Il Mito Americano

21
TORRE EROS Il mito americano nella produzione cinematografica statunitense del secondo dopoguerra (1945-1963) 1

description

Il mito americano nella produzione cinematografica statunitense del secondo dopoguerra (1945-1963)

Transcript of Il Mito Americano

TORRE EROS

Il mito americano nella produzione cinematograficastatunitense del secondo dopoguerra (1945-1963)

1

Tutto quello che veniva dall’America, paese sognato, diventava immediatamente favoloso; tutto quello che succedeva in America sembrava succedere in maniera avvincente … Il mito dell’America, oltre che dai grandi scrittori, è nato proprio dal cinema: tu vedevi i film di Hollywood e volevi essere americano, magari continuando ad abitare a Rimini. (Federico Fellini)

L’America non è soltanto una parte del mondo. L’America è uno stato d’animo, una passione. E qualunque europeo può, da un momento all’altro, ammalarsi d’America, ribellarsi all’Europa e diventare americano. (Mario Soldati)

Gli Stati Uniti nel dopoguerra

La fine del secondo conflitto bellico vide emergere una società statunitense completamente rinnovata nella struttura interna, indiscutibilmente più solida a livello economico e protagonista consapevole del nuovo scenario internazionale. L’ingente sforzo produttivo attuato a sostegno delle operazioni belliche permise agli Stati Uniti di lasciarsi definitivamente alle spalle la crisi del 1929 e la grande depressione e di prendere coscienza delle proprie risorse e delle proprie capacità, rendendo evidente la supremazia su un continente europeo profondamente lacerato e devastato dalle operazioni militari. L’economia di guerra produsse un inatteso e diffuso benessere, tanto più straordinario alla luce di una politica sociale che aumentò la tassazione prevalentemente per i redditi più alti e di una politica di stabilizzazione dei prezzi che si assestarono ad un livello di crescita inferiore a quello dei salari, determinando una redistribuzione del reddito della quale beneficiarono in misura maggiore le classi meno abbienti . Diminuì, quindi, la percentuale di reddito detenuta dai cittadini più facoltosi e 1

crebbe quella detenuta dai più poveri, ma, soprattutto, aumentò il numero ed il peso relativo dei redditi medi e, conseguentemente, l’estensione di una “middle class” destinata a costituire il propulsore principale della nuova società dei consumi.

La nascita del consumismo rappresenta una delle principali rivoluzioni sociali del periodo postbellico, dal momento che modificò le abitudini comportamentali, e per certi versi anche culturali, della popolazione e provocò un espansione senza precedenti delle dimensioni del mercato interno, mostrando, per la prima volta, l’immenso potenziale economico della “middle class”. Il potere d’acquisto delle classi medie contribuì a fare entrare gli USA in una sorta di età dell’oro e si concretizzò in un esplosione di acquisti di beni materiali e, principalmente, in un cambiamento della qualità dei consumi. La redistribuzione del reddito, unita al clima di grande fiducia nel

1 GIUSEPPE MAMMARELLA, Storia degli Stati Uniti dal 1945 ad oggi, Bari, Laterza, 1992, pp. 26-27.

2

futuro e al perfezionamento di nuove tecnologia, favorì la diffusione di una grande varietà di automobili, elettrodomestici, generi di abbigliamento e alimentari e, inoltre, determinò il ritorno ad una dimensione ludica della vita sociale, favorita anche dall’euforia postbellica e dalla comparsa di un nuovo soggetto sociale, e soprattutto economico, quello dei teenagers, veri protagonisti di questa prima ondata di consumismo. In un simile contesto i pubblicitari iniziarono a trasmettere insistentemente la filosofia del consumo e del divertimento come unico e principale obiettivo, puntando il mirino, appunto, sulla emergente classe giovanile che, priva di problemi immediati e dotata di una disponibilità economica superiore al passato, si dimostrava molto ricettiva alle novità introdotte nel mercato e favoriva un costante incremento della domanda di beni di consumo . Quindi, secondo la logica commerciale e capitalistica descritta da Iain 2

Chambers: “Occorreva riorganizzare l’industria secondo una logica consumistica che comportava la necessità di presentare continue novità e di far decadere stili, modelli e mode del giorno prima in quanto i giovani ora più che mai nel festival del consumismo hanno rilevanza centrale” . Fu proprio la ricerca (o, in un certo senso, la necessità) del 3

superfluo a caratterizzare la società americana del secondo dopoguerra; l’atto iniziale della società contemporanea si può sintetizzare in questo bisogno di ciò che non serve, nel tentativo di conquistare la felicità attraverso l’acquisto di ciò che non esiste, sia esso uno stile o un modello, per distinguersi dal mondo degli adulti e, al contempo, identificarsi ed essere accettati nel microcosmo giovanile.

Ma l’opulenta società statunitense dovette, in questo periodo, confrontarsi con alcune tensioni interne e con ben più gravi tensioni internazionali; in politica interna, la fine della guerra, la morte di Roosevelt e il diffuso benessere comportarono l’inizio del declino della coalizione del New Deal ed un riallineamento degli orientamenti politici in un’ottica più conservatrice . Sullo scacchiere mondiale, la fine dell’isolazionismo 4

americano e la crisi nei rapporti con l’Unione Sovietica obbligarono gli Stati Uniti a riconsiderare il proprio ruolo internazionale e ad impegnarsi in un confronto globale, sia a livello militare che culturale, con l’URSS. La strategia imperiale elaborata dal governo americano per rinsaldare i rapporti con l’Europa occidentale e per creare una fitta rete di interdipendenza economica e politica fu estremamente capillare e non trascurò nessun aspetto significativo. La prima preoccupazione fu quella di porre rimedio alla drammatica situazione economica dei paesi dell’Europa dell’ovest, in primis Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Italia e Germania, dal momento che questi paesi costituivano il principale sbocco delle esportazioni statunitensi e rappresentavano un mercato potenzialmente illimitato. Nel 1946 Washington decise che non era opportuno indugiare ulteriormente, poiché l’attività dei partiti comunisti europei, specialmente in Francia e in Italia, poteva risultare fortemente dannosa per gli interessi americani, e predispose un ampio programma di aiuti tecnici ed economici, noto come Piano Marshall o European Recovery Program, che contribuì in misura determinante a risollevare gli

2 THOMAS DOHERTY, Teenagers and teenpics: the juvenilization of american movies in the 1950s, Winchester, Unwin Hyman, 1988.3 IAIN CHAMBERS, Ritmi urbani: pop music e cultura di massa, Genova, Costa&Nolan, 1996, p. 19.4 GIUSEPPE MAMMARELLA, op. cit., p. 28.

3

indici di produzione e a rivitalizzare il commercio estero. Il piano Marshall fu inoltre uno strumento importante di coordinamento delle strategie economiche europee e rappresentò il primo passo di ispirazione americana verso una integrazione politica del continente, integrazione che il governo americano considerava necessaria per la costituzione di un blocco compatto in opposizione a quello sovietico nell’ambito della strategia del contenimento . Il progetto imperiale fu quindi fondato su basi economiche 5

e, seppur con minori risultati, politiche, e fu poi completato dalla stipulazione del Patto Atlantico che garantiva un’intesa militare in funzione antisovietica.

Mentre venivano poste le basi di una strategia imperiale ad ampio respiro, gli Stati Uniti compresero che il confronto con i sovietici poteva essere vinto anche da un punto di vista culturale. In fondo quelli che si opponevano non erano “solo” due immensi imperi economici e militari, ma anche, e soprattutto, ad un livello ideologico, due visioni antitetiche della storia e della politica e due stili di vita differenti e conflittuali. L’industria culturale e pubblicitaria statunitense rielaborò e metabolizzò, all’interno prima ancora che all’estero, l’immagine idilliaca del proprio paese, patria della democrazia, della libertà, dei diritti, della giustizia e delle opportunità. Essa cercò di rinnovare e commercializzare il mito americano, già ampiamente diffuso in Europa, e in particolare in Italia, nel periodo prebellico, dell’America come “terra promessa”. La massiccia ondata di emigrazione avvenuta a cavallo dei due secoli, l’influsso culturale sugli intellettuali europei dell’epoca e, più di ogni altra cosa, la raffigurazione esibita da una cinematografia molto popolare a partire dagli anni Trenta, contribuirono enormemente alla diffusione di un’immagine epica . I caratteri culturali di questa 6

operazione logistica di diffusione e propagazione di un’immagine fantastica della società americana furono però, in questa occasione, accompagnati da una altrettanto incisiva penetrazione commerciale che agevolò la percezione estasiata del “way of life” statunitense. La popolazione europea, sconvolta, indigente e reduce dalla dominazione nazifascista (con l’ovvia eccezione della Gran Bretagna, che tuttavia ebbe, per altri motivi, un canale privilegiato e più diretto di penetrazione culturale), non poteva che rimanere fortemente ammaliata dalla rappresentazione di una società spensierata e opulenta, dalla quale provenivano moltissimi prodotti nuovi e sconosciuti, così come era rimasta strabiliata già in occasione delle operazioni belliche operate dall’esercito alleato, quando furono i soldati in prima persona a portare grandi quantità di beni di prima necessità (ma anche sigarette, chewing-gum, cioccolata, Coca Cola e altri prodotti analoghi) e a farsi interpreti viventi di quello stile di vita differente presentandosi al ritmo di swing e boogie-woogie. Fu la stessa industria statunitense a diffondere in seguito, anche nel vecchio continente, l’analogia simbolica tra acquisto di beni di consumo e adesione al modello americano; uno slogan adottato nel 1945 dall’industria americana più famosa al mondo, e che per prima ha compreso il potenziale dell’esportazione del modello USA all’estero, recita: “Whenever you hear “Have a

5 GIUSEPPE MAMMARELLA, op. cit., p. 86.6 DANIELA ROSSINI, Il mito americano nell’Italia della Grande Guerra, Roma-Bari, Laterza, 2000.

4

Coke”, you hear the voice of America” . Questa formula esprime in maniera lampante lo 7

spirito che pervadeva la comunicazione propagandistica postbellica e costituisce al contempo un ottimo esempio per comprendere come il prodotto serializzato avesse ormai personificato l’essenza stessa della filosofia e della “voce” degli USA, e come la strategia imperialista stesse per conquistare il mercato europeo attraverso mezzi e canali di comunicazione alternativi e non canonici. Ritengo che proprio in questa capacità di promuovere un modello culturale anche attraverso una funzione pubblicitaria applicata alla produzione mercantile risieda la principale differenza tra il meccanismo di costruzione del mito statunitense e quello operato dagli altri stati. Non si deve infatti dimenticare che anche in URSS e nelle potenze europee fu messo in moto, nell’ambito di un più ampio processo di ricostruzione, un tentativo propagandistico di costruzione di una nuova immagine e di diffusione del proprio patrimonio storico-culturale.

Sebbene non sia facile, in questa sede, distinguere i meriti e gli obiettivi attribuibili al governo da quelli ascrivibili all’iniziativa imprenditoriale privata, si può dire che gli Stati Uniti riuscirono ad esportare e ad imporre il proprio modello culturale in tre fasi temporalmente distinte e attraverso canali di accesso differenti: nel periodo precedente la seconda guerra mondiale fu indubbiamente il cinema il mezzo privilegiato con il quale veniva propagata l’ideologia e l’immagine di un’America libera che incarnava tutti i valori positivi. L’impatto visivo ed espressivo dei film hollywoodiani contribuì in maniera rilevante all’affermazione di una visione (termine che sottolinea appunto la percezione figurativa) fantastica della società statunitense in tutta l’Europa degli anni Trenta, fatta eccezione per quegli stati in cui la censura fu più rigida. Nella fase immediatamente successiva alla guerra il mito americano fu sostenuto grazie all’azione delle truppe di liberazione e, come abbiamo anticipato, grazie agli ingenti aiuti economici a sostegno delle economie e delle popolazioni europee. Inoltre fu proprio in questo contesto che si inserì il primo tentativo organico di penetrazione commerciale da parte delle industrie americane, che agevolò decisamente la diffusione del mito americano nella vita quotidiana. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, infine, all’interno di una situazione economica decisamente migliore in tutta l’Europa occidentale, il mito americano si affermò in maniera compiuta sugli strati popolari attraverso l’immagine televisiva e grazie alla grande popolarità conseguita da cantanti ed attori statunitensi. L’esplosione del rock’n’roll si dimostrò essenziale per la conquista del mercato giovanile europeo. A ulteriore dimostrazione dell’influenza del cinema sulla cultura popolare va sottolineato il fatto che il rock’n’roll fu lanciato e reso celebre dal film Il seme della violenza (Blackboard jungle, 1955), nel quale fu inserita la celebre Rock around the clock di Bill Haley, già pubblicata l’anno precedente senza particolare fortuna, che divenne il primo inno generazionale della storia della musica . Tra le élites 8

intellettuali emerse invece un sentimento contrastante: da un lato, infatti, esse ammiravano la grande vivacità culturale di quell’epoca, dall’altro, tuttavia, esse non

7 MARK PENDERGRAST, For God, Country & Coca-Cola: the definitive history of the great american soft drink and the company that makes it, New York, Basic Books, 2000 (2° ed.), p. 589.8 JIM DAWSON, Rock around the clock: the record that started the rock revolution, San Francisco, Backbeat Books, 2005.

5

potevano che disprezzare il clima di terrore e persecuzione affermatosi nel periodo della “caccia alle streghe” maccartista (clima prodotto dalla azione inquisitoria della House on Un-American Activities Committee (HUAC), la Commissione per le attività antiamericane), che fece clamorosamente emergere tutte le contraddizioni della società americana.

L’industria cinematografica

Tali contraddizioni emergono anche dall’analisi della produzione cinematografica statunitense postbellica, nella quale convivono elementi di valorizzazione e propaganda del mito americano, nel segno di una continuità ideologica con la Hollywood degli anni Venti e Trenta, e nella quale si manifestano, non per la prima volta, ma in misura decisamente superiore al passato e non trascurabile, opere di rottura con la tradizione e forme di pensiero critiche verso l’American dream. Per tutti gli anni Trenta i segni di incrinatura del mito appaiono solo marginalmente e in via eccezionale in alcune opere (si pensi per esempio ai primi gangster movies o ai film di Frank Capra della seconda metà degli anni Trenta, che all’interno di una visione ottimista e fiabesca della vita celano una profonda critica al sistema politico americano) che si distaccano, per linguaggio e contenuti, dallo standard prevalente dell’epoca, pervaso di visioni utopiche e, appunto, celebrative . Nelle parole di Brunetta: “Lo sforzo più evidente che sottende la 9

produzione cinematografica, anche nei momenti di maggiore messa in discussione dei fondamenti del mito americano, è quello di riuscire, malgré tout, a mantenere il senso di un modello unitario in cui tutti i valori positivi si manifestino e tutte le individualità si annullino, e gli elementi denunciati appaiano come escrescenze malate, circoscritte, in un corpo fondamentalmente sano” . La grande depressione che travolge la struttura 10

sociale non incide profondamente sulla rappresentazione filmica e, anzi, appare frequentemente come un incidente di percorso che non intacca la grandezza della nazione americana. E’ questo il retroterra culturale in cui si sviluppa la cinematografia prebellica, alla quale, peraltro, non sono attribuiti meri compiti espressivi e di intrattenimento, ma al quale vengono invece affidate responsabilità e funzioni ben più vaste, allo scopo di influenzare ed orientare l’opinione pubblica secondo predeterminate esigenze politiche e sociali. Dal 1933, infatti, diventa molto rigorosa l’applicazione del Codice Hays, un documento in forma di decalogo che instaura un sistema di (auto)censura cinematografica composto da principi e indicazioni, che limita fortemente la libertà espressiva dei registi fin dalla fase di elaborazione del progetto. Il Codice Hays, in vigore sino all’inizio degli anni Sessanta, fu gestito dalla Motion Picture Producer Distributor Association (MPPDA) in piena autonomia, ma nel completo e rigoroso rispetto

9 GIAN PIERO BRUNETTA, Parabola del mito americano: Hollywood 1930-1960, in SAVERIA CHEMOTTI (a cura di), Il mito americano: origine e crisi di un modello culturale, Padova, CLUEP, 1980, pp. 19-34.10 Ibidem, p. 21.

6

degli “interessi nazionali” e della esigenza propagandistica delle autorità governative . 11

Tale esigenza propagandistica e, per certi versi, pedagogica si afferma compiutamente, e in maniera ancor più organica ed omogenea, in occasione dell’intervento americano nel secondo conflitto mondiale in un clima di unità nazionale e grande patriottismo . Per 12

comprendere i mutamenti tematici e linguistici avvenuti all’interno della produzione cinematografica statunitense bisogna necessariamente considerare le trasformazioni occorse nel cinema a livello comunicativo e rappresentativo nel corso della guerra: negli anni Trenta e Quaranta la proiezione cinematografica rappresenta la primaria fonte di rappresentazione e percezione visiva di eventi reali (o pseudo-reali); il cinema è il medium che offre per primo un’idea immediata (ma, tuttavia, esplicitamente mediata) di alcuni avvenimenti, tra i quali, per esempio, lo svolgimento delle operazioni belliche, portando alle estreme conseguenze le formule espressive già affermate in ambito radiofonico. Per provare ad immaginare gli effetti suggestivi delle visioni cinematografiche, e mi permetto di reiterare l’utilizzo del termine “visione” poiché esso racchiude l’essenza stessa della percezione filmica, soprattutto in un’epoca in cui è scarsamente diffusa la capacità di analisi critica del linguaggio cinematografico, si può fare riferimento al celebre scherzo radiofonico (o forse, ma a parere di chi scrive poco plausibilmente, celebre malinteso) orchestrato da Orson Welles nel 1938, che gettò nel panico l’intero paese terrorizzato dall’invasione aliena descritta ne “La guerra dei mondi” di H. G. Wells . La narrazione di tale evento catastrofico, peraltro priva 13

dell’impatto visivo del cinematografo, incise e colpì a tal punto la memoria collettiva, che quando, nel 1941, venne annunciato l’attacco giapponese a Pearl Harbour, molti americani pensarono immediatamente ad un nuovo scherzo . Questi due esempi servono 14

ad illustrare in maniera chiara il ruolo svolto dai media (e in particolare dal cinema) in quegli anni e forniscono un’idea sufficientemente precisa della vaga distinzione esistente tra evento reale, raffigurazione dell’evento e percezione collettiva della realtà. Il potere evocativo del cinema, infatti, è infinitamente superiore a quello della radio, dal momento che include lo spettatore nell’esperienza visuale, astraendolo al contempo dalla realtà circostante .15

Dalla fine del conflitto, tuttavia, il cinema inizia rapidamente a smarrire questa funzione descrittiva a causa della rapida diffusione domestica della televisione (da 250.000 apparecchi nel 1947 a 3,9 milioni nel 1950 e, infine, a 30,7 milioni nel 1955) , e 16

dà inizio ad una nuova era della rappresentazione filmica, incentrata su una ricerca stilistica e tematica più autonoma e personale e meno vincolata alle strutture narrative tradizionali. Inoltre, a partire dal 1946, anno in cui si raggiunge il più alto numero di presenze nelle sale, inizia un inesorabile e rapido declino della frequenza di spettatori,

11 GIULIANA MUSCIO, L’era di Will Hays. La censura nel cinema americano, in GIAN PIERO BRUNETTA (a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, Vol.2, Torino, Einaudi, 2000, pp. 525.549.12 Ibidem, p. 2013 ORSON WELLES, FERNANDA PIVANO (a cura di), La guerra dei mondi, Bologna, Baskerville, 1990.14 ANDRÉ BAZIN, Orson Welles, Milano, Il Formichiere, 1980.15 A questo proposito si veda, ad esempio, FRANCESCO CASETTI, Dentro lo sguardo: il film e il suo spettatore, Milano, Bompiani, 1986.16 MICHELLE PAUTZ, The decline in average weekly cinema attendance: 1930-2000, in “Issues in political economy”, 11 (2002), pp. 1-18.

7

dovuto, in primo luogo, proprio alle opportunità offerte dal nuovo medium e alla moltiplicazione dei luoghi di svago (da 90 milioni di spettatori alla settimana nel 1946 a 46 milioni e mezzo nel 1956) , e molte sale sono costrette a chiudere i battenti. Ma non 17

cambia solo il volume del pubblico; dal momento che la fine delle guerra vede sorgere una nuova generazione di spettatori attratti dal grande schermo e dalla possibilità di socializzare in un ambiente circoscritto, si ha, a partire dal 1945, un profondo mutamento del tessuto sociale dell’utenza cinematografica. Le sale assumono con frequenza sempre maggiore il carattere di contenitore entro cui si osserva la finzione e si svolge la vita reale . Si può dire che è proprio a partire dal dopoguerra, seppure in 18

una prospettiva di lungo periodo, che il cinema cessa di essere “esperienza” e diventa semplice “fruizione”. Questa alterazione percettiva, unita alla riduzione del pubblico, provoca anche una modificazione dei luoghi di proiezione e delle strutture di proiezione: proprio in questi anni si diffonde su larga scala il drive-in theater, che incide profondamente sulle abitudini del pubblico americano. Il drive-in, brevettato da Richard Hollingshead già nel 1933, unisce le due più grandi passioni dell’intera popolazione, il cinema e l’automobile, rendendo la visione degli spettacoli più informale e pratica, adatta, quindi, ad un pubblico composto prevalentemente da ragazzi. Difatti, la fascia di pubblico dei teen-agers non sembra accusare, almeno in questa prima fase postbellica, un significativo calo nel numero di presenze . Fino al 1939 la diffusione dei 19

drive-in theaters è piuttosto limitata, in parte per la forte propaganda negativa organizzata dai proprietari di sale tradizionali, in parte a causa delle numerose battaglie legali per lo sfruttamento del brevetto tra Hollingshead e i proprietari degli impianti. Tuttavia le mutate condizioni sociali postbelliche provocano un vero e proprio boom che porta il numero dei drive-in da diciotto nel 1939 a centocinquanta nel 1946 e a ottocentoventi nel 1948, per giungere, infine, agli oltre quattromila impianti attivi, peraltro di dimensioni decisamente più ampie dei precedenti, nel 1958, l’anno di maggiore espansione del fenomeno . Proprio nel periodo in cui numerose sale sono 20

costrette a chiudere per la defezione di larghi settori di pubblico, i drive-in si diffondono quasi con lo stesso ritmo, a dimostrazione di un progressivo ringiovanimento dei fruitori dell’industria cinematografica. Dalla fine della guerra al 1963, l’ultimo anno considerato in questa analisi, la condizione della cinematografia americana muta in maniera sostanziale il proprio rapporto con il cittadino-spettatore. Esaminerò in seguito le differenti modalità con cui questo rapporto si manifesta nella realtà sociale europea e le diverse implicazioni sulla percezione del mito americano sulle opposte sponde dell’oceano.

17 THOMAS W. BOHN, RICHARD L. STROMGREN, Light and shadows: a history of motion pictures, MountainView, Mayfield Publishing, 1975.18 GIAN PIERO BRUNETTA, Buio in sala: cent’anni di passione dello spettatore cinematografico, Venezia, Marsilio Editori, 1989, p. 253.19 KERRY SEGRAVE, Drive-in theaters: a history from their inception in 1933, Jefferson, McFarland & Company, 1992.20 DON SANDERS, SUSAN SANDERS, The american drive-in movie theater, Osceola, Motorbook International, 1997.

8

I generi e il mito

Come anticipato, la produzione cinematografica postbellica si presta ad un’interpretazione ambivalente: persistono in alcuni generi, il musical su tutti, ma anche la fantascienza e, in linea generale il film di guerra, alcuni elementi favolistici e utopici che rilanciano e tentano di riaffermare il sogno americano, mentre altri generi si distaccano dai modelli narrativi preesistenti e dalle rappresentazioni simboliche condivise e introducono fattori innovativi che capovolgono il tradizionale sistema di valori su cui si fonda il mito e la stessa concezione della società americana . E anche 21

all’interno di lungometraggi che non si discostano dagli archetipi narrativi di Hollywood e che rispettano le caratteristiche strutturali del genere di riferimento, si registra un progressivo rigetto della raffigurazione ideale della società e una critica del way of life a stelle e strisce. E’ opinione diffusa, ad ogni modo, che i miti e i valori che alimentavano la visione della vita americana abbiano iniziato a vacillare, nel cinema, a partire dal 1945

, proprio nel momento in cui, attraverso altre vie ed altri mezzi, l’idea dell’american 22

dream cominciava ad affermarsi positivamente in tutta Europa.Un esame comparativo dei generi permette di evidenziare l’evoluzione del mito

americano nel periodo di riferimento e di coglierne i caratteri salienti e comuni. Il musical, come detto, è il genere che per eccellenza propugna l’ideale fiabesco della felicità, della spensieratezza e che termina sempre con lo scontato happy end, e che, proprio tra gli anni Quaranta e Cinquanta, attraversa una stagione estremamente produttiva e propizia, grazie a celebri produzioni MGM come Un americano a Parigi (An American in Paris, 1951), Cantando sotto la pioggia (Singing in the rain, 1952) e Sette spose per sette fratelli (Seven brides for seven brothers, 1954). Nelle parole di Roberto Campari: “il musical è essenzialmente evasione in un mondo colorato di sogno, serenità e gioia; in qualche misura, esso costituisce la più pura realizzazione della poetica dell’«entertainment», del divertimento, che è poi quella primaria nel cinema di Hollywood” . Questo genere rappresenta la perfetta sintesi dell’immagine caldeggiata 23

dalle autorità americane nel “Codice Hays”: l’immagine di un paese solare (filmato spesso in Technicolor) e spensierato in cui si può raggiungere l’affermazione personale unitamente all’affermazione collettiva, un paese nel quale il beneficio individuale, solitamente il coronamento di un amore contrastato, si realizza nell’interesse e nel rispetto dell’intera società . Il musical è anche il genere nel quale meglio si esplicano i 24

valori coesivi e conservativi che caratterizzano gli USA negli anni Cinquanta; è un elogio dell’immobilismo (in un contesto, tuttavia, dinamico) e della restaurazione, dell’azione che torna su se stessa senza mutare l’atmosfera onirica dei luoghi (o non-luoghi, o) in cui essa si dipana. La frenesia delle scene musicali, che costituisce il mezzo attraverso il quale si superano le difficoltà e vengono risolti i problemi, è, in questo senso,

21 GIAN PIERO BRUNETTA, Parabola del mito americano cit., pp. 29-30.22 Ibidem, p. 30.23 ROBERTO CAMPARI, Cinema: generi, tecniche, autori, Milano, Mondatori Università, 2002, p. 61.24 Ibidem, p. 61.

9

inefficace, poiché riconduce la narrazione al punto iniziale, alla riaffermazione dell’ordine sociale precostituito. Anche nella struttura tematica il musical torna su se stesso, poiché sembra non emanciparsi dalle costrizioni retoriche adottate negli anni Trenta; il genere non riesce a rinnovare gli elementi narrativi né riesce ad attualizzare i linguaggi espressivi ad un’epoca di profondo mutamento e ciò provocherà il rapido declino del genere negli anni Sessanta . Le pellicole ribadiscono costantemente la 25

visione ottimistica ed utopica del mito americano, proprio nella stessa maniera in cui Judy Garland ripete, alla fine del Mago di Oz (The Wizard of Oz, 1939), la frase “There’s no place like home”. Come sottolinea Brunetta a proposito del musical degli anni Trenta e Quaranta, ma il concetto si adatta perfettamente anche alle pellicole del decennio successivo: “Questi film spingono – con ogni probabilità al limite estremo di tolleranza – il senso di rappresentazione dei caratteri dell’all-american.

La fantascienza (o science fiction) è, incece, il genere che meglio incarna lo spirito conflittuale della guerra fredda e rappresenta in maniera inequivocabile il mito dell’invincibilità americana e del trionfo delle forze positive su quelle negative. Essa non costituisce certo una novità nel panorama cinematografico, basti pensare, tra gli altri, a Dalla terra alla luna (Le voyage dans la lune, 1902) di Gorge Méliès, Il mondo perduto (The lost world, 1925) di Harry Hoyt, Metropolis (1927) di Fritz Lang, Frankenstein (1931) e L’uomo invisibile (The invisibile man, 1933) di James Whale, King Kong (1933) di Ernest Schoedsack e Merian Cooper e Flash Gordon (1936) di Frederick Stephani, tuttavia è proprio a partire dal secondo dopoguerra che avviene la codificazione del genere, che inizia ad affermarsi compiutamente come filone autonomo distaccato da quello avventuroso . Va precisato che questi film non godono, né negli USA né, 26

tantomeno, in Europa, di un successo e di un seguito paragonabili ad altri generi, tuttavia consentono un’agevole analisi dei linguaggi propagandistici nel cinema. Le tematiche fantascientifiche racchiudono l’intero spettro dei sentimenti prevalenti tra la popolazione americana negli anni successivi al secondo conflitto mondiale: la fede nel progresso della scienza e della tecnica, la visione ottimistica del futuro, la volontà imperialistica e conquistatrice (opposta all’isolazionismo predominante tra le due guerre), la concezione tradizionale dell’atto eroico, ma anche la paura dell’ignoto e delle popolazioni straniere, il timore di contagio comunista, la preoccupazione per una società sempre più automatizzata e lo spauracchio della guerra atomica. È comunque la tematica anticomunista quella che più frequentemente ricorre nelle pellicole degli anni Cinquanta, nei film più esplicitamente contrari al regime sovietico come I 27 giorni del pianeta Sigma (The 27th day, 1957) di William Asher, nel quale un ordigno alieno progettato per sterminare esclusivamente i nemici della pace e della libertà produce una catastrofe nella sola Unione Sovietica, e nei film che contengono metafore e riferimenti simbolici più velati come L’invasione degli Ultracorpi (Invasion of the body snatchers, 1956) di Don Siegel, che denuncia i pericoli del comunismo (omologazione e spersonalizzazione), ma critica, al contempo, i metodi investigativi e le persecuzioni

25 Ibidem, p. 60.26 CLAUDIA MONGINI, GIOVANNI MONGINI, Storia del cinema di fantascienza (11 volumi), Roma, Fanucci Editore, 2000, Vol.1.

10

maccartiste, o Blob – Il fluido che uccide (The Blob, 1958) di Irwin Yeaworth Jr., che rimanda implicitamente alla paura di un lenta invasione dell’ideologia comunista, o, ancora La cosa da un altro mondo (The thing from another world, 1951) di Howard Hawks e Christian Nyby e Ultimatum alla Terra (The day the Earth stood still, 1951) di Robert Wise, che contiene un invito alla pace e alla fratellanza universale .27

Messa da parte la elementare analogia tra civiltà aliena e Unione Sovietica, ciò che emerge è la pura esaltazione del sistema americano, sempre in grado di organizzare una efficace risposta ai pericoli extraterrestri e culturalmente più evoluto di ogni potenziale invasore. Anche la figura dell’eroe, che in altri generi inizia a mostrare gravi segni di cedimento, è ancora saldamente ancorata agli stereotipi del mito americano: come ha notato Roy Menarini il classico gruppo dei “buoni” è composto da un militare di professione di gradevole aspetto e sprezzante del pericolo, uno scienziato progressista che piega il proprio sapere alle esigenze della nazione e una donna “dolce e desiderabile” destinata all’amore dell’eroe di turno . È la sintesi di uno stato ideale 28

caratterizzato dalla supremazia militare, scientifica e civile, in grado di affrontare e superare ogni difficoltà. È perfino troppo banale, infine, sottolineare il fatto che la produzione cinematografica statunitense di quegli anni, ma poco è cambiato anche in tempi recenti, presenti sempre la nazione americana come portavoce dell’intera umanità e responsabile della sicurezza mondiale rinforzando, sia all’interno che all’esterno, la convinzione dell’esistenza di una missione americana e imponendo la visione dell’America come centro del mondo, dopo secoli di prevalenza di un punto di vista eurocentrico. Attraverso la fantascienza si afferma così la superiorità del modello americano su tutte le altre civiltà.

Il cinema a sfondo bellico muta profondamente tra la fine della guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda, rinverdendo la tradizionale tensione tra tendenze propagandistiche e tendenze pacifiste. La guerra è, nel cinema prebellico, esperienza formativa, totalizzante e, naturalmente, metaforica; è un percorso di avvicinamento alla piena consapevolezza di sé e dell’altro. L’individuo (l’essenza del mito americano) accetta di spersonalizzarsi per un obiettivo superiore e per il bene nazionale e riacquista la propria indipendenza nel momento della vittoria, dopo il superamento di pericoli e prove glorificanti . Nella fase immediatamente successiva all’armistizio prevale 29

decisamente il sentimento di esaltazione e celebrazione della vittoria e dell’eroismo dei soldati nelle operazioni contro il Giappone come in Iwo Jima, deserto di fuoco (Sands of Iwo Jima, 1949) di Dwan, o in Europa come in Bastogne (Battleground, 1949) di Wellmann, mentre in una fase seguente la prospettiva muta radicalmente. La figura dell’eroe è attenuata e i soldati non posseggono più un’aurea di onnipotenza, inoltre essi iniziano a rendersi conto di essere delle pedine inanimate in uno scenario più ampio e non influenzabile dalla loro azione diretta; si veda ad esempio I forzati della gloria (The story of G.I. Joe, 1945) di Wellmann, che mostra un cambiamento visibile già nella fase finale del conflitto o il celebre e forse più significativo Orizzonti di gloria (Paths of

27 Ibidem, pp. 56-62.28 ROY MENARINI, Il cinema degli alieni, Alessandria, Falsopiano, 1999, p. 48.29 GIAN PIERO BRUNETTA, Parabola del mito americano cit., p. 29.

11

glory, 1959) di Kubrick. Negli anni Cinquanta la guerra non è più un motivo di autocelebrazione, ma diventa progressivamente occasione di riflessione sul significato dei conflitti e sulla logica del sistema militare, in un’ottica interpretativa decisamente antieroica . Viene esplicitamente criticato e messo in discussione il sistema gerarchico 30

di valori dell’esercito e, nel sottotesto, il sistema di valori americano. Attraverso un percorso piuttosto lineare la cinematografia bellica prepara il campo all’esplosione della contestazione cinematografica che si verificherà in occasione della guerra del Vietnam e che colpirà a morte la rappresentazione del mito americano. I film degli anni Cinquanta, come Di qui all’eternità (From here to eternity, 1953) di Zinnemann, Uomini in guerra (Men in war, 1957) di Mann e Prima linea (Attack, 1956) di Aldrich sono concettualmente più vicini alla prolifica produzione degli anni Sessanta relativa alla guerra del Vietnam, che non a quella celebrativa degli anni Quaranta. Non vi è, però, un cambiamento di genere, ma un cambiamento nel genere; la struttura tematica e narrativa, cioè, non varia molto, ma cambia l’approccio individuale nella costruzione della storia e la visione della società americana.

La stessa trasformazione nel genere avviene, forse in maniera ancora più marcata, nel western. Negli anni Trenta questo è il regno dell’eroismo e dell’individualismo inserito nella comunità, della giustizia e della libertà, illustrata visivamente anche dagli spazi sterminati della frontiera. È, soprattutto, l’ambiente in cui meglio si evidenzia l’ideale distinzione tra “bene” e “male”, tra “giusto” e “sbagliato”. In sostanza è un ulteriore non-luogo, uno spazio ideale. Scrive Enrico Grezzi: “Il western è il Mito, molto più che sostanziarsi di miti. Il Mito del Senso della Storia, della reperibilità di uno spazio in cui proiettare la Storia e narrare le storie al cinema” . Il western è, quindi, il genere 31

cinematografico in cui più compiutamente si afferma il mito dell’America delle opportunità infinite, l’America libera e giusta, dove l’eroe solitario trionfa sempre e dove il codice d’onore è più importante della legge scritta. Il far west è esso stesso mito, in quanto invenzione letteraria: esso “nasce come rappresentazione mitica di un evento storico, la progressiva conquista dei territori dell’Ovest e, più in generale, il graduale consolidarsi degli Stati Uniti, ma diventa poi simbolicamente l’epica – forse l’unica del Novecento – del rapporto con una natura e una civiltà ancora selvagge” . In 32

quanto luogo immaginario è immediatamente riconoscibile; ancora Ghezzi: “cinematograficamente, partendo da qualche “studio” o/e da poche vallate, è la produzione di uno spazio infinito eppure determinato geograficamente e storicamente, riconoscibile, pieno di segnali” . Il western è, inoltre, il genere americano per 33

eccellenza e costituisce il fondamento storico-letterario della società statunitense. Nelle parole di Brunetta: “il western è il luogo privilegiato della memoria della nazione americana e la forma di monumentalizzazione della propria storia che ha dato i migliori risultati nel corso del tempo. Nel west il pioniere perde il contatto con le sue radici europee e la sua storia anteriore e rinasce come uomo all-american. Nel west il destino

30 Ibidem, p.30.31 ENRICO GHEZZI, Paura e desiderio: cose (mai) viste, Milano, Bompiani, 2000, p. 70.32 ROBERTO CAMPARI, Cinema: generi, tecniche, autori, Milano, Mondadori Università, 2002, p. 70.33 ENRICO GHEZZI, op.cit., p. 70.

12

del singolo fonda quello della nazione” . Non stupisce che, almeno fino agli anni 34

Quaranta, esso abbia fornito la più fulgida esemplificazione del mito americano, che è soprattutto mito dell’individualismo, della frontiera, del movimento (la mobilità della manodopera che diventa metafora della mobilità sociale è una costante della cultura USA), delle opportunità, tutti elementi ampiamente compresi nell’immaginario del vecchio west. Anche i western come i film bellici, con i quali condividono una certa linea evolutiva e tematica, subiscono un profondo mutamento di significato tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. Si fanno più indistinti i confini, tradizionalmente ben definiti, tra buoni e cattivi e tra difensori della legge e banditi (ad esempio in Ultima notte a Warlock – Warlock, di Dmytryck del 1959), si affermano eroi tormentati che non costituiscono più saldi esempi morali (come il John Wayne di L’uomo che uccise Liberty Valance – The man who shot Liberty Valance, del 1962, o, amcora, del meraviglioso e complesso Sentieri selvaggi – The searchers, del 1956, entrambi diretti da Ford), si sfalda il rapporto tra individuo e comunità tipico del western classico (si pensi a Mezzogiorno di fuoco – High noon, di Zinnemann del 1952) . Proprio 35

Mezzogiorno di fuoco costituisce, a mio avviso, l’antitetica raffigurazione del western prebellico più celebre: Ombre rosse (Stagecoach, 1939) di John Ford. A parte lo scontato confronto tra gli spazi sterminati e i ritmi frenetici del film di Ford con gli ambienti claustrofobici e l’immobilismo di quello di Zinnemann, quello che balza agli occhi è il cambiamento nella relazione tra individuo (eroe) e comunità (città/villaggio). Quando la diligenza di Ombre Rosse raggiunge, dopo innumerevoli difficoltà, l’agognata meta, tutti i protagonisti vedono compiersi i loro destini secondo una sorta di nemesi, di giustizia divina superiore a quella terrena; la città è luogo ideale e diventa metafora del sogno e dello Stato americano . In Mezzogiorno di fuoco, invece, è proprio la città-comunità a 36

negare l’aiuto e il sostegno allo sceriffo (elemento interno, quindi, alla stessa comunità) e a decretarne, sostanzialmente, l’espulsione (seppur volontaria) e il rifiuto; la città non è più luogo ideale di giustizia e cooperazione, ma si caratterizza per un estremo individualismo che finisce per porre fine ai valori comunitari e alle istituzioni su cui essa stessa si fonda . Il far west diventa, quindi, occasione per una più profonda riflessione 37

sulle grandi problematiche dell’esistenza umana e sui valori americani, che non sembrano più essere condivisi universalmente, cessando di rappresentare il per eccellenza del mito americano.

Esistono altri generi in cui la celebrazione del sogno americano non è, di fatto, quasi mai iniziata e nei quali è celato un sentimento di inquietudine e disagio verso la società e le istituzioni. L’atmosfera ombrosa del noir e la frenesia violenta dei gangster movie, due generi affermatisi tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta, offrono l’immagine di un’America ben diversa da quella onirica dei musical o quella virtuosa dei film bellici e fantascientifici. Il noir, una sorta di versione goticheggiante ed evoluta della detective story classica, esprime al livello più estremi i contrasti (espressi anche visivamente da

34 GIAN PIERO BRUNETTA, Il Western, in GIAN PIERO BRUNETTA (a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, Vol.1, Torino Einaudi, 2000, p. 768.35 GIAN PIERO BRUNETTA, Parabola del mito americano, cit., p. 25.36 EDWARD BUSCOMBE, Ombre rosse, Genova, Le Mani Editore, 1999.37 GIAN PIERO BRUNETTA, Parabola del mito americano, cit., p. 27.

13

una fotografia dal violento impatto cromatico) e le ambiguità dell’apparato ideologico statunitense. Queste pellicole mettono in opera la demolizione sistematica di tutte le costruzioni sintattiche del cinema hollywoodiano e dei punti di riferimento convenzionalmente determinati: il noir è un genere (ma per alcuni è più che altro uno stile, dal momento che non è facile identificarne una chiara linea di sviluppo ) 38

rivoluzionario che innova la percezione dello spettatore puntando al disorientamento e al capovolgimento dei valori affermati. La profonda critica alla società è condotta, naturalmente per via metaforica (negli anni Trenta è ancora rigorosa l’applicazione del Codice Hays di autocensura), attraverso la confusione e la sovrapposizione di elementi contrapposti. Nel film noir (e, quindi, nella realtà americana) nulla è ciò che sembra: la polizia e il sistema giudiziario sono corrotti e spesso inefficienti, il confine tra crimine e giustizia è estremamente labile, la verità e la menzogna sono facce della stessa medaglia e persino la logica che determina le azioni è spesso incoerente. L’applicazione di ogni elemento narrativo è estranea alla tradizione filmica americana ed in quest’ottica diventa naturale la occasionale rinuncia all’happy end . La novità più evidente, e che 39

più efficacemente colpisce al cuore la rappresentazione del mito, riguarda il ruolo e le caratteristiche dell’eroe e del suo corrispettivo femminile. “L’eroe ideale del noir è l’opposto di John Wayne. Psicologicamente è passivo, masochista, morbosamente curioso” . È l’antieroe per eccellenza, l’antitesi del protagonista hollywoodiano classico, 40

quello, per esempio, dei film western o di fantascienza; è anch’esso un individuo solitario, ma non ha caratteristiche eroiche o virtuose, né si distingue dal resto del mondo, integrandosi perfettamente nel meccanismo della violenza e del tradimento. È il volto dell’America ambigua, instabile e, appunto, nera. Anche la protagonista femminile è quanto di più distante si possa immaginare dagli archetipi dolci e solari prevalenti in altri generi. Incarna tutte le caratteristiche proprie della femme fatale: attraente, fredda, doppiogiochista, disperata e pericolosa. Anch’ella rappresenta l’opposto della eroina hollywoodiana e la degenerazione della visione femminile degli anni Cinquanta . I 41

film noir tratteggiano un sistema sociale caratterizzato dal tradimento, dall’ambiguità, dalla violenza e dalla corruzione; un mondo cupo, in ombra, privo di valori, di morale e di coscienza. Se il musical è il genere dell’astrazione e dell’utopia, il noir viaggia su binari opposti e non lascia spazio a sentimenti nobili o ideali. Il musical descrive la società dei sogni (l’American dream) mentre il noir descrive gli incubi della società, dando corpo a tutte le paure e le contraddizioni di un paese appena uscito da una lunga guerra tradizionale, in cui erano ben identificati i nemici, ed immerso in una guerra atipica, che, a breve, farà venire alla luce ossessioni ataviche ed ancestrali.

Il gangster movie, precursore, per certi versi, del noir, ne anticipa le tematiche e i caratteri salienti, mantenendo, tuttavia, una più chiara separazione tra giustizia e crimine. Il genere ha il suo momento di gloria tra il 1930 e il 1932, quando escono i tre

38 ROBERT SKLAR, Il cinema americano, 1945-1960, in GIAN PIERO BRUNETTA (a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, Vol.2, Torino, Einaudi, 2000, p. 1094.39 JAMES NAREMORE, Il noir, in GIAN PIERO BRUNETTA (a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli StatiUniti, Vol.2, Torino, Einaudi, 2000, pp. 1213-1237.40 Ibidem, p. 1224.41 Ibidem, p. 1224.

14

capolavori che dettano le regole narrative e impongono il filone al grande pubblico: Piccolo Cesare (Little Caesar, 1930) di Mervyn LeRoy, Nemico pubblico (The public enemy, 1931) di William Wellman e Scarface (1932) di Howard Hawks . Nel dopoguerra i 42

gangster movie continuano a ricalcare la struttura tematica di questi modelli almeno fino al 1972, quando Francis Ford Coppola presenta al mondo Il padrino (The godfather, 1972) che assurge a nuovo modello del genere. Queste pellicole presentano sempre l’ascesa e la caduta tragica del gangster, che è, generalmente, l’unico indiscusso protagonista. Egli rappresenta un nuovo tipo di eroe americano, un eroe senza dubbio negativo che, tuttavia, possiede le virtù tipiche del mito americano: il dinamismo, l’individualismo, la tenacia e la leadership . Il gangster cinematografico è l’estremizzazione simbolica, più 43

tragica che non espressamente negativa, del sogno americano e appare come una metafora deviata del self-made man; è l’immagine critica di un sistema sociale fondato sull’individualismo e sulla competitività sfrenata, che finisce per distruggere la sfera morale. Il gangster è, in definitiva, una vittima del sistema che attraverso la morte violenta o il fallimento mette in guardia dai pericoli derivanti dall’adesione incondizionata ai valori americani. Il noir e il gangster movie sono i generi che in maniera più evidente si oppongono, fin dalla loro comparsa, alla visione utopistica e celebrativa degli Stati Uniti, proponendo una raffigurazione critica e quasi espressionista della società postbellica. Va detto, però, che la maggior parte di queste pellicole non gode di un vasto successi immediato a livello mondiale e che riveste, quindi, più un’importanza accademica, nell’ambito della riflessione critica sulle influenze culturali dei diversi generi cinematografici, che non sociologica.

Vecchi eroi e nuovi divi: l’incarnazione del mito

Nella produzione cinematografica degli anni Cinquanta, o meglio nell’industria cinematografica degli anni Cinquanta, emerge una caratteristica inedita che rivestirà un ruolo fondamentale nella trasmissione e nella diffusione del mito americano anche nei decenni successivi. Si tratta di un fenomeno tipicamente giovanile che non colpisce solo il cinema, ma anche, e negli anni Sessanta, soprattutto, la scena musicale. Sto parlando della venerazione e dell’identificazione divistica che contribuisce a diffondere, per emulazione, l’immagine e i valori della società statunitense. Questo fenomeno costituisce, in realtà, una degenerazione della fruizione cinematografica e una conseguenza diretta, a mio avviso, di due fattori: la comparsa del conflitto generazionale tra genitori e figli, con la conseguente necessità di creare un universo condiviso di stili, simboli, feticci e valori (di cui l’industria ha prontamente colto e sfruttato il potenziale commerciale), attraverso la quale compiere una sorta di ricerca di identità collettiva, e la maggiore dotazione di denaro e tempo libero di cui i giovani

42 RENATO VENTURELLI, Gangster e detective. Il cinema criminale, in GIAN PIERO BRUNETTA (a cura di),Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, Vol.2, Torino, Einaudi, 2000, pp. 1187-1188.43 Ibidem, p. 1189

15

potevano usufruire. La pubblicità, il consumismo e la cultura popolare trasformano gli eroi della produzione in eroi del consumo: l’attore, il cantante, il divo diventano, appunto, “consumption heroes”, espressione che intende sottolineare la funzione passiva del soggetto . I “consumption heroes” lasciano che la propria immagine sia acquistata e 44

utilizzata dal pubblico e attivano un processo di trasfigurazione della propria opera in un’immagine di consumo. Questi nuovi divi si differenziano dai personaggi della Hollywood prebellica proprio per il potere figurativo e l’impatto stilistico che riescono ad imporre; del resto la massificazione dello stile e della moda sono conseguenze del sistema di produzione e promozione degli anni Cinquanta . L’avvento su larga scala della 45

pubblicità provoca un capovolgimento delle abitudini di consumo, poiché altera la successione logica del sistema produttivo: essa adegua i bisogni alla produzione attraverso la modellizzazione e stilizzazione dei gruppi sociale e approfitta in maniera significativa dell’immagine cinematografica e, in seguito, televisiva adattando la cultura popolare alle esigenze produttive .46

I nuovi idoli giovanili (è in quest’epoca che si afferma il concetto di teen idol, anche se in precedenza fenomeni di idolatria pressoché analoghi, ma di minore intensità, si erano manifestati nei confronti di Rodolfo Valentino, negli anni Venti, e Frank Sinatra, negli anni Quaranta) diventano incarnazioni viventi del mito americano, sono essi stessi sogno. L’immagine degli USA negli anni Cinquanta non è più veicolata esclusivamente dal messaggio cinematografico, ma viaggia anche attraverso l’iconografia hollywoodiana. I “consumption heroes” entrano prepotentemente a far parte della propaganda cinematografica e cambiano la natura della relazione tra pubblico e personaggio: il pubblico cerca di appropriarsi del suo idolo, o almeno della sua immagine, e in subordine cerca di imitarne lo stile e le pose. Ciò e tanto più valido in Europa dove mancano gli eroi (di celluloide) da ammirare e nei quali identificarsi: John Lennon, all’apice della carriera, ha fornito una descrizione inequivocabile della realtà giovanile britannica del dopoguerra (ma il ragionamento può essere applicato, senza particolari distinzioni, a tutte le democrazie occidentali): “Before Elvis, there was nothing” . Allargando il 47

concetto da Elvis Presley (che resta, comunque, il più eclatante caso di “consumption hero”) alle icone cinematografiche americane, come Marlon Brando, James Dean, Natalie Wood e Marilyn Monroe, si può tranquillamente affermare che prima della comparsa del divismo americano, non solo non esistevano modelli da imitare, ma non esisteva neppure un germe di cultura popolare, tanto meno in una classe giovanile che andava affermando la propria identità proprio attraverso l’adozione di simboli americani e attraverso l’imitazione della gioventù americana . Il mito americano è stato fino agli anni Cinquanta 48

un complesso di caratteristiche e valori cui aspirare, un modello sociale irraggiungibile

44 EUGENE E. JENNINGS, An anatomy of leadership: princes, heroes, and superman, New York, McGraw-Hill Publishers, 1960.45 NICOLA WHITE, IAN GRIFFITHS, The fashion business: theory, practice, image, Oxford-New York, Berg Publishers, 2000.46 RAYMOND WILLIAMS, The long revolution (1961), Harmondsworth, Penguin Books, 1965.47 GLENN C. ALTSCHULER, All shook up: how rock’n’roll changed America, New York, Oxford University Press, 2003.48 PAOLA COLAIACONO, VITTORIA C. CARATOZZOLO, La Londra dei Beatles, Roam, Editori Riuniti, 1996, pp. 91-94.

16

eppure potenzialmente a portata di mano; dopo la guerra, invece, esso è diventato un mezzo di propaganda (un’arma culturale da impiegare nella guerra fredda), e un bene da esportare. È proprio in questa prospettiva che va considerata l’analogia tra divi e merci: i nuovi divi, come la bottiglia di Coca Cola del 1945, contribuiscono a diffondere “la voce dell’America” e consentono di acquistare, al prezzo di un biglietto o di un feticcio, un pezzo del mito americano.

È importante notare come nel dopoguerra, oltre alla trasformazione all’interno dei generi, avviene anche un mutamento della concezione e della raffigurazione dell’eroe. Gli attori sopra citati, indubbiamente tra i più celebri nella storia del cinema e, comunque, i più vicini all’universo giovanile, sono accomunati dall’interpretazione di personaggi fragili e incompresi, che hanno profondamente influito sull’evoluzione culturale dei giovani americani ed europei. Sembra quasi che il mito americano degli anni Cinquanta sia rappresentato, nel cinema, da personaggi emarginati, perdenti, deviati, in una parola: tragici. A differenza dell’eroe classico, sicuro e vincente, il nuovo modello è tormentato e irresoluto, metafora vivente della incertezza interna e internazionale. La tragicità e lo splendore esteriore sono elementi fondanti della popolarità e dell’appeal di questi modelli giovanili: Jim Stark in Gioventù bruciata (Rebel without a cause, 1955) e Cal Trask in La valle dell’Eden (East of Eden, 1955) entrambi impersonati da James Dean, oppure Stanley Kowalski in Un tram che si chiama desiderio (A streetcar named desire, 1953) e Terry Malloy in Fronte del porto (On the waterfront, 1953), interpretati da Marlon Brando, sono individui reietti, sconfitti, sgradevoli, incompresi, ma terribilmente affascinanti per una generazione in cerca di icone da ammirare e non interessata all’immagine ripulita (e, quindi, più conformata all’età adulta) degli attori classici . L’aspetto essenziale della superiore capacità di 49

veicolare lo stile di vita americano da parte della nuova generazione di attori, risiede proprio in questa distinzione (immediatamente e visivamente percepibile a partire dall’abbigliamento e dall’aspetto fisico) dall’omologata e conformista società adulta. Così, i capelli appiattiti sulla fronte di Brando o quelli raccolti in un ciuffo di Dean o, ancora, quelli artificiosamente biondi di Marilyn Monroe diventano un segno di distinzione e di aggregazione e sono rapidamente imitati in tutto il mondo; così come, ben presto, entrano nel guardaroba di ogni americano il giubbotto di pelle del Selvaggio (The wild one, 1953) la giacca rossa di Gioventù bruciata, o il vestito bianco di Quando la moglie è in vacanza (The seven year itch, 1955). Non va dimenticato che in questo periodo l’industria cinematografica assiste ad un graduale rinverdimento del pubblico che comporta l’adozione di differenti tecniche e linguaggi ed una destrutturazione della mitologia classica, che viene riadattata alle mutate esigenze intergenerazionali . 50

L’eroismo (sullo schermo) cede il passo al divismo (fuori dallo schermo) e ciò determina il mutamento di significato del mito e dei suoi veicoli di trasmissione.

In questo modo il cinema impone il sogno americano attraverso la diffusione dell’immagine e dello stile dei suoi nuovi attori, che non hanno eguali in nessuna parte

49 THOMAS DOHERTY, op. cit.50 JAMES NAREMORE, Lo Star System dopo la seconda guerra mondiale, in GIAN PIERO BRUNETTA (a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, Vol.2, Torino, Einaudi, 2000, p. 1163.

17

del mondo, e non più attraverso la struttura narrativa delle opere, che, come abbiamo visto, in questo periodo tendono invece a demolire le fondamenta ideologiche di tale visione utopistica. E non è rilevante, in questa prospettiva, sottolineare il fatto che i personaggi imitati siano negativi o privi di valori poiché, in quanto emanazioni di icone viventi, sono dotati di una forte carica simbolica che ne trascende la caratterizzazione cinematografica e li pone alla portata (consumo) di tutti, facendo prevalere la raffigurazione sulla significazione. La personificazione del mito appare più evidente in Marilyn Monroe e in James Dean, i quali, a distanza di decenni dalla morte, continuano a rappresentare l’emblema del sogno americano in tutto il mondo. L’immagine di Marilyn Monroe, deceduta nel 1962 in circostanze misteriose, viene serializzata da Andy Warhol e diventa, a soli quattro mesi dalla morte, un’icona artistica, un simbolo della cultura popolare americana al pari di Elvis, e una metafora della massificazione visiva e culturale al pari della bottiglia di Coca Cola e della confezione di zuppa Campbell. Al di là di ogni tentazione interpretativa, assolutamente fuori luogo in questo contesto, va detto che l’immagine seriale di Mrilyn Monroe, personaggio tanto popolare da rappresentare quasi una bellezza stereotipata, anche nelle innumerevoli variazioni cromatiche che non ne diminuiscono la riconoscibilità, sembra concettualmente confermare l’idea del “consumption hero”, vale a dire del personaggio proposto e venduto dall’industria hollywoodiana, secondo logiche tipicamente commerciali, ad un pubblico avido di feticci. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, ma sarebbe forse più corretto dire a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, Hollywood vende soprattutto immagini e simboli, secondo logiche industriali.

James Dean, poi, rappresenta la sintesi e l’apoteosi di questa concezione del mito americano. Grazie ad una morte premature e violenta, egli è diventato la prima icona funebre della fine della modernità e il primo martire dello show business: una sorta di 51

Peter Pan congelato nella sua giovinezza e quindi immortalità. Meglio di ogni altro collega ha saputo interpretare il disagio, lo smarrimento e la ribellione di una intera generazione, una generazione allo sbaraglio, in rivolta per trovare un’identità e uno spazio; una generazione di ribelli senza un motivo, come echeggia il titolo del suo film più celebre (Rebel without a cause di Nicholas Ray), di figli della guerra, di diversi. La gioventù europea è, in questo, perfettamente analoga a quella americana, poiché vuole solo emanciparsi e distinguersi dalla società adulta ed è molto ricettiva agli stimoli proposti dall’industria cinematografica, e ciò spiega la popolarità di James Dean nei due continenti. In due delle tre pellicole in cui recita da protagonista interpreta un ragazzo in conflitto con la famiglia e con gli ideali della società, fornendo un modello di ribellione a tutti i giovani del mondo. L’immagine e la vita di Dean sono così universali e adatti allo stato d’animo della gioventù degli anni Cinquanta che sembrano costruiti a tavolino. Ma come ha affermato lo scultore Kenneth Kandall, James Dean era un “americano originale”, era il simbolo vivente del sogno americano, del self-made man moderno e

51 MAURIZIO CABONA, James Dean, la leggenda che ispirò decine di cloni, in “Il Giornale”, 8 novembre 2005, p. 34.

18

indipendente . Il potere simbolico ed evocativo della sua immagine deriva proprio da 52

questa incarnazione di tutti i valori americani tradizionali (l’individualismo, la dinamicità, il carisma, l’autonomia) e dalla contestuale raffigurazione di eroe contestatore dell’ordine sociale precostituito. Martin Sheen, che si farà interprete dei disturbi di un’altra generazione di teenagers, quella di inizio anni Settanta turbata dalla guerra in Vietnam, nello splendido Badlands, la rabbia giovane (Badlands, 1973) di Terrence Malick, ha sottolineato il potenziale evocativo e sovversivo della figura di James Dean, paragonabile, a mio avviso, solo a quella di Elvis Presley, e l’influenza sul sistema di valori della gioventù americana: “If Marlon Brando changed the way people acted, then James Dean changed the way people lived”. Questa nuova categoria di divi accompagna la metamorfosi del mito americano e ne attualizza il significato. La visione onirica e allegorica degli Stati Uniti è, infatti, fortemente connessa alla congiuntura storica ed alle condizioni sociali nelle quali si manifesta e muta la propria essenza in relazione allo scorrere del tempo. La raffigurazione del mito americano dei primi del novecento è ben diversa da quella degli anni Trenta, così come quest’ultima è difficilmente sovrapponibile a quella del dopoguerra, poiché il contesto sociale e il sistema di valori varia progressivamente plasmando la percezione e l’espressione di tale mito. A partire dagli anni Cinquanta il sogno americano è fondato soprattutto su un desiderio di assimilazione dell’estetica e dello stile (di vita) statunitense e non più (o, almeno, non più in via principale) sugli ideali di libertà e giustizia di inizia secolo.

La produzione cinematografica statunitense del dopoguerra ha contribuito ad affermare questo nuovo tipo di mitologia all’interno della società americana, ma anche, e soprattutto, all’interno di quella europea. Pierre Sorlin afferma che in Europa il decennio successivo alla seconda guerra mondiale rappresenta una sorta di “età dell’oro” per le sale cinematografiche , che non subiscono il calo di pubblico che colpisce gli 53

esercenti d’oltreoceano. Negli Stati Uniti la frequenza di spettatori diminuisce già a partire dal 1947 e anche in Gran Bretagna il declino inizia precocemente nel 1948, ma nell’Europa continentale il pubblico cinematografico aumenta per tutto il decennio, fino al 1955, trasformando una passione collettiva in una vera e propria abitudine sociale . 54

All’inizio il cinema è prevalentemente un’esperienza familiare, ma ben presto emerge anche in questo contesto la ricerca di autonomia e libertà da parte dei teenagers; si determina così una frattura nelle modalità di fruizione dello spettacolo: i giovani, da un lato, frequentano in gruppo le sale, più volte a settimana e solitamente di sera, allo scopo di socializzare e acquisire maggiore indipendenza, gli adulti, invece, si recano alle proiezioni con la famiglia in una sorta di celebrazione di un rito pagano . Il cinema 55

diventa un fattore sociale e culturale significativo. Ancora Sorlin: “Prima della guerra, la stampa locale non dedicava molto spazio ai film e le riviste specializzate si occupavano più delle star che dei film stessi. Negli anni Cinquanta la stampa in generale dovette fare

52 MARCO GIOVANNINI, James dean: il mito della gioventù bruciata tra storia e leggenda, Milano, Mondadori, 2005.53 PIERRE SORLIN, Cinema e identità europea: percorsi nel secondo novecento, Milano, La Nuova Italia,2001, p. 87.54 Ibidem, p. 87.55 Ibidem, p. 89.

19

i conti con il cinema e gli riservò uno spazio importante. Al di là delle riviste dedicate alle star, ne nacquero altre per discutere dei film, [...]. L’importanza di questa stampa, [...], indica che l’analisi e il dibattito erano diventati un’abitudine anche per gli spettatori meno assidui” . Il cinema diventa un fattore determinante di influenza 56

collettiva e un elemento di costruzione della cultura popolare. E in questo processo di costruzione culturale, protagonista assoluta è l’industria americana, che fornisce mediamente circa il 40% dell’offerta cinematografica in tutti gli stati europei (in Inghilterra la quota di mercato è addirittura superiore al 50%). Prima dello scoppio della guerra i governi europei avevano tentato di limitare l’influenza americana fissando delle “quote” di distribuzione per i film americani, ma dopo il 1945 le limitazioni risultano antieconomiche perchè impediscono di coprire le esigenze di programmazione e vengono, quindi, eliminate , concedendo via libera alle pellicole (e alle ideologie) 57

statunitensi, che invaderanno con sempre maggiore insistenza il mercato europeo.Da questa analisi risulta evidente che la produzione cinematografica statunitense

ha contribuito significativamente alla diffusione in Europa del mito americano (si pensi, a titolo esemplificativo, al film di Steno Un americano a Roma del 1954) e, ad un secondo livello, alla creazione di quel complesso di forme, immagini, credenze e valori che possiamo definire culture popolare. Quella che a partire dagli anni Sessanta sarà correntemente chiamata cultura pop (un ossimoro a livello teorico e concettuale) è, in questa prospettiva, un prodotto tipicamente americano. Nel corso degli anni Cinquanta il mito americano, nato dalla commistione di interpretazioni colte e testimonianze individuali, ha dato origine alla cultura pop e ne è diventato l’espressione dominante; proprio nella fase storica in cui la maggioranza degli intellettuali, anche all’interno del tormentato mondo cinematografico, è sembrata disconoscere la superiorità del modello USA e la magnificenza del sogno americano, esso ha definitivamente conquistato le classi popolari e, soprattutto, il ceto medio, diventando patrimonio culturale condiviso universalmente ed elemento fondante della società occidentale contemporanea.

Ciò che emerge in maniera lampante da questo esame della raffigurazione mitologica degli Stati Uniti nelle pellicole del secondo dopoguerra è, in definitiva, un sentimento di grande tensione che attraversa la società civile, stretta tra la volontà di cambiamento delle fasce giovanili (elemento dinamico) e l’immobilismo e conservatorismo della popolazione adulta (elemento statico), e la frustrazione di una generazione di registi che sembra intuire e anticipare, in qualche modo, le grandi contestazioni degli anni Sessanta. I grandi cineasti non dipingono più il proprio paese come un luogo ideale di giustizia e libertà, ma ne evidenziano prevalentemente le contraddizioni e le ansie, in un clima generale che sembra rappresentare una sorta di perdita dell’innocenza. Tale perdita di innocenza può essere fatta coincidere con l’omicidio di John F. Kennedy del 22 novembre 1963, che chiude simbolicamente un’era improntata all’ottimismo e introduce gli Stati Uniti in uno dei decenni più travagliati della loro storia recente. Il cinema degli anni Cinquanta percepisce le tensioni interne ed internazionali meglio della spensierata industria musicale e si fa carico di illustrare un

56 Ibidem, p. 91.57 Ibidem, pp. 98-99.

20

paese inserito nella storia e non più nel mito, un paese intrappolato in una guerra totale e globale, un paese che deve fronteggiare le proprie responsabilità politiche e storiche. È l’affresco di un’America (quella colta) che si guarda allo specchio e non riesce più ad ammirarsi con compiacimento; lo stesso sentimento che emergerà, amplificato, in occasione della guerra in Vietnam e che l’attore e regista Dennis Hopper riuscirà a sintetizzare nello sfogo di un amareggiato Jack Nicholson: “You know, this used to be a hell of a good country. I can't understand what's gone wrong with it” (Easy rider, 1969).

21