. Si è rivolto ad un medico specialista per cercare di superare il suo disagio sul posto di lavoro; alle sedute di terapia familiare

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partecipa la moglie, mentre il figlio rifiuta di sottoporsi a tali terapie.

La speranza di Mario è di modificare la condizione di sofferenza e disagio causata dall’essere vittima di mobbing sul posto di lavoro, per poter poi intervenire positivamente nel contesto familiare; creare, cioè, un equilibrio familiare, di dialogo e di reciproco scambio di affetto e comprensione, in modo da generare una modificazione del comportamento del figlio, causato dal disagio intrafamiliare e reso più acuto dal disagio relazionale che lo stesso comportamento aggressivo del minore ha prodotto nella sua sfera relazionale.

La regola è quella di intervenire sui genitori per agire e modificare il contesto ambientale e familiare, allo scopo di rimuovere, o far evolvere in positivo, i problemi di rapporto tra i componenti della famiglia e diminuire il disagio di cui il figlio è diventato portatore.

Ragionando con freddezza, Mario è tentato di rivolgersi ancora una volta al Sindacato, per far valere sia il percorso professionale pregresso che gli incarichi di responsabilità ricoperti quando la sua azienda era ancora un Mediocredito locale. Egli mette in conto persino la possibilità di avviare una vertenza legale, citando l’azienda in Tribunale al fine di ottenere soddisfazione delle sue ragioni.

Ma le condizioni psicofisiche nelle quali si è venuto a trovare e la crisi dei rapporti verificatasi all’interno del nucleo familiare non lo spingono e lo sostengono su questa strada.

Decide quindi di rinunciare ad ogni azione sindacale e legale. Però il clima che si è creato all’interno del posto di lavoro continua ad opprimerlo. Decide così di rinunciare al lavoro e, nonostante l’età particolarmente non avanzata, coglie al volo le opportunità offerte da un accordo sindacale e accetta le incentivazioni offerte ai lavoratori che scelgono la via degli esodi volontari.

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Mario rassegna così le dimissioni ed il lavoratore rientra nelle quote che l’azienda ha predisposto per il pensionamento anticipato. 3. Qualche film sull’argomento

Il fenomeno del Mobbing, oltre ad essere oggetto di discussioni, saggi e testi accademici, ha ispirato pure una serie di film. A conclusione della Tesi, abbiamo proposto due esempi esplicativi di come il fenomeno del Mobbing viene rappresentato nel cinema: nel primo si vive il vissuto dalla parte del mobbizzato, la vittima; nel secondo il protagonista della pellicola è il mobber, il carnefice.

Film profondi, in grado di rappresentare in maniera sconcertante cos’è il Mobbing e quali drammi sociali e umani esso determina. La scelta delle recensioni, inserite testualmente, è stata fatta tenendo pure conto degli effetti che il Mobbing provoca sulla prole. 3.1 Mi piace lavorare (Mobbing) Un film di Francesca Comencini. Con Nicoletta Braschi, Camille Dugay Comencini. Genere Drammatico, durata 89 min. - Italia 2004. Trama:

Il film nasce come progetto povero ed essenziale: una sola attrice di rilievo e molti interpreti non professionisti, tra cui parenti e amici della regista; tutti insieme si adoperano per la riuscita di una pellicola, che è stata definita una delle migliori opere sociali degli ultimi anni.

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“Mi piace lavorare” affronta uno dei più grandi problemi del mercato del lavoro: il Mobbing. Al centro del film si colloca un’azienda anonima, di cui non si conoscono l’attività, il fatturato, le finalità. Un’azienda nella quale tutti potrebbero lavorare, fino a quando interviene una fusione e le strutture dirigenti sono totalmente cambiate.

Spesso le vittime del Mobbing non conoscono nemmeno la fisionomia o addirittura il nome dei propri carnefici. Il “padrone” fino ad allora conosciuto è improvvisamente sostituito da una sorta di grande fratello che controlla, dispone, organizza, muove lavoratori a suo piacimento alla ricerca del massimo profitto.

E’ la legge del libero mercato che impone quest’orientamento, ma a volte le regole non trovano facile applicazione e le conseguenze che ne derivano sono gravissime: il coinvolgimento non riguarda solo il lavoratore direttamente interessato, ma abbraccia familiari, amici, parenti.

La protagonista sprofonda sempre più in basso: giorno dopo giorno, la lavoratrice viene sottoposta ad un continuo cambiamento di mansioni e a piccole meschinità che minano l’autostima di un personaggio che agli spettatori appare come una vera e propria vittima sacrificale, carne da macello da immolare al Dio della competitività.

Resta impresso nella mente il discorso iniziale del nuovo amministratore delegato della società, molto ricco di parole ma povero di contenuti, e ad un certo punto la protagonista si ritrova senza dignità e senza speranze; sembra sul punto di cedere, ma alla fine, dopo l’ennesimo sopruso, si riscopre ancora pronta ad alzare la testa e reagire.

Il film ha un finale improntato all’ottimismo, e nel suo voler essere consolatorio e pregno di speranza, scrivono alcuni critici, è poco aderente ad una realtà che spesso si presenta in maniera diversa.

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Recensioni

“Mi piace lavorare” di Francesca Comencini, accolto chissà perché nella sezione Panorama anziché in concorso, si potrebbe definire il vero film dell’orrore.

Non quello dei mostri o dei vampiri, ma l’orrore quotidiano che in tanti casi rende angosciosa l’esistenza di chi fatica sotto padrone. Come la separata Nicoletta Braschi, che si divide fra la figlioletta e un impegno di contabile svolto (lo afferma il titolo) con sorridente disponibilità.

Tutto cambia quando l’azienda viene acquisita da una multinazionale e nelle segrete stanze si decide di alleggerire l’organico applicando il famigerato metodo del “mobbing”. Sicché da un giorno all’altro la meschina si vede cambiare incarico, togliere la scrivania, relegare in un ufficio affollato con un computer guasto che nessuno provvede a riparare; e di lì la schiaffano in un corridoio a fare la guardia a una fotocopiatrice, poi le impongono di controllare i tempi in magazzino suscitando la rivolta degli addetti.

Spaventata dalle intimidazioni e in preda alla frustrazione, Nicoletta è ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Anche i rapporti con la figlia ne risentono in modo distruttivo; e di fronte all’imposizione di dimettersi non resta che ricorrere allo sportello antimobbing del sindacato. Se si pensa che quarant’anni fa, a proposito di “Il posto” di Olmi, si parlò di un clima alla Kafka (i francesi scoprirono addirittura una somiglianza fisica fra il protagonista e l’autore di “Il processo”), che paragone letterario si dovrebbe inventare oggi per “Mi piace lavorare”?

La verità è che qui non c’è spazio per la letteratura e che di fronte a una vicenda narrata con tanta aderenza alla realtà sociale e psicologica anche il diaframma costituito dalla macchina cinema non sembra esistere più. Pur inserendo nel film tanti elementi personali (dalla dedica all’ex marito Daniel

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Toscan du Plantier alla tenera e risoluta presenza della figlia Camille e all’apparizione di un padre valetudinario che è un commosso omaggio al nostro grande e carissimo Luigi Comencini) l’autrice fa un severo sforzo di oggettività e riesce a enucleare un grave problema sociale senza paraocchi ideologici. Tutti gli interpreti di contorno, presi dalla vita, sono stati invitati a improvvisare sugli spunti delle varie situazioni le loro battute e lo fanno con assoluta credibilità; e in mezzo a loro Nicoletta Braschi è tanto vibrante e partecipe da sembrare una persona vera anziché un’attrice.

Uscendo domani sugli schermi italiani, “Mi piace lavorare” meriterebbe di essere visto e meditato da molti; ma il problema è sempre quello dai tempi del Neorealismo: ha voglia la gente entrando in un cinema di ritrovare sullo schermo gli aspetti crudi della realtà? (Tullio Kezich, Corriere della Sera, 12 febbraio 2004)

Divorziata con figlia minore e padre da accudire, Anna è segretaria di terzo livello in un’azienda assorbita da una multinazionale. Lavorare le piace; anche se il suo reddito non le permette di concedersi più dell’indispensabile. Da un giorno all’altro, però, la sua vita cambia: come per effetto di un sortilegio misterioso, i colleghi le fanno il vuoto intorno, la sua scrivania è occupata da altri, i compiti diventano umilianti.

In una via crucis laica e senza clamori, ma non perciò meno dolorosa, la poveretta percorre all’incontrario la piccola carriera faticosamente conquistata. E’addetta alla fotocopiatrice; incaricata di sorvegliare i ritmi di produzione, suscitando le ire degli operai; costretta ad attese inutili, che le vietano di occuparsi della bambina. La perdita progressiva dell’autostima la conduce a una grave forma depressiva.

Diversamente dal cinema francese o britannico, il nostro si occupa raramente del mondo del lavoro, quello vero e

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quotidiano. Aderendo a un’iniziativa della Cgil sul fenomeno del “mobbing” aziendale, Francesca Comencini ha scritto e diretto un film di ottime intenzioni, efficacemente persecutorio, didascalico nel senso migliore del termine. Fino al sottofinale, almeno, dove la ribellione della protagonista e l’intervento salvifico di una rappresentante sindacale risolvono la questione in maniera rapida e - temiamo - più facile di quanto non avvenga nella realtà. (Roberto Nepoti, La repubblica, 13 febbraio 2004)

Presentato nella sezione Panorama del FilmFest e da domani nelle nostre sale, “Mi piace lavorare” di Francesca Comencini è un film intimista che va dritto al cuore e al contempo affronta un grosso problema sociale, quello del (per usare l’orribile termine) mobbing: ovvero della vessazione psicologica sul lavoro.

Anticipiamo la prima obiezione. Nel vedere il trattamento che si trova a subire dall’azienda la povera Anna, impiegata zelantissima e mamma responsabile con bambina a carico, qualcuno dirà: perché proprio a lei gliene capitano di tutti i colori, mentre gli altri...? Ma, per l’appunto, il film vuole proprio entrare all’interno di una singola seppur emblematica realtà umana, registrando le angosce e i disastri morali provocati da certe prevaricazioni.

C’è una seconda obiezione possibile: il contributo del sindacato non induce a pensare ad una pellicola di propaganda? La risposta è no: semmai “Mi piace lavorare” è un film politico in senso lato. Prodotto da BiancaFilm con Rai Cinema e Bim e frutto di approfondite ricerche sul campo, è costato la cifra assurdamente bassa di 300 mila euro grazie alla motivazione della regista e alla partecipazione entusiasta e gratuita dei professionisti (la protagonista Nicoletta Braschi, il direttore di

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fotografia Luca Bigazzi, la scenografa Paola Comencini) e dei non professionisti (lavoratori e sindacalisti) coinvolti.

E tuttavia il caso di Anna, impiegata qualsiasi e per nulla politicizzata, oltrepassa il tema del mobbing e rispecchia le preoccupazioni di tutti noi. In un mondo in subbuglio, chi non teme la precarietà? In una società che non premia neanche più il merito e guarda solo alle astratte cifre (non sempre il modo migliore per far quadrare i conti) demotivando coloro che si impegnano, chi non si è sentito almeno una volta umiliato e offeso? E speriamo che siano in molti, come Anna, a poter contare sul sostegno non solo del sindacato, ma della famiglia.

Nella vibrante e sommessa interpretazione della Braschi ben corrisposta dalla piccola Camille Dugay (figlia della Comencini), il rapporto d’amore madre-figlia è il vero centro emotivo di questo bel film. (Alessandra Levantesi, La Stampa, 12 febbraio 2004) 3.2 Volevo solo dormirle addosso Un film di Eugenio Cappuccio, dall’omonimo romanzo di Massimo Lolli. Con Giorgio Pasotti, Giuseppe Gandini, Elizabeth Fajuyigbe, Massimo Molea, Eleonora Mazzoni, Ninni Bruschetta, Cristiana Capotondi, Mariella Valentini, Marcello Catalano, Raffaele Fallica, Jun Ichikawa, Massimo Olcese, Diego Pagotto, Christian Stelluti, Ennio Sassi. Genere Drammatico, durata 97 min. - Italia 2004. Trama:

Il protagonista è un giovane formatore del personale in una grande azienda multinazionale. Ad un determinato momento della sua carriera si ritrova dinanzi ad una sfida che non esita ad accettare: deve riuscire, in un arco di tempo ridottissimo, ad espellere dalla produzione venticinque dipendenti di vario

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livello, senza dare eccessivamente nell’occhio e senza creare tensioni che potrebbero influire negativamente sulla stessa attività aziendale.

In caso di successo, il lavoratore sarà ricompensato con un avanzamento di carriera ed otterrà un ricco premio in denaro. In caso contrario, lo attende un “portasigarette”.

Da quel momento la vita del protagonista cambia. Prima di tutto dovrà convincere se stesso sul fatto che lo slogan “People First”, scelto dalla sua azienda, altro non è che una falsità.

Per portare a termine l’incarico ricevuto, non potrà e non dovrà avere pietà e compassione per nessuno.

Il tema affrontato dal film è quanto mai attuale, come attuale è l’argomento dei tagli dei posti di lavoro; il regista è riuscito a concentrarsi sull’evoluzione del protagonista, il quale, giorno dopo giorno, diventa lupo, sino al soprassalto dell’ultima ora. Recensioni

L’apparenza inganna. Quel giovane stanco, dalla cravatta perennemente allentata, che si rintana ogni notte nel suo appartamento letamaio perché non gliene frega niente di pulire e poi non ha tempo, alla luce del giorno è uno spietato killer della forza lavoro tirato a lucido. Il suo nome è Pressi, Marco Pressi, terrore della multinazionale Mti con licenza di “bruciare” venticinque esuberi per fare “bingo” al premio del nuovo target da raggiungere.

Eugenio Cappuccio (Il caricatore, La vita è una sola, Come mosche) in “Volevo solo dormirle addosso”, “scolpisce” il prototipo del rampante del Duemila, che non è il “fighetto” anni ’90 ma il precoce, dilaniato manager vittima-carnefice di un mondo delirante. Quello che “fotocopia” i termini precarietà,

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individualismo, solitudine, sopravvivenza per sbatterteli ogni giorno sul tavolo dell’ufficio.

Da un attento e spiazzante libro di Massimo Lolli, un film asciutto, essenziale come il gergo “robotico” manageriale. Uno spaccato sul mondo del lavoro che colpisce nel segno, grazie soprattutto all’interpretazione di un bravissimo Giorgio Pasotti, disarmato e ammiccante, tenero e spietato. (Leonardo Jattarelli, Il Messaggero, 22 ottobre 2004)

Troppo spesso il cinema italiano si chiude in una dimensione artigianale e autoreferenziale, indugiando in un atteggiamento di auto-compiacimento. Volendo essere gentili possiamo dire che si “piange addosso”.

Un tema su cui questo atteggiamento assume una dimensione quasi patologica è quello del “lavoro” a cui alcuni autori, con scarso successo, si sono rivolti per sfuggire alla dimensione intimista. Una piacevole eccezione è l’ultimo lavoro di Eugenio Cappuccio: “Volevo solo dormirle addosso”.

Riuscire a fare un film davvero divertente, avendo sullo sfondo il tema della precarietà del lavoro, non era semplice ma tirando le somme possiamo dire che questo giovane regista ha centrato l’obbiettivo.

Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Lolli, una vita spesa nel mondo delle “risorse umane”.

Giorgio Pasotti interpreta Marco Pressi, un manager trentenne che lavora sodo, come formatore nella filiale italiana di una multinazionale francese. Stimato e benvoluto da tutti, viene investito dai vertici della società di un nuovo impegnativo ed ingrato compito. Si tratta di una di quelle proposte che, nell’attuale dinamica aziendale non si possono rifiutare, se si vuole fare carriera: dovrà tagliare un terzo del personale. Se centrerà questo obiettivo, verrà promosso con sostanziosi aumenti, benefit e bonus; al contrario un fallimento segnerà una

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pesante battuta d’arresto; una macchia indelebile sul suo cursus honorum manageriale.

Accetta, motivato dalla sfida, che ha per lui l’effetto di una vera e propria droga. L’incarico lo trasformerà “da simpatico formatore in killer”.

Inizia così una spirale discendente che parte con un vero e proprio patto con la sua parte luciferina, in cui mette in gioco la sua stessa identità: si troverà a costruire strane coalizioni, tradire i suoi amici e progressivamente la precarietà del lavoro si trasforma in precarietà dell’anima.

Parlando del suo personaggio, Pasotti lo descrive così: “Alla fine fa tenerezza, è più vittima che carnefice. Lui non è che il braccio armato di un sistema molto più grande. Non si redime, ma come un samurai decide di fare harakiri, dopo aver servito fedelmente il suo padrone cosciente del fatto di non poter cambiare il Mondo. Decide così di salvare la parte di sé che ha una Morale e una parvenza di Etica”.

Proprio il finale “aperto” del film è uno dei suoi punti di forza: nuovi orizzonti, nessun programma, nuovi obiettivi. Parlando della sua immersione totale nell’universo manageriale, dominato da logiche e regole troppo spesso avulse dalla realtà, ti racconta che proprio: “Questo aspetto ha costituito le fondamenta del personaggio. Devo dire che ho scoperto il vero volto del mondo manageriale: è una giungla. Bisognerebbe andare in questi posti come si va allo zoo. Ci sono delle dinamiche assurde e inquietanti. Da un lato ti insegnano le buone maniere, usare i buoni sentimenti nei confronti dei dipendenti e, dall’altro, a calpestare tutti pur di arrivare. E’ ciò che il Sistema ti spinge a fare. Parliamo di un manager che lavora in un’industria ma se parlassimo di un bagnino del Lido di Venezia sarebbe la stessa cosa. Oggi la competitività spinge a questo. Il Sistema non ti permette di rallentare ma solo andare più veloce”.

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Comunque Cappuccio, si diceva, ha avuto la capacità e il coraggio di descrivere questa condizione angosciante evocando una convincente ironia che a tratti è davvero coinvolgente, che tocca il suo apice nei serrati confronti di Pressi con i suoi dipendenti. Si tratta di dialoghi ben costruiti, cinici e taglienti, che strappano più di un sorriso amaro. Il film provoca in modo intelligente e dà spunti di riflessione. E prodotto dall’Afa Film ed è distribuito dalla Mikado a partire dal 15 ottobre. (Priscilla del Ninno, Il Secolo d’Italia, 15 ottobre 2004)

Marco Pressi è un manager trentenne, particolarmente benvoluto dai colleghi. Il suo compito, nella filiale italiana di una multinazionale, è quello di selezionare e formare il personale, lavoro in cui un complimento può sostituire l’incentivo economico e il “rapporto umano” è considerato un valore aggiunto.

Un giorno, però, i vertici della società lo convocano per fargli una proposta inquietante: in cambio di bonus e premi vari dovrà diventare il “tagliatore di teste” della società, licenziando e/o prepensionando venticinque colleghi (su novanta) entro due mesi e mezzo. Se riuscirà nel “target” affidatogli (secondo l’odioso linguaggio del marketing) la sua carriera avrà un futuro radioso; altrimenti il posto potrebbe perderlo egli stesso.

E’ questo l’avvio di “Volevo solo dormirle addosso” (il titolo, quanto mai fuorviante, fa riferimento ai problemi sentimentali del protagonista con la fidanzata, assolutamente marginali rispetto al contesto in cui questo opera), film ispirato all’omonimo romanzo pubblicato nel 1998 da Massimo Lolli, direttore del personale della Marzotto.

Diretto da Eugenio Cappuccio (“Il caricatore”, “La vita è una sola”, “Come mosche”), “Volevo solo dormirle addosso” (in uscita venerdì prossimo in 70 copie) è splendidamente interpretato da Giorgio Pasotti, perfettamente coadiuvato dalla

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collerica fidanzata Cristina Capotondi, dalla glaciale Jun Ichikawa, che (dopo “Cantando dietro i paraventi”) è ancora una volta costretta, lei giapponese, a recitare nel ruolo di una cinese, dalla debuttante Faju, ragazza camerunese con cui il manager si concede un’evasione, oltre che da uno stuolo di comprimari tutti perfettamente nella parte.

“La forza di questo film”, spiega il regista, “è nel testo; quindi, soprattutto, nel libro che lo ha ispirato: un testo asciutto, secco e veloce come un verbale della polizia, che ha titillato la mia formazione documentaristica per una visione ‘dall’interno’ di una grande azienda”.

Prosegue Cappuccio: “Del resto, negli anni '90 ho lavorato per un paio d’anni in una situazione simile. Era la televisione satellitare Orb Tv, un luogo all’epoca all’avanguardia della tecnologia, dove mi sono reso conto di cosa voglia dire vivere nell’atmosfera ovattata dei pavimenti di moquette, dove i rapporti personali e gli amori sbocciano via e-mail all’interno dell’ufficio e dove possono nascere tormentoni come quello del �Ti stimo molto�”.

Ma come si è trovato Pasotti a vestire i panni di un personaggio così inquietante? “Io - racconta - ho trentuno anni e, come il mio personaggio, non so quale sarà il mio futuro. A me piace pensare che il film non racconti solo il microcosmo di un manager, ma che metta in guardia sui problemi dei giovani d’oggi, sicuramente legati a una competitività selvaggia in ogni campo e pronti a calpestare chiunque e qualunque cosa, pur di raggiungere i loro obiettivi”. (Oscar Cosulich, Il Mattino, 9 ottobre 2004)

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INDICE Introduzione 5 Capitolo primo Termine e definizioni di Mobbing 7 Le Fasi del Mobbing 10 Studi e Legislazione in Italia 15 Classificazione e articolazioni del Mobbing 21 Mobbing e salute 24 Simulazione, dissimulazione e importanza della diagnosi 27 Capitolo secondo Premessa 35 Mobbing Familiare 36 Mobbing cosiddetto “Secondario” 38 Effetti del Mobbing Secondario sull’età evolutiva 45 Capitolo terzo Premessa 49 Analisi dei Disturbi 50 Capitolo quarto Formazione e Prevenzione 71 Conclusione: l’importanza delle terapie 76 Appendice Caso I 79 Caso II 85 Qualche film sull’argomento 93 Fonti bibliografiche citate nel testo 105 Bibliografia dei testi consultati 106 Sitografia 108

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Finito di stampare nel mese di maggio 2010 presso:

Grafiche Calabria s.r.l. – Via Marciello – Zona Pip – tel. 0982.48062 87032 Campora S. Giovanni – Amantea (Cs)

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