IL MIO MITO E’ BATISTUTA - Salotto Conti 9.pdf · Nel mondo di oggi, ... ad un magistrale colpo...

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Nel mondo di oggi, un mondo deprimente, sconvolto da una generale crisi di valori, si assiste sempre di più ad una fuga nel privato dove ognuno coltiva le proprie illusioni con lo sguardo rivolto al passato. Sono un amante del calcio e un tifoso della Fiorentina. E il mio sguardo ripercorre immagini indelebili di un tempo recente dove un uomo, con le sue imprese sportive, mi aiutava a sentirmi meno solo, meno vulnerabile. Quell’uomo, quell’atleta si chiamava e si chiama Omar Gabriel Batistuta. E’ lui il mio mito, la mia difesa contro le frustrazioni e il disagio. Ne ho avuto la certezza quando ci siamo incontrati, a distanza di anni, nello stadio di sempre, nel tempio dei nostri ricordi. Eravamo di nuovo vicini, separati solo da un centinaio di metri e da migliaia di teste che ondeggiavano commosse e incredule. Pure io lo ero. Non volevo credere che i miei occhi si fossero ricoperti di lacrime. Lui mi aveva tradito come il più vile degli amanti, rinun- ciando alla mia passione incondizionata che durava da dieci lunghi anni. Se ne era andato senza una parola, senza una riga di scusa, senza una promessa. Abbandonava la mia squadra del cuore sull’orlo di un baratro nel quale sarebbe poi precipitata. Non potevo in alcun modo perdonare la sua ricerca di gloria in un’altra città, in un’altra squadra. Lo aveva fatto per il denaro! Ne eravamo tutti convinti, io per primo. Ed era giusto che la statua, che i tifosi di Firenze avevano eretto per il loro idolo, fosse distrutta fino a diven- tare sabbia del deserto. Era un modo per tenere lontani i ricordi, per scongiurare il rimpianto. Cercai di esorcizzare quei mo- menti ricorrendo a un rito tribale. Bruciai quella maglia col numero nove e ne affidai la cenere al vento. E continuai a tifare per la mia squadra mantenendo lo stesso posto di prima: fila 6, numero 26. Ad ogni goal della mia squadra, saltavo e abbracciavo chi mi stava vicino, ma le emo- zioni non erano più le stesse. Tentavo in- vano di mascherare a me stesso quello che accadeva in maniera evidente… Un uomo, per quanto affascinante e misterioso, può essere dimenticato, persino le imprese del più grande centravanti del mondo possono cadere nell’oblio, ma quello che non potrà mai essere cancellato, né tantomeno ri- mosso, è l’intensità delle mie emozioni. Talvolta le lasciavo affluire e scorrevano come un fiume in piena. Si identificavano col suo volto, coi suoi gesti atletici, coi suoi goal più entusiasmanti, coi suoi rituali nobili e irridenti per festeggiare… E lui mi trasci- nava al Nou Camp di Barcellona di fronte alla sua richiesta di silenzio, a Wembley dove il pallone era diventato un missile invisibile, a San Siro dove aveva trafitto due volte la più forte difesa del mondo, a Li- sbona dove Preudhomme, uno dei portieri simbolo del calcio, si era inchinato davanti ad un magistrale colpo di biliardo, al Comu- nale di Firenze con un intero stadio ammu- tolito nel vedere Batistuta accasciarsi al suolo mentre si era ormai involato, con la sua corsa prepotente, di fronte al portiere del Milan. L’infortunio del mio mito impedì alla Fiorentina di vincere lo scudetto. Ne sono certo! In quella sera di fine giugno, mentre mi asciugavo le lacrime dagli occhi, cercando di non farmi vedere, quelle scene balena- vano davanti e si ripetevano come in una danza frenetica. Ma dopo lo smarrimento di un attimo, riuscii ad eliminare la vergogna e mi unii all’ovazione di tutto lo stadio. Il nostro eroe era tornato a farci visita e quel saluto, così naturale e diretto, mentre si avviava zoppicando verso il centro del campo, ci coinvolse appassionatamente. Era come se un semplice gesto della mano fosse sufficiente a guarire ferite di anni, come se Gabriel Batistuta fosse diventato un angelo salvifico, se non addirittura un re tauma- turgo. Da allora sono arrivate altre sue promesse, altri attestati di amore per la città di Firenze. Ha acquistato una casa sulle colline e ha detto di non aver mai provato nostalgia per Firenze perché lui in realtà da Firenze non se ne era mai andato. Ha detto anche che il suo futuro sarà qui, nella mia città. Non so se riesco a perdonarlo completa- mente, ma so anche che si tratta di un uomo permaloso e ambizioso, quanto arguto e sin- cero. Il mio mito tornerà e, forse, indosserà ancora la maglia viola col numero nove o, comunque, si siederà tra di noi risvegliando emozioni mai sopite. E’ ormai chiaro quello che il campione argentino rappresenta per me. In un calcio malato, da un punto di vista morale ed economico, nel corpo di una città dove pulsa inarrestabile la passione per la propria squadra, una passione condivisa ne- gli ultimi tempi anche da Adriano Sofri, perché la Fiorentina è il simbolo di una caduta agli Inferi con una risalita piena di onore, Batistuta, con la sua espressione di- sincantata, coi suoi gesti da leone ferito, mi consente di illudermi ancora. Di sperare che da una terra lontana giunga un suo erede, capace di infiammare gli animi con le sue gesta sportive, un atleta su cui poter river- sare i miei sogni. In ogni caso non potrò mai dimenticare, mio caro Omar, il tuo piglio fiero quando sostavi in posa di fronte ad una bandierina. Ogni mito in fondo merita una posa eterna. Ed io è così che voglio ricordarti. RIVISTA DEL SALOTTO LETTERARIO DI SESTO FIORENTINO - SALOTTO CONTI PATROCINIO DEL COMUNE DI FIRENZE Editore Francesco Ammannati Anno 5 n.9 Maggio 2004 Direttore Maurizio Ciampolini reg.trib. Firenze 5001 del 24 10 00 Il Salotto letterario di Sesto Fioren- tino - Salotto Conti - è una associa- zione culturale che promuove la let- tura e l’interpretazione di testi di narrativa classica e contemporanea. Presidente: Claudio Berti. Sede:Via Cesare Battisti 24, Sesto Fiorentino. Il Salotto si riunisce a giovedì alterni alle ore 21.30. Per informazioni chia- mare 0554487600- 0555000277 Proprietà: Francesco Ammannati. Direttore responsabile: Maurizio Ciampolini Coordinamento: Paola Ficini Comitato redazionale: Gianni Conti, Teresa Paladin. Comitato editoriale: Claudio Berti, Roberto D’Alessio, Ilaria Fravolini, Paolo Vannini Redazione: via Boccaccio 6, 50133 Firenze, tel 0555000277. Stampa: Comune di Firenze IL MIO MITO E’ BATISTUTA GIANNI CONTI SOMMARIO. Mito, parola fin troppo sva- lutata dall’uso, ma, attenzione, non se lo merita. Una ragione pur ci sarà se iI mio mito è Batistuta, e Virginia, nella sua terminale disperazione, nel mito acquista dignità e significato universale. Con Miti senza pace si ascrive il mito alla categoria dell’utile (per affrontare l’ignoto fuori e le paure dentro di noi). Il mito è una creazione storica, e la sua perpetua mutabilità ne è il correlativo oggettivo: così si scopre che Il mito in questione è la vertigine del mo- derno. Nell’Epifania di Pan assistiamo ad una rissa tra Dioniso ed Apollo, animati rispettivamente da Nietsche e da un suo rivale nella quale vince il caprone. Quante storie si raccontano poi su quella che Storia non è, traslocando Ulisse e l’Alantide qua e là per il globo come fossero pacchi postali. Non può mancare naturalmente in questo pantheon Il mitico principe azzurro che, in barba alle statistiche sui divorzi e all’a- more usa e getta, resta abbarbicato al suo trono anche se va in pensione e mette su chili. Infine la consueta rubrica Fahrenheit 451. In alto: Perseo di Benvenuto Cellini.

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Nel mondo di oggi, un mondo deprimente,sconvolto da una generale crisi di valori, siassiste sempre di più ad una fuga nel privatodove ognuno coltiva le proprie illusioni con losguardo rivolto al passato. Sono un amantedel calcio e un tifoso della Fiorentina. E ilmio sguardo ripercorre immagini indelebili diun tempo recente dove un uomo, con le sueimprese sportive, mi aiutava a sentirmi menosolo, meno vulnerabile.

Quell’uomo, quell’atleta si chiamava e sichiama Omar Gabriel Batistuta. E’ lui il miomito, la mia difesa contro le frustrazioni e ildisagio. Ne ho avuto la certezza quando cisiamo incontrati, a distanza di anni, nellostadio di sempre, nel tempio dei nostri ricordi.Eravamo di nuovo vicini, separati solo da uncentinaio di metri e da migliaia di teste cheondeggiavano commosse e incredule. Pure iolo ero.

Non volevo credere che i miei occhi sifossero ricoperti di lacrime. Lui mi avevatradito come il più vile degli amanti, rinun-ciando alla mia passione incondizionata chedurava da dieci lunghi anni. Se ne era andatosenza una parola, senza una riga di scusa,senza una promessa. Abbandonava la miasquadra del cuore sull’orlo di un baratro nelquale sarebbe poi precipitata. Non potevo inalcun modo perdonare la sua ricerca di gloriain un’altra città, in un’altra squadra.

Lo aveva fatto per il denaro! Ne eravamotutti convinti, io per primo. Ed era giusto chela statua, che i tifosi di Firenze avevano erettoper il loro idolo, fosse distrutta fino a diven-tare sabbia del deserto. Era un modo pertenere lontani i ricordi, per scongiurare ilrimpianto. Cercai di esorcizzare quei mo-menti ricorrendo a un rito tribale. Bruciaiquella maglia col numero nove e ne affidai lacenere al vento.

E continuai a tifare per la mia squadramantenendo lo stesso posto di prima: fila 6,numero 26.

Ad ogni goal della mia squadra, saltavo eabbracciavo chi mi stava vicino, ma le emo-

zioni non erano più le stesse. Tentavo in-vano di mascherare a me stesso quello cheaccadeva in maniera evidente… Un uomo,per quanto affascinante e misterioso, puòessere dimenticato, persino le imprese delpiù grande centravanti del mondo possonocadere nell’oblio, ma quello che non potràmai essere cancellato, né tantomeno ri-mosso, è l’intensità delle mie emozioni.

Talvolta le lasciavo affluire e scorrevanocome un fiume in piena. Si identificavanocol suo volto, coi suoi gesti atletici, coi suoigoal più entusiasmanti, coi suoi rituali nobilie irridenti per festeggiare… E lui mi trasci-nava al Nou Camp di Barcellona di frontealla sua richiesta di silenzio, a Wembleydove il pallone era diventato un missileinvisibile, a San Siro dove aveva trafitto duevolte la più forte difesa del mondo, a Li-sbona dove Preudhomme, uno dei portierisimbolo del calcio, si era inchinato davantiad un magistrale colpo di biliardo, al Comu-nale di Firenze con un intero stadio ammu-tolito nel vedere Batistuta accasciarsi alsuolo mentre si era ormai involato, con lasua corsa prepotente, di fronte al portiere delMilan. L’infortunio del mio mito impedìalla Fiorentina di vincere lo scudetto. Nesono certo!

In quella sera di fine giugno, mentre miasciugavo le lacrime dagli occhi, cercandodi non farmi vedere, quelle scene balena-vano davanti e si ripetevano come in unadanza frenetica. Ma dopo lo smarrimento diun attimo, riuscii ad eliminare la vergogna emi unii all’ovazione di tutto lo stadio.

Il nostro eroe era tornato a farci visita equel saluto, così naturale e diretto, mentre siavviava zoppicando verso il centro delcampo, ci coinvolse appassionatamente. Eracome se un semplice gesto della mano fossesufficiente a guarire ferite di anni, come seGabriel Batistuta fosse diventato un angelosalvifico, se non addirittura un re tauma-turgo.

Da allora sono arrivate altre sue promesse,altri attestati di amore per la città di Firenze.Ha acquistato una casa sulle colline e hadetto di non aver mai provato nostalgia perFirenze perché lui in realtà da Firenze nonse ne era mai andato. Ha detto anche che ilsuo futuro sarà qui, nella mia città.

Non so se riesco a perdonarlo completa-mente, ma so anche che si tratta di un uomopermaloso e ambizioso, quanto arguto e sin-cero. Il mio mito tornerà e, forse, indosseràancora la maglia viola col numero nove o,comunque, si siederà tra di noi risvegliandoemozioni mai sopite. E’ ormai chiaro quelloche il campione argentino rappresenta perme.

In un calcio malato, da un punto di vistamorale ed economico, nel corpo di una cittàdove pulsa inarrestabile la passione per lapropria squadra, una passione condivisa ne-gli ultimi tempi anche da Adriano Sofri,perché la Fiorentina è il simbolo di unacaduta agli Inferi con una risalita piena dionore, Batistuta, con la sua espressione di-

sincantata, coi suoi gesti da leone ferito, miconsente di illudermi ancora. Di sperare cheda una terra lontana giunga un suo erede,capace di infiammare gli animi con le suegesta sportive, un atleta su cui poter river-sare i miei sogni.

In ogni caso non potrò mai dimenticare,

mio caro Omar, il tuo piglio fiero quandosostavi in posa di fronte ad una bandierina.Ogni mito in fondo merita una posa eterna.Ed io è così che voglio ricordarti.

RIVISTA DEL SALOTTO LETTERARIO DI SESTO FIORENTINO - SALOTTO CONTI PATROCINIO DEL COMUNE DI FIRENZE

Editore Francesco AmmannatiAnno 5 n.9 Maggio 2004

Direttore Maurizio Ciampolinireg.trib. Firenze 5001 del 24 10 00

Il Salotto letterario di Sesto Fioren-tino - Salotto Conti - è una associa-zione culturale che promuove la let-tura e l’interpretazione di testi dinarrativa classica e contemporanea.Presidente: Claudio Berti. Sede:ViaCesare Battisti 24, Sesto Fiorentino.Il Salotto si riunisce a giovedì alternialle ore 21.30. Per informazioni chia-mare 0554487600- 0555000277

Proprietà: Francesco Ammannati.Direttore responsabile:Maurizio CiampoliniCoordinamento: Paola FiciniComitato redazionale: Gianni Conti, TeresaPaladin.Comitato editoriale: Claudio Berti, RobertoD’Alessio, Ilaria Fravolini, Paolo VanniniRedazione: via Boccaccio 6, 50133Firenze, tel 0555000277.Stampa: Comune di Firenze

IL MIO MITO E’ BATISTUTAGIANNI CONTI

SOMMARIO. Mito, parola fin troppo sva-lutata dall’uso, ma, attenzione, non se lomerita. Una ragione pur ci sarà se iI miomito è Batistuta, e Virginia, nella suaterminale disperazione, nel mito acquistadignità e significato universale. Con Mitisenza pace si ascrive il mito alla categoriadell’utile (per affrontare l’ignoto fuori e lepaure dentro di noi). Il mito è una creazionestorica, e la sua perpetua mutabilità ne è ilcorrelativo oggettivo: così si scopre che Ilmito in questione è la vertigine del mo-derno. Nell’Epifania di Pan assistiamo ad

una rissa tra Dioniso ed Apollo, animatirispettivamente da Nietsche e da un suorivale nella quale vince il caprone. Quantestorie si raccontano poi su quella che Storianon è, traslocando Ulisse e l’Alantide qua elà per il globo come fossero pacchi postali.Non può mancare naturalmente in questopantheon Il mitico principe azzurro che,in barba alle statistiche sui divorzi e all’a-more usa e getta, resta abbarbicato al suotrono anche se va in pensione e mette suchili.Infine la consueta rubrica Fahrenheit 451.

In alto: Perseo di Benvenuto Cellini.

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Coro - Non sei stato eccessivo nei tuoidoni?

Prometeo – Certo ho impedito agli uominidi prender atto d’essere mortali.

Coro - E sei sicuro d’averli aiutati vera-mente?

(Eschilo - Prometeo incatenato)

Guardo l’aquila serrata nella gabbia e michiedo chi abbia mangiato, e quando, quellache alcuni milleni fa era stata chiamata daZeus a divorare il fegato dell’inventore dimiti Prometeo. Il primo ribelle. Il ladro delfuoco e della luce. Quello che ha riscattato gliuomini dalla sottomissione agli dei, facendoloro intravedere la scintilla del genio, e qualeforza possieda la libertà di pensare. Perché ilfatto stesso di capire il significato di luce e difuoco, e di arrivare a desiderare queste duecose, secondo i filosofi greci e i poeti roman-tici, fa del Titano incatenato alla roccia, uncreatore. Non basta: per i post romantici ne faanche un rivoluzionario e un innovatore, per-ché è proprio grazie a Prometeo - che Eschilopresenta come il primo artefice del riscattodai tiranni - se sulla terra arriva Pandora, conil suo vaso ricco di bene e di male, d’odio ed’amore, di vita e di morte. Insomma: Pan-dora dei sentimenti e delle passioni, del biso-gno e dell’opulenza, venuta a renderci tuttimeno uguali l’uno dall’altro. Offrendociquasi una sorta di libero arbitrio ante litteram.Pandora, ricchezza e miseria, sensualità eragione, abominio e riscatto. La donna intesacome fonte del bene e del male.

Ma qui nella grande baia di San Gregorio,alla fine del mondo, dove il mare sembrapolvere grigia e ogni tanto le balene affioranosbuffando spume d’acqua salmastra e tentanodi confondersi in un cielo che altrettanto gri-gio si annulla nel mare, la filosofia se la portavia il vento che arriva dalle isole Malvinasbattendo monotono e feroce la spiaggia resablu dai gusci di mitili morti. E al posto dellafilosofia resta la solitudine, la voracità deicastori, il gelo dell’inverno antartico e unterreno adatto davvero a perdersi per sempree a coltivare i miti. Tutti i miti del mondo.Soprattutto quello del Minotauro, per chi simuove nei labirinti algidi del canale di Bea-gle, andando alla ricerca di se stesso; o me-glio ancora, il mito del fuoco. Perché questaterra si chiama proprio così: ‘Tierra del fuegoen la fin do mundo’, ed è qui che muoionotutte le strade, cominciano tutte le leggendedel nuovo continente e si perdono tutte leesistenze di chi vuol sparire per sempre.

Non so chi si sia mangiato, cucinata insalmì, in un grande banchetto di mamma-droni, l’aquila che divorava Prometeo, ma aquella che ho davanti adesso, prigioniera or-mai da sette anni in una possente gabbiarugginita, è stata sicuramente spenta ognivelleità di vivere. Ha la testa color cenere, gliocchi piccoli e rossi, ma spenti, senza piùalcuna curiosità, le ali serrate al corpo e gliartigli conficcati nello stollo consunto che leserve da appoggio. Se ne sta così per ore, esolo il pasto – qualche topo e avanzi di carnecruda – la rianima appena. E se il suo Prome-teo si nasconde – anche lui - da queste partiper sfuggire alla sua pena, lei non lo sa. Cosìcome non ha mai sentito parlare di Pandorané del suo vaso di delizie. Perché qui ledelizie non esistono. E le tombe non hannonomi sulle croci. Solo degli inquietanti N.N.

E’ questo il bello del posto: qui si arrivasenza più nome e senza nome si riparte persempre.

Passeggio nel minuscolo cimitero indioche si affaccia sul mare con le sue tombevecchie di decine e decine d’anni, in mezzoalle quali due cavalli brucano svogliatil’erba bruciata dal vento che non ha treguae soffia raccontando con fruscii e lamentiavventure di mare e di terra. Naufragi sotto-costa e corse di ‘trinei’, le slitte trainate daicani che scivolano sul ghiaccio e la neve fralatrati e schiocchi di frusta, incitati dallegrida ossessive del padrone che altro non èse non una sorta di timoniere di terra.

Virginia si muove a fatica accanto a me: lasorreggo per un braccio e cerco di farlaparlare. Lei, l’ultima rimasta di migliaia diindios Ona nati e morti su questa terra, è inrealtà il mio Prometeo. Ed è anche il sim-bolo di un mondo che muore. Di una civiltàche aveva affidato il fuoco alle sue femmineordinando loro di coltivarlo e custodirloperennemente acceso. Ed eccola qui accantoa me l’ultima vestale: è vecchia, quasi cieca,alcolizzata e troppo grassa per muoversi condisinvoltura fra le tombe sbrecciate di que-sto recinto di pagani seppelliti come cri-stiani per volere dei padri salesiani. Le manile tremano, gli occhi le lacrimano in conti-nuazione, come per un pianto inarrestabile,tranquillo, e la testa è piegata verso il basso,a fuggire la luce. Come contrita per unantico peccato. La sua faccia è una cartadella vita segnata da percorsi tracciati darughe profonde, ognuna delle quali è unracconto perduto nel groviglio del suo per-sonale labirinto.

I salesiani di San Gregorio, che lavorano epregano sulla sponda di questo mare dipolvere, pensando di convertirla l’avevanobattezzata Virginia, e le avevano anche tro-vato un marito: un muratore italiano, arri-vato a questo gelo dall’assolata Sicilia, vio-lento e costantemente ubriaco che alla fineera morto, liberandola forse troppo tardidall’incubo di un compagno. Gianchitelli sichiamava il muratore, ma lei appena loricorda che quello, ora, è il suo cognome.Lei ha solo ricordi antichi. Incrostati dinostalgia e rimpianti. Ed essendo l’ultimadella sua specie, non può confrontarli connessuno. C’è, in questa solitudine, qualcosadi assoluto che a noi sfugge.

Nata nella foresta, in quell’intrigo fitto dipiante, neve e acqua che si stende fra ilmare e il lago Fagnano, dove la sua tribù eraaccampata, aveva visto sparire la sua gentee morire le tradizioni che le erano stateinculcate fin da piccola. Prima fra tutte lacustodia del fuoco. Che non si doveva spen-gere mai. E che, durante gli spostamenti,doveva essere tenuto costantemente acceso,sia si attraversasse la foresta sia ci si spo-stasse per mare. In canoa. E così Virginia,fin da bambina, aveva imparato a conviverecon questo suo compito. Ad avere una suadimestichezza con le braci e la fiamma. Arecitare la preghiera del Prometeo fuegino,che ‘ecco la fiamma della vita – dice – laporto fra le mie mani – per la tribù dei mieiavi – è il calore e il cibo – è il sangue deivivi nel bosco – è lo spauracchio pei mostri– è il canto del sole…

Troppo stanca ormai per ricordare, Virgi-nia tace e piange. Poi: ‘Ovunque andassimo

avevo con me i carboni accesi e sterpi sec-chi per riaccendere la fiamma. Mia madremi diceva che il fuoco era la vita, era ilprimo degli dei e doveva essere rispettato eamato. Mio padre non mi parlava molto.Bastava un’occhiata. Ero felice quando latribù lasciava il campo e si spostava in unaltro. Ce ne andavamo solo quando le ca-panne erano circondate dai gusci vuoti deimitili che mangiavamo ogni giorno: quelloera il regalo del mare, e la nostra sopravvi-venza. Assieme alla carne che i cacciatoririportavano dai boschi.

Virginia parla piano, e ogni tanto si perdenel labirinto di immagini che ricerca per me,ma soprattutto per se stessa, frugando nellasua gioventù. L’alcol le lascia poco spazioper vagare nei ricordi. Semmai le regalaincubi. Eppure a un tratto si ferma, lì nelcimitero sul mare, raccoglie foglie secche esterpi e li ammucchia dietro una delletombe, al riparo dal vento, poi da una tascadell’ampia gonna estrae due piccole pietre efa in un attimo quello che a me richiede-rebbe ore: accende il fuoco. Poi cerca altralegna e lo alimenta, e ci scaldiamo. ‘Ilfuoco, dice come parlando a se stessa, è ilrespiro caldo di dio, quando il freddo se neva e ci togliamo dalle spalle le coperte e icappucci di guanaco e l’orizzonte s’accendedi fiamme lontane’.

Virginia sogna l’infanzia e non mi vedepiù. Il fuoco lotta con il vento, ma difesodalla tomba non si spenge. Lei si siede,faticosamente, ansimando, appoggia laschiena alla pietra e allunga le mani allafiamma perduta in un sorriso che somiglia auna smorfia di pena. Mi tende una mano e

mi trascina giù. Al caldo della fiamma, alriparo della vecchia tomba. Il mare respiralungo davanti a noi sollevando la polveredelle onde portate dall’imperversare delvento. Virginia canta sottovoce cose che noncapisco, ma che mi destano dentro una sere-nità assoluta e una gran voglia di piangere:ma non è dolore, è piacere. Tra poco la notteci sarà addosso. Ma abbiamo il fuoco e io hoil mio Prometeo ritrovato che la natura e isecoli hanno reso donna. Il canto di Virginiaè come una ninna nanna dell’infanzia, la suae la mia. E il fuoco partorisce schiocchi sec-chi e falene. Sembra un’eternità ritrovata. Mal’aquila strilla impazzita dalla sua gabbia. EVirginia-Prometeo smette di cantare e comin-cia a piangere piano, come se avesse a suadisposizione l’eternità e tutte le lacrime delmondo.

Baia di San Gregorio – Terra del Fuoco –Agosto 1998.

Nota - Virginia Giankitell, o Gianchitelli èmorta alcolizzata tre anni fa. Sola, nella suastanza poco distante dal collegio dei Sale-siani. Sul petto aveva la foto di un gruppo diindios Ona davanti a una tenda. Era l’ultimadella sua specie. Non era né Prometeo néPandora. Era un’amica.

VIRGINIAUMBERTO CECCHI

Sotto: Giambologna, Ercole e il centauroNesso, Firenze.Nella pag. succ.: Battaglia delle Amazzoni,particolare dal fregio del tempio di Bassae

Il primo che ci provò fu Ercole, nel corso diuna delle sue sette fatiche, doveva impadro-nirsi della cintura della regina Ippolita; poivenne Teseo, che ne respinse l'invasione e nesposò una, Antiope, per tradirla lo stessogiorno, dopo averla ingravidata. Cose chesuccessero in un tempo fuori del tempo, ed inuno spazio ovviamente mitico, come il Bo-sforo Cimmerio, con quelle rupi colossali cheemergono dalle nebbie del Ponto Eusino. Làle loro sacerdotesse sacrificavano uomini albarbaro culto di Atena. Riappaiono ancoraqua e là, dalla Libia all’Atlante, e partecipanocome comparse all’epica leggendaria dell’an-tica Grecia. Come Pentesilea, sorella di Ippo-lita, che combatte a fianco di Priamo sotto lemura di Troia e perisce per mano di Achille, ilquale preso da raptus di necrofilia giace conl’esanime regina.

Terzo, dopo Ercole e Teseo, in un giornodel calendario, 24 giugno, festa di San Gio-vanni, nell’anno 1542 e in un luogo con coor-dinate geografiche, all'incirca 2°S 54°O, ilcapitano Francisco de Orellana, trent'anni,monocolo, nativo di Estremadura, combatteeroicamente con le formidabili guerriereAmazzoni.

Mito fra i più popolari e longevi della cul-tura occidentale, quello delle Amazzoni hauna valenza e un impatto sull’immaginariocollettivo che lo hanno fatto risorgere a piùriprese nel corso dei millenni.

“Le Amazzoni erano figlie di Are e dellaNaiade Armonia, nate nelle valli segrete dellafrigia Acmonia. ma altri dicono che la madrefu Afrodite ..Dapprima vissero lungo le rivedel fiume Amazzonia, ora chiamato Tanai...[la regina] Lisippa stabilì che agli uominitoccasse di sbrigare le faccende domestiche,mentre le donne combattevano e governa-vano. Queste donne anormali, che gli Scitichiamano Eorpata, non rispettavano né la giu-stizia, né il pudore, ma erano guerriere stu-pende, e per prime usarono la cavalleria.”(Robert Graves, I miti greci, Longanesi).

Il mito delle Amazzoni è una variante delsolito racconto di un paese lontano dove tuttofunziona all'incontrario, in questo caso ledonne comandano e combattono, prerogativaspiccatamente maschile nella maggior partedelle culture. Con una valenza particolare, chestimola l’immaginazione del maschio gene-rico: la preda è tanto più allettante quanto piùè pericolosa. Vi potremmo trovare anche ilparadigma esasperato di una guerra tra i sessi,o comunque di un rapporto violento che senella realtà è più ò meno a senso unico, nelmito si rovescia con l’ovvio scopo di invitarealla riflessione.

Nel corso dei secoli le Amazzoni vagano,secondo una geografia fantastica che ebbedoviziosi compilatori fino al Rinascimento,dall'Etiopia, all'Atlantide alla Scitia, all’Asia,via via abitando le periferie del mondo clas-sico, perennemente irrequiete, o più probabil-mente sfrattate.

Scompaiono dalla scena per più di un mil-lennio, all’avvento del cristianesimo, il qualese malvolentieri concede all’uomo il diritto dimenar di spada, alla donna riserva al massimola santità e il martirio.

Nell’anno 1165 compare dal nulla una let-tera che un certo Prete Gianni, signore saggioe potente di un impero sterminato, indirizza alpapa e all’imperatore. Non sognavano altro icristiani d’occidente, assediati dall’Islam in

espansione, che di trovare un simile alleato,del quale già s’era avuta notizia da un ve-scovo siriano, secondo la cui allucinazionepreferita il capo dei mongoli che avevasconfitto gli arabi era in realtà un re-sacerdote nestoriano. Tra le tante mirabiliadescritte nella lettera, ecco che, dalle nebbiedel tempo, riemergono le mitiche guerriere:

Amazones sunt mulieres, quae habent re-ginam per se, habitacio quarum est unainsula, quae extenditur in omni parte usquead mille miliaria, et circumcingitur undiquequondam flumine, quod non habet princi-pium neque finem...

La sfrenata fantasia del redattore - unosconosciuto buontempone - stipa la letteradi invenzioni grottesche e deformi, dise-gnando una sorta di mondo alla rovescia,comunque lussurreggiante, carnevalesco efondamentalmente godereccio.

La lettera, eh si, a quel tempo gli asinivolavano, fu presa assai sul serio, tant’è cheil papa Alessandro III affidò la risposta alsuo medico Filippo, che scomparve con lamissiva sulla via dell’oriente.

Non s’immaginava il colto falsario che tresecoli dopo si sarebbe presentato agli euro-pei un immenso continente brulicante di vitaanimale e vegetale dove la realtà superava lasua fantasia e dove un capitano dell’Estre-madura non poté fare a meno di ritrovare lele mitiche guerriere. Non fu colpa sua, né sipuò dire che prese un abbaglio.

Ma veniamo alla vicenda che portò a bat-tezzare il più grande fiume della Terra colpittoresco nome di Rio delle Amazzoni.

Due testi fondamentali ci introducono al-l’argomento: L’esplorazione dell’Amazzo-nia, di Anita e Tullio Seppilli (UTET, 1964)e Amazzonia, mito e letteratura del mondoperduto a cura di Silvano Peloso (EditoriRiuniti, 1988); testo squisitamente storico ilprimo, letterario il secondo, li accomuna ilfascino dirompente dell’argomento che tra-suda da ogni pagina.

Determinante è l'ambiente fisico: una re-altà così possente che nessuna metafora puòridurre alla ragione. Da solo il fiume tra-sporta un quinto delle acque dolci dellaTerra, il suo delta ingoia comodamente tuttal’Italia centrale, il suo bacino è vasto comel’Europa e coperto (al tempo della scoperta)dalla più impenetrabile e maestosa delleforeste Al suo confronto la terribile SelvaErcinia, patria di tante fiabe europee, che siattraversava in 55 giorni, non appariva cheun misero boschetto.

“Racconta un'antica leggenda india cheall'interno della foresta lungo il Rio delleAmazzoni, abita da tempi immemorabili ilCurupira, uno strano genio, nano, un po'deforme, con i piedi a rovescio, che è ilnume tutelare dell'immenso universo verdee l'autore di strani sortilegi. Può capitareinfatti che, inoltrandosi nella foresta, all'im-provviso tutto si confonda nel labirinto dellavegetazione: dovunque alberi, muraglie ve-getali, fantasmi evocati dai riflessi di luce eil ricomporsi continuo di nuovi arabeschinel regno della perenne metamorfosi. Lamaledizione del Curupira a questo puntonon perdona” (S.Peloso, op. cit.).

E’ naturale che in quel grande vuoto dellaragione il primo occidentale che discese ilfiume, Francisco de Orellana - uomo del

medioevo - più di Marco Polo sulle carova-niere dell’Asia, più di qualsiasi marinaioperduto nelle latitudini desolate, si trovò difronte all'adescamento di un ignoto ango-scioso. Per fortuna incontrò le familiariAmazzoni, o così gli parve.

Il fatto avvenne dopo quattro mesi e due-mila miglia di navigazione, essendo partitiall’inizio dell’anno 1542 dalle pendici delleAnde. Se di Teseo ed Ercole cantano eraccontano Pindaro, Callimaco, Virgilio,Omero, Erodoto, Apollodoro, Pausania, del-l’epica, diciamo pure mitica discesa di Orel-lana lungo il fiume riferisce Caspar de Car-vajal, frate semplice, per nulla lirico népretenzioso, nella Relación del nuevo descu-brimiento del famoso Río Grande; il qualetiene duro in quel succedersi incalzante dimaestosi spettacoli naturali, di province fer-tili e popolose, di battaglie, di pericoli mor-tali di ogni genere, fino a che ...

“volle Dio che, nel doppiare una punta,vedemmo sulla riva davanti a noi biancheg-giare molti e grandi villaggi. Qui capitammonella buona terra e signoria delle Amazzoni.Questi villaggi... sapevano della nostra ve-nuta, per cui uscirono a riceverci sul fiume,con brutte intenzioni... e dicevano che... ciavrebbero presi e portati dalle [loro Si-gnore] Amazzoni... Son queste donne dicarnagione assai chiara, e alte, con lunghetrecce intorno al capo. Son vigorose, vannonude con le sole vergogne coperte, archi efrecce nelle mani, e fanno tal guerra comedieci indiani. Una di queste donne - e attestoil vero - cacciò una freccia per un palmonello scafo del nostro brigantino, e pocomen fondo colpirono le altre, di modo che lenostre imbarcazioni parevano porcospini”(S.Peloso, op.cit.).

Il frate non si dà pensiero di giustificarecon qualche ragionamento il nome con cuibattezza quelle donne. Esso appare nellarelazione così come riportato.

Ecco che i fantasmi dell'immaginario an-tico e medioevale vengono a posarsi sullaterra del mistero e dell'acqua, della foresta edel calore ossessionante.

Così quel grandioso, alieno scenario riceveil suo nome mirabolante. “Incredulità e scetti-cismo degli anni a venire nulla potranno,infatti, contro l’esigenza profonda di cui lepagine di Carvajal continuano ad essere porta-trici. Il fiume delle Amazzoni... ha da questomomento la sua stabile collocazione un si-stema in cui realtà e immaginazione si fon-dono a vicenda”. In questo ed altri modi “ilvecchio mondo affida al nuovo, appena natoalla storia, non solo aperanze e aspirazionidisattese da secoli ma anche interrogativi irri-solti sul suo destino” (S.Peloso).

L’Amazzonia attrae come sirena letale av-venturieri, sognatori, folli alla ricerca di unaterapia cosmica dei loro mali. Lo stesso Orel-lana, come preda di un incantesimo, tornò inquei luoghi per morirvi tragicamente

Vent’anni dopo il fiume fu teatro del deliriosanguinario di Lope de Aguirre, e tanti altrifecero una brutta fine, perché non sapevanoche lo spazio diverso, selvaggio, si può pene-trare solo con il consenso e il sostegno delleforze che lo presiedono, il Curupira, appunto.Qui - nell’Amazzonia - esiste ed è tangibilequello che uno studioso chiama rischio esi-stenziale magico, che si manifesta con l’im-mersione nel caos e la corsa disperata alrichiamo dentro di noi, fino alla morte; sol-tanto il mito, da sempre, può aiutare l’uomo aricomporre e sopportare l’angoscia dell’i-gnoto.

Con l’eccezione notevole dello scopritoredel fiume, Amerigo Vespucci, il quale, senzascomporsi, ne prese le misure, ci fece sopradei conti, e dalla sua mente razionale feceuscire nella Storia un Mondo Nuovo, che fubattezzato con il suo nome.

Di tanta letteratura ispirata da quel grandeuniverso vegetale, “l’ultima pagina ancora dascrivere della Genesi”, da Verne a Lévi-Strauss a Vargas Llosa, citeremo Desertod’Acqua, di J.G.Ballard, autore cult di fanta-scienza, che racconta di un futuro rovente,con la giungla che invade tutta l'Europa e diun uomo che, spinto dai suoi istinti piùprofondi, intraprende un viaggio mortaleverso il centro della fornace.

terza pagina n.9 maggio 2004

Miti senza paceFRANCESCO AMMANNATI

quarta pagina

Lettere anonime, alterchi nell’atrio d’in-gresso, minacce e sospetti hanno fatto dacorollario all’infuocata Assemblea del Con-dominio dove abito. Tutti contro tutti - qual-cuno fin accompagnato dal proprio avvocatodi fiducia -, le voci si sono levate sempre piùdisordinatamente per la disperazione del Pre-sidente di turno e dell’Amministratore. Ingioco c’erano otto centimetri di muro. Ottocentimetri decisivi, a parere dell’Ingegnerechiamato a dirimere “scientificamente” unamateria che si faceva sempre più “politica”man mano che il tempo passava: un palazzo èuna cosa seria e, al contempo, una strutturacomplessa - tocchi otto centimetri in un puntoe può crollare tutto (come, ahinoi - magariper qualche centimetro di più -, è peraltro giàpuntualmente accaduto).

Non diversamente una storia o quel partico-lare tipo di storia che può essere consideratauna teoria. Tocchi in un punto - in un solopostulato -, e tutto è da risistemare. Unateoria scientifica, dice Lucio Russo in Flussie riflussi - Indagine sull’origine di una teoriascientifica (Feltrinelli, Milano 2003) “puòessere visualizzata come una struttura retico-lare di forma piramidale, di cui le afferma-zioni costituiscono i nodi, connessi tra loro daimplicazioni logiche. L’utilità della teoria èdovuta al fatto che molte delle affermazionisono verificabili sperimentalmente: possiamoimmaginare i nodi corrispondenti come lebasi della piramide, fisse nel suolo. Le altreaffermazioni non verificabili sono utili per-ché, essendo connesse alle precedenti, per-mettono di ricavarle logicamente: a questaseconda categoria appartengono in partico-lare i postulati, che corrispondono al verticedella piramide”.

Questa struttura, a parere di Lucio Russo,consentirebbe l’individuazione delle originidi ciò che lui chiama un “processo di fossiliz-zazione della conoscenza” nonché la criteriz-zazione sufficiente per individuare “nozionifossili”. Chi, non avendo gran rispetto per lascienza, decide di “selezionare parte di unateoria” - perché gli va bene, perché gli servea qualcosa - di solito sceglie i postulati, con-siderati come le “verità” fondamentali, ma,così facendo, ottiene “una parte della strut-tura a mezz’aria, senza contatto con il suolo”e, senza avvedersene, genera “fossili di cono-scenza” o “conoscenze fossili”. Queste ul-time possono “tornare in vita” ad una condi-zione: che qualcun altro, avendo più rispettoper la scienza del primo, ricostruisca il conte-sto in cui il reticolo e le amputazioni succes-sive sono state elaborati. E’ così, per esempio- un esempio che Russo sforna come unabrillante investigazione -, che, rovesciandoletteralmente la logica della retorica scienti-fica relativa, possono essere ricostruite levicende storiche della teoria astronomicadelle maree. Quell’asserzione, “condivisa datanti scienziati e storici della scienza”, se-conda la quale le maree si sono “potute spie-gare scientificamente solo dopo la formula-zione della legge di gravitazione universale”,diventa quindi non soltanto una più modesta“opinione”, ma anche un’opinione poco so-stenibile. Alla luce della documentazione sto-rica esibita, infatti, si può invece dire che èstato il fenomeno delle maree a costituire

“uno dei principali stimoli alla formula-zione dell’(antica) idea di gravitazione uni-versale”. Gli appassionati della “storia perGenii isolati” (e “possibilmente più o menorinascimentali”), insomma, devono rasse-gnarsi all’ennesima sconfitta: prima di par-lare dei meriti di Newton sarà bene ricor-darsi di Eratostene di Cirene e di Seleuco diBabilonia - e di parecchi altri -, così come,peraltro, prima di straparlare di Colombo edella scoperta dell’America, sarà bene ri-volgere un pensiero deferente ad Ipparco,che, senza navi e meno interessato all’oroaltrui, aveva prefigurato l’esistenza dell’A-merica con argomentazioni convincenti.

La teoria delle maree è un punticino, pe-raltro, di una struttura argomentativa piùampia. Russo, infatti, ne La rivoluzionedimenticata (Feltrinelli, Milano 1996), ciaveva spiegato come l’intera storia dellascienza dovesse essere ricostruita sulla basedi quanto oggi sappiamo del periodo elleni-stico, ovvero della rivoluzione scientificaavvenuta nel III° secolo avanti Cristo. Ot-tica (per esempio, le leggi della prospettivae la “scenografia” di Erone), astronomia egeografia matematica (per esempio, Ari-starco di Samo e il suo sistema eliocen-trico), una concezione relativistica delmoto, l’evoluzione di tecnologie scientifi-che (le clessidre ad acqua, per esempio, o lapreparazione di lenti e canocchiali), i primimodelli cibernetici di Ctesibio, una conce-zione della geometria più operativa e menoingenuamente realistica (rivisitando Eu-clide, per esempio), perfino qualche pro-dromo di psicoanalisi (come l’interpreta-zione dei sogni di Artemidoro, per esem-pio) e l’invenzione delle banche hannoavuto un senso storico ben preciso nono-stante che la storiografia successiva o ab-biano ignorato il tutto o l’abbiano conside-rato come stranezza e “curiosità” - quandonon l’abbiano classificato sotto l’involonta-riamente umoristica voce di “scoperte pre-mature”. D’altronde tra il capo e il collodell’ellenismo si sono abbattuti due maci-gni non lievi: i romani e i cristiani, abilis-simi e tenacissimi spazzini della storia.Così si spiega la “cancellazione”, come -con quanto si è salvato ad Oriente e tornatoa pezzi e bocconi dopo i secoli bui - così sispiega quel “Rinascimento” che, innanzi-tutto, allora, dovrebbe esser visto come laFase del Grande Recupero.

Ne La camicia, un racconto del 1909,Anatole France parla di una visita alla bi-blioteca reale e, alludendo agli ottocento-mila volumi di una sala sterminata, fa direal suo bibliotecario che, lì, di autori, “nonve ne sono due che la pensino allo stessomodo su un solo argomento” e che finanche“quelli che si copiano non si capiscono”. Etuttavia si tratta di “disputanti accaniti che,nel sostenere le proprie entità e i proprisimboli, impiegano un furore sanguinario”.Lo scetticismo di France è comprensibile,ma non condivisibile - come quando garan-tisce che nessuno crederebbe a coloro cheraccontano “storie sul loro tempo o suitempi anteriori” -, perché, in definitiva - senon vogliamo scomodare principi filosoficidissennati e autocontraddittorii come quello

della Verità (che sarebbe sempre e comun-que “l’invenzione di un bugiardo”, secondoil secco e frettoloso aforisma del ciberne-tico Heinz Von Foerster) - ad una storiacoerente siamo pur disposti a credere.

Con simili premesse possiamo fare i conticon tre catastrofi recenti. La prima (almenoin ordine di pubblicazione) è quella origi-nata da Felice Vinci che, al termine di unalunga ricerca transdisciplinare - una ricercache ha richiesto competenze storiche, geo-grafiche, filologiche, linguistiche e antropo-logiche - ha concluso che le vicende omeri-che nulla hanno a che fare con il Mediterra-neo svolgendosi nel Baltico (Omero nelBaltico, Fratelli Palombi, Roma 1995, III°edizione 2002). La seconda è quella origi-nata da Carmelo Vaccarino che riesce adassegnare quel minimo di fondamento sto-rico sufficiente ad una cospicua porzione dimiti greci, ridisegnando quindi gli eventiche hanno interessato l’area dell’Egeo apartire dal XVII° secolo avanti Cristo (DaZeus ad Agamennone, Sellerio, Palermo2001). La terza è quella originata da SergioFrau, che sconvolge la geografia storica delnostro mondo mediterraneo spostando leColonne d’Ercole dallo stretto di Gibilterraalla Sicilia (Le colonne d’Ercole, NurNeon, Milano 2002). Va da sé che, se cia-scuna tesi fosse accolta nel novero delleconoscenze condivise - se le fosse concessodalla comunità scientifica di prender postonella manualistica storica -, buona parte deiparadigmi storici andrebbe buttata. E laricomposizione non sarebbe facile, perchémodificare una storia non è solo questionedi nomi o di date, ma è questione di vite, di

corpi prima biologicamente e poi cultural-mente intesi, di interazioni con ambienti e diidee, di linguaggi e di poteri. A maggiorragione se questa storia è già stata inquadratacome mito, ovvero come una narrazione dacui è stata espunta la necessità di documenta-zioni e riscontri fattuali.

Catastrofi, insomma. Che, alla luce dellaconsapevolezza di quante balle ci venganospacciate per sacrosante verità, costernati perl’incoerenza della storia dei vincitori - avvilitinel subirne la tracotanza -, ben vengano. Adue condizioni: che risultino compatibili fraloro (fra l’Atlantide di Vaccarino e quella diFrau c’è qualche chilometro, per controesem-pio) e che non si propaghino epidemiologica-mente come genere letterario - nel tempodelle nostre vite non ci è dato di assimilare ungran numero di rivoluzioni prima“dimenticate” e poi, improvvisamente, sor-prendentemente, “ricordate”.

Quante storieFELICE ACCAME

In alto: Demetra e Kora.Sotto: Bartolommeo Ammannati, Fontana delNettuno, detto “il Biancone”, Firenze

Corinto, 22 aprile 1873“Quando nella foresta selvaggia l’uomo in-

contra un orso o un caprone selvatico o unacerva, questi possono essere soltanto selvag-gina, ma talvolta l’apparizione empie l’uomodi sgomento: quello non era un orso, non erauna cerva, ma era un dio. Chi esso fosse nonveniva desunto dalla natura dell’animale, mal’uomo aveva già in sé la fede in un dionominato e lo scorgeva in quella forma: di-pendeva infatti, dal beneplacito del dio in chemodo volesse mostrarsi. Io stesso ho avutoun’epifania di Pan quando, cavalcando peruna gola in Arcadia vidi comparire all’im-provviso sopra la mia testa, fra i rami di unalbero, un solenne caprone”.

Ulrich Wilamowitz - Moellendorf(“La Fede degli Elleni”, 1931)

Ulrich era stanco. La cavalcata era duratatutto il giorno e il gruppo aveva anche dovutofare più volte i conti con la sollecitudineopprimente degli ospiti. Un’ora per il pranzoa base di verdure e pane di farro, del vinoresinato e poi cavalcate alternate a conversa-zioni vicino al fuoco. A Corinto un gruppo dieuzonoi, soldati con i costumi larghi e lescarpe comode con la nappa rossa, si eraaggiunto al gruppo di viaggiatori che accom-pagnava il principe ereditario Bernhard vonMeiningen, che si era di recente acceso dipassione per l’antichità classica. Le signoreerano soprattutto interessate ai racconti dellaguerra e arrossivano di un pudore ambiguoquando le domande accennavano agli eccessidei comunardi: “Scena finale con lancio dibengala - queste alcune delle sue scarnedescrizioni - Parigi brucia. Tre quarti del cieloilluminati dalla vampata di fuoco, il fumogrigio interrotto dagli sbuffi bianchi deglishrapnels. Bruciano le Tuileries e l’Hotel deVille”.

In Francia Ulrich aveva svolto il suo com-pito senza eroismi e senza incertezze, comeun qualunque altro diligente ufficiale prus-siano della riserva, portando a termine mis-sioni di supporto fra Beauvais e Parigi, nelmiglior modo consentito a uno studioso difilologia classica. Il re di Berlino era diven-tato imperatore di Germania anche grazie alui ma, anche se avesse voluto, il Kaiser nonavrebbe potuto offrirgli l’unico premio che inquel momento lo avrebbe reso felice: tornareindietro nel tempo, un anno e un attimo primadella fatale decisione di consegnare al tipo-grafo un libretto di 32 pagine, con il qualeaveva osato, lui nemmeno venticinquenne,stroncare la “Nascita della tragedia”.

Non era stata una recensione critica, diquelle che si mimetizzano facilmente, grazieal tono garbato, fra le tante celebrative. Apartire dal titolo, “Filologia del futuro!”, ilregistro prescelto era quello del sarcasmo,che diventava più volte vera e propria irri-sione. Una condanna sprezzante concludevaun’analisi che faceva strame dell’autorevo-lezza di un autore già famoso, poco più an-ziano di lui, al quale addirittura raccoman-dava di abbandonare l’insegnamento per di-ventare il profeta di una nuova religione.Macché Socrate, macché Gesù: ora tocca aFriedrich Nietzsche.

E’ risaputo che il mediocre, o il carrierista,

possono ottenere un po’ di notorietà con-trapponendosi a un personaggio di successo,che in un dato momento condiziona il climaculturale. Ma Ulrich non era un piccoloborghese all’inizio di una scalata sociale.Oltre alla stirpe di junker prussiano, potevavantare un grande maestro, Theodor Mom-msen, buone letture e una futura carrieraaccademica impostata su senso pratico esolida ambizione. Sempre mantenendosi nelsolco della tradizione storico-filologica, or-todossia nell’autorevolezza o, meglio, l’au-torevolezza dell’ortodossia. E il librettopubblicato a sue spese aveva dato voce airappresentanti di quella ortodossia, tanto piùbenedetta quanto più risparmiava agli altri irischi di esporsi in prima persona,.

Mentre il gruppo di cavalieri si avvicinavaa Olimpia, nella testa di Ulrich rimbalza-vano le parole con cui Nietzsche avevacommentato quella sorprendente stroncaturache aveva estasiato i frequentatori dei salottidi Berlino: “Ho fatto un sogno: una pecorabrucò la corona di edera che mi cingeva latesta e disse: Zarathustra non è più unoscienziato”. La pecora era lui. Contrapposta,per un’ellissi fin troppo facile da sciogliere,a un’aquila reale, nobilmente adirata.

“Ma come si fa a parlare di apollineo o didionisiaco se non si sono raccolti dati stori-camente veri, se non si è compiuta primauna rigorosa analisi filologica, se non si èricostruito tutto il patrimonio documen-tale?”. Un evidente imbarazzo dei compagnidi cavalcata gli fece capire che aveva finitola frase ad alta voce: “Caro principe - sbottòUlrich per distogliere da sé l’attenzione -stasera mi piacerebbe discutere del suo pro-getto di tragedia, anche se mi lasci fin da oraesprimerle qualche perplessità sul soggettoprescelto, Temistocle. Non c’è nulla nelgenerale ateniese che parli di tragicità: noncerto la morte di Stesilao, la fanciulla con-tesa ad Aristide. Temistocle era un politicosenza scrupoli e senza sentimenti e propriodi questo tipo di condottiero aveva bisognoAtene in quel momento con Serse alle porte.Il giusto e perdente Aristide è più degno deisuoi carmi”.

Aveva di nuovo usato quella parola,“tragedia”, e questo lo fece cadere nellaprostrazione.

Il gruppo si fermò a una fonte nascostadietro un cespuglio di ginestre in fiore. Ilgiallo era il colore predominante nella cam-pagna intorno alla città dei giochi. Ulrichscelse un fazzoletto d’erba fra due grandipietre, tirò fuori il libro ottavo della Guidadi Pausania da una delle due borse di cuoioche costituivano tutto il suo equipaggia-mento, e fece finta di leggere qualche curio-sità antica sull’Arcadia contenuta nel primobaedeker dell’umanità.

E intanto faceva il bilancio dei danni pro-vocati dall’opera di Nietzsche e dalla suafatale replica: “Che ingenuo sono stato, lafilologia non c’entra per nulla e tanto menoEschilo o Sofocle. C’entra Wagner e il ten-tativo di trovare nella perfezione dei greciqualcosa che giustifichi ed esalti l’arte deimoderni”. Non Dioniso, dunque, ma Apolloispira il veggente e la Sibilla e il mito diEdipo è comprensibile solo attraverso i versi

di Sofocle. Non si può inventare a piaci-mento un nuovo Prometeo che sconvolgel’ordine presente e futuro: questo è soltantoun parto delle inquietudini moderne che nonha nulla a che vedere con la verità filolo-gica. Ma insomma, che lo si faccia pure,senza pretendere consensi da parte dellacomunità scientifica.

“Da qualunque punto di vista guardi laquestione, ho ragione. Eppure non avrei maidovuto pubblicare quel libro. Almeno nonda solo. Non ho calcolato l’effetto dirom-pente sul pubblico e questo perché ho te-muto di vedere in pericolo la scienza chespero di portare a nuove vette”. Ulrich si erasottratto all’indignazione dei lettori diNietzsche, perché era partito per l’Italiagrazie a una lettera di presentazione del suomaestro ricevuta qualche settimana primache la requisitoria finisse sulle scrivaniedegli accademici di Berlino. Poi era passatoin Grecia e aveva fatto tesoro della cortesiadel principe Bernhard per compiere quel-l’opportuno viaggio nel Peloponneso.

Due giorni dopo la visita a Olimpia, ilpiccolo corteo greco-germanico raggiunsel’Arcadia. A Divri gli ospiti furono accoltida una specie di festa popolare. Una piccolafolla si era raccolta all’ingresso del paese el’anziano del villaggio, in costume tradizio-nale, tenne un discorso in un greco forbitoche Ulrich riuscì a capire bene solo nellaparte che si riferiva alla visita che recente-mente avevano fatto in quella zona il re Ottoe la regina Amalie. La sera furono onoraticon un banchetto a base di agnello e di unabevanda nazionale alla menta. La musicanon riusciva a sovrastare l’euforia generale.

“Professore, vorrei tanto che mi spiegasseche cosa ha suscitato la sua reazione, cosìsevera, contro l’opera di Nietzsche, chepure ho letto con tanta passione”. Ulrich simorse la lingua per il disappunto. Avevascelto accuratamente i suoi vicini di tavola,per non essere costretto a conversazionitroppo impegnative. Soprattutto per nonpensare a quella polemica che lo avevainserito nella lista degli eruditi ottusi, senzacuore, forse anche poco patriottici.

Non c’era scampo. La domanda gli erastata rivolta da un signora che fino a quelmomento non lo aveva degnato di alcunaconsiderazione e anche il tono di freddacortesia ne faceva capire il motivo: “Eccouna di quelle lettrici colpite dal fascino delsacerdote della nuova religione tedesca”,pensò. Poi, con tono didascalico, come separlasse a uno studente un po’ riottoso,rispose: “Il professor Nietzsche non ha por-tato alcuna prova documentale dell’originedionisiaca della tragedia. Al contrario, lasua teoria non corrisponde affatto alla realtàstorica dei versi di Sofocle perché lo spiritodionisiaco è sempre stato non solo estraneo,ma anche ostile all’essenza specificata-mente ellenica”. La signora cambiò di-scorso, ma la serata era comunque compro-messa e continuò ad andare storta perché ilprincipe non aveva apprezzato la sinceritàdello studioso sul protagonista del suo pro-getto letterario. Glielo dimostrò evitando dicoinvolgerlo nelle sue lunghe tirate da neo-fita dell’antiquariato.

“Domani farò un giro da solo”, annunciò efu il primo a congedarsi per la notte.

Di buon mattino Ulrich von Wilamowitzimboccò una strada polverosa a nord delpaese, lasciandosi guidare dal cavallo e daisuoi pensieri. Era una splendida giornata disole e niente turbava la serenità e il silenziodella campagna solitaria. Ma dentro di luinon regnava la stessa pace. Alcuni passaggidella “Nascita della Tragedia” continuavanoa frullargli nella mente: guardate al mito,guardate fino in fondo, è questa la vostravita, è questa la lancetta sull’orologio della

vostra vita, aveva scritto il collega. “Conquesta logica si finisce per abbandonare laconoscenza all’arbitrio dell’intuizione este-tica, della suggestione di simboli che parlanoa ciascuno in modo diverso - ribatteva -. Ed èquesta la strada che porta al caos sociale, allaprepotenza di chi afferma di avere in mano lachiave migliore per capire i miti e pretende diimporre queste interpretazioni a tutti gli altri.Il metodo filologico invece mette tutti allapari di fronte alla conoscenza. Offre certezzenel momento in cui accetta i propri limiti”.

Immerso in questi pensieri Ulrich non siaccorse di essere entrato in una gola strettaincorniciata da cespugli spinosi e alberi fio-riti. Per procedere doveva spesso abbassare latesta o spingere il cavallo lungo il costoneesposto al sole. Quando riuscì ad alzare gliocchi, vide tra i rami di un albero una massacompatta scura, apparentemente immobile.Non avvertì immediatamente il pericolo per-ché quell’essere sembrava in perfetto equili-brio. Pochi istanti dopo scorse gli occhi delcaprone e gli sembrò che lo guardassero conuna certa indulgenza.

Soltanto qualche tempo dopo, quando ilviaggio in Grecia era già un ricordo lontano,si rese conto che il dio Pan si era manifestatoper dargli la benedizione di tutto l’Olimpo: “Ilmito impone la sua presenza quando non te loaspetti, e per questo devi stare in guardia -confessò Ulrich mesi prima di morire - Quelcaprone aveva un batuffolo di peli sul muso.Sì , assomigliava a Nietzsche”.

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Epifania di PanPIERO MEUCCI

Ermete e Dioniso(da www.windows.ucar.edu)

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1. Roland Barthes era stato sufficiente-mente chiaro alla fine degli anni Cinquanta(del secolo passato): “il mito è una parola” -aveva scritto nell’incipit di un saggio che siintitolava emblematicamente Miti d’oggi.Questa dichiarazione perentoria veniva spie-gata con il fatto che:

«Il mito non si definisce dall’oggetto delsuo messaggio, ma dal modo in cui lo proferi-sce: ci sono limiti formali al mito, non ce nesono di sostanziali. Tutto dunque può esseremito? Sì, a mio avviso, perché l’universo èinfinitamente suggestivo. Ogni oggetto delmondo può passare da un’esistenza chiusa,muta, a uno stato orale, aperto all’approva-zione della società, perché non c’è alcunalegge, naturale o no, a impedire che si parlidelle cose. […] Evidentemente, non tutto èdetto in uno stesso tempo: certi oggetti diven-tano preda della parola mitica per un mo-mento, poi scompaiono, altri prendono il loroposto, accedono al mito. Esistono oggetti fa-talmente suggestivi, come Baudelaire dicevadella Donna? Certamente no: si possono con-cepire miti molto antichi, non ne esistono dieterni; perché è la storia umana che fa passareil reale allo stato di parola ed essa sola regolala vita e la morte del linguaggio mitico. Lon-tana o no, la mitologia può avere solo unfondamento storico perché il mito è una pa-rola scelta dalla storia: il mito non può sor-gere dalla “natura” delle cose» (Roland Bar-thes, Miti d’oggi, trad. it. di Lidia Lonzi,Torino, Einaudi, 1974, pp. 191-192).

Il mito è una creazione storica, dunque, e lasua perpetua mutabilità ne è il correlativooggettivo. Si possono cambiare miti cosìcome si può mutare forma di governo o mododi produzione; solo questo avviene semprepiù lentamente di quanto si possa credere. Segli antichi Greci credevano ai loro miti (comedubita Paul Veyne), è sicuramente vero che lihanno usati in tutto il corso della loro para-bola letteraria allo stesso modo in cui conti-nuiamo ad usarli anche noi oggi a distanza dimigliaia d’anni e nel momento in cui ad essiabbiamo affiancato altri modi e altri modellimitologici. Nel 1825, a Vincenzo Monti, lamitologia classica sembrava assai più interes-sante di quella dei Romantici e, nonostante losforzo fatto di trapiantare in Italia le appari-zioni spettrali e le divinità nordiche tentato daGiovanni Berchet, bisogna ammettere che ilsuo Sermone sulla mitologia ha fatto piùscuola della Lettera semiseria del patriotamilanese (basta leggere Leopardi e che cosane pensa - in versi e in prosa).

2. Quello di creare una mitologia del Mo-derno è stato il grande sforzo (e il grandevanto) del Surrealismo: tentativo magari an-ch’esso non grandemente riuscito in terminidi fortuna critica e/o di pubblico ma sicura-mente efficace in termini di suggestione mito-poietica (basti pensare che è da esso chenasce il grande sogno - rimasto incompiutoma dal torso possente e vigoroso - del lavorosui passages parigini iniziato da WalterBenjamin). Non a caso il suo punto di par-tenza è un romanzo di Louis Aragon, Il pae-sano di Parigi, del 1926 nel quale proprio dimitologia moderna si fa aperta menzione.Scrive il “paesano” nel suo vertiginoso sognodi “surrealista”:

«Nella calma e nell’inquietudine alternate

che formavano allora tutto il mio cielo,pensavo, come c’è chi lo pensa del sonno,che le religioni sono crisi della personalità ei miti sogni veri e propri. Avevo letto in ungrosso libro tedesco la storia di questi sogni,di questi seducenti errori. Credevo che aves-sero perduto, credevo di vedere che aves-sero man mano perduto la loro potente effi-cacia nel mondo che mi circondava e che misembrava in preda a ossessioni tutte nuove edel tutto differenti. Non riconosco gli deiper la strada, carico della mia verità precariae ignaro che ogni verità può cogliermi sololì dove ho portato l’errore. Non avevo com-preso che il mito è anzitutto una realtà e unanecessità dello spirito e che esso è il cam-mino della coscienza, il suo tapis roulant.

Accettavo senza esame la credenza co-mune, per cui esso è, almeno per un istante,una figura del linguaggio, un modo o un’e-spressione: gli preferivo follemente il pen-siero astratto e me ne rallegravo. L’uomomalato di logica: diffidavo delle allucina-zioni deificate. Eppure che cos’era quel bi-sogno che mi animava, quella tendenza cheinclinavo a seguire, quella diversione delladistrazione che mi procurava entusiasmo?Certi luoghi, parecchi spettacoli, ne provavoa mie spese la grandissima forza, senzascoprire il principio di un simile incante-simo. C’erano oggetti usuali che, a nondubitarne, partecipavano per me del mi-stero, m’immergevano nel mistero. Amavol’ebbrezza di cui avevo la pratica e non ilmetodo. […] Mi fu chiaro infine che avevola vertigine del moderno» (Louis Aragon, Ilpaesano di Parigi, trad. it. di Paolo Caruso,revisione di Franco Rella, Milano, Il Sag-giatore, 1982, pp. 105-107).

Il “paesano” scopre l’esistenza di una“mitologia del Moderno” di cui era consa-pevole solo per trasalimenti e accenti fugge-voli e incerti: scopre che c’è tutta una nuovamitologia degli oggetti e dei luoghi, dellesituazioni e delle possibilità e ne rimaneturbato al punto da rincorrerla con la scrit-tura e con l’azione politica. Come lui faràtutto il Surrealismo fino alla “grande crisi”del 1938 e l’abbandono da parte di Aragondel “realismo magico” di Breton in nomedel “realismo socialista” di Ehrenburg e diZdanov.

Mitologia del Moderno e sperimentazionedelle avanguardie letterarie, dunque, coesi-stono e si inseguono reciprocamente. Nel-l’analisi di Franco Rella, infatti,

«Il “mito” dell’eterno ritorno, il mito dellamalattia, il mito della morte, il mito dellaterra e del sangue, il mito dell’atemporalitàdell’esperienza autentica, ecco alcune dellemosse per vincere il “disagio della civiltà”,la perversione dello spazio e del tempo delmoderno. Infatti il mito ”porta la sanzionedella sua antichissima e inesorabile prove-nienza, della malleveria divina o dell’ispira-zione” e, con questo, un segno di “verità” »(Franco Rella, “Vertigine del moderno”, in-troduzione a Louis Aragon, Il paesano diParigi cit., pp. XVI-XVII).

3. E oggi, invece? Che forza e valenzaavrà il mito quale sempre occorrente verti-gine del Novum nella dimensione postmo-derna del “tutto sperimentato, vissuto, go-duto e conosciuto”?. E’ difficile dirlo se nonper accenni. I miti dell’esperienza originaria

o della terra e del sangue o della malattiacome salvezza dello spirito o della mortecome radicalità del rifiuto del mondo sonoandati sicuramente (e fortunatamente) per-duti nel mare magnum della crisi delle ideo-logie e delle visioni del mondo. Ma al loroposto si sono sovrapposte le mitologie del“viaggio nel virtuale” (un’esperienza, infondo, anch’essa “originaria” se ci si pensabene - visto che si può ripetere sempre avolontà come fosse la prima volta) e della“ripetizione originale” (mito quest’ultimofondativo del Postmoderno architettonico eletterario). E, non ultima per importanza,l’idea che il linguaggio sia esso stesso“mitologia” e che nel suo fondo sia sedi-mentata non solo la saggezza e la tradizionedei secoli quanto l’assoluta possibilità dirileggere il passato per usarlo senza neces-sità di conoscerlo e confrontarsi con esso: lavertigine della Biblioteca di Babele (di bor-gesiana memoria) applicata alla letteratura oforse il sogno combinatorio del Cinquecentovissuto attraverso il ronzio dei byte deicomputer di nuova generazione.

Questa forma di “vertigine assoluta”(quale era stata la “vertigine del Moderno”per Aragon e la pratica combinatoria per ilBorges dei grandi racconti di Finzioni) puòessere considerata una caratteristica signifi-cativa della post-modernità.

Ciò avviene nel senso che la combinatoriatra i generi, la commistione tra gli stili, lamescolanza di vecchio e nuovo, di antico emoderno che certamente avevano contraddi-stinto anche molte altre stagioni della cul-tura occidentale (il Rinascimento con il suoritorno ai testi classici degli antichi scrittoridi una grecità rivendicata come patria spiri-tuale, l’Antichità come “specchio del pre-sente” che è tipico del Barocco, il cultodelle virtù eroiche dei padri durante la Rivo-luzione Francese, il Classicismo comeforma di recupero della tradizione e il Ro-manticismo come ricerca di un’originalità“altra” rispetto al comune sostrato delleforme di comunicazione letteraria che co-struiscono entrambi una “mitologia del pre-sente” a loro ascrivibile, ecc.), qui diventaun valore in sé, una delle dimensioni asso-lute della ricerca letteraria, uno spazio nondeformabile e permeabile all’esterno delmondo circostante (ma proprio per questodi quasi impossibile definizione per identitàgià configurate).

Due esempi potranno bastare al riguardoper indicare la vocazione “mitologica” delpostmoderno.

Il primo è costituito da ciò che OmarCalabrese, nell’ormai lontano 1989 (anno incui lo studioso di semiologia delle arti inquestione coniò il fortunato termine), defi-nisce e insinua sia caratteristico dell’ “etàneo-barocca”.

Il “neo-barocco”, concetto teorico origi-nato e quasi germinato da quello di post-moderno, si riferiva a delle scelte“categoriali” che non erano riferibili esclu-sivamente alla dimensione storica del ter-mine stesso.

In esso confluivano caratteristiche anchemolto diverse tra loro che trovavano unapossibile unificazione in una serie di dina-miche specifiche e verificabili: oltre che nelloro confronto diretto con la dimensionestorica alla quale facevano riferimento (il

Barocco come principio formale utilizzato inun’epoca del passato), i temi che compone-vano la forma del neo-barocco erano visticome la “manifestazione di differenze” (enon di continuità storiche) in cui era possibile“ritrovare modelli di funzionamento generaledei fatti culturali” (Omar Calabrese, L’etàneo-barocca, Roma-Bari, Laterza, 19892, p.24).

Una delle discipline nelle quali il postmo-derno e, di conseguenza, l’istanza formale delneo-barocco aveva trovato una delle sue prin-cipali polle sorgive era stata l’architettura(soprattutto negli Stati Uniti, ma non solo):

«A dire la verità, in campo espressivo esistegià un termine passe-par-tout che è stato lar-gamente utilizzato per definire una linea ditendenza contemporanea. E’ l’abusatissimo“postmoderno”, di cui è stato snaturato ilsignificato originario, e che è divenuto loslogan o il marchio di operazioni creativeanche diversissime fra di loro. Si tratta inverità di una parola equivoca e generica altempo stesso. La sua diffusione è relativainfatti a tre ambiti che vengono confusi fraloro. Il primo, squisitamente americano, lariferiva già fin dagli anni Sessanta alla lettera-tura e al cinema. Di fatto, significava moltosemplicemente che vi erano certi prodottiletterari che non consistevano nella sperimen-tazione (intesa come “modernità”), ma piutto-sto nella rielaborazione, nel pastiche, nelladecostruzione del patrimonio letterario (o ci-nematografico) immediatamente precedente.Il secondo è l’ambito strettamente filosoficoed è relativo alla notissima opera di Jean-François Lyotard, La condizione postmo-derna, che in origine era un semplice rapportoper il Consiglio dello Stato canadese del Que-bec sulle società occidentali avanzate e la loroforma di sviluppo del sapere. L’aggettivo“postmoderno” veniva esplicitamente ripresodalla sociologia americana degli anni Ses-santa, ma come concetto, e rielaborato, innozione filosofica originale. […] il terzo, in-fine, è il campo dell’architettura e in generedelle discipline progettuali ed ha avuto suc-cesso soprattutto in Italia e negli Stati Uniti. Ilpunto di partenza fu la famosa mostra dellaBiennale di Venezia dedicata alla “StradaNovissima”, il cui catalogo fu intitolato Post-modern dal curatore Paolo Portoghesi. Inquesto settore”postmoderno” cominciò a si-gnificare qualcosa di ideologicamente precisoe cioè la ribellione contro i principi del Mo-vimento Moderno, il suo funzionalismo erazionalismo» (Omar Calabrese, L’età neo-barocca cit., pp. 14-15).

E nell’architettura post-moderna, infatti, lamitologia conclamata del Moderno(funzionalismo, anti-decorativismo, criticadell’ornamento, ecc.) veniva rovesciato inuna mitologia di senso opposto (citazionismo,decorativismo, ripresa degli ornamenti carialla tradizione barocca, ecc.) e il neo-baroccocostituiva la forma compiuta di questa nuovadimensione mitologica quale poteva esserepercepita non solo negli edifici e negli allesti-menti urbani e metropolitani ma anche inaltre forme espressive compiutamente legateall’emergenza di un nuovo immaginario col-lettivo (il cinema post-moderno basato sullatecnologia del digitale, ad es., ma anche ifumetti manga e hentai giapponesi, la pubbli-cità subliminale, ecc.).

Le caratteristiche del neo-barocco rende-

IL MITO IN QUESTIONERoland Barthes e la mitologia della contemporaneità

G GIUSEPPE PANELLA

vano il postmoderno fungibile ad un nuovoattraversamento mitologico di quelle stessecategorie che sembravano essere state abban-donate definitivamente in nome di quellecostituite dall’esperienza precedente del Mo-derno.

Ciò è abbastanza evidente, infatti, anche sesi esamina, in ragione di secondo esempio, ilpalese ritorno della letteratura contempora-nea ad una voluta ri-suddivisione in generi esi fa caso alla loro evoluzione “genetica” insenso post-moderno (come si era cursoria-mente accennato prima).

Il romanzo, infatti, è da sempre l’oggettoprivilegiato della riflessione sui generi e se lagrande tradizione narrativa dell’Ottocentosembrava averla ridotta alla pura dimensionedella capacità del narratore di affrontare ipropri temi (“tutti i generi di letteratura etutte le forme” - come scrisse Honoré deBalzac nella prefazione del 1853 agli Étudesde moeurs) in modo adeguato e funzionale(anzi fusionale) rispetto alla sua prospettiva(il romanzo è “la conquista della verità asso-luta nell’arte”; “è la fusione terribile del tri-viale e del sublime, del patetico e del grotte-sco; insomma, è la vita così com’è, il ro-manzo così come deve essere”), la postmo-dernità sembra aver riscoperto la necessità diarticolare l’artificio della scrittura con la suaarticolazione interna attraverso la consapevo-lezza dell’utilizzazione dei canoni che lafanno funzionare correttamente e compiuta-mente. Tali canoni lottano fra di loro peraffermarsi (come vuole Harold Bloom nelsuo Il canone occidentale) e il successo chepiù o meno riescono a conseguire manda infrantumi quell’ideale di pienezza organicadell’opera come “legge individuale” (GeorgSimmel ) del suo funzionamento che avevacaratterizzato l’affermarsi egemonico delModerno:

«Ma questa idea dell’opera, oggi, è leggi-bile solo sul profilo di un’inquietudine allaquale appartiene e che ne incrina l’ideale dipienezza organica: che si tratti della diversitàdelle linee di senso in cui si costituisce odelle tracce di intenzionalità che ne interrom-pono, anche solo per un attimo, il continuumsemantico, la compatta pienezza dell’operaha il proprio antitetico complemento nell’i-dea di un frangersi dell’opera in dimensioni edirezioni che non si rinchiudono nella giuri-sdizione di un’opera legge individuale a sestessa. In questa tensione abitano i generi:l’esempio estremo di Blanchot, che riportal’irriducibilità dell’opera alla manifestazionedi un’assenza, così che l’opera ha il propriocentro in permanenza al di là di sé medesima,congiunge nel movimento della disgrega-zione dei generi il movimento del loro vorti-coso, inesausto, imprevedibile ricomincia-mento» (Paolo Bagni, Genere, Firenze, LaNuova Italia, 1997, p. 60).

In questo disgregarsi e riaggregarsi dei ge-neri nella scrittura, oggi, andrà ritrovata unanuova mitologia del presente che passa attra-verso la narrazione e la dislocazione dell’im-maginario.

Il passaggio attraverso le nuove forme incui esso si coagula e si consolida diventascrittura soltanto a condizione che le nuovefigure che esso propone (e ri-propone) sianocostituite ancora della “stessa materia di cuisono fatti i sogni” (una frase che è sì unacitazione famosa dalla Tempesta di WilliamShakespeare, ma è anche la frase con cui siconclude Il mistero del falco (1941) di JohnHuston, il suo primo film, non a caso ispiratoa Il falcone maltese di Dashiell Hammett).

In questa logica (della citazione ma anchedella mescolanza e della contaminazione) ri-siede lo spirito della possibile narrazionemitopoietica del presente prossimo venturo.

settima pagina

SEQUENZA DI MARILYN

Del mondo antico e del mondo futuroera rimasta solo la bellezza, e tu,povera sorellina minore,quella che corre dietro i fratelli più grandi,e ride e piange con loro, per imitarli,e si mette addosso le loro scarpette,tocca non vista i loro libri, i loro coltellini,tu sorellina più piccola,quella bellezza l’avevi addosso umilmente,e la tua anima di figlia di piccola gente,non ha mai saputo di averla,perché altrimenti non sarebbe stata bellezza.

Il mondo te l’ha insegnato.Così la tua bellezza divenne sua.

Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuroera rimasta solo la bellezza, e tute la sei portata dietro come un sorriso obbediente.L’obbedienza richiede troppe lacrime inghiottite,il darsi agli altri, troppi allegri sguardiche chiedono la loro pietà! Cosìti sei portata via la tua bellezza.Sparì come un pulviscolo d’oro.

Dello stupido mondo antico e del mondo futuroera rimasta una bellezza che non si vergognavadi alludere ai seni di sorellina,al piccolo ventre così facilmente nudo.E per questo era bellezza, la stessache hanno le dolci ragazze del tuo mondo,le figlie degli immigrati di colore,le figlie dell’Europa povera,le figlie dei commerciantivincitrici ai concorsi a Miami o a Londra.Sparì come una colombella d’oro.

Il mondo te l’ha insegnato,e così la tua bellezza non fu più bellezza.

Ma tu continuavi ad essere bambina,sciocca come l’antichità, crudele come il futuro,e fra te e la tua bellezza posseduta dal Poteresi mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente,te la portavi sempre dietro come un sorriso tra le lacrime,impudica per passività, indecente per obbedienza.Sparì, come una bianca colomba d’oro.

La tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico,richiesta dal mondo futuro, possedutadal mondo presente, divenne un male mortale.

Ora i fratelli maggiori finalmente, si voltano,smettono per un momento i loro maledetti giochi,escono dalla loro inesorabile distrazione,e si chiedono: “ E’ possibile che Marilyn,la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?”.Ora sei tu, la prima, tu, la sorella più piccola,quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso,sei tu la prima oltre le porte del mondoabbandonato al suo destino di morte.

da Pasolini, per il cinema, I Meridiani, Arnoldo MondadoriEditore

Francesca Tuscano Brunacci e Damiano VettoreFiscelli, M.Y.T.O …a proposito di…Edizioni EraNuova, •7,00, 131 pp.

Due giovani insegnanti umbri hanno appena pub-blicato nella collana Book Block delle EdizioniEra Nuova questo libro dal titolo accattivante einconfondibile “M.Y.T.O …a proposito di…”, checoniuga con gusto e intelligenza due mondi diffe-renti, distanti ma non troppo: poesia e filosofia.Gli autori – i poeti vorremmo dire – inserisconoinfatti loro composizioni in un intreccio sapiente diprosa e citazioni di Platone e Pasolini. Come inbotta e risposta ad alte mire: due persone chedialogano attraverso la poesia. Una pubblicazione,

lo diciamo subito, marcatamente antagonista neiconfronti della cultura dominante. Siamo tuttaviadi fronte ad un antagonismo dal contenuto poetico:un antagonismo senza bandana che copre il volto,tutt’al più qualche nome d’arte a malcelare quellidettati dall’anagrafe. Un antagonismo che nonnega a priori gli altri antagonismi, e che a trattipersino li sostiene, ma chiede loro con assai legit-timo sospetto: “chi va là”, e li mette in guardiadalla incoerenze, dalle ipocrisie, dalle strumenta-lizzazioni che minacciano sempre di traviarli, o –peggio – di farli nascere con il baco dentro. Unesperimento letterario apprezzabile nelle forme(sembra una sorta di raffinato block notes) comenei contenuti. Per palati giovani ma fini.

Sopra: Marilyn Monroe ( da www.postalmuseum.si.edu).Sotto: Venere di Milo

Potenza naturale dell’ala è di portareciò ch’è grave in alto, levandolo doveabita la stirpe degli dèi: perciò l’anima,più d’ogni cosa corporea, ha parteci-pato del divino: e il divino è la bellezza, lasapienza, il bene, e ogni cosa siffata: e diqueste cose si nutrono e fortificano, so-prattutto, le ali dell’anima.

PlatoneFedro

Milan KunderaL’ignoranza2000 Fu stregata da immagini che d’improvvisoaffiorarono da vecchie letture, da film, dallasua memoria e forse da quella dei suoi ante-nati: il figlio perduto che ritrova la vecchiamadre; l’uomo che si ricongiunge all’amatacui l’aveva strappato una sorte feroce; la casanatale che ciascuno porta dentro di sé; il sen-tiero riscoperto dov’è rimasta l’impronta deipassi perduti dell’infanzia; Ulisse che rivedela sua isola dopo anni di vagabondaggio; ilritorno, il ritorno, la grande magia del ritorno.

Dino CampanaLa Notte-Canti Orfici1914 Ed il mio cuore era affamato di sogno, perlei, per l’evanescente come l’amore evane-scente, la donatrice d’amore dei porti, la ca-riatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini gi-nocchi, sulla sua forma pallida come un so-gno uscito dagli innumerevoli sogni dell’om-bra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’anticaamica, l’eterna Chimera teneva fra le manirosse il mio antico cuore.

Oscar WildeIl ritratto di Dorian Gray1891 Eterna giovinezza, passioni senza termine,piaceri sottili e segreti, sfrenate gioie e sfre-nati peccati: egli doveva avere tutto ciò. Il ri-tratto avrebbe portato il peso della sua vergo-gna: nient’altro.

Un senso di dolore lo penetrò mentre pen-sava all’infamia che era riserbata al bel voltodipinto. Una volta, in una fanciullesca paro-dia di Narciso, egli aveva baciato o finto dibaciare quelle labbra che adesso gli sorride-vano così crudelmente. Per mattine e mattineera rimasto seduto davanti al ritratto, meravi-gliandosi della sua bellezza: talvolta gli eraparso di esserne innamorato.

Friedrich NietzscheLa nascita della tragedia1876 La leggenda di Prometeo è proprietà origi-naria dell’intera comunità dei popoli ariani eun documento delle loro doti di profonditàtragica; non mancherebbe anzi di verosimi-glianza il dire che questo mito possiede per lanatura ariana esattamente la stessa caratteri-stica importanza che il mito del peccato origi-nale ha per la natura semitica, e che fra i duemiti esiste un grado di parentela come tra fra-tello e sorella.

OvidioMetamorfosi8 d.C. In un silenzio di tomba s’inerpicano su perun sentiero scosceso, buio, immerso in unnebbia impenetrabile. E ormai non erano lon-tani dalla superficie della terra, quando, neltimore che lei non lo seguisse, ansioso diguardarla, l’innamorato Orfeo si volse: sùbitolei svanì nell’Averno; cercò, sì, tendendo lebraccia, d’afferrarlo ed essere afferrata, manull’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.

Fahrenheit 451 a cura di PAOLA FICINI

ottava pagina

Aveva 5 anni e già lo aspettava, il Principe,quello Azzurro. D’altra parte le fiabe parla-vano chiaro: le fanciulle, anche povere, pur-chè molto belle, venivano sempre salvate,riscattate da un mitico Principe, che al solovederle si innamorava di loro perdutamente eper sempre. A 16 anni Isabella ricevette il primo bacioprincipesco che non riuscì però a svegliarladal suo sogno di bella addormentata. Le pic-cole donne crescono, ma spesso troppo lenta-mente. A 18 anni un bacio meno innocente laintrodusse nelle stanze della zona notte delcastello e a 20 anni un Principe impertinentele chiese se era bella dentro come era bellafuori. Si sentì compresa nel profondo e pensò:E’ lui. Si sbagliava. Lo incontrò abbracciatoad una nativa di un paese nordico, luogo diorigine di splendide sirenette. Sbagliando siimpara- pensò. Si dovrebbe imparare. A 23 anni Isabella incontrò chi dall’altodella torre del maniero le disse: Domani tuttoquesto potrebbe essere tuo. Pensò: Ci siamo.E già pregustava la crema chantilly della tortanuziale a forma di cuore, quando fu cinica-mente informata che tutti quei possedimentierano già condivisi legalmente con una piùfortunata o più scaltra fanciulla. Basta - pensò Isabella- con questo hochiuso. Non più sogni, né illusioni, non piùchimere; e sprofondò la testa fra cuscini an-cora umidi di delusione e versi di Neruda:Bella, mia bella,/ la tua voce, la pelle, le tueunghie,/ bella , mia bella,/ il tuo essere, laluce, la tua ombra,/ bella, tutto è mio, bella,/tutto è mio, mia,/ quando cammini o riposi,/quando canti o dormi,/ quando soffri o sogni,/

sempre,/ quando sei vicina o lontana,/ sem-pre,/ sei mia, mia bella,/ sempre.

Ma il tempo porta con sè l’oblio e rinfo-cola i sogni, e i sogni rinnovano il tempodella speranza e dell’attesa. Così, alla fine,in un giorno luminoso e caldo, arrivò chi lepromise eterno amore e un futuro felice. Lasua vita cambiò. Si sentì realizzata. Un Prin-cipe l’aveva scelta e, scegliendola, le avevaregalato una identità, l’aveva riscattata dal-l’anonimato. Si dedicò totalmente all’a-mato. Adorava ascoltarlo parlare di sé, e disé, e di sé. Ricambiava con generosità le suecarezze, si perdeva nei suoi occhi che -diceva lui- vedevano sempre oltre, si scio-glieva nelle sue promesse di viaggi lontani,di tesori nascosti, di giardini incantati. Nonl’affaticava accudirlo, non l’umiliava viverenell’ombra e tacere. Si sa, l’amore è anchesofferenza e sacrificio ed è compito delladonna capire e aiutare il proprio uomo acambiare e a migliorarsi. Passarono così i mesi e Isabella leggevaPrèvert: Questo amore/ Così violento/ Cosìfragile/ Così tenero/ Così disperato/ Questoamore/ Bello come il giorno/ Cattivo come iltempo/ Quando il tempo è cattivo e perdo-nava sempre più spesso il suo Principequando per motivi di strategia politica -diceva lui- non rientrava al castello. Passa-rono così gli anni e Isabella leggeva Pavese:Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-/ questamorte che ci accompagna / dal mattino allasera, insonne,/ sorda, come un vecchio ri-morso/ o un vizio assurdo. I tuoi occhi/saranno una vana parola,/ un grido taciuto,un silenzio e aspettava ogni volta il suoPrincipe per ritrovare il sorriso.

Ma il Principe un giorno non tornò più eIsabella lesse Borges: C’è tanta solitudinein quell’oro./ La luna delle notti non è laluna/ Che il primo Adamo vide. I lunghisecoli/ Dell’umano vegliare l’han colmata/D’antico pianto. Guardala .E’ il tuo spec-chio e pianse. Pianse a lungo. Pensò di farlafinita; preferì toccare il fondo seguendo permesi, per anni, ipnotizzanti soap-opere tele-visive. Poi si rassegnò. Imparò ad ascoltaree riconoscere i suoni del silenzio e ad accet-tare i colori spenti della solitudine, che tal-volta si illuminavano di libertà. Ricominciòa legger poesie. E a scriverle: Mi sei rimastoaccanto/ Fantasma che insidia/ con perpe-tua ferita/ la mia strada/ Presenza tatuata/blocchi ogni via d’ uscita/ E annaspo inquesta vita/ come la mosca/-cieca-/ lacerale sue ali/ nell’acqua di un bicchiere. Oggi Isabella vive in una casa per an-ziani. Non esce mai in giardino se prima nonsi è passata un velo di rossetto sulle labbraormai sottili. Poi, sotto l’ombra di un cedro,ripete a memoria gli amati versi di Qohèlet:Ragazzo goditi la giovinezza/ Và dove va iltuo cuore/ E dove va lo sguardo dei tuoiocchi/ E getta via il tormento dal tuo cuore/Stràppati dalla carne il dolore/ Perché unsoffio è la giovinezza/ Nerezza di capelli/un soffio. Aspetta, come ogni giorno, unaltro ospite della casa, ex-impiegato comu-nale, taglia forte. E pensa: In questo stagnodella vita mia, pieno di Principi divenutiranocchi, chissà che non ci sia ancora spazioper l’approdo di un vero, eroico , azzurris-simo Principe, per quanto in pensione!

Il mitico principe azzurro PAOLA FICINI

Si ringrazia per la collaborazione CarloZella Editore, V. le M. Fanti n° 119,50137 Firenze, tel. 055/602259, email ma- [email protected] .

Tra i libri pubblicati:-Isola sempre, di Linda Di Martino. Ilnuovo giallo psicologico, ambientato inuna solare Capri, della vincitrice del pre-mio Tedeschi Mondadori nel 1987 e nel1996.-Dove si incontrano gli angeli. Pensieri,fiabe e sogni di Giovanni Michelucci, acura di Giuseppe Cecconi. Raccolta discritti poetici e fantastici del grande archi-tetto.-Le parole di Prato. Termini, detti e pro-verbi in uso nell’area pratese, a cura diAnna Maria Nistri e Paola Piera Pelagatti.Una ricerca, colta e gradevole, per ricor-dare o far conoscere l’idioma pratese.-D’Annunzio e Prato, a cura di MilvaMaria Cappellini. Documenti ed alcunelettere inedite del grande poeta.-Toscana Delitti e Misteri, Autori Vari, acura di Graziano Braschi. Sotto l’espertaguida di Graziano Braschi alcuni dei piùnoti scrittori di gialli, toscani e non, cipropongono un saggio della loro operaattraverso brevi racconti legati al territo-rio.E’ in fase di stampa: InterpretandoSchnitzler, a cura di Teresa Paladin, intro-duzione di Claudia Sonino. Nuove e accat-tivanti interpretazioni delle maggioriopere dello scrittore austriaco sono rac-colte in un volume che si presenta adattoanche ai lettori più giovani per l’immedia-tezza dello stile e i contenuti presentati.