Il Metodo Della Drammatizzazione

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Il metodo della drammatizzazione 1) La domanda dell’essenza e la pentola della casualità Il primo passo per l’introduzione del metodo della drammatizzazione è una problematizzazione sul tipo di domanda che occorre porre in filosofia. Se l’Idea è un’ “oggettività”, allora essa “risponde soltanto ad alcune domande” – se l’Idea è ciò che è cercato, ciò che deve essere trovato nel domandare della filosofia, l’inizio di questo domandare sarà innanzitutto la domanda della domanda. Se le domande sono haec quae est domanda, allora esse impongono innanzitutto un modo di essere domate, questo non può essere un modo qualsiasi, o peggio, un modo restrittivo, tranchant, bisogna che nell’essere domata la domanda, il suo indomabile resti vivo e concreto, perché ciò che è indomabile è anche la traccia di Idea, cioè di “risposta”, nascosto nella domanda medesima, e nell’atto del domandare. La domanda tradizionale della filosofia è la domanda che cos’è? Essa, nel suo domandare, impone all’Idea una forma ben definita: tale forma è detta essenza. La domanda che cos’è? dev’essere pertanto definita domanda dell’essenza. La domanda dell’essenza è la domanda che, nei dialoghi platonici, sta al principio di ogni epistéme e distingue il modo di procedere della scienza certa dal confuso brancolare dossico, che deve la propria costitutiva incapacità di generare certezza proprio dal suo domandare impreciso, vago, accessorio, privo di una considerazione teleologica che faccia da guida al domandare; le domande sbagliate sono le “domande minori dell’opinione, che esprimono soltanto modi confusi di pensare, tipici dei vecchi e dei giovani inesperti, e anche dei sofisti e dei retori astuti.” Questo per Deleuze è platonisme. Il rovesciamento del platonismo inizia innanzitutto come critica del domandare, e come critica della domanda dell’essenza. In effetti la domanda dell’essenza, il che cos’è?, “anima soltanto i cosiddetti dialoghi aporetici”. La centralità nello sviluppo del pensiero filosofico di dialoghi come il Sofista (dove e quando?) e il Parmenide (in che caso?), è data proprio dal fatto che essi prendono le mosse da un diverso tipo di domandare. E non solo, ma nella storia della filosofia quasi nessun filosofo ha potuto domandare che cos’è? Con un’eccezione eccellente: “Forse Hegel, forse soltanto Hegel, proprio perché la sua dialettica, dato che riguarda l’essenza vuota e astratta, non si separa dal movimento della contraddizione.” La domanda dell’essenza, allora, potrebbe essere la domanda sbagliata, e per questo motivo: essa impone all’Idea, proprio in quanto essa domanda di una forma, una “semplicità essenziale”, ma allo stesso tempo essa deve ineluttabilmente contraddire tale semplicità essenziale per rendere conto della inessenzialità che è compresa nella essenza dell’Idea. Ciò significa: la domanda dell’essenza mette già da sempre la filosofia in una posizione aporetica. E questa è anche la lezione di Adorno, il quale non fa altro che portare alle estreme conseguenze la dialettica di Hegel, il quale, a sua volta, non fece altro che mostrare le estreme conseguenze della domanda dell’essenza platonica. La contraddizione alla quale occorre ricorrere per poter domandare in senso filosoficamente significativo che cos’è? compromette la presupposta semplicità essenziale dell’Idea e la condanna ad un’astrattezza dalla quale essa fa difficilmente ritorno. Dalla contraddizione Deleuze distingue il concetto leibniziano di vice-dizione: …questa volta è l’inessenziale a comprendere l’essenziale e a comprenderlo soltanto nel caso. La sussunzione in base al caso forma un linguaggio originale delle proprietà degli eventi. Il procedimento di vice-dizione consiste “nel percorrere l’Idea come una molteplicità”. Il termine “molteplicità” non indica affatto uno status quantitativo da assegnare all’Idea (Deleuze parla sempre di Idea al singolare, non si tratta qui di un’unica idea o di una molteplicità di idee). “Molteplicità” sta qui per ciò che è “molto più vicino all’accidente che all’essenza astratta”. Allora la domanda sull’Idea non è una domanda sull’essenza ma le domande della molteplicità, ovvero l’Idea è “determinabile positivamente solo in funzione di una tipologia, di una topologia, di una posologia, e di una casistica trascendentali.” Si tratta, pertanto, non di determinare l’essenza eterna

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Il metodo della drammatizzazione 1) La domanda dell’essenza e la pentola della casualità Il primo passo per l’introduzione del metodo della drammatizzazione è una problematizzazione sul tipo di domanda che occorre porre in filosofia. Se l’Idea è un’ “oggettività”, allora essa “risponde soltanto ad alcune domande” – se l’Idea è ciò che è cercato, ciò che deve essere trovato nel domandare della filosofia, l’inizio di questo domandare sarà innanzitutto la domanda della domanda. Se le domande sono haec quae est domanda, allora esse impongono innanzitutto un modo di essere domate, questo non può essere un modo qualsiasi, o peggio, un modo restrittivo, tranchant, bisogna che nell’essere domata la domanda, il suo indomabile resti vivo e concreto, perché ciò che è indomabile è anche la traccia di Idea, cioè di “risposta”, nascosto nella domanda medesima, e nell’atto del domandare. La domanda tradizionale della filosofia è la domanda che cos’è? Essa, nel suo domandare, impone all’Idea una forma ben definita: tale forma è detta essenza. La domanda che cos’è? dev’essere pertanto definita domanda dell’essenza. La domanda dell’essenza è la domanda che, nei dialoghi platonici, sta al principio di ogni epistéme e distingue il modo di procedere della scienza certa dal confuso brancolare dossico, che deve la propria costitutiva incapacità di generare certezza proprio dal suo domandare impreciso, vago, accessorio, privo di una considerazione teleologica che faccia da guida al domandare; le domande sbagliate sono le “domande minori dell’opinione, che esprimono soltanto modi confusi di pensare, tipici dei vecchi e dei giovani inesperti, e anche dei sofisti e dei retori astuti.” Questo per Deleuze è platonisme. Il rovesciamento del platonismo inizia innanzitutto come critica del domandare, e come critica della domanda dell’essenza. In effetti la domanda dell’essenza, il che cos’è?, “anima soltanto i cosiddetti dialoghi aporetici”. La centralità nello sviluppo del pensiero filosofico di dialoghi come il Sofista (dove e quando?) e il Parmenide (in che caso?), è data proprio dal fatto che essi prendono le mosse da un diverso tipo di domandare. E non solo, ma nella storia della filosofia quasi nessun filosofo ha potuto domandare che cos’è? Con un’eccezione eccellente: “Forse Hegel, forse soltanto Hegel, proprio perché la sua dialettica, dato che riguarda l’essenza vuota e astratta, non si separa dal movimento della contraddizione.” La domanda dell’essenza, allora, potrebbe essere la domanda sbagliata, e per questo motivo: essa impone all’Idea, proprio in quanto essa domanda di una forma, una “semplicità essenziale”, ma allo stesso tempo essa deve ineluttabilmente contraddire tale semplicità essenziale per rendere conto della inessenzialità che è compresa nella essenza dell’Idea. Ciò significa: la domanda dell’essenza mette già da sempre la filosofia in una posizione aporetica. E questa è anche la lezione di Adorno, il quale non fa altro che portare alle estreme conseguenze la dialettica di Hegel, il quale, a sua volta, non fece altro che mostrare le estreme conseguenze della domanda dell’essenza platonica. La contraddizione alla quale occorre ricorrere per poter domandare in senso filosoficamente significativo che cos’è? compromette la presupposta semplicità essenziale dell’Idea e la condanna ad un’astrattezza dalla quale essa fa difficilmente ritorno. Dalla contraddizione Deleuze distingue il concetto leibniziano di vice-dizione:

…questa volta è l’inessenziale a comprendere l’essenziale e a comprenderlo soltanto nel caso. La sussunzione in base al caso forma un linguaggio originale delle proprietà degli eventi.

Il procedimento di vice-dizione consiste “nel percorrere l’Idea come una molteplicità”. Il termine “molteplicità” non indica affatto uno status quantitativo da assegnare all’Idea (Deleuze parla sempre di Idea al singolare, non si tratta qui di un’unica idea o di una molteplicità di idee). “Molteplicità” sta qui per ciò che è “molto più vicino all’accidente che all’essenza astratta”. Allora la domanda sull’Idea non è una domanda sull’essenza ma le domande della molteplicità, ovvero l’Idea è “determinabile positivamente solo in funzione di una tipologia, di una topologia, di una posologia, e di una casistica trascendentali.” Si tratta, pertanto, non di determinare l’essenza eterna

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che sta sotto alle rappresentazioni mutevoli, ma piuttosto di determinare le coordinate spazio temporali che possano rappresentare la molteplicità dell’Idea cioè il divenire, divenire che la domanda sull’essenza è costretta a definire, dal suo punto di vista, come astratto, contraddittorio, ma che è, dal punto di vista empirista delle domande della molteplicità, pura e massimamente reale affermazione. Chi? Come? Quanto? Quando? E dove? In che caso? Tutte queste domande sono domande che impongono di tracciare dinamismi spazio-temporali, rapporti dinamici che rendano conto dell’Idea non come essenza semplice ed eterna, ma dell’Idea come movimento, come molteplicità in divenire. Se Deleuze cita Leibniz come suggeritore di questo metodo, tuttavia lo spunto di tutte queste considerazioni critiche è nel Nietzsche del 1962, nel quale Deleuze espone tanto più ampiamente quanto decisamente quale centralità abbia il giusto domandare nell’ambito di una filosofia critica, e come la dialettica e la sua contraddizione non siano affatto lo stesso che una filosofia critica della molteplicità del divenire e della differenza: ne La formulazione della domanda in Nietzsche (III, 2) Deleuze tratta esplicitamente della critica della domanda dell’essenza (“la formula con la quale la metafisica pone il problema dell’essenza”), distinguendo il domandare platonico dal domandare del sofista Ippia:

Il sofista Ippia non era un fanciullo che si limitava a rispondere «chi» quando gli veniva chiesto «che cosa»: semplicemente egli pensava che la domanda chi? fosse la migliore, la più adatta alla determinazione dell’essenza, in quanto non faceva riferimento, come invece credeva Socrate, a degli esempi frammentari, bensì alla continuità degli oggetti concreti considerati nel loro divenire, al divenire-bello di tutti gli oggetti menzionabili o di cui si poteva dare esempio.

Dunque la domanda chi? del sofista Ippia è il primo accenno ad un modo differente di domandare che non si rivolge ingenuamente all’inessenziale, ma vi si rivolge come il domandare di un’arte empiristica e pluralistica. Quest’arte è la formulazione genealogica nietzscheana della domanda.

a) pluralistica_ in quanto l’essenza è qui intesa in senso prospettivistico, ovvero: la domanda che cos’è? è posta goffamente e ingenuamente, perché “alla base c’è sempre un: ‘che cos’è ciò per me?’ (per noi, per tutto ciò che vive etc…)”. La domanda che cos’è? non è altro che la domanda chi? mal posta, perché essa presuppone un’oggettività: l’unica oggettività è quella dell’indomabile molteplicità dell’Idea, che nel Nietzsche corrisponde all’abisso dionisiaco della volontà, o dell’affermazione della vita. « “Che cosa mai?” chiesi io incuriosito. “Chi mai? Dovresti chiedere”. Così parlò Dioniso, e tacque quindi nel modo che gli è proprio, e cioè in maniera tentatrice.» Per Nieztsche la domanda «chi?» significa: data una cosa, quali sono le forze che se ne impadroniscono, da quale volontà è posseduta? Chi si esprime, chi si manifesta in essa? Giungiamo all’essenza solo attraverso la domanda «chi?», in quanto l’essenza è costituita soltanto dal senso e dal valore della cosa e viene determinata soltanto dalle forze affini alla cosa e dalla volontà affine a queste medesime forze. […] l’essenza è sempre senso e valore. Così la domanda «chi?» si estende a e su tutte le cose: quali forze, quale volontà? È la domanda tragica. (III, 2 pg.115)

b) empiristica_ in quanto l’arte pluralistica non nega l’essenza, ma la fa derivare di volta in volta da un’affinità tra fenomeni e forze e da una coordinazione fra forze e volontà. Al contrario della domanda dell’essenza platonica, la domanda chi? non pone l’essenza come astratta e contraddittoria, ma come differente e differenziante, alla radice di ogni negazione sta “l’aggressività di un’affermazione” e “il negativo è il prodotto dell’esistenza stessa”, porre la negazione come elemento astratto e speculativo e non come affermazione della differenza equivale a svalutare l’Idea, a fare dell’Idea un altrove astratto in cui tutta l’accidentalità e l’inessenzialità devono essere soppresse e considerate come nulla: dove la vita deve essere considerata come nulla in quanto contraddittoria, ovvero l’essenza deve essere considerata come in sé contraddittoria e dunque come un concetto-limite nell’ambito

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di una posizione aporetica. La differenza che Nietzsche sostituisce alla negazione o contraddizione è invece un “elemento pratico” che dice innanzitutto dell’affinità e al contempo problematizza l’affinità di rapporti fra volontà e forze e fra forze e interpretazioni. Laddove la domanda dell’essenza impone, per poter essere posta, di separare alla radice il pensiero dalla vita, in quanto il primo non può sopportare la quantità di caso che la seconda comporta; la domanda della molteplicità salda indissolubilmente il pensiero alla vita, perché l’accidente, il casuale, il molteplice della differenza sono il modus adfirmandi della seconda che corrisponde, su un piano differente, al modus operandi del primo. Bisogna che vi corrisponda.

Dunque l’Idea come molteplicità è il primo passo che il pensiero tragico compie, per creare una nuova filosofia critica che non sia più negativa cioè dialettica (ovvero platonistica e cristiana):

La dialettica e l’empirismo sono sufficientemente caratterizzati dal fatto di essere l’una un lavoro e l’altro un godimento; del resto chi può dire che vi sia più pensiero nel lavoro che nel godimento? La differenza è l’oggetto di una affermazione pratica inseparabile dall’essenza e costitutiva dell’esistenza. Il «sì» di Nietzsche si contrappone al «no» dialettico, l’affermazione si contrappone alla negazione dialettica, la differenza alla contraddizione dialettica, la gioia e il godimento al lavoro dialettico, la leggerezza e la danza alla pesantezza dialettica, la bella irresponsabilità alle responsabilità dialettiche. La sensibilità empirica per la differenza, per la gerarchia, è ciò che essenzialmente fa muovere il concetto più efficacemente e in profondità di qualsiasi pensiero della contraddizione. (I, 4 pg.15)

Questo tipo molto particolare di empirismo è l’ “empirismo di Nietzsche”, ma non nasce dal nulla, deriva da una scoperta, da una “rinascita”, che è anche la rinascita della tragedia: nella Nascita della tragedia Nietzsche scopre il compito della sua particolarissima filosofia critica, nel pensiero tragico egli ritrova la sua filosofia trascendentale. Una doppia scoperta:

1) l’affermazione del molteplice_ Nietzsche ha scoperto Dioniso, Dioniso come unico protagonista, unico regista e unico interprete della tragedia, Dioniso come gioiosa affermazione (più e oltre che sottofondo tremendo e terribile). Ben oltre e ben al di là della sofferenza tragica (che pure è presente nella Nascita della Tragedia) ciò che Nietzsche scopre è la portata affermativa di tale sofferenza, il nucleo vitale e gioioso dell’Uno originario, che non separa nessun aspetto del mondo, che non esclude nulla della molteplicità, ma afferma, affermandosi tutto il molteplice, senza negazione, senza esclusione, senza alienazione e riappropriazione. L’affermazione del molteplice è la vera e propria scoperta di Nietzsche, la molteplicità come movimento reale è la rottura con tutta la metafisica occidentale della rappresentazione, basata su un rapporto negativo, limitativo, amputativo con la vita.

2) una logica dell’affermazione del molteplice_ scoprendo Dioniso Nietzsche ha scoperto innanzi tutto un problema, un insieme di problemi di cui il principale è questo: come pensare il molteplice senza negarlo? Se l’affermazione incondizionata, se il movimento reale, se l’Idea è questo, questa inesauribile gioia, affermazione e molteplicità, questa incessante danza e leggerezza e gioco, come può lo Spirito fare propria tale molteplicità senza che essa vada interamente perduta, farla propria pur lasciandola inappropriabile? Questa è la domanda del pensiero danzante. O anche del metodo schematico della drammatizzazione.

Una logica dell’affermazione del molteplice è il problema di un pensiero che deve percorrere l’Idea come molteplicità – una logica che sarà poi logica del senso. In conclusione il primo passo dell’operazione che Deleuze chiamerà renverser le platonisme è quella di rovesciare il procedimento della domanda dell’essenza, mentre per la domanda che cos’è? il problema era di rendere conto dell’inessenziale a partire dalla semplicità essenziale dell’Idea, e

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pertanto il platonismo fu costretto a porre la separazione ontologica, che appunto non fa altro che mettere fuori gioco l’inessenziale escludendolo dall’essenza, mentre Hegel pose l’essenza come in-sé contraddittoria, in quanto comprendente essenzialmente l’inessenziale; invece un metodo della drammatizzazione, cioè un modo di leggere l’Idea come una molteplicità da percorrere in sensi diversi secondo dinamismi spazio-temporali differenti, pone appunto il problema dell’Idea, nel senso che l’Idea è problematica (piuttosto che contraddittoria) in quanto Idea, e di mantenere la problematicità dell’Idea nel pensarla. Il problematico dell’Idea significa che l’essenziale è individuato a partire dall’inessenziale secondo il caso: ovvero “la necessità si afferma a partire dal caso, nonostante il fatto che sia il caso stesso ad essere affermato”. Per questo l’Idea è al singolare in quanto molteplicità. “Riesco a cuocere nella mia pentola qualsiasi casualità”, il valore del procedimento della vice-dizione è spiegabile solo attraverso Nietzsche: sta scritto nello Zarathustra:

«Per caso» - questa è la più antica nobiltà del mondo, che io ho restituito a tutte le cose, le ho redente dall’asservimento allo scopo […]. In tutte le cose io ho trovato questa certezza beata: che esse, sui piedi del caso, preferiscono – danzare. La mia parola è: «lasciate che il caso venga a me: egli è innocente, come un fanciullino».

2) Tutto il mondo è un uovo. Una cosa in generale ha un doppio tratto caratteristico: a) qualità (qualificazione, specificazione) b) estensione (partizione, composizione, organizzazione) Questo doppio tratto caratteristico significa che “ogni cosa è all’incrocio di una doppia sintesi”. Tale doppio tratto caratteristico è detto differenziazione, e i suoi due aspetti sono correlativi, nel senso che non c’è qualità senza estensione né estensione senza qualità: “le parti sono il numero delle specie, così come la specie è la qualità delle parti”.

Ma, quindi se la differenziazione ha due forme complementari, qual è l’agente di questa distinzione e di questa complementarità? Nell’organizzazione così come nella specificazione non troviamo altro che dinamismi spazio-temporali: ovvero agitazioni di spazio, incavi di tempo, di pure sintesi di velocità, di direzioni e di ritmi.

La differenziazione è insieme la distinzione e complementarità per cui ogni cosa è insieme differenziata e differente, e differente in quanto differenziata. La domanda è quindi: come agisce la differenziazione e chi agisce la differenziazione? La differenziazione deve essere rappresentata come dinamismo spazio-temporale puro. Ovvero essa è variazione di potenza. Un dinamismo è ciò che rappresenta dal punto di vista del movimento puro la direzione e l’intensità di una variazione di potenza. E inoltre:

Già i caratteri più generali di ramificazione, di ordine e di classe, e perfino i caratteri generici e specifici, dipendono da questi dinamismi e da queste direzioni di sviluppo. E simultaneamente, nei fenomeni partitivi della divisione cellulare si trovano ancora delle istanze dinamiche, migrazioni cellulari, piegature, invaginazioni, stiramenti che costituiscono una «dinamica dell’uovo». Da questo punto di vista, tutto il mondo è un uovo.

Ecco allora quali sono gli elementi di questo mondo-uovo, ovvero gli elementi generali che non si riferiscono a nessun sistema in particolare ma che rendono conto del processo di individuazione, significazione e concettualizzazione all’interno di ogni sistema: ovvero forniscono le coordinate trascendentali dell’Idea come risposta alle domande quanto? chi? come? dove? e quando?

1. ambiente di individuazione_ è un campo intensivo che “implica una distribuzione in profondità di differenze di intensità”. Nell’esperienza noi ci troviamo di fronte a estensioni qualitativamente determinate, ma come condizione di possibilità di ogni esperienza della

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cosa in generale in senso qualitativo-quantitativo occorre concepire “intensità pure inviluppate in una profondità, in uno spatium intensivo che preesiste a ogni qualità e a ogni estensione”. Tale spatium è intensivo e inesteso. Intensità è la potenza della differenza o dell’ineguale in sé. Un ambiente di individuazione non è dunque un “campo di forze”, ma uno spatium dove sono distribuite su vari livelli delle disparità originarie di potenziale. Il riferimento è a Simondon, che Deleuze studia approfonditamente: interpreta l’opera di Simondon come una critica al principium individuationis, ovvero poiché tradizionalmente l’individuo è posto come prodotto dell’individuazione, allora a monte dell’individuazione c’è un principio unico secondo quale un unicum si individua; al contrario in Simondon individuazione, individuo e principio dell’individuazione sono contemporanei, cioè ogni individuo è il processo genetico della propria individuazione e contemporaneamente individuandosi pone il principio della propria individuazione. Perciò non c’è un’individuazione che segue alla distinzione fra le differenti estensioni e qualità della cosa in generale come esperita, ma al contrario le cose hanno estensioni e qualità differenti ed esperibili come differenti in quanto vi sono condizioni preesistenti e metastabili di individuazione come serie divergenti di differenze intensive (di potenziale) del tipo E-E', che a sua volta rimanda a e-e’, che a sua volta rimanda a ε-ε’ e così via in infinitum.

2. précurseur sombre_

« On peut imaginer un chaos plein de potentiels : comment mettre en rapport les potentiels? Je ne sais plus dans quel discipline vaguement scientifique, on a un terme qui m'avait tellement plu, que j'en ai tiré partie dans un livre, où ils expliquaient qu'entre deux potentiels se passait un phénomène qu'ils définissaient par l'idée d'un sombre précurseur. « Le précurseur sombre », c'est ce qui mettait en rapport des potentiels différents. Et une fois qu'il y avait le trajet du sombre précurseur, les deux potentiels étaient comme en état de réaction. Et, entre les deux, fulgurait l'événement visible : l'éclair. Il y avait le précurseur sombre et puis l'éclair. C'est comme ça que le monde naît. Il y a toujours un précurseur sombre que personne ne voit et puis l'éclair qui illumine. C'est ça le monde. Ça devrait être ça la pensée. Ça doit être ça la philosophie. C'est ça aussi la sagesse du Zen. Le sage, c'est le précurseur sombre et puis le coup de bâton - puisque le maître Zen passe son temps à distribuer des coups de bâton - c'est l'éclair qui fait voir les choses. » - Gilles Deleuze, « Z comme Zigzag », dans L'Abécédaire de Gilles Deleuze avec Claire Parnet, Pierre-André Boutang, réalisateur, 1996.

« Quel est cet agent, cette force assurant la communication ? La foudre éclate entre intensités différentes, mais elle est précédée par un précurseur sombre, invisible, insensible, qui en détermine à l'avance le chemin renversé, comme en creux. De même, tout système contient son précurseur sombre qui assure la communication des séries de bordure... Parce que le chemin qu'il trace est invisible, et ne deviendra visible qu'à l'envers, en tant que recouvert et parcouru par les phénomènes qu'il induit dans le système, il n'a pas d'autre place que celle à laquelle il « manque », pas d'autre identité que celle à laquelle il manque : il est précisément l'objet = x, celui qui « manque à sa place » comme à sa propre identité. » - Gilles Deleuze, Différence et répétition, P.U.F., 1968, p.156-7